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L’INGRESSO NELLA SEQUENZA DEI GRANDI RACCONTI MITICI …

Lezione N.: 
24

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica beritica  2008     16-17-18  aprile  2008

L’INGRESSO NELLA SEQUENZA DEI GRANDI RACCONTI MITICI …

     La scorsa settimana abbiamo attraversato rapidamente il territorio dell’Esodo che consiste nel testo di un Libro il quale, in lingua originale, s’intitola Nomi. Questo Libro – il Libro dei Nomi che nella traduzione greca corrisponde al Libro dell’Esodo – serve agli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e poi agli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] per introdurre la straordinaria figura di Mosè. L’eccezionale figura letteraria di Mosè raccoglie in sé – esaltate in modo mitico – le caratteristiche, i concetti fondamentali di cui sono depositari, secondo la sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri], i due re virtuosi Ezechia e Giosia: la berit [il patto di solidarietà] e la toràh [la Legge uguale per tutti].

     Gli scrivani d’Israele sintetizzano tutta la Legge in un comandamento fondamentale: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore con tutta la tua anima e con tutta la tua mente e amerai il prossimo tuo come te stesso. Questo principio fondamentale – che fa onore all’essere umano – crea un contrasto con il rigore che la Legge spesso deve avere.

     Abbiamo concluso l’itinerario della scorsa settimana affermando che si possono riconoscere così, nel movimento della sapienza poetica beritica, due significativi elementi: l’Halachah/la Norma e l’Aggadah/la Leggenda. Il volto della Halachah/della Norma è severo, pedante, grave, duro come il ferro. Il volto della Aggadah/della Leggenda invece è sorridente, indulgente, lieve, tenero come il burro. La Norma è l’espressione del rigore, la Leggenda è l’espressione della misericordia.

     Nel movimento della sapienza poetica beritica la Halachah/la Norma e la Aggadah/la Leggenda sono davvero due, ma finiscono per essere un’unica cosa, due volti della stessa creatura. I Libri del Pentateuco sono stati scritti – come ormai sappiamo – in un secondo momento rispetto ai Libri dei profeti posteriori e dei profeti anteriori ma poi, nei canoni, sono stati collocati al primo posto perché chiarificano i concetti che sono andati sviluppandosi nel tempo: da quello antico della divisione dei due Regni degli Ebrei a quello dell’esilio a Babilonia fino alla costituzione del nuovo Stato giudaico al termine dei cinquant’anni della deportazione.

     I Libri del Pentateuco [Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio] ordinati dagli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale], in funzione della costituzione del nuovo Stato giudaico, contengono per tre quarti legislazione [la Norma/Halachah] e per un quarto leggenda [Aggadah]. Questi due elementi – i due volti della stessa creatura – vengono amalgamati perfettamente nella mitica figura di Mosè. Con il personaggio di Mosè ha inizio quella che – le studiose e gli studiosi di filologia biblica – chiamano la sequenza delle grandi narrazioni epicheche trovano posto in particolare nel Libro dell’Esodo-Nomi/Shmot e poi nel Libro della Genesi-In principio/Bereshìt.

     Quindi è chiaro che la figura di Mosè, soprattutto in età moderna e contemporanea, in campo letterario, ha sempre esercitato un fascino straordinario e ha fatto da modello a innumerevoli personaggi. A questo proposito è difficile scegliere degli oggetti culturali da proporre perché la lista è lunghissima [non solo sul piano strettamente letterario ma anche per quanto riguarda la Storia dell’arte, della musica, del teatro, del cinema e via dicendo]. Una scelta però è stata fatta in funzione della natura del nostro Percorso e, quindi, in funzione della didattica della lettura e della scrittura.          Il libro che la Scuola propone all’attenzione s’intitola Il mondo creato ed è stato scritto, nel 1986, da Franco Ferrucci. Franco Ferrucci è nato a Pisa (nel 1936) insegna in una Università di New York e si occupa di poetica e di estetica, ha scritto dei romanzi: L’anatra nel cortile (1971), Il cappello di Panama (1973), A sud di Santa Barbara (1976) e dei saggi Addio al Parnaso (1971), L’assedio e il ritorno (1974), Il giardino simbolico (1980) e Lettera a me stesso ragazzo (1982) di cui si consiglia la lettura.

     Il mondo creato è un romanzo molto significativo perché rappresenta una autobiografia di Dio: anche Dio ha uno spirito autobiografico e cerca di coltivarlo e di trasformarlo in pratica autobiografica per prendersi cura di se stesso: e perché Dio ha bisogno di curarsi? Il mondo creato racconta la storia appassionata di una lunga incomprensione tra Dio e quegli uomini [sono soprattutto uomini] che si sono fatti carico – anche con determinazione, con coraggio, con dedizione – di trasmettere il pensiero divino. Il disappunto scaturisce dal fatto che quando si sono manifestati in nome di Dio lo hanno fatto senza tenere conto delle sue vere intenzioni: le intenzioni di Dio sono sempre state considerate poco consone con la gestione del potere e così il suo autentico pensiero è stato travisato. E di conseguenza, fatalmente, ognuno di questi rapporti è finito in tragedia. È causa di gran sconforto per Dio che proprio gli uomini che l’hanno maggiormente invocato, in primo luogo Mosè [col suo fortissimo bisogno di credere in un solo Dio augusto, possente e che desse un potere sulle folle] e poi Budda, Gesù, Sant’Agostino, Dante, siano stati i suoi interpreti più infedeli. Dio – descritto con compassione ne Il mondo creato – assiste così, impotente, al precipitare della storia: si dispera, si agita, si affanna a parlare coi suoi figli prediletti. Invano – dice – mi industriavo a curare le anime, perché contro di me veniva costruito il più solido baluardo. L’oppressione era il modo sicuro per impedire all’essere umano di diventare l’animale che avevo sognato. Dio, infine, deve concludere malinconicamente che l’opera, il mondo creato, gli è sfuggito di mano: Il mio mondo – afferma – era un’opera imperfetta, una sorta di abbozzo da perfezionare; e sapevo che la revisione non poteva essere fatta su questo pianeta. È necessario ripartire, è utile ritentare altrove l’esperimento? La fine di questo romanzo – che merita di essere letto, lo trovate in biblioteca – ci lascia a riflettere dinnanzi a questo dilemma.

Leggiamo alcune pagine dell’incontro drammatico tra Dio e Mosè: naturalmente, in sottofondo, emerge il testo dell’Esodo-Nomi di cui l’autore si fa esegeta in veste di scrivano.

LEGERE MULTUM….

Franco Ferrucci, Il mondo creato

Dall’ingresso della cava lo vidi seduto alla pietra-scrittoio in atteggiamento grave. Si era fermato a riflettere, lo stilo nella mano, fissando un punto verso di me, senza vedermi. Poi recitò a voce alta la frase che cercava.

«Quando un bue ha cozzato contro un uomo o una donna, che ne muoia. Sia lapidato e la sua carne venga mangiata. Ma il padrone del bue venga assolto».

Mosè si chinò a scrivere il comandamento appena formulato. Entrai nel cerchio di luce della torcia affissa sul muro; ed egli alzò gli occhi. Rimase a guardarmi, il viso impenetrabile; capii dai suoi occhi in tempesta che dentro di lui si riversavano ondate di emozioni. Rimanemmo così per qualche attimo, poi Mosè parlò.

... continua la lettura ...

     Chissà come va a finire questo episodio e quali riflessioni emergono da questo racconto? Questi interrogativi si sciolgono con la lettura de Il mondo creato.

     E ora – sempre a proposito di didattica della lettura e della scrittura – cambiamo registro: ne Il mondo creato troviamo un Mosè che assume un atteggiamento punitivo nei confronti di Dio mentre nel movimento della sapienza poetica beriticala sequenza epica su Mosè termina con un atteggiamento punitivo di Dio verso Mosè il quale non potrà entrare nella terra promessa: potrà solo vedere quanto è bella prima di morire. Questo episodio lo troviamo nel Libro del Deuteronomio e lo abbiamo già letto due settimane fa quando ci siamo domandati che senso abbia questo brano. Questo brano costituisce un altro di quei punti strategici su cui le commentatrici e gli esegeti, da sempre, si sono soffermati a riflettere.

     Rileggiamo questo famoso episodio per poter imbastire – con il supporto delle studiose e degli studiosi di filologia biblica – una breve riflessione.

LEGERE MULTUM….

Libro del Deuteronomio  34, 1-12

Mosè salì dalla pianura di Moab sul monte Nebo sulla cima Pisga, che si trova di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutto il paese: la regione di Galaad fino al territorio della tribù di Dan, quello di Neftali, di Efraim e di Manasse, quello di Giuda fino al mar Mediterraneo, il Negheb e la pianura nella vallata di Gerico, città delle palme, fino a Zoar. Il Signore disse a Mosè: «Questa è la terra che ho promesso ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, quando dissi che l’avrei data ai loro discendenti. Io te la faccio vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!».

Mosè, il servo del Signore, morì là, nella regione di Moab, come il Signore gli aveva detto. Fu sepolto in una valle nel territorio di Moab, di fronte a Bet-Peor; ma, fino a oggi nessuno sa dove si trova la sua tomba. Mosè aveva centovent’anni quando morì ma la sua vista era ancora molto buona ed egli era ancora nel pieno del suo vigore. Nella pianura di Moab gli Israeliti piansero la morte di Mosè e fecero trenta giorni di lutto. Giosuè, figlio di Nun, era pieno di saggezza e di capacità, poiché Mosè aveva posto le sue mani su di lui. Gli Israeliti gli ubbidirono e seguirono gli ordini che il Signore aveva dato a Mosè.

In Israele non ci fu più un profeta come Mosè: il Signore si era manifestato a lui a faccia a faccia. Più nessuno fu come lui per i prodigi straordinari che il Signore gli aveva comandato di fare in Egitto davanti al faraone, ai suoi ministri e a tutto il suo popolo. Più nessuno fu come Mosè per la sua potenza irresistibile e per le sue opere terribili che aveva fatto davanti agli Israeliti.

     Tre capitoli prima di questo [nel capitolo 31, versetti 14-16] nel Libro del Deuteronomio possiamo leggere l’annuncio della prossima fine di Mosè: E il Signore disse a Mosè: Ecco, si avvicina per te il tempo di morire Presto tu giacerai con i tuoi padri, e questo popolo si leverà e si prostituirà agli dei della terra nella quale sta per entrare. Poi il racconto prosegue al capitolo 34 con il brano che abbiamo letto.

     Da questo racconto noi capiamo che Mosè non moriva volentieri: nessuno, in quegli antichi tempi biblici, moriva volentieri, perché la vita era molto amata, e l’aldilà così vago da apparire quasi vano, un nulla. Inoltre Dio amareggiò la morte a Mosè annunciandogli che il popolo creato da lui avrebbe peccato e sofferto l’ira divina.

     La tradizione ebraica conservata dal Midrash [dall’ininterrotto commento biblico a cui la Scrittura viene sottoposta] racconta che Mosè, quando seppe che stava per essere suggellato nei cieli il decreto della sua morte, si rivolse all’intercessione di tutte le creature – il cielo, la terra, il sole, la luna, le costellazioni, i monti, il mare – per ottenere misericordia. Ma Dio ordinò che le porte del firmamento non si aprissero e non lasciassero giungere fino a lui la preghiera di Mosè. Allora Mosè  si mise le mani sul capo, gridò e pianse, e disse: A chi andrò a chiedere misericordia per me?.

     A questo punto il Midrash, in un libro che s’intitola Devarìm Rabbà, ha un bellissimo dialogo tra Dio e Mosè. Dio dice al suo profeta: «Mosè, io ho fatto due giuramenti: uno, di far perire Israele dal mondo per quello che ha commesso, e uno di farti morire e non lasciarti entrare nella terra. Ho annullato il giuramento su Israele per te, che hai detto: Perdona loro! E ora tu chiedi che di nuovo io annulli il mio e prevalga il tuo, e dici: Fa’ che io passi [nella terra promessa]? Tu afferri la fune del pozzo ai due capi! Se tu vuoi che prevalga il Fa’ che io passi, annulla il Perdona loro, e se vuoi che prevalga il Perdona loro, annulla il Fa’ che io passi”». Quando Mosè nostro maestro udì questo, disse: «Signore del mondo! Perisca Mosè e mille come lui, e non si perda un’unghia di uno di Israele!». Questo dialogo sottolinea la funzione di mediatore e intercessore che Mosè ha nella Bibbia, e dà alla sua morte il valore di un sacrificio, così come la stessa tradizione ebraica dà al sacrificio di Isacco un senso espiatorio a favore del futuro popolo di Israele. Mosè accetta di morire quando scopre che la sua morte ha un senso, e ha un senso molto importante.

     Ma sulla morte di Mosè è stata fatta una considerazione più profonda e insieme più comune: Mosè muore senza la minima certezza sul successo della propria missione [una missione per la quale aveva lasciato il rango di principe reale e aveva dovuto abbandonare l’Egitto, il centro del mondo”]. Mosè muore senza la minima certezza sul successo della propria missione perché la terra promessa è ancora un inafferrabile panorama, poco più che un miraggio del deserto, e il Signore – come abbiamo letto – non gli lascia molte speranze sul futuro del popolo.

     Viene in mente a questo proposito, in tutt’altro significato, il paragone portato da Socrate nel Dialogo di Platone intitolato Fedone dove si cita un uomo che consuma più mantelli” [Platone ci ha dato appuntamento per quest’autunno]. Ebbene Mosè appare come uno dei mantelli consumati da Israele nella sua lunga vita, per ripararsi: prima lui, poi tutti gli altri profeti. Ma intanto Mosè si è dovuto spogliare di tutto, è dovuto morire nudo di ogni orgoglio.

     Se per Israele [Giacobbe] era importante lasciare molti figli, e molti beni per i figli, Mosè non era sicuro di lasciare nulla di compiuto, a nessuno: come Abramo quando saliva il monte Moria con il fuoco, il coltello, la legna e suo figlio da immolare. La figura di Mosè – costruita dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e ripresa dagli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] rappresenta profondamente ma semplicemente tutte le persone che, in maniera infinitamente più impercettibile, vengono invitati dalla morte a lasciare a metà le loro cose più care. Questo tema viene ripreso nel famoso dipinto La danza macabra di Holbein.

     Il rabbi Tarfon, in un altro libro del Midrash che s’intitola Avôth, commentando la morte di Mosè riporta questo detto: «Non tocca a te compiere l’opera, ma non sei libera/libero di sottrartene». Questo è un bellissimo ritratto interiore di Mosè, servo del Signore dal quale,  aggiunge  rabbi Tarfon: «Impariamo ad amare la nostra opera non nel suo progetto o disegno che non si realizzerà mai, ma nel suo limitato nascere giorno per giorno». Questa riflessione vale soprattutto per noi – che ci dedichiamo alla didattica della lettura e della scrittura e vorremmo che lo facessero molte più cittadine e cittadini – perché noi non siamo chiamati a leggere tutti i libri del mondo ma quattro pagine al giorno, non siamo chiamati a de-scrivere tutto l’Universo ma a scrivere quattro righe al giorno osservando ciò che ci sta intorno. Se vogliamo essere [non dico più felici] ma più consolati, prendiamo la buona abitudine di desiderare la lettura e la scritturanel loro limitato nascere giorno per giorno.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è un’opera, un’attività alla quale continui a dedicarti pur essendo consapevole del fatto che non potrà dare risultati a breve termine?

Scrivi quattro righe in proposito

     L’episodio della morte di Mosè contiene anche allegoricamente l’esperienza degli scrivani d’Israele – in particolare di quelli della seconda generazione in esilio a Babilonia e poi di quelli del Codice Priester” [del Codice sacerdotale] – i quali hanno utilizzato la scrittura nel loro limitato nascere giorno per giorno con convinzione e, contemporaneamente, con la consapevolezza che non sarebbero mai entrati materialmente nella terra promessavale a dire non avrebbero mai visto la realizzazione di uno Stato unitario, indipendente, autonomo: non avrebbero mai vissuto in una società salvata [Isaia]”. Tuttavia – proprio in virtù di questa mancanza di illusioni – gli scrivani d’Israele non hanno mai rinunciato a dare corpo alla Scrittura nel suo limitato nascere giorno per giorno.

     Ed è proprio attraverso questo costante lavoro – il quale, come sappiamo, si caratterizza anche per una solida componente autobiografica – che prende forma questo straordinario apparato culturale [i Libri della Bibbia] che costituiscono una delle biblioteche fondamentali della Storia del Pensiero Umano contenente un catalogo di parole-chiave con il quale siamo quotidianamente in stretto contatto a cominciare dalla parola patto, berit.

     Che cosa hanno lasciato in eredità gli scrivani del movimento della sapienza poetica beritica? In proposito è necessario fare alcune considerazioni che possano servire per entrare nel vasto territorio della sequenza dei grandi racconti epici della Letteratura beritica.

     Con la figura di Mosè abbiamo cominciato ad occuparci dei grandi miti raccolti, composti e trascritti dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e poi, dopo l’esilio, ordinati dagli scrivani del Codice Priester” [del Codice sacerdotale]. Le varie vicende epiche narrate – con gli stili e le sequenze che abbiamo studiato – ruotano tutte, come sappiamo, intorno a una serie di patti: dal patto stipulato tra Jahvé e Noè, al patto stipulato con Abramo, fino al patto concluso con Mosè che viene suggellato con la formulazione della Legge [la toràh]: ed è la Legge uguale per tutti l’autentica rappresentazione della terra promessa perché qualunque terra diventa la terra promessa da Diose le persone che la abitano rispettano la Legge che si sono date mediate un patto di solidarietà.

     Le ripetute infedeltà di Israele – che troviamo descritte continuamente dalla Letteratura beritica – consistono nella non-curanza nei confronti della Legge e questa disaffezione minaccia continuamente le fondamenta del patto e della convivenza umana. Per questo motivo gli scrivani d’Israele sentono l’esigenza di rinnovare incessantemente un nuovo patto, se non con tutte le componenti del popolo, per lo meno con una parte di esso, con un resto di persone: quelle capaci [per spirito di servizio e per senso del dovere] di rimanere fedeli ai principi della Legge.

     Questi due elementi fondativi – il patto e la Legge – si sviluppano tra due fondamentali istanze che si intrecciano tra loro: quella politica [che ha come obiettivo la costituzione dello Stato] e quella religiosa [che ha come obiettivo la creazione di un nuovo stile di vita basato sulla solidarietà].  Il materiale letterario prodotto dagli scrivani del movimento della sapienza poetica beritica si trasforma via via in un tipico esempio di libro sacro con una valenza tanto religiosa quanto laica. E questo Libro è diventato – con la composizione e la periodica revisione dei canoni – una raccolta di testi che vengono ritenuti nel loro complesso, a volte direttamente altre volte indirettamente, ispirati dalla divinità e che, di conseguenza, fondano, su questa pretesa di rivelazione, il loro carattere normativo tanto in senso religioso [le Leggi per il culto nel Tempio e fuori dal Tempio] quanto in senso civile [le Leggi per governare lo Stato].

     La storia delle religioni del Vicino Oriente antico conosce due tipi di libro sacro: il Libro scritto direttamente da un dio o, comunque, appartenente alla divinità, e il Libro dettato dal dio ad una persona. Nel primo caso abbiamo a che fare con un Libro che è sacro perché si presume contenga i misteri divini: esso è in genere donato da dio al re nel momento in cui ascende al trono [conosciamo l’esempio del re Hammurabi], a simboleggiare il fatto che il re è il rappresentante in terra del dio, il portatore e l’esecutore delle sue rivelazioni. Nel secondo caso queste rivelazioni vengono comunicate [in genere mediante sogni o viaggi celesti] al re, che si incarica di fissarle per iscritto.

     Queste due concezioni sono entrambe presenti nella Letteratura beritica – compresenti e fuse insieme – con una variante significativa: infatti [come dimostra il racconto di Mosè che riceve la Legge sul Sinai] risalta soprattutto il fatto che Mosè non è un re ma è un servo ed è anche, prima di tutto, un pastore, prerogativa fondamentale che gli consente di essere un profetae, di conseguenza, di poter essere un legislatore.

     Tutti sanno che la stesura della Legge è opera del lavoro degli scrivani i quali ritengono sia meglio fondere le due concezioni [questo avviene nel Libro dell’Esodo-Nomi al capitolo 20 dove Elohìm scrive i comandamenti e al capitolo 24 dove li riscrive Mosè] in modo da avvalorare il fatto che la Legge viene da Dio il quale prima la scrive ma poi preferisce lasciare il compito agli scrivani i quali la traducono nella comprensibile lingua umana non sotto dettatura [per una iniziativa che parte esclusivamente da Dio] ma sotto ispirazione [per iniziativa anche degli scrivani].

     Quindi nasce l’idea della potenza e dell’autorità di una parola, di una Legge, che viene redatta per iniziativa degli scrivani ma che è divinamente ispirata e garantita. La scrittura diventa così il mezzo privilegiato delle rivelazioni divine per le quali non può bastare la memoria della tradizione orale.

     Sappiamo che la Letteratura prodotta dal movimento della sapienza poetica beriticaha conosciuto una lunga gestazione: gli scritti più antichi – come abbiamo studiato –hanno cominciato ad essere redatti in periodo monarchico e cioè verso il X secolo a.C., mentre i più recenti risalgono al I secolo.

     Con il nostro Percorso abbiamo avuto la pretesa di viaggiare – spesso a tappe forzate – nella storia millenaria che porta alla formazione dei canoni della Letteratura beritica [giudaico-palestinese, ellenistico-alessandrino ed evangelico], e l’obiettivo dei nostri itinerari è stato quello di comprendere il fatto che ci troviamo di fronte non ad un insieme unitario di testi ma, in realtà, abbiamo a che fare con una vera e propria biblioteca che riflette interessi, problemi e temi molto diversi.

     L’obiettivo didattico è stato poi quello di conoscere e di capire che le categorie di scrivani più significative si sono rivelate quelle che hanno operato – investendo in intelligenza – per creare un filo conduttore [il filo delle sequenze] che potesse legare tutti i Libri della biblioteca beritica. Abbiamo capito di non avere a che fare con redazioni attribuibili al genio di un singolo autore, ma bensì con produzioni di Scuole di costruzione del testo [di cui abbiamo studiato i connotati], con Laboratori di scrittura di cui è possibile cogliere le intenzioni, gli scopi e gli stili; ma sappiamo che queste Scuole sono tese a garantire l’autorevolezza della scrittura e, quindi, gli scrivani che operano in esse non si preoccupano di delimitare e firmare, in modo diretto, i loro interventi: gli autori sono anonimi mentre emergono i nomi delle Scuole che – come sappiamo – corrispondono alla sintesi dei programmi delle Scuole stesse e la sintesi dei programmi coincide – come abbiamo studiato – con un termine che equivale al nome di un profeta.

     Con questo Percorso abbiamo cercato di superare alcune tra le maggiori difficoltà che si parano davanti a chi decide di leggere i Libri della Bibbia. Le difficoltà a cui si trova di fronte chi decide di leggere i Libri della Bibbia non sono facilmente sormontabili se non vengono acquisite competenze nell’ambito della didattica della lettura e della scrittura. In questo Percorso abbiamo potuto constatare che i Libri della Letteratura beritica si occupano prima di tutto di politica [di Educazione civica] e poi di religione. Soprattutto abbiamo capito che la Bibbia non è una biblioteca formata da Libri di storia: e come tale va, innanzitutto, letta e interpretata.

     Ciò non significa, naturalmente, che molti racconti e molti personaggi contenuti nella Letteratura beritica siano privi di valore storico [pensiamo a Ezechia e Giosia]: il fatto è che gli avvenimenti vengono filtrati attraverso una rilettura orientata relativa alla costruzione di una società salvata” [pensiamo al ruolo che vengono ad assumere certi personaggi storici come Nabucodonosor o Ciro il Grande che vengono salutati con l’appellativo di messia perché il Signore li avrebbe utilizzati per punire Israele”].

     Gli scrivani d’Israele – nel comporre il canone giudaico-palestinese – vogliono costruire una trafila orientata in modo tale che, quando si leggono di seguito i Libri che vanno dalla Genesi al Secondo Libro dei Re, le lettrici e i lettori si trovino di fronte ad una narrazione continua delle vicende dell’Israele antico: dalle origini del mondo fino alla caduta di Gerusalemme per opera dei Babilonesi.

     I primi sei libri, dal Libro della Genesi al Libro di Giosuè [il cosiddetto Esateuco], narrano, con una lunga sequenza di racconti epici, le vicende delle origini del mondo collegate con le origini di Israele e con le tappe attraverso cui questo popolo sarebbe giunto alla conquista della terra promessa, cioè alla acquisizione della Legge. Non possiamo perdere di vista il fatto – quando ci accingiamo a leggere le opere della Letteratura beritica – che tutta la lunga sequenza dei racconti epici viene ordinata dagli scrivani d’Israele in funzione della composizione della Legge del nuovo Stato giudaico in via di costituzione dopo l’esilio a Babilonia: questa Legge – che, secondo gli scrivani costituenti, deve infondere lo spirito di servizio e il senso del dovere – perché assuma la necessaria autorevolezza viene posta sulle labbra del Dio creatore fin dalle origini.

     Il mito beritico – e dobbiamo tenerne conto come lettrici e lettori – ha una sua geografia e lo scenario predominante dei racconti epici della Letteratura beritica è una terra montagnosa, la Palestina centrale, che si colloca tra la pianura costiera ad ovest e la grande depressione della vallata del Giordano ad est. La sua particolare posizione geografica, che la colloca tra l’Egitto a sud e la Siria a nord, ha fatto di questa regione un ponte e una cerniera tra l’Africa e l’Asia, e quindi un tipico territorio-cuscinetto, preda – per ragioni strategiche – dei regni più potenti. Le popolazioni che nel corso dei secoli hanno abitato questo territorio – compresi gli antenati di Israele e i loro successori – si sono sempre trovate inevitabilmente coinvolte nelle lotte di potere tra l’Egitto e la Mesopotamia.

     E difatti con i loro potenti vicini gli abitanti della Palestina antica hanno in comune molte caratteristiche culturali, dalla lingua alla letteratura, dalla mitologia alla teologia e questo emerge in modo evidente nelle opere del movimento della sapienza poetica beritica. Se, per un verso, sembra esservi stata una maggiore affinità culturale con la Mesopotamia [anche per via dell’esilio, e conosciamo questo argomento], per un altro verso, però, è l’Egitto ad essere più prossimo alla Palestina [la valle del Nilo è meta di una continua transumanza tribale: sappiamo di che cosa si tratta] e l’Egitto ha avuto su questa terra un notevole peso politico.

     La struttura della Palestina è particolarmente varia, c’è – nonostante il territorio sia poco esteso – una grande diversità di paesaggi dai conseguenti contrasti climatici ed ecologici: c’è una fertile zona costiera, c’è un’impervia fascia collinosa centrale, c’è la verdeggiante vallata del Giordano e ci sono le zone desertiche del Mar Morto. Questa articolazione del territorio ha favorito nel corso dei secoli forti particolarismi regionali [con la divisione tribale foriera di continui scontri per la conquista delle parti migliori del territorio] ma anche, sul piano politico, la formazione di città-stato indipendenti e di piccoli regni caratterizzati da una persistente litigiosità e dal vassallaggio nei confronti dei due potenti vicini: l’Egitto e la Mesopotamia.

     La particolare conformazione del paese, inoltre, ha favorito l’insediamento di popolazioni eterogenee e cosmopolite, anche se la maggior parte di esse parlava lingue rientranti nel cosiddetto gruppo semitico. L’economia di questo territorio è stata, naturalmente, condizionata dalla topografia e dal clima che predisponevano quest’area a un’economia di villaggio e ad un corrispondente stile di vita agricola-pastorale. L’assenza di grandi fiumi come il Nilo o come il Tigri e l’Eufrate non ha mai favorito lo sviluppo di forme di agricoltura intensiva, né in generale, la pratica dell’irrigazione ha avuto mai, nella storia della Palestina, quella parte importante che ha avuto in altre civiltà antiche: ricordiamoci che intorno alla pratica dell’irrigazione, in Oriente, si forma lo Stato, le prime leggi scritte [in Egitto e in Mesopotamia] riguardano la regolamentazione idraulica.

     Su questo territorio poi ci sono poche grandi città, e noi sappiamo che – durante l’Età assiale della storia – sono le città, con i loro commerci, con la loro mobilità sociale e la loro articolazione professionale, a favorire maggiormente lo sviluppo.

     Nel territorio della Palestina i due tipi di produzione [spesso contrastanti tra loro] sono l’agricoltura [essenzialmente cerealicola] e l’economia pastorale: questi due tipi di produzione generano i due modelli culturali che caratterizzano anche i racconti epici della Letteratura beritica che stanno alla base delle origini di Israele: Caino e Abele, per esempio, sono, non a caso, un pastore e un agricoltore.

     Anche Israele, come tutti i popoli antichi, e come molti popoli moderni che non conoscono la scrittura, possiede un patrimonio di tradizioni tramandate oralmente [canti, racconti, detti e proverbi …] che contengono i codici culturali in cui si articola e si fonda l’identità del gruppo. La natura mitica di questi racconti – soprattutto in virtù dell’alone sacro che li circonda – li ha imposti come vere e proprie carte di fondazione che, opportunamente memorizzate vengono trasmesse da particolari professionisti [cantastorie, cantori, aedi] di generazione in generazione.

     Si costituisce, così, un repertorio che, accanto a compiti di intrattenimento sociale, svolge la funzione ben più importante di alimentare l’auto-comprensione del gruppo, ricordandone le origini straordinarie ed evocando le gesta dei suoi eroi fondatori.

     Anche Israele ha posseduto questo patrimonio tradizionale, ma è molto difficile dire se e quanto di esso sia effettivamente alla base dei grandi racconti epici che troviamo nella Letteratura beritica. I racconti epici – ora che ci incamminiamo ad incontrare il testo del Libro della Genesi – si strutturano, nel complesso, secondo modalità, tecniche, concezioni che li apparentano piuttosto alle storie sacre del Vicino Oriente antico: come l’idea di un’età dell’oro, di una situazione paradisiaca in cui sarebbe vissuta l’umanità delle origini, o la presenza di un dio che interviene negli affari umani per dirigerli e guidarli secondo i suoi piani misteriosi, o, ancora, la concezione di una cronologia schematica e ricca di valenze simboliche, nella quale si devono far rientrare gli eventi storici, oppure l’importanza dell’asse genealogico, o, infine, la presenza di motivi folklorici e soprattutto fiabeschi.

     Noi abbiamo già studiato che tutto questo patrimonio tradizionale dell’Israele più antico è stato elaborato nel periodo dell’esilio a Babilonia e nel tempo immediatamente successivo all’esilio: tra il 580 e il 520 a.C. circa gli scrivani d’Israele hanno compiuto un grande lavoro, un formidabile investimento in intelligenza di cui abbiamo a grandi linee studiato le caratteristiche, bisogna ricordare – perché questo fatto di solito sfugge – che in contemporanea intorno al Mar Egeo si sviluppa il movimento della sapienza poetica orficacon i poemi Omerici, le opere di Esiodo, la Lirica e la Tragedia, ci sono in corso le guerre persiane contro la Grecia e di lì a poco entra in scena anche Erodoto.

     Anche gli scrivani d’Israele – come sappiamo – sono stati capaci di avvolgere il tempo antico semisconosciuto in un’aura mitica con l’invenzione dei patriarchi, della figura di Mosè e del personaggio di Giosuè dando al loro racconto epico un valore normativo e fondante basato su due concetti cardine: la berit e la toràh, ancorati, in un primo momento, a due virtuosi personaggi storici, i re Ezechia e Giosia e poi esaltati con lo stile epico.

     Gli scrivani del movimento della sapienza poetica beritica– in tempi difficili e turbolenti come quello dell’esilio a Babilonia e quello della costruzione del nuovo Stato giudaico dopo l’esilio – ritengono necessario fornire alle lettrici e ai lettori perplessi, sfiduciati e incerti un’immagine ideale e sicura di Israele. Pensano di dover fornire un’immagine, un’icona, che possa confortare nelle tribolazioni: che possa far immaginare la grandezza delle Origini.

     Far ricordare la [presunta] grandezza delle Origini significava, nel contempo, sperare che, nel futuro anche immediato, quegli avvenimenti straordinari si sarebbero potuti ripetere e [siccome il fatto che si potessero ripetere era poco credibile: i Patriarchi e Mosè erano chiaramente percepiti come personaggi mitici] significava, comunque, fornire un orientamento e una rotta precisa tanto nel tempo dell’esilio quanto nel tempo successivo, quello della costituzione del nuovo Stato

     Il racconto epico doveva dare stabilità, doveva evitare il processo di dispersione ed è così che ne viene fuori un quadro ben preciso: Israele – così in sintesi dice la sua storia mitica – consisteva, ancor prima che gli antenati raggiungessero la terra di Canaan, di dodici tribù ben definite, poiché ogni tribù discendeva da un fratello. Queste tribù erano già di fede monoteistica, anche se talora avevano tradito il patto con Jahvé. La loro vita era retta da un codice di Leggi, che Mosè aveva ricevuto da Dio sul Sinai e che avrebbe permesso, se rispettato, la costruzione di una società salvata. A quest’epoca leggendaria bisognava sempre guardare con rinnovata fiducia e, per questo motivo – tanto in esilio quanto, dopo l’esilio, all’atto della costituzione del nuovo Stato – era necessario non tradire il patto di solidarietà in tutte le sue articolazioni.

     Alla base di tutti i Libri della Letteratura beritica troviamo questo meccanismo di proiezione mitica messo a punto dagli scrivani d’Israele. Questo meccanismo epico è in parte simile a quello che [circa cinquecento anni dopo] gli storici romani hanno compiuto per raccontare le origini di Roma: anch’esse sono state miticamente trasfigurate allo scopo di nobilitare le radici oscure di un popolo che si apprestava a dominare il mondo.

     Il Libro della Genesi, che stiamo per incontrare, contiene una straordinaria sequenza di racconti mitici. Queste significative narrazioni allegoriche portano le lettrici e i lettori in un’età eroica, intessuta di imprese straordinarie, in cui gli dèi conversano con gli umani e il fatto prodigioso diventa la norma. Questi leggendari racconti epici costituiscono l’analogo dell’epica a noi più familiare: quella orfica che conosciamo attraverso al Letteratura greca. Rispetto all’epica orfica quella beritica si distingue perché racconta l’epopea di un eroe molto particolare, anzi di un super-eroe: Israele. La natura di questo eroe è complessa perché definisce in modo alterno una persona, un popolo, una nazione.

     Facciamo, a questo proposito, un’esplorazione sul testo del Libro della Genesi, al capitolo 32, nel comparto dedicato al personaggio che si chiama Giacobbe e che risulta essere la prima figura letteraria di patriarca che è stata costruita dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia per definire il concetto di unità tra le tribù: la figura di Giacobbe [con la sua storia] rappresenta il leggendario padre delle dodici tribùche il mito di fondazione [la narrazione epica] vuole corrispondano ai suoi dodici figli.

     Ebbene c’è, nella Letteratura beritica, un brano che costituisce il punto preciso in cui il mito di fondazione ha inizio: la conoscenza di questo brano permette di capire in quale maniera gli scrivani d’Israele [quelli della seconda generazione in esilio a Babilonia e poi quelli del Codice Priester” [del Codice sacerdotale]] abbiano lavorato sulla costruzione del testo, nell’officina del racconto. L’episodio che questo brano racconta si svolge presso il guado del torrente Iabbòk che è un affluente del fiume Giordano. Abbiamo già incontrato questo nome la scorsa settimana commentando un frammento del Libro dell’Esodo-Nomi e abbiamo detto che, in ebraico, il nome Iabbòk e il nome Giacobbe hanno le stesse lettere ma nel nome di Giacobbe vi è un lettera in più: la lettera ‘ain che ha un valore numerico perché le lettere, in ebraico, definiscono anche i  numeri. La lettera ‘ain corrisponde al numero 70, che è il numero [con valenza quantitativa e qualitativa] dei figli attribuiti a Giacobbe e che significa numerosissimi: come dire che, nel momento in cui Giacobbe salta il fosso di Iabbòk – in cui va al di là del suo nome e la sua vita cambia profondamente – diventa il patriarca non solo di una famiglia [se leggiamo tutto il capitolo 32 scopriamo che Giacobbe si è messo in cammino e ha già mandato avanti tutto il suo clan e il suo gregge], diventa il capo non solo di una tribù, ma sta per diventare il capostipite [l’eroe fondatore] di un popolo intero, e questa è la ragione epica per cui nel suo nome è contenuto il mitico numero 70.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se vuoi, intanto, conoscere le avventure di Giacobbe [il ciclo narrativo su Giacobbe] puoi leggere dal capitolo 27 al capitolo 33 del Libro della Genesi…

Molte scrittrici e molti scrittori sono rimasti impressionati da questi racconti: c’è qualcosa che ti colpisce in questa narrazione?

Scrivi quattro righe in proposito…

     E ora leggiamo insieme che cosa succede a Giacobbe, rimasto solo, presso il  guado di Iabbòk: qui, nell’officina del racconto degli scrivani d’Israele, si concretizza il mito di fondazione.

LEGERE MULTUM….

Libro della Genesi  32, 25-33

Giacobbe rimase solo, e uno sconosciuto [è un angelo, è Dio stesso? Il termine “sconosciuto” rimanda all’idea di Dio nel senso che “Dio non lo si può guardare in faccia”] lottò con lui fino allo spuntar dell’alba. Quando costui vide che non poteva vincere Giacobbe nella lotta, lo colpi all’articolazione del femore, che si slogò, e disse:

– Lasciami andare perché già spunta l’alba.

Giacobbe rispose: – Non ti lascerò andare se prima non mi avrai benedetto.

Quello chiese: – Come ti chiami?

– Giacobbe, – egli rispose.

L’altro disse: – Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato contro Dio e contro gli uomini e hai vinto [in ebraico c’è un bel gioco di parole che s’innesta sul termine “Israele” che significa “hai lottato contro Dio”, e questa espressione dà un significato nuovo al nome Giacobbe: “colui che ha lottato contro Dio”. Il nuovo nome dato a Giacobbe segna un cambiamento profondo nella sua vita].

Giacobbe gli domandò: – Dimmi, ti prego, qual è il tuo nome?

L’altro gli rispose: – Perché mi chiedi il mio nome? – e diede la sua benedizione a Giacobbe.

Giacobbe disse: «Ho veduto Dio a faccia a faccia e non sono morto!». Perciò chiamò quel luogo Penuel [da “peniel”: a faccia a faccia con Dio].

Il sole stava sorgendo quando Giacobbe, zoppicando all’anca, lasciò Penuel.

Proprio per questo fatto anche oggi gli Ebrei non mangiano il nervo sciatico che è sopra l’articolazione del femore: perché quello sconosciuto colpì Giacobbe in quel punto, all’articolazione del femore [gli scrivani d’Israele non rinunciano mai a utilizzare il mito per introdurre elementi di legislazione]

     L’epica beritica costituisce un continuum narrativo di grande efficacia: purtroppo a Scuola questo grandioso fenomeno epico non si è mai studiato in quanto tale perché è stata sempre coltivata una deleteria ambiguità come se si avesse a che fare con una storia vera, allo stesso modo in cui – molti di noi alla Scuola elementare – hanno imparato le leggende sulla fondazione di Roma come se fosse la storia e non il mito.

     È chiaro che questo procedimento – in particolare per l’epica beritica – non ha favorito né la conoscenza delle significative metafore letterarie, né l’approfondimento sul terreno della fede, né lo stimolo per la lettura mirata alla comprensione dell’albero genealogico lessicale. L’epica beritica costituisce un continuum narrativo di grande efficacia popolato di personaggi straordinari e di immagini stupefacenti che hanno, per secoli, nutrito l’esegesi di dotti interpreti ebrei, cristiani, mussulmani, religiosi e laici. Questi personaggi straordinari e queste immagini stupefacenti costituiscono un vero e proprio repertorio mitologico [di cui bisogna saper interpretare i simboli] a cui hanno attinto e dentro al quale hanno operato la Letteratura e le Arti figurative di tutti i tempi. I grandi racconti mitici creati dagli scrivani d’Israele sono potenti [sono scritti in una lingua in cui le parole sono cose”] e hanno dato forma all’auto-comprensione che Israele ha elaborato del suo passato, delle sue origini, del suo destino.

     Questa affascinante odissea [non è casuale il fatto che si presti così bene per il cinema], fatta di erramenti, di transumanze e di tradimenti, di esodi e di ritorni, costellata di trabocchetti e di pericoli, con i suoi eroi spesso tenebrosi e solitari e le sue eroine così concrete e risolutrici, ha dato addito ad una delle più grandi allusioni verificatesi nella Storia del Pensiero Umano: una allusione che è diventata un modello nel procedimento di trasformazione del mito in storia. L’epica beritica, con le sue grandi narrazioni, attraverso il procedimento letterario dell’allusione [che abbiamo già studiato in viaggio nei territori de Le Storie di Erodoto], ha saputo colmare tutte le lacune storiche con una straordinaria sequenza leggendaria.

     E le leggende diventano la cronologia tradizionale d’Israele [compresa la cronologia delle origini del mondo] come se gli avvenimenti dei racconti mitici corrispondessero alla storia reale. E così appare come se fosse storia reale l’emigrazione di Abramo che avrebbe avuto luogo verso il 1850 a.C.. E così appare come se fosse storia reale la discesa degli Ebrei in Egitto che si collocherebbe [computando l’età di Isacco e di Giacobbe] circa 200 anni dopo, intorno al 1650 a.C.. E così appare come se fosse storia reale il soggiorno degli Ebrei in Egitto che sarebbe durato 430 anni, e l’Esodo, di conseguenza, avrebbe avuto luogo verso il 1200 a.C.. E così appare come se fosse storia reale l’epopea della conquista della Palestina che si collocherebbe tra la fine del XIII e la fine del XII secolo a.C..

     Naturalmente queste date sono oggi – dalle studiose e dagli studiosi – messe in discussione sia per il processo di revisione critica a cui sono state sottoposte le fonti, sia per l’assenza di dati archeologici e di scritti che confermino dall’esterno la cronologia biblica e sono state messe in discussione anche per la difficoltà di interpretazione dei pochi dati esistenti. La sequenza dei grandi racconti mitici contenuta nei Libri del Pentateuco si presenta come una narrazione coerente, volta a raccontare la storia del mondo e poi di Israele dalla creazione fino all’esilio babilonese [587 a.C.]. La sequenza dei grandi racconti epici – come sappiamo – è il risultato di una plurisecolare stratificazione di materiali letterari diversi, più volte rielaborati, in Laboratori di scrittura, da vari redattori in periodi successivi. Questa stratificazione risalta particolarmente nell’ultimo Libro che viene messo in ordine per dare il via a tutta la sequenza dei grandi racconti epici contenuta nei Libri del Pentateuco: quest’opera è il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt.

     Gli studi linguistici, le ricerche filologiche e le analisi letterarie hanno rivelato che nel Libro della Genesi-In principio/Bereshìt si possono distinguere quattro codici [quattro fonti, tradizioni] diversi: il codice jahvista, il codice elohista, il codice deuteronomico e il codice sacerdotale, vale a dire il codice Preister. Il codice Priester viene citato per ultimo ma – per motivi inerenti alla didattica della lettura e della scrittura – andrebbe citato per primo. Perché andrebbe citato per primo? Perché sono proprio gli scrivani del codice Priester [la seconda e la terza generazione] che, intorno al 520 a.C., mettono in ordine gli altri tre codici più antichi [jahvista, elohista e deuteronomico] e, ad arte – nelle loro officine del testo – li ricuciono insieme per costruire quell’opera straordinaria che è il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt.

     Quali sono le caratteristiche di questi codici e delle fonti in essi contenute? Ce ne occuperemo la prossima settimana entrando nel testo del Libro della Genesi-In principio/Bereshìt. Il Libro della Genesi-In principio/Bereshìt – dopo 24 itinerari – ci mette in contatto con uno di quei temi: il tema delle Origini, su cui l’animale homo sapiens sapiens [la scimmia nuda, secondo gli etologi] ha cercato di riflettere. La riflessione sul tema delle Origini ha messo e mette in evidenza un interrogativo inquietante e contemporaneamente stimolante e provocatorio: ma noi lo sappiamo che cosa ci stiamo a fare al mondo? Di solito la gente scrolla le spalle con sufficienza di fronte a domande di questo genere, di solito la gente afferma che queste questioni non sono concrete: e invece queste sono le uniche cose di cui ci si dovrebbe occupare con impegno perché tutte le altre sono facoltative e dipendono proprio dalla presenza o dall’assenza di queste.

     Sarà bene non comportarsi con la supponenza de l’Omo davanti alla Scimmia con cui il poeta Carlo Alberto Salustri (1871-1950) detto Trilussa ci permette di concludere l’itinerario di questa sera:

LEGERE MULTUM….

Trilussa,  L’Omo e la Scimmia (da Favole moderne, 1922)

L’Omo disse a la Scimmia: – Sei brutta, dispettosa:

ma come sei ridicola! ma quanto sei curiosa!

Quann’io te vedo, rido: rido nun se sa quanto!

La Scimmia disse: – Sfido!  T’arissomijo tanto!

     Per avviarsi verso la conclusione il nostro Percorso deve passare attraverso il territorio delle Origini e per riflettere, in senso beritico, sul tema delprincipio: la Scuola è qui, correte...

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 18, 2008