Autorizzazione all'uso dei cookies

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È PAPA GIULIO II ...

Lezione N.: 
3

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele      22-23-24  ottobre 2008

SULLa SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE 

C’È PAPA GIULIO II ...

     L’itinerario della scorsa settimana ha seguito la scia di una lunga riflessione che ha avuto origine dalla parola palcoscenico. Infatti, in partenza, abbiamo dato una rapida occhiata d’insieme all’immagine (potete rimettere gli occhi su questa immagine) de La Scuola di Atene e abbiamo osservato che i molti personaggi raffigurati sono stati collocati ad arte su un grande palcoscenico in modo che ciascuna di queste figure possa, con la sua presenza, interpretare la sua parte. Questo palcoscenico (se osservate la scena, la scenografia) è collocato abbiamo detto dentro una grandiosa basilica; ebbene, ci siamo chiesti: esiste da qualche parte una basilica così? C’è chi, tra gli esperti, ci vede una vaga somiglianza con l’arco quadrifronte di Giano a Roma, ma questo paragone è considerato una forzatura – abbiamo detto – perché le esperte e gli esperti contemporanei concordano nel dire che questo non è un edificio reale, è virtuale: è una scenografia, siamo su un palcoscenico.

     Chi è l’autore di questo affresco? Lo sappiamo tutti: è Raffaello, l’inventore dell’Architettura in funzione della Pittura. Possiamo pensare che l’architetto Bramante – lo incontreremo, è il sovrintendente di papa Giulio II che ha commissionato (e ha anche interferito molto sulla sua composizione) – abbia fornito degli spunti e delle indicazioni strutturali, ma non a caso Raffaello raffigura questa grande aula senza attenersi all’esatta prospettiva e si prende questa libertà anche nella composizione figurativa, tanto per ragioni estetiche di carattere squisitamente pittorico ma anche per altre ragioni (probabilmente influenzato da Giulio II) che diremo in seguito, strada facendo. Raffaello mette l’Architettura virtuale al servizio della Pittura reale e la scena – abbiamo già notato la scorsa settimana – si apre con una grande arcata, a forma di semicerchio e da questa arcata parte, a sua volta, una fuga di archi di grande effetto suggestivo. La base della basilica – il palcoscenico – è formato da due piani, collegati da una scalinata di quattro gradini. All’interno dell’ultimo arco, al centro della composizione, troviamo due figure significative che – come tutti sanno, e come abbiamo già ricordato la scorsa settimana – rappresentano Platone e Aristotele, i quali, insieme a Socrate (al quale ci siamo già avvicinati) sono i principali personaggi che caratterizzano il Percorso di studio che abbiamo intrapreso.

     Ebbene all’inizio del XVI secolo, del 1500, al centro del Pensiero intellettuale – e quindi anche al centro de La Scuola di Atene di Raffaello – ci sono questi due indicatori culturali: Platone (morto nel 347 a.C.) e Aristotele (morto nel 322 a.C.). Ed è per questo motivo che il nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade. Adesso, quindi, ci troviamo nella corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco intitolato La Scuola di Atene e la grande scena che abbiamo dinnanzi è divisa in due parti dalle figure di Platone e di Aristotele.

     Se guardiamo alla sinistra di Platone, subito al suo fianco, troviamo un gruppo di cinque dei suoi discepoli diretti: chi sono? Gli altri personaggi della parte sinistra rappresentano pensatori anteriori a Platone: chi sono? Sono Presocratici, Sofisti, Socratici, e naturalmente c’è anche Socrate: con lui abbiamo cominciato ad avere un primo rapporto. Per ora diciamo che tutti questi personaggi sono ben distinti nello spazio.

     Il racconto pittorico espresso da La Scuola di Atene segue un itinerario concettuale ben preciso, quale? Capite bene che non è possibile rispondere con una battuta: lo seguiremo passo passo su questa che abbiamo chiamato la corsia (moderna) dell’affresco rinascimentale.

     In alto a sinistra in una nicchia c’è Febo Apollo (la scorsa settimana abbiamo studiato che Apollo parla molto – nel teatro tragico che è anche un tribunale – per bocca di Euripide): perché c’è una statua di Apollo qui, nel centro della cristianità, dove gli dèi dovrebbero essere stati aboliti? È una bella domanda.

     Alla destra di Aristotele troviamo, al suo fianco, il gruppo dei suoi discepoli diretti: chi sono?

     E poi, collocati ad arte, con criterio, nello spazio troviamo i rappresentanti del Pensiero filosofico e scientifico dell’età Ellenistica del I II III secolo d.C..

     Emergono alcuni personaggi isolati: chi sono costoro? E un gruppo di scienziati veramente ben articolato: chi sono?

     C’è poi un personaggio che pare collocato appena appena più in alto di Platone e di Aristotele: chi è questo personaggio?

     A destra in una nicchia è raffigurata Pallade Atena: poteva mancare una statua della dèa Atena? Poteva mancare un riferimento all’Areopago, alla via del rispetto della legge? Per noi questa presenza è rassicurante visto che è da lì, da questa via che mette in comunicazione l’Areopago con l’Agorà e con l’Acropoli, che siamo partite, siamo partiti tre settimane fa per il nostro viaggio. Quante domande! A quanti interrogativi già ci troviamo di fronte fin dall’inizio di questo Percorso!

     E, a proposito di domande, questa domanda sulle domande fa sì che possiamo porci una domanda strategica: ed è proprio la sostanza di questa domanda che permette alle due corsie del nostro Percorso – la moderna rinascimentale (nello spazio dell’affresco) e l’antica orfica (sul territorio dell’Ellade) – di procedere parallelamente. Perché Socrate, Platone e Aristotele – ai quali ci stiamo avvicinando – sono figure rilevanti nella Storia del Pensiero Umano? Socrate, Platone e Aristotele sono autorevoli perché hanno sintetizzato un concetto fondamentale che riguarda il tema dell’esistenza e che si traduce in una domanda importante: che cos’è la vita?

     Oggi ci si domanda piuttosto: quanto vale materialmente la vita? Anche questa è una domanda importante ma su questa questione siamo portati a dare risposte immediate utilizzando il parametro dell’avere piuttosto che quello dell’essere. Ed è proprio Socrate (poi saranno Platone e Aristotele a definire più ampiamente il concetto) a rispondere alla domanda sottolineando il parametro dell’essere, questo perché già nella polis di Atene al tempo di Socrate il peso dell’avere nei confronti dell’essere era notevole.

     Socrate – ed è Platone che ce lo riferisce – si domanda continuamente (e invita le persone che ha intorno a domandarselo): che cos’è la vita? Socrate risponde affermando che la vita è lo spazio in cui si fa l’esperienza degli interrogativi, del farsi domande. Il senso della vita è dato dal fatto che la vita è il tempo necessario per interrogarsi sul senso della vita stessa: ecco l’essenza dell’esistenza. Se sentiamo questo impulso (che di solito viene soffocato dall’avere) a interrogarci sul tema dell’essere significa che una verità, una risposta universale, ci deve essere. La risposta agli interrogativi essenziali (sull’essere) dove si trova? Nei racconti mitici sull’origine della vita (nel prima, nel chronos, per dirla in greco) o nell’esperienza della vita stessa (nel momento presente, nel chairòs) oppure nel mistero che sta al di là della vita (nell’oltre, nell’eschaton)? Tutti i sentieri più importanti della Storia del Pensiero Umano – in tutte le culture –partono da qui e avremo modo di riflettere  su questi temi essenziali.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

A questo proposito è opportuno consigliare la lettura o la rilettura di quel saggio molto istruttivo di Erich Fromm (1900-1980) intitolato Avere o essere ? (1976)…

     Ma torniamo a osservare l’immagine de La Scuola di Atene per constatare che c’è un equilibrio (che rasenta la perfezione) nella disposizione dei personaggi: difatti ci troviamo di fronte ad uno straordinario oggetto culturale tanto dal punto di vista della forma quanto dal punto di vista dei contenuti.

     Che cos’è La Scuola di Atene di Raffaello? La Scuola di Atene è un paesaggio intellettuale che contiene molte cose (molte parole-chiave e molte idee-cardine, e le studieremo): la scorsa settimana abbiamo imparato che La Scuola di Atene raffigura anche il palcoscenico di un teatro sul quale si rappresenta una tragedia e quindi, secondo la tradizione orfica, rappresenta anche l’aula di un tribunale dove si celebra un processo. Abbiamo infatti constatato (con la collaborazione di Euripide) come nella tradizione orfica ci sia uno stretto rapporto tra teatro e tribunale, tra tragedia e processo.

     Raffaello ha ricevuto – come sappiamo – l’incarico di creare La Scuola di Atene da papa Giulio II, chi è Giulio II? Abbiamo preannunciato la scorsa settimana che questa sera avremmo incontrato questo personaggio e abbiamo anche messo in correlazione Giulio II con il poeta Salvatore Quasimodo con il quale – leggendo due liriche – abbiamo concluso l’ultimo itinerario. Che significato ha mettere in correlazione questo papa rinascimentale con un poeta contemporaneo? Il collegamento tra i due sta nel fatto che l’opera di Quasimodo può descrivere un aspetto del carattere di Giulio II. Giulio II è una persona solitaria, dubbiosa, travagliata perché conscia della precarietà dell’esistenza e della delicatezza del suo ruolo: ma come, un papa – e per giunta rinascimentale – che preoccupazioni dovrebbe avere?

     Giulio II sa benissimo che il papa deve operare per la pace e quindi non dovrebbe sparare con i cannoni alla testa del suo esercito, ma deve, con determinazione, difendere il suo Stato – di cui è monarca – dagli appetiti dei signorotti italici, delle potenti città, dei monarchi stranieri (c’è il re di Francia, c’è il re di Spagna, c’è l’Imperatore): non ce n’è uno di cui possa fidarsi e tutti sono riprovevoli dal punto di vista morale, quindi è obbligato ad operare in proprio perché lo Stato della Chiesa non diventi vassallo di qualche potenza che ne condizioni anche il pensiero, la dottrina.

     Giulio II sa benissimo che il papa deve costruire opere di carità e quindi non dovrebbe investire forti somme di denaro per far eseguire imponenti opere d’arte litigando, e rodendosi il fegato, con personaggi (Raffaello, Michelangelo, tanto per fare solo due nomi) dal carattere molto difficile, ma lui sapeva di dovere, attraverso le immagini dell’arte, risolvere dal punto di vista dottrinale una serie di questioni (come quella del Santissimo Sacramento) che da secoli erano in sospeso e, tra queste (visto che è quella che ora c’interessa da vicino) la cosiddetta questione orfico-dionisiaca prima che il Neoplatonismo rinascimentale possa ridurre il cristianesimo a pura sociologia.

     Giulio II è un personaggio che è stato fortemente rivalutato dagli studi storici: qual è la constatazione più singolare che è stata fatta, dalle studiose e dagli studiosi? La constatazione più singolare che è stata fatta è che i papi rinascimentali erano meno rispettati e avevano meno privilegi di quelli attuali (noi ce li siamo immaginati in panciolle o a tramare nell’ombra, con le amanti, serviti e riveriti da tutti, beati come papi, ma questa è un’immagine un po’ stereotipata che riguarda soprattutto un papa rinascimentale), in realtà il potere se lo dovevano conquistare e lo dovevano efficacemente difendere perché non gli veniva gentilmente concesso senza che lo pagassero a caro prezzo. Ecco da dove deriva, da quali contraddizioni deriva, il travaglio esistenziale di Giulio II: egli che pensa ad un mondo di pace (è un francescano) e deve fare la guerra, che vorrebbe investire tutto il patrimonio ecclesiastico in opere di carità (è un francescano) ma deve finanziare l’arte per fissare i punti salienti della dottrina, e deve far prevalere l’idea del Santissimo, di un culto che sta sopra a tutti gli altri culti (il termine Santissimoderiva dal Cantico delle creature di Francesco d’Assisi) per mettere definitivamente il sigillo cristiano alla filosofia greca di stampo neoplatonico (alla santificazione di Dioniso) che culturalmente, nel Rinascimento, stava prendendo il sopravvento. Ecco da dove deriva, da quali contraddizioni deriva, il travaglio esistenziale di Giulio II.

     Quindi per fare entrare in scena questo personaggio non c’è nulla di più efficace di una lirica (forse la più famosa) di Salvatore Quasimodo. Tra l’altro la scorsa settimana Salvatore Quasimodo lo abbiamo liquidato con due parole e quindi, questa sera, sarà opportuno presentarlo meglio perché il personaggio è famoso – sappiamo che gli è stato conferito il premio Nobel – ma non è detto che sia conosciuto.

     Salvatore Quasimodo è nato a Modica, in provincia di Ragusa, nel 1901, e ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in Sicilia, cambiando spesso casa per i trasferimenti del padre che faceva il capostazione. Dopo aver frequentato le scuole tecniche, prima a Messina e poi a Palermo, si iscrive al Politecnico di Roma con il proposito di diventare ingegnere, ma abbandona presto gli studi, costretto a causa delle difficoltà economiche. Fa diversi lavori finché non trova un impiego al Genio Civile a Reggio Calabria, ed è in questo periodo che inizia la sua attività poetica.

     Nel 1930 conosce Elio Vittorini (altro grande siciliano) che gli fa pubblicare tre liriche sulla rivista Solaria. Nello stesso anno esce il suo primo libro di versi intitolato Acque e terre. Quando si trasferisce a Imperia, sempre per motivi di lavoro, frequenta gli intellettuali genovesi raccolti intorno alla rivista Circoli, e presso le edizioni di questa rivista esce, nel 1932, la sua seconda raccolta poetica intitolata Oboe sommerso. Poi, nel 1934, viene trasferito in Lombardia ed entra in contatto con l’ambiente culturale milanese e a Milano pubblica, nel 1936, la raccolta Erato e Apollion e comincia a dedicarsi completamente all’attività letteraria perché decide di cambiare lavoro: lascia l’impiego al Genio Civile e comincia a fare il giornalista.

     Nel 1940 dà alle stampe la prima edizione della sua traduzione dei Lirici greci (di cui è esperto conoscitore in quanto intellettuale della Magna Grecia) per la quale merita, nel 1941, la nomina a professore di Letteratura italiana presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Nel 1942 esce la sua più importante raccolta poetica che s’intitola Ed è subito sera. Successivamente pubblica Giorno dopo giorno (1947) (da questa raccolta la scorsa settimana abbiamo letto due liriche), poi pubblica La vita non è sogno (1949), Il falso e il vero verde (1956), La terra impareggiabile (1958), Dare e avere (1966). Nel 1959 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura. Salvatore Quasimodo è morto nel 1968, a Napoli.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

I libri che contengono le opere di Salvatore Quasimodo si trovano facilmente in biblioteca e quindi li puoi sfogliare cominciando a leggere i titoli delle sue liriche: sicuramente qualche verso attirerà la tua attenzione e potrai così, in un primo momento, dedicarti alla lettura anche in modo non lineare (una raccolta di liriche non è un romanzo)… 

Se poi scopri un verso che ti piace puoi farne partecipi le altre lettrici e gli altri lettori trascrivendolo e depositandolo nella Biblioteca itinerante

     Nel 1942 Quasimodo pubblica la sua raccolta più significativa dal titolo Ed è subito sera. Il titolo di questa raccolta è anche un verso di quella che viene considerata la sua lirica più famosa che rappresenta uno dei manifesti di quello stile che è stato chiamato della parola pura o dell’ermetismo: immagino che molte e molti di voi la conoscano a memoria questa lirica, e allora leggiamola:

LEGERE MULTUM….

Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera (1942)

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

     In questi versi possiamo trovare, oltre a quello del poeta, anche un aspetto del carattere di Giulio II. In questa lirica infatti la solitudine emerge come l’elemento più evidente della condizione umana: la solitudine diventa ancora più amara con la constatazione della precarietà dell’esistenza che si consuma e si spegne in un baleno, lasciando la persona in preda all’insoddisfazione. La vita, infatti, è destinata ad esaurirsi con la stessa rapidità con cui alla luce del giorno succede la sera con le sue ombre inquietanti.

     Dobbiamo dire che questi tre versi sono in realtà il frutto di un processo di raffinamento stilistico, fatto di sintesi e di progressivi scarti, che lo scrittore ha praticato attraverso revisioni e riscritture dello stesso testo nel corso di vari anni.

     Per curiosità, a questo proposito, (e forse può interessare anche a Giulio II che stiamo per incontrare) basta leggere la prima stesura di questa lirica:

LEGERE MULTUM….

Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera (prima stesura)

Una sera: nebbia, vento, mi pensai solo: io e il buio.

Né donne; e quella che sola poteva donarmi

senza prendere altro che silenzio, era già senza riso

come ogni cosa ch’è morta e non si può ricomporre.

... continua la lettura ...

     Nella redazione definitiva scompare tutto l’antefatto in cui vengono descritte le emozioni e i ricordi personali e il verso conclusivo si frantuma in tre versi: in questo modo la lirica perde i connotati soggettivi e diventa un’amara meditazione su una condizione in cui tutti possano riconoscersi.

     A Giulio II sarebbe piaciuta questa lirica, ci si sarebbe senz’altro riconosciuto: è infatti una persona solitaria, dubbiosa, travagliata perché è consapevole della precarietà dell’esistenza ed è insoddisfatto per l’ambiguità che deve usare nel ricoprire il suo ruolo; per altro la sua è un’ambiguità che si manifesta in modo palese e lui non cessa mai di mettere in evidenza la contraddizione che si è venuta manifestando nella figura del papa il quale riesce a conciliare con molta difficoltà il fatto di essere contemporaneamente un pastore d’anime che deve predicare e vivere il Vangelo e un monarca assoluto che deve fare i conti con la ragion di Stato. Ma chi è Giulio II?

     Papa Giulio II si chiama Giuliano della Rovere ed è nato ad Albissola, in provincia di Savona nel 1443. Giuliano appartiene al cosiddetto ramo povero, quello decaduto, quello più umile della famiglia Della Rovere. Da bambino entra nel convento dei Francescani di Savona per studiare e siccome è un alunno molto sveglio lo mandano a continuare gli studi nel grande convento di Perugia dove si impegna e riceve gli ordini religiosi: diventa un frate francescano. La sua carriera ecclesiastica è favorita dallo zio Francesco Della Rovere il quale nel 1471 viene eletto papa e prende il nome il nome di Sisto IV. Quando si comincia a parlare di un papa – molte e molti di voi lo sanno già per esperienza scolastica – se ne tirano in ballo sempre altri: un papa (come le ciliegie) tira l’altro.

     Chi è Sisto IV, Francesco della Rovere, lo zio del futuro Giulio II? Dobbiamo presentare anche lui. Francesco della Rovere, papa Sisto IV, è nato a Celle Ligure – siamo sempre in provincia di Savona – nel 1414. Francesco entra nell’ordine dei minori conventuali francescani a Savona; per le sue capacità intellettuali, viene mandato a Parigi dove studia alla facoltà delle Arti (molte e molti di voi conoscono già questo posto: la facoltà delle Arti di Parigi è il nucleo originario di quella che diventerà la famosa Università della Sorbona, e quando torneremo sui sentieri del Medioevo passeremo qui ancora un po’ di tempo). Francesco Della Rovere studia con profitto alla facoltà delle Arti e diventa magister e quando torna in Italia si stabilisce a Padova dove acquisisce il dottorato in Teologia e poi incomincia a insegnare a Padova, a Bologna, a Firenze, a Perugia, a Siena, a Roma.

     A Roma regna Paolo II (ed ecco che entra in scena un altro papa), Pietro Barbo, un veneziano, un umanista che vuole tenere sotto controllo il movimento dell’Umanesimo. Papa Paolo II apprezza le qualità di Francesco Della Rovere e lo nomina cardinale e lo prepara e lo indica come suo possibile successore. Paolo II attua (probabilmente anche su suo consiglio di Francesco Della Rovere che diventa suo segretario particolare) una serie di riforme: stabilisce che i Giubilei devono celebrarsi ogni 25 anni (per evitare che i papi giubilassero se stessi), cerca di ridimensionare la burocrazia dello Stato pontificio (il papa aveva 70 consulenti), scioglie d’autorità l’Accademia romana di Pomponio Leto (di questo grande umanista ora non possiamo dire nulla se no ci perdiamo per strada, lo rincontreremo a suo tempo) perché gli intellettuali che facevano parte dell’Accademia pompeiana avevano trasformato Platone in una divinità con tanto di culti religiosi facendo (anche con spirito ironico) concorrenza alla Chiesa. Paolo II è il papa che introduce in Roma l’uso della stampa e che benedice come dono della Provvidenza questa nuova invenzione. Inoltre Paolo II – con la fattiva collaborazione di Francesco Della Rovere – favorisce la ricerca e studio dell’Archeologia che diventa una vera e propria disciplina.

     Quando Paolo II muore, nel 1471, il conclave elegge papa (in pochi giorni) il cardinale Francesco Della Rovere che prende il nome di Sisto IV. Egli chiama a Roma i suoi nipoti, e così anche Giuliano fa carriera e diventa cardinale. Sisto IV vuole intorno a sé gente fidata perché intende riaffermare l’autorità del papato contro le famiglie baronali romane che gestivano un potere sproporzionato che si traduceva in speculazioni edilizie, razzia del materiale dell’antica città, commerci e traffici illeciti, infatti Roma si trovava in una stato di degrado tremendo e il papa sapeva che la lotta era senza quartiere.

     Sisto IV riesce –con uno scontro epocale – a imporre un piano regolatore per propiziare un rinnovamento urbanistico della città, aprendo nuove strade, facendo dragare il Tevere, portando l’acqua potabile in città e ripristinando il ponte Rotto, oggi ponte Sisto. Sisto IV favorisce la ricostituzione dell’Accademia romana (pompeiana), che era stata chiusa da Paolo II, rifondando la Biblioteca vaticana e aprendola al pubblico degli studiosi e cerca di elevare il livello della Cappella dei Cantori di S. Pietro. Dobbiamo dire che con Sisto IV nasce la Roma rinascimentale e moderna.

     In politica estera Sisto IV si adopera per consolidare lo Stato della Chiesa: qui il discorso è lungo e gli avvenimenti sono tanti e complessi, e noi non ci possiamo soffermare (è il territorio di un altro Percorso). Sisto IV ritiene necessario che lo Stato pontificio abbia un esercito perché tutti i sovrani europei, in questo momento, vorrebbero assoggettare il papa e la Chiesa ai loro voleri. Tutte queste cose hanno un costo (specialmente l’esercito) e allora Sisto IV ritiene opportuno checoloro i quali hanno commesso peccati gravi facciano penitenza non solo di pater-ave et gloria ma, se possono pagare, anche devolvendo alla Chiesa laute elargizioni: questo provvedimento – che si tradurrà nella compravendita delle assoluzioni – produrrà effetti molto negativi.

     Ma noi ci siamo messi in cammino per conoscere Giulio II e allora – dopo aver predisposto il contorno, ed è come sempre quando si parla di papi, un contorno molto sostanzioso – torniamo a Giuliano della Rovere il quale, diventato cardinale, inizia la sua gavetta ecclesiastica. Giuliano della Rovere intraprende la sua carriera come vescovo di Carpentras, poi diventa arcivescovo di Bologna e poi arcivescovo di Avignone. Sappiamo che ad Avignone c’è il famoso Palazzo dei papi perché questa città è stata sede del papato durante lo scisma d’Occidente dal 1308 al 1417 e quindi l’arcivescovo di Avignone ricopre anche l’importante ruolo di legato pontificio in terra di Francia: un ruolo molto delicato, soprattutto in questo momento storico, perché il re di Francia, Luigi XI, è una pedina importante sulla scacchiera della politica europea.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Abbiamo detto che Giuliano Della Rovere intraprende la sua carriera come vescovo di Carpentras, in ProvenzaAdesso noi non abbiamo il tempo per fermarci in questa interessante cittadina: fate voi una visita a Carpentras utilizzando l’enciclopedia o la rete, oppure una guida della FranciaChe cosa c’è di interessante a Carpentras? Documentatevi…

Possiamo dire che c’è una cattedrale gotica: sapete a chi è dedicata?… Nella cattedrale di Carpentras – con le competenze che stiamo acquisendo – possiamo cogliere lo spirito di Giuliano Della Rovere, buon viaggio

     Giuliano della Rovere, come arcivescovo di Avignone e in veste di legato pontificio, fa alzare le sue quotazioni a livello internazionale, quando diventa mediatore tra Luigi XI e l’imperatore Massimiliano di Germania che litigavano.

     Nel 1484 Sisto IV muore e gli succede il genovese Gian Battista Cybo che prende il nome di Innocenzo VIII, e che regna, senza prendere troppe iniziative, fino al 1492.

     Alla morte di Innocenzo VIII la lotta per il potere nel conclave dell’estate del 1492 è altissima: ci sono due candidati in lizza, Ascanio Sforza e don Rodrigo de Borja y Doms, detto il Borgia. I due candidati cercano di fare un accordo e don Rodrigo fa un’offerta in fiorini, ma Ascanio Sforza, che fiuta l’affare, alza la posta: don Rodrigo accetta e l’affare (simoniaco) è fatto. Don Rodrigo Borgia viene eletto papa: a Giuliano della Rovere quest’uomo non piace ma è potente e lui non può ancora manifestare il suo dissenso. Il Borgia prende il nome di Alessandro VI.

     Tutte e tutti voi avete sentito parlare di lui: se ne parla male perché è un modello negativo, e noi (che non abbiamo molto tempo da dedicare a questo personaggio, ma chi vuole può trovare molte notizie su di lui) ne parliamo, senza scandalizzarci troppo, in funzione del nostro itinerario. Intanto abbiamo un papa pubblicamente accoppiato, non sposato, ma con una compagna che si chiama Vannozza Catanei con la quale ha prodotto quattro belli e famosi figli, i Borgia: Giovanni, Cesare, Jofri e Lucrezia. Per chi vuole approfondire, divertendosi, si consiglia di leggere o di rileggere il saggio scritto (nel 1939) sotto forma di romanzo da Maria Bellonci (1902-1986) che s’intitola Lucrezia Borgia (accessibile in edizioni economiche).

     Il lato maggiormente negativo del pontificato di Alessandro VI è quello di aver governato la Chiesa in modo familista. Alessandro VI confonde l’interesse della Chiesa con gli interessi della sua famiglia (un vizio – il conflitto d’interessi – che rimane nel costume italiano...) e assicura ai suoi famigliari le più solide posizioni di prestigio politico ed economico e, per la prima volta, il bilancio di una famiglia e il bilancio della Chiesa si identificano.

     Ma c’è nella Chiesa chi reagisce contro questa situazione: uno dei dissidenti è il domenicano Gerolamo Savonarola che tuona contro il papa con veemenza e il cui rogo, il 23 maggio 1498, illumina – da piazza della Signoria – la fine del secolo XV. Con lui ci sono anche due suoi confratelli: fra Silvestro da Firenze e fra Domenico da Pescia. L’altro dissidente, forse più pericoloso perché ha deciso di agire sotto traccia, è Giuliano Della Rovere. I rapporti tra il Borgia e il Della Rovere peggiorano rapidamente. Giuliano critica e accusa con forza Alessandro VI e aderisce decisamente al partito dei cardinali francesi che sono ormai all’opposizione contro la politica del papa.

     Siccome non si scherza con i Borgia, Giuliano è costretto ad allontanarsi da Roma, fugge ad Ostia, s’imbarca per Savona dove rimane nascosto: spesso si reca in Provenza, ad Avignone e a Carpentras dove periodicamente si riuniscono cardinali, vescovi e laici francesi. Giuliano Della Rovere – senza che ne sia investito ufficialmente – assume il ruolo di coordinatore di questa assemblea clandestina che è l’espressione del partito dei vescovi francesi e in questa sede denuncia con determinazione i comportamenti del papa e della sua famiglia: il misterioso assassinio di Giovanni Borgia, la politica del papa tutta tesa a creare uno Stato per il secondogenito, Cesare Borgia, che aveva molta influenza sul padre, usando ogni mezzo, allacciando e disfacendo alleanze, anche con i Turchi, confiscando ricchezze, usando l’assassinio politico. Per i suoi interessi di famiglia, Alessandro VI si serve anche dei soldi raccolti nel Giubileo del 1500 e dei soldi raccolti per la Crociata, che vanno a finanziare le attività di Cesare Borgia.

     Improvvisamente nel 1503 Alessandro VI muore e Giuliano, con gli altri cardinali dissidenti, torna a Roma per il conclave. C’è un candidato forte, in questo conclave, sponsorizzato dal re di Francia che vuole il controllo sulla Chiesa: è il cardinale George d’Amboise, primate di Francia, ma inviso agli spagnoli. Giuliano è il primo a sostenerlo ufficialmente, ma fa finta, in realtà teme il condizionamento francese sulla Chiesa, così come teme quello spagnolo. Giuliano tesse accordi con i cardinali italiani e spagnoli, e il conclave elegge Francesco Todeschini Piccolomini di Siena il quale è in precarie condizioni di salute, e prende il nome di Pio III e come papa detiene, insieme ad Albino Luciani (Giovanni Paolo I), un record per la brevità del pontificato: è papa dal 2 settembre al 18 ottobre del 1503.

     Nel nuovo conclave il cardinale Giuliano Della Rovere si presenta come ago della bilancia nel contenzioso tra Francia e Spagna e viene eletto all’unanimità: decide di chiamarsi Giulio II.

     La Chiesa versa in condizioni di degrado sotto tutti i punti di vista e il papa deve affrontare urgentemente problemi di carattere religioso, morale e politico. Giulio II comincia con l’istituire la festa del Santissimo Sacramento e ne diffonde il culto, instaura anche la regola della lettura sceneggiata delle Passioni, raccontate dagli evangelisti. Intraprende la riforma degli ordini religiosi che erano allo sbando, cercando di riportare nella Chiesa gli ordini mendicanti e pauperisti affidando loro la cura dello stato sociale.

     La sua politica è orientata a difendere l’autonomia dello Stato della Chiesa e a ricomporne l’unità territoriale, per questo ritiene di dover fare la guerra. Cesare Borgia – il figlio di Alessandro VI – aveva costruito un suo Stato nelle Marche e nella Romagna sul territorio della Chiesa, quindi minacciava l’indipendenza dello Stato pontificio. Giulio II si fa guerriero e col suo esercito riconquista questi territori: il Borgia, sconfitto, deve fuggire a Napoli. Ma Cesare Borgia ha dei potenti alleati: sono i baroni che hanno approfittato della debolezza del papato per occupare città e territori dello Stato della Chiesa, e così Giulio II deve scacciare a cannonate prima Gian Paolo Baglioni che si era fatto signore di Perugia e poi Giovanni Bentivoglio che si era fatto signore di Bologna. I feudatari del Lazio, sempre un po’ disubbidienti, di fronte alla risolutezza di Giulio cominciano a giurare uno dopo l’altro fedeltà al papa.

     Dopo però il gioco diventa più grosso perché la Serenissima Repubblica di Venezia, che è una superpotenza, si rifiuta di restituire allo Stato della Chiesa le città di Rimini e di Faenza. Allora Giulio II si allea con Francia, con la Spagna e con l’Imperatore (questa alleanza prende il nome di Lega di Cambrai) e Venezia viene sconfitta e deve cedere le città romagnole al papa. I Francesi occupano l’Italia del nord e gli Spagnoli si impadroniscono delle città del sud controllate da Venezia e, a questo punto, Giulio II si accorge di essere circondato da Francesi e Spagnoli e allora con una mossa repentina tratta l’alleanza con Venezia e combattendo in prima persona, insieme ai veneziani conquista Modena e Mirandola per consolidare i suoi confini.

     In seguito a questo Luigi XII, il re di Francia, riunisce un concilio a Pisa per dichiarare decaduto Giulio II e per riportare il papato in Francia, ma Giulio II immediatamente, siamo nel 1511, convoca il V Concilio Lateranense che termina con la nascita della Lega Santa formata dal papa, da Venezia, dalla Spagna, dall’Inghilterra. A Ravenna, nel 1512, gli eserciti della Lega Santa si scontrano con l’esercito francese che ha la meglio ma esce da questa battaglia talmente decimato che i soldati francesi sopravissuti se ne tornano in Francia e sono gli Spagnoli a prendere il sopravvento in Italia.

     Sotto il pontificato di Giulio II a Roma la condizione economica migliora sensibilmente perché il papa favorisce i commerci lasciando ampia libertà di azione agli Ebrei che erano esperti a far circolare il denaro.

     Giulio II va ricordato soprattutto per il rapporto particolare che ha avuto con gli artisti del suo tempo: tutte le studiose e gli studiosi sono d’accordo nell’affermare che Giulio II ha il merito di aver propiziato la realizzazione di alcuni grandi capolavori e noi lo stiamo incontrando proprio sulla scia de La Scuola di Atene. Giulio II è stato capace di creare un clima culturale favorevole che ha stimolato gli intellettuali a produrre ed a investire in intelligenza in molti campi. Giulio II non è solo un mecenate che finanzia e fa eseguire delle opere ma è un intellettuale che studia e propone un suo progetto che si sviluppa sulla base di una serie di indicatori culturali che caratterizzano la Storia del Pensiero Umano della fine del XV secolo. L’esercito più agguerrito di Giulio II è quello degli intellettuali e degli artisti che ruotano intorno a lui: i cannoni (se vogliamo continuare a giocare con questa metafora) più potenti di papa Giulio II hanno un nome, si chiamano: Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Pietro Pomponazzi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Questi personaggi li abbiamo certamente sentiti nominare e, a breve, prenderemo in considerazione alcuni aspetti del loro pensiero in funzione del viaggio che dobbiamo compiere: ora però – dopo aver conosciuto un po’ meglio Giulio II – ci fermiamo perché abbiamo messo in tavola molto materiale che va digerito durante la settimana…

     Adesso cambiamo registro e, visto che abbiamo parlato di armi (lo so non è un argomento rassicurante), ricordiamo una persona che, questa sera, dobbiamo commemorare e che ha avuto a che fare, a vario titolo, anche con le armi: tanto come soldato (come sergente) quanto come cacciatore. La persona che questa sera vogliamo commemorare si chiama Mario Rigoni Stern e molte e molti di voi lo conoscono e hanno letto i suoi libri. Mario Rigoni Stern è morto quattro mesi fa, il 15 giugno, ad Asiago, in provincia di Vicenza, dove era nato nel 1921 e dove era tornato a vivere subito dopo la guerra. Rispettando le volontà dello scrittore, la notizia della sua scomparsa è stata diffusa dai suoi familiari soltanto dopo, a funerali avvenuti.

     Nel suo ultimo libro intitolato Stagioni Mario Rigoni Stern scrive: «Son tornato vivo da una guerra. Ho avuto una buona moglie e bravi figli. Ho scritto libri. Ho fatto legna. Me basta e avanza. ‘Desso posso morir in pase».

     Mario Rigoni Stern abitava in una casa al limite del bosco, sull’altopiano di Asiago, è morto alla fine della primavera e il suo decadimento fisico era cominciato a metà marzo: chi gli faceva visita lo trovava in cucina sulla sedia a rotelle, con un maglione di lana grezza addosso, magari (a certe cose non voleva rinunciare) davanti a un piatto di salsicce e patate con un bicchiere di rosso. Probabilmente ci teneva a morire in primavera visto che aveva scritto, sempre nel testo intitolato Stagioni«Sentii che il nonno non stava morendo, ma solo diventando bosco. Fuori era tutto primule e letame, le cinciallegre e i fringuelli sparavano trilli fenomenali e l’ultima neve splendeva, il disgelo marciava alla grande, tutta la natura si svegliava. Così ricordai quanto il nonno mi aveva detto un anno prima: «La primavera è la stagione giusta per partire, perché sai che la vita continua».

     Chi stringeva la mano a Mario Rigoni Stern aveva l’impressione di toccare la dura corteccia di un albero perché lui con il bosco era un po’ imparentato e per capire questa affermazione bisogna leggere i suoi racconti. La stretta di mano di Rigoni Stern era forte e io me la ricordo bene anche se è passato un po’ di tempo: la stessa durata di tempo che ha questa esperienza didattica. Dovete sapere che 25 anni fa il Comune di Impruneta (l’assessore alla cultura, Giovanna Dolcetti) ha invitato – in accordo con la Scuola Media – Mario Rigoni Stern perché incontrasse le giovani e i giovani studenti imprunetini che avevano letto e studiato i suoi libri. Naturalmente ne approfittammo volentieri anche noi della Scuola degli Adulti e io, come insegnante di Scienze Umane, improvvisai un breve percorso su Rigoni Stern che nessuno aveva sentito nominare ma i temi (la natura, la caccia, la guerra, la memoria autobiografica) che questo scrittore aveva affrontato suscitarono grande interesse: eravamo più di una cinquantina di studentesse e di studenti della Scuola media per Adulti a cui si aggiunsero, la sera dell’incontro, i mariti cacciatori, le mogli amanti della natura, i padri – coetanei di Rigoni Stern – che avevano, come lui, fatto la guerra in Albania, o erano stati in campo di prigionia, e le madri che ricordavano qualcuno che dalla Russia non era più tornato.

     Molte persone che hanno frequentato la Scuola media in quell’anno, e che poi hanno partecipato a dare vita a questa (che stiamo ancora vivendo) esperienza scolastica, sono rimaste legate per un po’ di tempo al ricordo di quell’incontro e hanno letto i libri di Rigoni Stern a cominciare dal Sergente nella neve (1953), La storia di Toenle (1978), Il bosco degli urogalli (1962), Quota Albania (1971), Ritorno sul Don (1973).

     C’è anche una testimonianza in uno dei libri (il primo) che sono nati nel corso di questa esperienza scolastica (un libro che Rigoni Stern ha ricevuto e letto con interesse) e che s’intitola A due passi da San Gersolé. Anche chi ha scritto questo appunto, Alvaro Messeri, non c’è più (e noi ricordiamo anche lui con affetto). Quando ho inserito questo brano tra i testi di A due passi da San Gersolé erano già passati cinque anni da quell’avvenimento – A due passi da San Gersolé è stato stampato vent’anni fa, nel 1988 (quante commemorazioni!) – ed ero consapevole che questo brano, sebbene non prettamente autobiografico, sarebbe potuto comunque servire per fare memoria: così sta avvenendo, quindi prendete atto che ha un senso l’invito e l’ammonimento che, a Scuola, ci sentiamo sempre ripetere: scrivete, scrivete quattro righe in proposito.

     Che cosa ha scritto Alvaro venticinque anni fa in proposito, dopo l’incontro pubblico con Mario Rigoni Stern? Ha scritto un appunto, e ricordo che diverse persone hanno raccontato questo fatto, ma allora si scriveva con la penna e i testi ritornavano alle scrivane e agli scrivani che li avevano prodotti, e quando li ho richiesti per curare la stampa di questo libretto, sull’incontro con Rigoni Stern era tornato solo questo brano. Alvaro ha scritto un appunto con grande semplicità senza pensare e senza sapere che il suo brano sarebbe diventato un frammento di memoria, leggiamolo.

LEGERE MULTUM….

A due passi da San Gersolé  (1988)

                                                                                                            Alvaro Messeri, Lo scrittore

L’altra sera nella sala Consiliare del Comune c’è stato un incontro con lo scrittore Mario Rigoni Stern. Egli ci ha informato che a diciassette anni, assecondando una passione per la montagna, si arruolò negli Alpini come volontario. Ma, entrando in guerra l’Italia, dovette assecondare prima gli obblighi militari e solo dopo, fra una sparatoria e l’altra, incantarsi davanti ai panorami che offrono le generose vette. Dovette guerreggiare in Francia, in Albania ed infine in Russia.

... continua la lettura ...

     Ricordo che Alvaro – che era curioso e sapeva essere polemico tanto da mettere alla prova l’interlocutore – nella conversazione con lo scrittore ribadì che la caccia, non motivata dalla fame, era pur sempre un rituale di morte. Rigoni Stern rispose con una forte requisitoria contro l’industria della caccia e contro i cacciatori consumisti che venivano dalla città a sparare centinaia di cartucce, salendo in macchina su per le montagne. Spiegò – facendo trasalire tutti i cacciatori presenti – che la caccia aveva un significato solo in una realtà ambientale ben precisa e per farsi capire, con la sua straordinaria capacità di affabulatore, raccontò qualcosa che aveva scritto in cui emerge l’idea che l’uomo, in quanto cacciatore, può esistere solo se vive a stretto contatto con animali anch’essi cacciatori perché nella natura c’è una tensione predatoria che garantisce l’equilibrio alla natura stessa: il cacciatore può esistere soltanto nel contesto di questo equilibrio. Rigoni Stern – e lo ricordo bene – raccontò il contenuto un testo che possiamo leggere ne Il bosco degli urogalli, un libro di racconti di cui si consiglia la lettura o la rilettura:

LEGERE MULTUM….

Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli  (1962)

Oltre i prati, tra la neve

Qualche notte la volpe usciva come scivolando sulla neve, simile a una visione, e la coda fioccosa lasciava una piccola fuggevole ombra sui crinali: quando arrivava vicino all’esca uno sparo o due rompevano il silenzio e la neve franava silenziosa dai rami curvi degli  abeti.

Allora una pelle di volpe voleva dire mezza forma di formaggio o trenta chili di farina; ma non era per questo che lo facevano: era per sentirsi parte di quella natura: neve, bosco, freddo, notte, silenzio, animali. Una maniera di vivere che forse in qualche parte del mondo c’è ancora.

... continua la lettura ...

     E poi Rigoni Stern aveva spiegato questa visione della caccia ricordando a memoria ancora un frammento tratto sempre da Il bosco degli urogalli:

LEGERE MULTUM….

Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli  (1962)

La vigilia della caccia

I boschi, le valli, i monti, le case, gli uomini, i selvatici sono come avvolti in un’aria misteriosa e insolita. Qualcosa di nuovo accadrà certamente domani: molti uccelli avranno stroncato il volo, molti quadrupedi la corsa. Sarà morte per tante creature; sarà la fine di canti, di danze, di fame, di gelo. Un colpo: un’ala che si stira, una che si rattrappisce: poi nulla. No, non nulla. Dall’altra parte ci sarà un uomo che raccoglierà non solamente il capo di selvaggina ma anche tutto quello che questo era da vivo: libertà, sole, spazi, tempeste. All’uomo, inconsciamente, servirà dopo, quando riprenderà il lavoro di tutti i giorni e più ancora quando sarà vecchio e sarà lui ad aspettare la morte.

     Se leggiamo i racconti di Mario Rigoni Stern capiamo che, per lui, il tempo privilegiato era l’inverno. «Sono nato alle soglie dell’inverno – così inizia il suo libro intitolato Stagioni e la neve ha accompagnato la mia vita. All’asilo infantile le suore ci avevano insegnato una canzoncina che diceva di un bambino che dormiva in una culla e di una vecchia che cantava, il mento sulla mano: «Nel bel giardino il bimbo s’addormenta / la neve fiocca lenta lenta lenta».

     La Bianca Signora – così chiamava la neve – gli aveva portato via i compagni in Russia, ma non la odiava per questo (la neve non aveva responsabilità). Quando la neve turbinava in silenzio, usciva arruffato e felice, guardava la radura con gli occhi umidi da cane pastore, poi andava a rovistare in legnaia. Per lui l’inverno era «la tavola grande dove si sta in tanti», gli sci in spalla, la dispensa piena, le corse e le capriole nella neve. Si consiglia di leggere il libro intitolato Stagioni. E l’inverno è anche, soprattutto, il tempo della scrittura, della memoria e del racconto: d’inverno i vivi e i morti si avvicinavano, e il Sergente nella neve – che è il titolo del suo libro più famoso che molte e molti di voi avranno senz’altro letto – torna, perché le porte del cielo sono come spalancate. Mario Rigini Stern ha sempre sostenuto che la montagna è l’ultimo baluardo, l’ultimo serbatoio di risorse in un mondo dilapidato: sapeva che la montagna va difesa a ogni costo, e lui lo ha fatto: si è sempre buttato nella sfida con passione civile e, a ottant’anni suonati, è intervenuto più volte sulla stampa nazionale contro la strategia dell’abbandono. «Il mondo che stiamo vivendo è fatto per consumare – ripeteva – ma consumando consumiamo anche la natura, e quindi l’uomo».

     Un giorno s’è augurato di «vivere abbastanza per vedere il mondo rinsavire un po’, con la fine degli sprechi, delle cose inutili, del chiasso, delle luci artificiali che nascondono le stelle». Senza il suo magistero morale, ora la battaglia per la sopravvivenza di quest’ultimo pezzo di mondo incontaminato diventa più difficile. E non è solo la letteratura che ha perso un protagonista (i libri restano) ma è la montagna italiana (e non solo italiana) che ha perso un difensore competente.

     Mario Rigoni Stern nasce ad Asiago nel novembre del 1921, tre anni dopo la fine della guerra (la prima guerra mondiale) che ha devastato l’Altopiano. La prima guerra mondiale è il Grande Evento fondativo della sua immaginazione ed ha radici profonde legate alla storia della sua famiglia lunga mille anni, tutta vissuta lassù, sull’Altopiano. Mario racconta di aver vissuto un’infanzia allo stato brado, in compagnia dei pastori delle malghe. A diciassette anni s’iscrive alla scuola militare alpina di Aosta dove scopre la grande montagna. Ma sono gli anni della seconda guerra mondiale, dell’aggressione alla Francia, della campagna di Russia con le scarpe di cartone. Nella ritirata compie quello che definisce «il capolavoro della vita»: una notte parte dal Don con settanta alpini e cammina verso occidente nella bufera, sganciandosi dal suo caposaldo senza perdere nemmeno un uomo. Torna a casa, ma dopo l’8 settembre viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro in Masuria, a Nordest di Varsavia.

     La prigionia non è solo il tempo della fame e del patimento ma è anche il tempo della scrittura: il suo cammino letterario comincia lì, in una baracca «buia, gremita e maleodorante» sui laghi gelati fra la Polonia e la Lituania, sotto un cielo pieno di stelle. Accanto al tavolaccio senza paglia, che gli fa da branda, ha uno zaino con dentro fogli arrotolati che diventano il suo diario e, come Primo Levi ad Auschwitz, si aggrappa alle memoria per resistere, e come Nuto Revelli in quegli stessi anni, capisce il valore immenso del mondo montanaro da cui proviene. Dopo due anni, a guerra finita, torna a casa a piedi, viaggiando di notte e nutrendosi dei frutti del bosco, sorretto dal miraggio del natio Altopiano.

     Dall’esperienza russa nasce il suo testo più famoso, Il sergente nella neve (1953), che è stato recentemente trasformato in monologo teatrale da Marco Paolini. «I russi – scrive Rigoni Stern – combattevano per le loro case, i tedeschi per il grande Reich, noi italiani per salvare la vita».

     Fa seguito Il bosco degli urogalli e soprattutto La storia di Toenle, dove si narra di un montanaro, pastore e contrabbandiere, che trova nell’attaccamento alla sua terra l’unico possibile rifugio dagli sconvolgimenti della Grande Guerra che devasta l’Altopiano. Rigoni Stern scrive perché la memoria non sia perduta: Il sergente nella neve è dedicato a quelli che non sono tornati, La storia di Toenle è dedicata ai racconti dei nonni, L’anno della vittoria è dedicato alle sofferenze dei profughi, Le stagioni di Giacomo ai partigiani costretti ad emigrare dopo avere ridato la libertà al Paese. Mentre il recente Stagioni è dedicato alla natura, è un canto alla lettura ciclica del tempo scritto secondo lo schema delle Georgiche di Virgilio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La prosa di Mario Rigoni Stern è scorrevole e arriva direttamente alla mente e al cuore e merita di essere letta

     Rigoni Stern era attaccato alla sua montagna e voleva dare, e ha dato, un esempio in proposito: «Non potrei vivere in nessun altro luogo» diceva sempre tra una sciata e una gita. Persino il paese di Asiago era troppo grande e rumoroso per lui: era anarchico e partigiano nell’anima, s’imboscava appena possibile e detestava la pianura perché c’era troppo rumore e troppa luce. Mario era un grande nella narrazione orale perché era figlio di quella cultura e aveva un periodare spiccio e concreto, fatto di cose semplici: la pioggia, la neve, la legna, le patate, le mele, il fuoco, la carta di un vecchio libro. Queste cose le evocava, ne faceva sentire la ruvidezza e l’odore. «La parola detta – ci spiegò in quell’incontro – viene molto prima della parola scritta. Ha un ritmo che si sposa con l’andatura dell’uomo, che è un animale nomade imprigionato dalla modernità». E poi aggiunse: «Cinquant’anni fa si sentiva la gente cantare. Cantava il falegname, il contadino, l’operaio, quello che va in bicicletta, il panettiere. Oggi hanno smesso. La gente non canta e non racconta più». Poi disse ancora: «Di questi tempi c’è troppo rumore, stiamo perdendo il senso delle parole, la loro forza terapeutica. Eppure le persone hanno bisogno delle parole, sennò non le manderebbero a memoria. Primo Levi si salvò, in prigionia, recitando la Commedia di Dante. Serbare il Verbo in petto gli impedì di diventare un numero e il segreto della parola fece la differenza tra i vivi e i morti». Disse che in Russia – che lui chiamava commosso «la mia Russia» – la gente andava a recitare sulle tombe dei poeti, e lì declamava, fremeva, piangeva, evocando parole dette chissà quanti anni prima.

     Rigoni Stern sentiva la sofferenza della natura per il surriscaldamento dell’atmosfera, guardava continuamente il cielo, ascoltava il canto degli animali del bosco, controllava i movimenti degli animali. Quando, durante la tremenda estate rovente del 2003, fu intervistato disse: «Guardate  come gli abeti sono in esuberanza, sono pieni di strobili e polline». Poi imitò il trillo di un uccellò e aggiunse: «Le allodole sono salite sopra i 1500 metri, lo si capisce dal canto all’alba che non si sente più attorno al paese». Fece notare che le zecche non c’erano più, e le vespe germaniche pure, che i funghi erano scomparsi, e che le vipere invece si erano moltiplicate e lamentò che c’erano «troppe ortiche». Infine disse che: «Se la politica non aiuta chi lavora su, in malga, le erbe matte arriveranno fin dentro la piazza di Asiago». Cosa dobbiamo fare intanto per sopportare il caldo? Gli chiese l’intervistatore e lui rispose: «Intanto spegnete la televisione, che è un mezzo volgare e banale che brucia i cervelli, e prendete un libro e leggete di neve, di inverno, di tempesta e i favolosi racconti sulle battute di caccia della letteratura russa tra le betulle del Nord, così vi rinfrescherete senz’altro».

     Quando venticinque anni fa terminò l’incontro nella Sala del Consiglio Comunale di Impruneta Mario Rigoni Stern salutò tutti uno per uno e poi disse: «Venitemi a trovare, mi chiamo Rigoni e abito in una contrada di nome Rigoni e lì basta chiedere dov’è la casa del Mario per farsi indicare la strada; per fortuna lì ci conosciamo ancora tutti e credo sia una grande fortuna, in questo tempo di sradicamenti selvaggi, considerarsi tutti paesani».

     Qualche volta, in questi anni, ho ripensato a quell’invito e ora mi pento di non essere andato a trovare il Mario, di non aver ascoltato Alvaro che, ogni tanto, ripeteva: Si va a trovare Mario Rigoni Stern?, ma il pentimento fa parte della vita...

     Ho letto sul giornale che, ultimamente, aveva detto: «No go paura de morir. Mi avevano detto che non sarei arrivato a febbraio, e adesso è marzo. Mi raccomando, non voglio pagliacciate ufficiali. Niente cori e discorsi. Che si sappia una settimana dopo».

     La voce di Mario Rigoni Stern continua nei suoi libri, e allora, per concludere, leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli  (1962)

Incontro in Polonia

Era l’inverno del 1942. Gennaio. Quel freddissimo gennaio del 1942. Eravamo in viaggio su un lungo treno verso la guerra che allora imperversava all’Est. A Verona avevamo fatto una buona provvista di vino e a Vienna il vino era già finito. Faceva troppo freddo e le gole, arse per tanto cantare, avevano bisogno di essere bagnate di sovente. Cantavamo: Sul ponte di Bassano bandiera nera, oppure: Da Aosta siam partiti con la tristezza in cor … Dopo Vienna una notte il treno stette fermo in una stazioncina deserta e si congelò. Ci alloggiarono, allora, in una vecchia fabbrica che in tempo di pace faceva chissà che cosa e adesso niente, e, durante il giorno, andavamo a sciare per le colline assieme ai ragazzi del paese. La neve era veloce e secca.

... continua la lettura ...

     Anche il nostro viaggio continua ma per fortuna il nostro si svolge in tempo di pace.

     Giulio II, però,  – come Mario Rigoni Stern – è partito, con il suo esercito, per la guerra e allora noi ne approfittiamo: per fare che cosa?

     Ne approfittiamo per entrare in punta di piedi nell’ufficio del papa. L’ufficio del papa è una specie di sgabuzzino (ci dorme anche) perché tutto l’edificio dei Palazzi vaticani è in ristrutturazione ed è un grande cantiere. Ci facciamo accompagnare nella nostra perlustrazione da un personaggio che lì è di casa, questo personaggio è un fiorentino e si chiama Fedra Inghirami. E chi è costui? Chi è quest’uomo che porta un nome femminile: Fedra? Vi siete forse dimenticati che lo spirito di Euripide (lo abbiamo incontrato la scorsa settimana) aleggia in questi Palazzi? Fedra Inghirami è il bibliotecario pontificio e, a quest’ora, di lui non possiamo dire altro. Ci siamo fatti accompagnare, di soppiatto, nell’ufficio del papa perché vogliamo dare un’occhiata ai libri che sono sul suo tavolo. Sul suo tavolo ci sono una serie di libri aperti: che cosa legge Giulio II e perché?

     Se lo volete sapere accorrete la prossima settimana, il nostro Percorso procede ancora sulla corsia (moderna) dell’affresco rinascimentale.

     La Scuola è qui...

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 24, 2008