Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica beritica 2008 12-13-14 marzo 2008
L’ALLEGORIA DEI “GERMOGLI” NEL POEMETTO DEL SEGNO DELL’EMMANUELE …
Ci stiamo occupando da qualche settimana di un tema molto importante che emerge nel movimento della “sapienza poetica beritica”. Questo tema è formato da due elementi legati tra loro che si possono concretizzare in due parole: i “demeriti” e i “meriti”. Sappiamo che questo tema viene sviluppato con un programma ben definito, dopo l’esilio, dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale]. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale] per attuare questo programma [per realizzare questo investimento in intelligenza] – in funzione della costituzione del nuovo Stato giudaico [siamo nel 538 a.C. circa] – operano sul piano della costruzione del testo in modo da inserire nell’apparato della Scrittura, che hanno ricevuto in eredità dagli scrivani dell’esilio a Babilonia [soprattutto della seconda generazione], la cosiddetta “sequela dei demeriti” con il proposito di richiamare tutti alle proprie responsabilità [a riconoscere le proprie colpe] e la cosiddetta “sequenza dell’equilibrio dei meriti” con l’obiettivo di richiamare tutti ai loro doveri. Questi due concetti – la “sequela dei demeriti [delle colpe]” e la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – sono entrati, come sappiamo, nella Storia della Letteratura moderna e contemporanea [con una accelerazione che è avvenuta intorno alla metà del 1700] e quindi, a questo proposito, abbiamo già aperto una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Abbiamo incontrato uno scrittore che si chiama Alain-René Lesage (1668-1747) il quale ci ha proposto la sua commedia più famosa intitolata Turcaret, rappresentata per la prima volta nel 1709, in cui domina il personaggio dell’astuto servo Frontino: una figura modello nel quadro della “sequela dei demeriti [delle colpe]”, questo scrittore lo incontreremo ancora. Poi abbiamo incontrato Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (1732-1799), autore di due celebri commedie intitolate Il barbiere di Siviglia e La folle giornata ovvero Il matrimonio di Figaro.
Questi due testi hanno avuto uno sviluppo sorprendente nel campo delle arti e ci hanno fatto incontrare anche un altro personaggio che, in fatto di “demeriti” e “meriti”, se ne intende: Lorenzo Da Ponte, l’autore dei Libretti d’opera delle Nozze di Figaro (1786), del Don Giovanni (1787) e di Così fan tutte (1790), musicate da Mozart. Se vi siete dedicate/dedicati all’ascolto di queste opere con il Libretto sotto mano [siete sempre in tempo: l’importante, nella trafila dell’apprendimento, è “conoscere” e “capire” per potersi “applicare”] avete avuto l’occasione di constatare come il “concetto dei demeriti e dei meriti”, che nasce nel movimento della “sapienza poetica beritica”, si sviluppi nella cultura moderna e contemporanea e si presenti, oggi, come una chiave di lettura fondamentale nella Storia del Pensiero Umano.
Abbiamo preannunciato la scorsa settimana che avremmo – prima di proseguire sul nostro sentiero specifico – incontrato Pierre de Beaumarchais che ha creato il personaggio di Figaro [un’esemplare allegoria del contrasto tra i “demeriti” e i “meriti”]. Pierre de Beaumarchais ha scritto che, nel creare la figura di Figaro, ha tenuto conto del personaggio di Frontino nella commedia intitolata Turcaret di Alain-René Lesage che abbiamo già incontrato su questo Percorso. Dove Pierre de Beaumarchais ha scritto questo pensiero? Questo pensiero lo ha scritto nelle sue Memorie, un’opera – lo abbiamo già affermato – su cui bisogna puntare l’attenzione.
Pierre de Beaumarchais ha scritto un libro di Memorie pubblicato nel 1774 e intitolato: Quattro memoriali di Beaumarchais. Abbiamo accennato anche – nell’itinerario precedente – alle Memorie di Lorenzo Da Ponte e dobbiamo rallegrarci [e prendere esempio] del fatto che questi personaggi abbiano coltivato il loro “spirito autobiografico” e lo abbiano trasformato in “lavoro autobiografico”: il genere letterario delle Memorie ci ha rese/resi e ci rende più ricchi dal punto di vista culturale e dal punto di vista umano. Anche quest’opera, Quattro memoriali di Beaumarchais, si presenta come un significativo documento che ci fa conoscere molti aspetti curiosi del XVIII secolo.
Beaumarchais racconta la sua vita come se fosse un romanzo, o meglio, come se fosse un’opera buffa. Beaumarchais narra di essere entrato tanto in familiarità con il banchiere Paris-Duverney, il quale alla sua morte [nel 1770], lascia a lui tutto il suo patrimonio in eredità. A questo punto però Beaumarchais deve fare i conti con gli eredi: soprattutto con il nipote del banchiere, un conte, che lo accusa apertamente di avere falsificato il testamento, e pretende da lui una forte somma in risarcimento dei danni. Beaumarchais viene processato ma, a sua volta, accusa il relatore del processo di corruzione giudiziaria: nel fare la satira di questo consigliere di corte d’assise Beaumarchais finisce per andare al di là del particolare fatto giudiziario che lo riguarda e rivela, alle lettrici e ai lettori, attraverso acute osservazioni, i mali, i limiti, i “demeriti” della società settecentesca.
La leggiadra [come lui la chiama, con ironia] moglie del consigliere di corte d’assise aveva accettato in dono da Beaumarchais – per favorire un verdetto di assoluzione –cento Luigi d’oro, un orologio con diamanti e inoltre quindici Luigi per il segretario. Ma poiché perde la causa, lo scrittore pretende che gli vengano restituiti i doni: queste regalie gli vengono tutte restituite meno i quindici Luigi che sarebbero dovuti andare al segretario. A questo punto è Beaumarchais a far causa al consigliere e alla moglie, ma il consigliere, valendosi anche del fatto che lo scrittore era stato mal giudicato nelle cause precedenti [c’erano degli errori formali che sembravano creati ad arte], cerca di farlo imprigionare e di farlo condannare per il tentativo di corruzione e la relativa calunnia. Proprio mentre sta preparando la stesura delle sue celebri commedie [Il barbiere di Siviglia e Il matrimonio di Figaro], Beaumarchais si rivolge all’opinione pubblica colpendo con sottile arguzia il consigliere di corte d’assise quelli che si comportano come lui, denunciando – giocando con l’ironia e con continui sottintesi polemici – i metodi di una giustizia che non è uguale per tutti. Beaumarchais – con la sua schiettezza espressiva, la sua abilità dialettica, il brio indiavolato nel presentare e sfruttare le situazioni comiche – mette in evidenza, nelle sue Memorie, la corruzione che dilaga nella vita pubblica e che colpisce e minaccia la stabilità e la credibilità della Nazione e poi confessa di essere anche lui pienamente coinvolto nel sistema dei “demeriti”.
Tuttavia Beaumarchais ha molti estimatori, guardate che cosa scrive Voltaire: «Ho letto tutte le Memorie di Beaumarchais e non mi sono mai divertito tanto. Queste Memorie, rappresentano quanto di più singolare, più forte, più spinto, più comico, più interessante, più umiliante per i suoi avversari, abbia mai visto. Egli si batte contro dieci o dodici persone alla volta e le atterra come il selvaggio Arlecchino sgominava una pattuglia di guardie. Non vi è commedia più piacevole, storia meglio narrata e, soprattutto affare spinoso più bene districato in cui emerge l’epocale scontro tra demeriti e meriti».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
A questo punto viene voglia di leggere le Memorie di Beaumarchais e, a questo proposito, ti puoi informare in biblioteca o sulla rete…
Ma soprattutto è la Scuola che coglie ancora una volta l’occasione per invitare le cittadine e i cittadini in viaggio sul cammino di questo Percorso di studio a dedicare dieci minuti al giorno – quattro righe al giorno – alle proprie Memorie: è un esercizio che allarga e allunga la vita…
E ora torniamo sul nostro itinerario specifico. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],– che non si fanno pregare per scrivere – hanno un preciso obiettivo politico: comporre la seconda versione della Legge [il Deuteronomio] con l’assenso di tutte le parti sociali: l’aristocrazia-sacerdotale, il ceto produttivo, gli ebionim [la manovalanza, le classi subalterne]. Per raggiungere il loro intento, mettono tutta la loro esperienza [acquisita attraverso la tradizione delle varie categorie degli Scrivani d’Israele] a disposizione della costruzione del testo componendo un certo numero di anelli capaci di collegare una serie di punti salienti attraverso i quali far transitare e far emergere la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],con questi anelli collegano principalmente il Secondo Libro dei Re, da loro composto quasi per intero, e il Libro di Isaia sul quale intervengono con molta efficacia.
Sappiamo, abbiamo studiato che nel primo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], vogliono mettere in rapporto tra loro le parole-chiave “tempio”, “legge” e “servo” in modo da collegare strettamente il concetto della “servitù” con l’idea della “sovranità”: la persona che fa il proprio dovere è sovrana, è autorevole, è qualificata, è competente, è affidabile.
Nel secondo anello gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], vogliono creare l’immagine [l’icona] di un binomio virtuoso che rappresenti la sintesi delle figure dei due re più amati dell’antico Israele: Ezechia e Giosia.
Negli ultimi due itinerari abbiamo già studiato il modo in cui gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], hanno operato per costruire il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” perseguendo l’obiettivo di dare valore allo “spirito di servizio” che è la predisposizione necessaria per stipulare il “patto di solidarietà [simboleggiato dalla figura di Ezechia]” e per rispettare la “Legge uguale per tutti [simboleggiata dalla figura di Giosia]”. Sappiamo che gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia avevano già esaltato, nel Libro del Proto-Isaia, la figura del re Ezechia [personaggio gradito alla classe aristocratico-sacerdotale e al ceto produttivo] raccontando episodi della sua vita intesa come una missione, vissuta nel ruolo di “servo del Signore” ed enumerando le sue opere ispirate alla “berit”, alla stipula nel patto di solidarietà. Sappiamo anche che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],, dopo l’esilio, hanno esaltato la figura del re Giosia [personaggio gradito agli ebionim, alle classi subalterne] raccontando nel Secondo Libro dei Re il famoso episodio legato alla leggenda del ritrovamento della toràh, del codice della Legge che era rimasto, per lungo tempo, nascosto nel Tempio.
Sappiamo inoltre che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], intervengono con determinazione per abbinare questi due personaggi: operano con ingegno, per mezzo della Scrittura, come se li dovessero dipingere uno accanto all’altro nella stessa icona perché la loro vicinanza rappresenta la solidità del nuovo apparato istituzionale giudaico, rappresenta l’unità della Nazione e rappresenta l’immagine dello Stato del Grande Israele autonomo e indipendente.
Abbiamo studiato, nell’itinerario della scorsa settimana, che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], decidono di inserire il “binomio virtuoso Ezechia-Giosia” nella struttura del cosiddetto “poemetto del segno dell’Emmanuele”: su questo tema siamo edotte, siamo edotti. Il “poemetto del segno dell’Emmanuele” [o, secondo l’esegesi cristologica, Il libretto dell’Emmanuele] – come sapete – è una composizione poetica scritta dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia che costituisce il nucleo centrale [dal capitolo 7 al capitolo 11] del Libro del Proto-Isaia ed ha lo scopo di glorificare, fin dalla nascita, il re Ezechia, figura gradita agli scrivani della seconda generazione [del proclama di Amos], unico re che ascolta la voce dei profeti-pastori e quindi investito del ruolo di “servo del Signore” e di araldo della “berit”, del patto di solidarietà.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],– come sappiamo – danno inizio a questa operazione di natura politica [per quanto riguarda il contenuto] e di carattere poetico e filologico [per quanto riguarda la forma] inserendo nel testo del “poemetto del segno dell’Emmanuele”, al capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia, un brano che è stato successivamente, con la traduzione greca, tra il II e il I secolo a.C., intitolato Il re futuro. Ma se questo brano lo si dovesse intitolare secondo il pensiero degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], che lo hanno composto, bisognerebbe usare la dicitura: I due re del passato e non Il re futuro. Perché questo? Penso che la risposta – come abbiamo già detto la scorsa settimana – si configuri già nella vostra mente.
In questo brano [i primi 6 versetti del capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia] gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], fanno emergere i termini utili per dare inizio alla creazione del “binomio virtuoso Ezechia-Giosia” in modo che anche nel testo del Libro del Proto-Isaia si possa determinare quell’equilibrio dei meriti [dei doveri] che, contemporaneamente, si sta determinando nel testo del Secondo Libro dei Re in modo da dare un respiro comune a tutti i Libri dei profeti [anteriori e posteriori], uno spirito che possa avere una ricaduta positiva sul processo di unità della Nazione.
L’itinerario della scorsa settimana è terminato con la lettura di questo brano formato dai primi 6 versetti del capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia. Dobbiamo ribadire che questo famoso brano verrà poi, secondo la versione ellenistico-alessandrina, intitolato Il re futuro ma questo titolo, che troviamo sulle nostre Bibbie – e spero siate andate/andati a verificare questo fatto – non rispecchia però, abbiamo detto, il pensiero originale degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],i quali più che a “un re futuro” stanno pensando a “due re del passato”. Se siete andate/andati ad osservare questo brano [il brano formato dai primi 6 versetti del capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia] sul volume della Bibbia che possedete, vi sarete accorte/accorti facilmente che questo testo è stato incuneato ad arte dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nella struttura del “poemetto del segno dell’Emmanuele”: gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], hanno trovato uno spiraglio, hanno individuato un punto d’ingresso e se ne sono serviti. Gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia nel capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia [che corrisponde al terzo capitolo del “poemetto del segno dell’Emmanuele”] vogliono affermare che il Signore punirà Israele servendosi degli Assiri [raccontano per prudenza – come sappiamo – avvenimenti successi circa 150 anni prima, ma in realtà alludono alla sconfitta e all’esilio inflitto loro dai Babilonesi]. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],inseriscono il brano da loro composto in un punto in cui la “lamentazione” ha lasciato il posto alla “speranza”, in un punto dove, alla fine del capitolo 8 del Libro del Proto-Isaia, gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia stanno facendo emergere il significativo contrasto tra la luce e le tenebre [un contrasto tipico di tutte le culture che, in questo periodo, si stanno sviluppando nell’Età assiale della storia], ma la luce – per loro che vivono ancora avvolti dalle ombre dell’esilio – non la citano neppure: l’Emmanuele [il re Ezechia] è ancora un bambino, addirittura un neonato, il “futuro sarà glorioso” ma, per ora, è incerto perché “il Signore ha pronunciato una condanna sul regno d’Israele” e quindi la “luce” verrà, ma prima ci sarà un lungo periodo di “tenebre”.
Se leggiamo gli ultimi versetti [dal versetto 19 al 23] del capitolo 8 del Libro del Proto-Isaia ci rendiamo conto che è proprio in questo punto, dopo il versetto 23, che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], hanno inserito la loro allegoria che è stata poi [due secoli dopo] intitolata il “re futuro” ma che, in realtà, rimanda a “due re del passato”. Rileggiamo – perché lo abbiamo già letto la scorsa settimana – questo frammento: questi 5 versetti che fanno da introduzione al brano su cui vogliamo puntare la nostra attenzione.
LEGERE MULTUM….
Libro di Isaia [del Proto-Isaia] 8, 19-23
Non date ascolto a chi vi dice di consultare gli spiriti e gli indovini che bisbigliano e mormorano formule. La gente dice: «Dopo tutto, ogni popolo deve interrogare le sue divinità e consultare i suoi morti [il passato] in favore dei vivi [il presente]». Voi invece dovete ascoltare quel che il Signore vi insegna! Se non ascoltate la sua parola [la berit] non c’è speranza per voi.
Il popolo oppresso e affamato si aggirerà per la regione. Per la fame maledirà con ira il suo re e le sue divinità. Guarderà nel cielo o scruterà sulla terra ma vedrà solo angoscia, terrore e oscurità terrificante. Però non ci saranno sempre tenebre sulla terra che ora è afflitta.
Il territorio delle tribù di Zabulon e di Neftali nel passato è stato umiliato dal Signore, ma il futuro sarà glorioso per la strada che va dal Mediterraneo al Giordano, cioè la Galilea, dove vivono gli stranieri …
A questo punto – sulla scia del verso che dice: «Però non ci saranno sempre tenebre sulla terra che ora è afflitta» – gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],inseriscono l’idea della “luce”: nel brano che compongono [e che corrisponde ai primi 6 versetti del capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia] alludono al fatto che un «bambino» [magari non proprio un neonato] e poi un «figlio» – gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], presentano due personaggi distinti sebbene appaiati – possano, dal passato, illuminare la scena futura della storia della salvezza [Isaia]. Rileggiamo questo testo – che abbiamo già letto senza commento la scorsa settimana nella versione ebraica del codice giudaico-palestinese: questo testo risulta familiare alle nostre orecchie perché l’interpretazione cristologia dell’Antico Testamento [in particolare con la traduzione latina della Bibbia compiuta da Gerolamo] ha definito il cosiddetto Libretto dell’Emmanuele come una profezia che richiama la figura di Gesù di Nazareth. Rileggiamo il bellissimo brano composto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], per introdurre il personaggio di Giosia e, quindi, per far sì che, in combinazione con la figura di Ezechia, si possa formare quel “binomio virtuoso” che costituisce il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”: questa icona – che vede come protagonisti i due re più virtuosi della storia dell’antico Israele – deve essere l’immagine che esalta lo “spirito di servizio”.
Questo brano ha inizio con un celebre verso [poi ripreso dalla Letteratura dei Vangeli e che tutti conosciamo a memoria] che gioca sul contrasto tra la luce e le tenebre [anche le tematiche del Libro della Genesi cominciano a profilarsi all’orizzonte] e che dice così: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce». Questo verso, di grande efficacia, si lega bene con il verso, altrettanto significativo, composto dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, i quali avevano evocato il contrasto tra la luce e le tenebre senza tuttavia vedere ancora la luce. Questo verso, che suona: «Però non ci saranno sempre tenebre sulla terra che ora è afflitta», ha fatto da ponte per gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],i quali hanno trovato qui il punto adatto, il punto d’appoggio per inserire il brano da loro composto.
E ora procediamo alla rilettura dei primi 6 versetti del capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia riflettendo, questa sera, sulle varianti che – rispetto al “canone giudaico-palestinese” redatto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], che per noi risulta il testo base – emergono dai canoni successivi: quello “ellenistico alessandrino” frutto della traduzione greca dei Settanta e quello “cristiano” completato con la traduzione latina di Gerolamo.
LEGERE MULTUM….
Libro di Isaia [del Proto-Isaia] 9, 1-6
Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce. Ora essa ha illuminato il popolo che viveva nell’oscurità. Signore, tu hai dato loro una grande gioia, li hai fatti felici. Gioiscono davanti a te come quando si miete il grano o si divide un bottino di guerra. Tu hai spezzato il giogo che gravava sulle loro spalle e li opprimeva. Hai distrutto i loro nemici, come in passato l’esercito di Madian. I calzari dei soldati invasori e tutte le loro vesti insanguinate saranno distrutte dal fuoco.
È nato un bambino [bed’eh] per noi! E [nella traduzione greca e nella traduzione latina di Gerolamo scompare la congiunzione “e”: questo fatto crea l’idea che si parli di un unico personaggio] ci è stato dato un figlio [bĕkôr]! All’uno e all’altro [nella traduzione greca e nella traduzione latina di Gerolamo al posto di “all’uno e all’altro” compare il pronome “gli” inteso al singolare: «Gli è stato messo sulle spalle il segno del potere regale…», in modo che il “bambino” e il “figlio” sembrino una persona sola. Noi dobbiamo capire che nelle comunità della diaspora ellenistica, dopo due secoli, non ha più senso rievocare il binomio Ezechia-Giosia: ormai i membri delle comunità della diaspora sono cittadine e cittadini di Nazioni – come l’Egitto, la Mesopotamia – di cui rispettano le leggi e la toràh ha perso la sua valenza politica per diventare un codice di norme di carattere religioso. Per Gerolamo poi l’obiettivo è quello di fare riferimento ad un’unica persona, a un re futuro che s’identifica con Gesù di Nazareth, il Cristo della fede] è stato messo sulle spalle il segno del potere regale. L’uno e l’altro sarà chiamato: “Consigliere sapiente, forte come un leone [nella traduzione greca si legge: “forte come un Dio”. Nella traduzione latina di Gerolamo si legge “Dio forte”: Gerolamo fa diventare questo bambino un Dio], Padre sempre presente [nella traduzione greca ripresa anche da Gerolamo si legge: “Padre per sempre”], Principe della pace”. Diventerà sempre più potente, e assicurerà una pace continua. Governerà come successore di Davide. Il suo potere durerà per lungo tempo perché fondato sul patto e sulla Legge [nella traduzione greca ripresa anche da Gerolamo si legge: “Il suo potere si fonderà sul diritto e sulla giustizia per sempre”]. Così ha deciso il Signore dell’universo nel suo ardente amore, e così sarà. …
E adesso veniamo al dunque: ora dobbiamo prendere in considerazione gli elementi fondamentali di questo brano, le due parole-chiave con cui gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],costruiscono l’icona, compongono l’immagine che rappresenta il secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”. A questo punto non è difficile capire l’operazione che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], hanno portato a termine: i due re, Ezechia [il figlio] e Giosia [il bambino], sono stati collocati uno vicino all’altro, come due fari, per illuminare uno scenario in cui domina l’idea costituente per eccellenza. Questa idea si manifesta nel versetto 6 del capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia nel quale gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], rivelano la loro reale intenzione nello scrivere questo brano: la costruzione degli anelli della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” serve soprattutto per dettare le regole alla classe dirigente – della quale anche loro fanno parte – perché [impari a coltivare lo “spirito di servizio”] si renda degna di governare il nuovo Stato giudaico.
Il “binomio Ezechia-Giosia”, con tutto il significato simbolico che contiene, diventa l’icona di riferimento per la classe dirigente, o meglio, diventa l’immagine che contiene, sotto forma di allegoria, il catalogo dei doveri [dei meriti], la lista delle responsabilità che, chi è chiamato a governare, deve assumersi. Chi ha responsabilità di governo nel nuovo Stato giudaico deve essere: «Consigliere sapiente, forte come un leone [questa espressione rimanda al concetto del “ruggito del Signore” che, nello stile del proclama di Amos, significa: “presa di coscienza, lucidità intellettuale”], Padre sempre presente, Principe della pace». Credo non ci siano commenti da fare [gli scrivani del “Codice Priester” non lasciano alternative]: chi è chiamato a governare lo Stato deve rispettare questo mansionario perché, in linea con la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”, ha davanti a sé l’immagine virtuosa del “binomio Ezechia-Giosia” che richiama allo “spirito di servizio”.
Il versetto 6 del capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia che dice: «Il suo potere durerà per lungo tempo perché fondato sul patto [sulla berit] e sulla Legge [sulla toràh]» è emblematico a questo proposito. Questo verso è lo specchio che meglio riflette la situazione storica in cui operano gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],: difatti nella traduzione greca, e poi latina, il senso di questo verso è cambiato completamente, ha perso la sua valenza politica legata alla costituzione di una Nazione per assumere un carattere, sempre politico, ma più universale, ecumenico, nell’ambito dell’internazionalismo ellenistico: «Il suo potere si fonderà – questa è la traduzione greca – sul diritto e sulla giustizia per sempre».
Ma torniamo alla versione “giudaico-palestinese” scritta dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],e prendiamo in considerazione gli elementi fondamentali di questo brano: le due parole-chiave che costruiscono l’icona, che compongono l’immagine rappresentativa del secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”. Giosia ed Ezechia non vengono citati per nome e la loro figura viene espressa in modo allegorico. S’intuisce che il personaggio del re Giosia è rappresentato dal “bambino”: «È nato un bambino [bed’eh] per noi!». Ma come si fa a capire che questo “bambino [bed’eh]” rappresenta il re Giosia? Per capire questo dobbiamo rifarci [alla filologia] alla parola originale ebraica – utilizzata dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],– che troviamo tra parentesi: la parola bed’eh. Basta osservare questa parola per capire che in essa si rispecchia il termine ‘ebed che significa “servo”. Il termine bed’eh designa un bambino/una bambina che ha raggiunto un’età in cui può cominciare a svolgere dei servizi: un’età in cui un bambino/una bambina assume un ruolo di “servo”, cioè quando comincia a rendersi utile concretamente nella comunità in cui vive. Il bed’eh è un bambino/una bambina in grado di assumersi delle responsabilità: di solito nel settore della pastorizia. Nell’antica società pastorale ebraica [come in tutte le antiche società pastorali] si diventa un bed’eh all’età di otto anni e, in questo contesto, ad un bambino/ad una bambina dell’età di otto anni si richiede che sia cosciente dell’esistenza della Legge [la toràh] e che sappia che la Legge è uguale per tutti. Un bed’eh è un bambino/una bambina consapevole dell’esistenza della Legge e che, quindi, comincia a sentire la responsabilità di essere “servo-serva” del Signore.
Ma come si fa a capire che in questo “bambino [bed’eh]” viene rappresentato il re Giosia? Per comprendere questo bisogna leggere che cosa affermano gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],nel versetto 1 del capitolo 22 del Secondo Libro dei Re che stanno componendo e che abbiamo già letto qualche settimana fa. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],ci fanno sapere che: «Giosia divenne re all’età di otto anni [è quindi un bed’eh, una persona consapevole dell’esistenza della Legge uguale per tutti] e regnò per trentun anni a Gerusalemme».
Il re Ezechia è invece rappresentato dalla parola “figlio”: «E ci è stato dato un figlio [bĕkôr]!», affermazione che si lega con il racconto del “segno dell’Emmanuele”. Ma anche in questo caso dobbiamo rifarci [alla filologia] al vocabolo originale ebraico – che troviamo tra parentesi – utilizzato dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],: la parola bĕkôr. Il termine bĕkôr designa il “figlio nato per primo”, il “primogenito”, e la radice di questa parola sta nel termine bĕrākāh che significa “benedizione”, ma l’elemento significativo che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], vogliono mettere in evidenza è che questi termini [bĕkôr, bĕrākāh] sono a loro volta legati con la parola bĕrît [il patto di solidarietà, l’accordo tra le parti]: prerogativa a cui, come sappiamo, il re Ezechia è strettamente legato.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Ciascuna e ciascuno di noi è stato bed’eh vale a dire una bambina o un bambino di otto anni: c’è qualcosa che ti ricorda questo fatto?…
Scrivi quattro righe in proposito …
Essere o non essere bĕkôr cioè primogenita o primogenito ha significato qualcosa per te?…
Scrivi quattro righe in proposito…
Con la creazione del binomio “Ezechia-Giosia” gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],vogliono mettere in evidenza il rapporto che intercorre tra il concetto della “sovranità” inteso come capacità di assumersi delle responsabilità e quello della “servitù” inteso come attitudine ad avere uno “spirito di servizio”: è sovrana [è responsabile, è autorevole, è qualificata, è competente, è affidabile] la persona che fa il proprio dovere ed è in virtù di questo merito che la “sovranità” può estendersi a tutto il popolo. Nella mente degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],, questa è la condizione necessaria per edificare una società che possa considerarsi “salvata [Isaia]”.
Il fatto è che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],, nel momento in cui introducono, nella struttura del “poemetto del segno dell’Emmanuele”, il brano che abbiamo letto e commentato [i primi 6 versetti del capitolo 9 del Libro del Proto-Isaia] si occupano maggiormente, sebbene vogliano ammonire, della classe dirigente e del suo ruolo [puntano l’attenzione sul catalogo delle mansioni affidate alla classe dirigente] e quindi finiscono per dimostrare di avere un occhio di riguardo nei confronti del ceto aristocratico-sacerdotale e del ceto produttivo [che sono espressione della classe dirigente] a scapito delle classi subalterne [degli ebionim, degli ebedim].
Per questo motivo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], – in funzione della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – decidono di intervenire ancora una volta sul testo del “poemetto del segno dell’Emmanuele” con due brani che inseriscono in coda a quest’opera poetica composta dagli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia: questi due brani diventano il capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia che è l’ultimo capitolo del “poemetto del segno dell’Emmanuele” vero e proprio perché – come abbiamo già detto – il capitolo 12, che è un Inno di ringraziamento, è entrato a far parte del Libretto dell’Emmanuele in un secondo momento, nel periodo ellenistico-alessandrino.
Il primo brano che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], scrivono e inseriscono nel “poemetto del segno dell’Emmanuele” è composto dai primi 9 versetti del capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia. Con questo brano, parafrasando con grande abilità lo “stile del proclama di Amos”, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], vogliono ancora una volta ribadire che nel “progetto della salvezza” [questa è una formula che corrisponde all’espressione: “programma di costituzione del nuovo Stato giudaico”] tutte le classi sociali hanno pari dignità. Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], vogliono mettere in evidenza che la relazione tra il concetto della “sovranità” inteso come capacità di assumersi delle responsabilità e quello della “servitù” inteso come attitudine ad avere uno “spirito di servizio” riguarda tutti i membri dello Stato.
Per rafforzare maggiormente questa idea, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],compongono un terzo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” chiamando in causa ancora una volta l’immagine [l’icona] virtuosa formata dal re Ezechia e dal re Giosia. Con questo terzo anello gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], vogliono mettere chiaramente in evidenza il fatto che le virtuose figure di Ezechia e di Giosia si prendono cura – rendendo loro giustizia e difendendo i loro diritti – delle classi subalterne.
Nel primo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – e lo abbiamo studiato – vengono messe in relazione tra loro le parole-chiave “tempio”, “legge” e “servo”.
Nel secondo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – come sappiamo – vengono messe in relazione tra loro le parole-chiave “bed’eh, il bambino” e “bĕkôr, il figlio”.
Nel terzo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” entra in gioco un termine nei confronti del quale – vivendo noi in un contesto influenzato dalla Letteratura dei Vangeli – non siamo indifferenti: la parola “germoglio”. Per essere precisi, però, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],questa parola la usano al plurale: “i germogli”, e questo non è un fatto irrilevante. Ma noi sappiamo bene ormai, a questo proposito, che, nella dinamica delle traduzioni [greca e latina], sono state apportate delle modifiche spesso sostanziali rispetto all’intenzione che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],hanno nel costruire il loro testo.
E adesso leggiamo i primi 9 versetti del capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia nella versione del canone giudaico-palestinese redatto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nei quali emerge il terzo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”: tra parentesi troviamo le parole ebraiche più significative sulle quali – anche se non siamo propriamente esperte ed esperti – possiamo tuttavia fare una piccola esercitazione filologica che ci permette di capire come ci sia un filo conduttore tra le parole-chiave che danno forma agli anelli della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”; attraverso questo filo conduttore passa la riflessione che – secondo la natura del nostro Percorso – dobbiamo fare in funzione della didattica della lettura e della scrittura: quale riflessione? Adesso leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Libro di Isaia [del Proto-Isaia dal canone giudaico palestinese] 11, 1-9
Spunteranno [yāsā] dal tronco di Iesse [il padre del re Davide] come germogli [qîdim] i retti [yāšār] servi del Signore [‘ebedim] e per i loro meriti [per i loro doveri, huqqîm], la berit [berit] sarà una primizia [rē’šît].
Lo spirito del Signore verrà su di loro: gli darà saggezza e intelligenza, consiglio e forza. Conoscenza e amore per il Signore. Essere i servi del Signore [‘ebedim] sarà la loro gioia. Non giudicheranno secondo le apparenze, non decideranno per sentito dire. Renderanno giustizia ai poveri [ebionim] e difenderanno i diritti degli oppressi [‘ebedim]. Con i loro ordini faranno punire e uccidere quelli che commettono violenze nel paese. La giustizia e la fedeltà saranno legate a loro come cintura stretta attorno ai fianchi. Lupi e agnelli vivranno insieme e in pace, i leopardi si sdraieranno accanto ai capretti. Vitelli e leoncelli mangeranno insieme, basterà un bambino [bed’eh o berit, un patto di solidarietà] a guidarli. Mucche e orsi pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno gli uni accanto agli altri, i leoni mangeranno fieno come i buoi.
I lattanti giocheranno presso nidi di serpenti, e se un bambino metterà la mano nella tana di una vipera non correrà alcun pericolo.
Nessuno farà azioni malvagie o ingiuste su tutto il monte santo del Signore.
Come l’acqua riempie il mare, così la conoscenza della Legge [toràh] del Signore darà vita a tutta la nostra terra…
Se andiamo a leggere il testo di questi versetti [i primi 9 versetti del capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia] sulle Bibbie che ci sono in circolazione riscontriamo una sostanziale differenza tra il testo che riportano e quello che abbiamo letto ora. Le Bibbie in circolazione non sono sbagliate ma riportano la traduzione greca dei Settanta, riportano il testo del canone ellenistico-alessandrino, ripreso poi dalla traduzione latina di Gerolamo. Gerolamo ha sotto gli occhi la versione ebraica degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], che abbiamo appena letto, ma si lascia sedurre [sebbene cercasse di scacciare le tentazioni] dalla versione greca che ha trasformato “i germogli” al plurale in un “germoglio” unico e quindi ha modificato il senso di tutto il brano.
Leggiamo lo stesso brano nella traduzione greca dei Settanta che corrisponde alla versione latina di Gerolamo e che troviamo nelle nostre Bibbie:
LEGERE MULTUM….
Libro di Isaia [del Proto-Isaia dal canone ellenistico-alessandrino] 11, 1-9
Spunterà un nuovo germoglio: nascerà nella famiglia di Iesse, dalle sue radici, germoglierà dal suo tronco. Lo spirito del Signore verrà su di lui: gli darà saggezza e intelligenza, consiglio e forza. Conoscenza e amore per il Signore. Ubbidire a Dio sarà la sua gioia. Non giudicherà secondo le apparenze, non deciderà per sentito dire. Renderà giustizia ai poveri e difenderà i diritti degli oppressi. Con i suoi ordini farà punire e uccidere quelli che commettono violenze nel paese. La giustizia e la fedeltà saranno legate a lui come cintura stretta attorno ai fianchi. Lupi e agnelli vivranno insieme e in pace, i leopardi si sdraieranno accanto ai capretti. Vitelli e leoncelli mangeranno insieme, basterà un bambino a guidarli. Mucche e orsi pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno gli uni accanto agli altri, i leoni mangeranno fieno come i buoi. I lattanti giocheranno presso nidi di serpenti, e se un bambino metterà la mano nella tana di una vipera non correrà alcun pericolo. Nessuno farà azioni malvagie o ingiuste su tutto il monte santo del Signore.
Come l’acqua riempie il mare, così la conoscenza del Signore riempirà tutta la terra…
A questo punto – riflettendo in funzione della didattica della lettura e della scrittura, e puntando l’attenzione sull’essenziale che, per noi, ora, è la parola-chiave “germoglio/germogli” – è necessario, per procedere sul nostro itinerario, fare alcune considerazioni che riguardano la differenza tra un canone [quello giudaico-palestinese] e l’altro [quello ellenistico-alessandrino]. Diciamo subito che non c’è nessun intento mistificatorio da parte degli scrivani filotraduzionisti ellenistico-alessandrini che traducono la Bibbia in greco, e allora: da che cosa dipendono queste significative variazioni su cui stiamo puntando l’attenzione? Rispondere a questa domanda con una battuta non è possibile: bisogna sviluppare un ragionamento che chiama in causa alcuni paesaggi intellettuali davanti ai quali ci dobbiamo soffermare.
Il primo elemento [o paesaggio intellettuale] su cui riflettere e di cui dobbiamo prendere atto è che tra la stesura del canone giudaico-palestinese redatta dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], nel VI secolo a.C. e quella del canone ellenistico-alessandrino redatto dagli scrivani filotraduzionisti a cominciare dal III secolo a.C. sono passati circa due secoli e, in più di duecento anni, qualcosa cambia nel modo di pensare. Gli scrivani filotraduzionisti alessandrini nel tradurre i Libri della Bibbia in greco – e abbiamo già studiato in autunno questi temi – hanno un obiettivo politico diverso da quello degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],.
Gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], – ormai lo sappiamo – operano sulla Scrittura in modo da creare le condizioni per favorire la costituzione di un nuovo Stato giudaico nella terra di Canaan. Il loro obiettivo è quello di “nazionalizzare/istituzionalizzare” i concetti [i due concetti fondamentali] del movimento della “sapienza poetica beritica” che avevano preso forma soprattutto durante l’esilio a Babilonia: la berit, il patto di solidarietà che deve essere stipulato tra le varie classi sociali del nuovo Stato e la toràh, la Legge uguale per tutti i cittadini della nuova Nazione giudaica.
Gli scrivani filotraduzionisti, più di due secoli dopo, vivono nella comunità della diaspora di Alessandria – una metropoli di cui sono e si sentono cittadini: quella è la loro nazione – e non hanno più alcun contatto con lo Stato giudaico [il Tempio, la città di Gerusalemme sono diventate metafore spirituali] e i membri delle comunità della diaspora hanno cominciato a pensare di essere loro, a pieno titolo, il “resto d’Israele” [un titolo che pensano di avere ereditato] di cui parlano i Libri dei profeti posteriori.
A questo proposito è certamente utile fare [molto brevemente] alcuni accenni sulla travagliata storia dello Stato giudaico. Per due secoli [dal 538 al 333 a.C.] lo Stato giudaico – di cui stiamo seguendo, subito dopo l’esilio, le fasi della costituzione – vive sotto il segno della dominazione persiana [tutto sommato tollerante] con una relativa autonomia, ma, nonostante gli sforzi degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], che ci stanno accompagnando, non raggiungerà mai la sospirata indipendenza. Nel 333 a.C. la Palestina entra a far parte dell’impero di Alessandro Magno e poi dal 300 al 200 a.C. cade sotto il controllo degli Egiziani della dinastia dei Tolomei. Dal 200 a.C. la terra di Canaan viene governata dai Seleucidi che cercano di reprimere le tradizioni religiose giudaiche provocando una agguerrita rivolta di cui ci siamo occupati in autunno quando abbiamo studiato i due Libri dei Maccabei e le opere della corrente controtraduzionista alessandrina. Successivamente sono gli Asmonei che, per una settantina d’anni, dominano in Palestina procurando allo Stato d’Israele un periodo di relativa indipendenza, attraversato però da continue lotte fratricide [non c’erano più gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], a scongiurare la guerra civile]. Tanto all’indipendenza quanto alle lotte fratricide mette fine, nel 63 a.C., l’assedio del console Gneo Pompeo, che conquista Gerusalemme e fa della Palestina una provincia romana [e così, come provincia romana, la conosciamo attraverso la Letteratura dei Vangeli]. Sappiamo che è dentro a questa complessa cornice di dipendenza politica – sotto i Persiani, i Greci, i Tolomei, i Seleuicidi, gli Asmonei – e di violenti sussulti per ottenere l’emancipazione che va inquadrata l’evoluzione del movimento della “sapienza poetica beritica” e la Letteratura che esso produce.
E allora – come abbiamo detto – gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], operano sulla Scrittura perché hanno come obiettivo quello di “nazionalizzare/istituzionalizzare” i concetti del movimento della “sapienza poetica beritica” che avevano preso forma soprattutto durante l’esilio a Babilonia, mentre l’obiettivo che si propongono gli intellettuali filotraduzionisti alessandrini nel tradurre i Libri della Bibbia in greco – come abbiamo già studiato – è quello di “internazionalizzare” i concetti del movimento della “sapienza poetica beritica”.
Ma dopo aver messo in evidenza questo primo elemento, veniamo al dunque, all’argomento specifico che stiamo trattando: perché quando traducono in greco il testo dei primi 9 versetti del capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia, nei quali emerge il terzo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”, gli scrivani filotraduzionisti alessandrini fanno in modo che “i germogli” di Iesse diventino un “unico germoglio”? Per cominciare a dare una risposta a questa domanda – come abbiamo detto poco fa: non si può risolvere questa questione con una battuta – riflettiamo sulle parole ebraiche del testo del canone giudaico-palestinese composto dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],.
Il primo versetto del capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia nella versione composta dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],, che abbiamo letto poco fa, suona così, proviamo a leggerlo: Yās’ebe rē’šît’Iesse’huqqîdim. Che cosa significa questa frase con cui inizia il terzo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” inserito nell’ultimo capitolo del “poemetto del segno dell’Emmanuele”? Che cosa significa questa frase con la quale gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], vogliono mettere chiaramente in evidenza il fatto che le virtuose figure di Ezechia e di Giosia si prendono cura – rendendo loro giustizia e difendendo i loro diritti – delle classi subalterne? Questa frase significa: “spunteranno [yāsā] dal tronco di Iesse come germogli [qîdim] i retti [yāšār] servi del Signore [‘ebedim] e per i loro meriti [per i loro doveri, huqqîm], la berit [berit] sarà una primizia [rē’šît].
Chi sono – secondo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], che compongono questo testo – i retti [yāšār] servi del Signore [‘ebedim] che spunteranno [yāsā] dal tronco di Iesse come germogli [qîdim] i quali, per aver avuto il merito di adempiere ai loro doveri [huqqîm], hanno fatto diventare la berit [berit] una primizia [rē’šît]? Ma naturalmente sono i due re – Ezechia e Giosia – che costituiscono il binomio su cui si fonda la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” che avvalora il concetto dello “spirito di servizio”, prerogativa necessaria per edificare una società che possa considerarsi “salvata [Isaia]”. In questa frase [il versetto 1 del capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia], se osserviamo bene le parole ebraiche, anche se non siamo esperte ed esperti di filologia biblica, tuttavia ci rendiamo conto che questa serie di termini combinati insieme – qîdim [i germogli], yāšār [i retti], ‘ebedim [i servi del Signore], huqqîm [i meriti, i doveri], berit [il patto di solidarietà], rē’šît [la primizia]: se facciamo attenzione, ci accorgiamo che queste parole s’intrecciano l’una con l’altra nel testo del versetto 1 del capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia – danno autorevolezza a questo concetto, danno valore alla relazione che intercorre tra l’idea di “sovranità” e l’idea di “servitù”. E allora, ci siamo fatti una domanda: perché quando, più di due secoli dopo, gli scrivani filotraduzionisti alessandrini traducono in greco il testo dei primi 9 versetti del capitolo 11 del Libro del Proto-Isaia [che abbiamo letto], nei quali – in funzione della costituzione del nuovo Stato giudaico – emerge il terzo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”, fanno in modo che “i germogli di Iesse” diventino un “unico germoglio”?
In prima istanza, a questa domanda, non possiamo dare che una mezza risposta, la quale a sua volta contiene un altro interrogativo. La mezza risposta da dare [supportata dal ragionamento che abbiamo fatto poco fa] è che: l’allegoria nazionalista dei “germogli di Iesse” che raffigurano i due re virtuosi Ezechia e Giosia – composta come metafora istituzionale dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], – non aveva più senso per gli scrivani filotraduzionisti alessandrini. Lo Stato giudaico costituitosi, dopo l’esilio, nel 538 a.C., soprattutto per merito degli scrivani d’Israele, aveva finito per essere di volta in volta triturato nel macinino della storia. Nelle comunità della diaspora che, come abbiamo studiato, erano particolarmente vivaci dal punto di vista culturale, e soprattutto nella comunità di Alessandria, tra il III e il I secolo a.C., irrompe la stagione intellettuale dell’Ellenismo che cancella il pensiero nazionalista con le sue metafore istituzionali rivolte allo Stato giudaico in nome di nuove idee, di un nuovo pensiero che ha un orizzonte politico molto più ampio.
Ed ecco che – come abbiamo detto – nasce un nuovo interrogativo nell’ambito della mezza risposta che ci siamo dati: qual è il nuovo pensiero che condiziona la traduzione in greco dei Libri della Bibbia creando un linguaggio ricco di fascino utopico? La traduzione in greco dei Libri della Bibbia – di cui conosciamo molti aspetti perché siamo stati ospiti di Alessandria per qualche settimana – è una straordinaria operazione intellettuale che interpreta la Scrittura non guardando più alla Nazione ma al Mondo intero, non guardando più allo Stato ma all’Universo, non guardando al popolo [che è una nozione astratta] ma alla persona. Questo cambiamento di mentalità – tutti ricordiamo Filone Alessandrino – porta al superamento della nostalgia [ammesso che i membri delle comunità della diaspora abbiano mai coltivato, se non in poesia, il sentimento della nostalgia] per la perdita della Nazione, dello Stato, del popolo. Questo cambiamento di mentalità fa sì che la nostalgia si trasformi in speranza [come ai tempi dell’esilio a Babilonia per la seconda generazione di scrivani, quelli del “proclama di Amos”] e questa speranza ha generato un’utopia: un’idea utopica che emerge nella traduzione greca della Bibbia e che caratterizza il ciclo ellenistico-alessandrino del movimento della “sapienza poetica beritica”.
Questa utopia – l’idea di un’armonia universale da realizzare sulla terra – non si è più spenta nella Storia del Pensiero Umano. Questo pensiero utopico – per cui il giardino dell’Eden può essere ritrovato, può essere costruito – creato nel movimento della “sapienza poetica beritica” dagli scrivani che hanno curato la traduzione greca dei Libri della Bibbia si concretizza in un concetto che tutti conosciamo e che tutti abbiamo sentito nominare: l’idea del messianismo, che prende forma e si sviluppa nel corso della traduzione in greco dei Libri dei profeti posteriori da parte degli intellettuali filotraduzionisti ellenistico-alessandrini.
I traduttori alessandrini dei Libri dei profeti posteriori lavorano sulla scia dell’operazione che hanno compiuto, più di due secoli prima, gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], i quali hanno composto la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” in cui hanno messo in evidenza l’immagine del binomio Ezechia-Giosia. I traduttori alessandrini dei Libri dei profeti posteriori utilizzano la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” composta dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], per dare forma al loro pensiero. Gli intellettuali filotraduzionisti alessandrini, interpretando lo stile del “proclama di Amos”, riflettono sulle ripetute delusioni storiche che hanno portato a rinviare continuamente l’avvento del “tempo buono e felice” promesso dai profeti. L’avvento del “tempo buono e felice” – pensano i traduttori alessandrini dei Libri della Bibbia – non è direttamente collegato all’esistenza dello Stato giudaico [ormai triturato nel macinino della Storia], non rimanda più alle mitiche figure di Ezechia e di Giosia [diventate insignificanti] ma è proiettato verso un orizzonte più ampio, un orizzonte internazionale: quello dell’Ellenismo. Gli scrivani del ciclo ellenistico-alessandrino nel tradurre in greco i testi della Bibbia costruiscono un pensiero partendo dall’idea che l’ordine pienamente umano e la virtuosa dimensione istituzionale che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], hanno cercato di costruire dando voce ai profeti, attraverso le figure di Ezechia e di Giosia, è fallito per l’infedeltà e l’inadempienza delle classi dirigenti e per l’ignoranza e la dabbenaggine delle classi subalterne. Ma naturalmente ritengono che il filo conduttore [la trafila degli anelli], la forma costruita dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], sia solida: su questo filo conduttore bisogna però far passare un contenuto nuovo, maturato nell’esperienza della diaspora. L’ordine pienamente umano che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],hanno cercato di costruire dando voce ai profeti, secondo il pensiero degli scrivani alessandrini, verrà finalmente realizzato da un intervento di Dio, operato in prima persona o con la mediazione di un personaggio da lui inviato e consacrato: il messia [il consacrato].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Nella parola “messia” si concentrano tutte le prerogative di una tradizione [legata ai rituali] che è andata consolidandosi nel tempo: l’ordinare, il conferire, l’ungere, il confermare, il destinare, il benedire, il dedicare, l’offrire, l’intitolare…
Quale [o quali] di questi verbi ti fanno ricordare un episodio [o più episodi] della tua vita?…
Scrivi quattro righe in proposito …
Nel canone ellenistico-alessandrino, codificato con la traduzione in greco della Bibbia, il concetto del “messia” emerge in tutte le allegorie che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], hanno costruito per mettere in evidenza l’immagine del binomio virtuoso Ezechia-Giosia. Quindi il significato dell’allegoria che contiene il binomio virtuoso Ezechia-Giosia, creata dagli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], per comporre la “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri], viene sostituito dall’idea del “messia”, E allora sarà il messia futuro e non gli antichi re Ezechia e Giosia che «giudicherà i miseri con giustizia, prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese» [Isaia]. E allora del messia: «Grande sarà il dominio per cui la pace non avrà fine». Per volontà del messia inizierà la pace universale per cui gli esseri umani: «forgeranno le loro spade in vomeri per arare, e le loro lance in falci per mietere» [Isaia]. Per volontà del messia di instaurerà la pace con la natura e allora: «il lupo dimorerà con l’agnello … e un fanciullo li guiderà» [Isaia]. In una natura riconciliata per merito del messia non vi sarà posto per nessun tipo di malattia: «i ciechi vedranno, i sordi udiranno, gli zoppi salteranno e i muti grideranno di gioia». A questa integrità umana data dal messia: «la terra risponderà con il grano, con il vino nuovo e con l’olio» [Osea]. Per merito del messia: l’aridità e la siccità saranno bandite perché la terra sarà solcata dalle acque che la faranno «fiorire» come un giardino [Isaia]. Insieme alla terra fiorirà anche il cuore delle persone, producendo quelle opere di giustizia la cui mancanza ha causato il crollo di Israele. E come può rinascere un cuore morto come un deserto arido? Questa possibilità impossibile sarà effetto dello spirito di Dio [sappiamo che questa espressione è condizionata dal pensiero greco], dono fondamentale dei tempi in cui comparirà il messia: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi…» [Ezechiele]. Così rinnovata, la comunità umana del domani «farà esperienza diretta della gloria di Dio e ne canterà all’unisono la magnificenza» [Geremia]. Il tempo del messia sarà dunque un tempo di riconciliazione universale: con Dio, con la natura, tra le persone.
Tanto nel pensiero orientale quanto il quello greco abbiamo individuato il senso di un peccato primordiale, ebbene, questo senso cambia radicalmente fisionomia con il pensiero dei traduttori alessandrini della Bibbia in greco. Difatti, mentre il pensiero orientale e quello greco si ripiegano nella memoria di un lontano paradiso perduto, di una età dell’oro finita per sempre, il pensiero degli scrivani del ciclo alessandrino del movimento della “sapienza poetica beritica” riproduce l’Eden delle origini, ma solo per dire che esso può venir ritrovato, anzi non è stato mai realizzato e lo sarà solo nel futuro. Come abbiamo già detto, la nostalgia nella comunità della diaspora di Alessandria si converte definitivamente in speranza, e l’utopia di un’armonia universale da realizzare sulla terra non si è più spenta nella Storia del Pensiero Umano.
Quindi nel tradurre la Bibbia in greco gli scrivani alessandrini per introdurre il concetto del “messia” apportano un serie di variazioni che modificano quella che era l’intenzione degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],.
Adesso possiamo dare una risposta alla domanda che ci siamo fatte/fatti: i “germogli di Iesse” – nella visione “nazionalista/istituzionalista” degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],– corrispondono alle figure di Ezechia e Giosia, mentre il “germoglio”, che compare nella traduzione greca, corrisponde alla figura del messia. Il “germoglio di Iesse” corrisponde alla visione “internazionalista” con la quale gli scrivani filotraduzionisti alessandrini vogliono interpretare la Letteratura del movimento della “sapienza poetica beritica”.
Naturalmente anche Gerolamo, nella sua versione latina detta la Vulgata [nel V secolo d.C.], fa esplicito riferimento ai Settanta saggi alessandrini e traduce «Spunterà un nuovo germoglio, nascerà nella famiglia di Iesse». Ma al contrario dei traduttori alessandrini che hanno del messia una visione indeterminata per Gerolamo il termine “germoglio” ha un’identità precisa: quella di Gesù di Nazareth, il Cristo [l’unto, il consacrato] che, nonostante la sua debolezza, è riuscito a spaccare la Storia in due.
Prima di tornare sul nostro itinerario specifico, dobbiamo dire che gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], hanno comunque, sebbene inconsapevolmente, propiziato la nascita del “pensiero messianico” e hanno favorito la riflessione che ha portato gli scrivani del ciclo ellenistico-alessandrino – mentre traducono in greco i Libri dei profeti posteriori – ad elaborare il “concetto del messia”: in che modo hanno propiziato e hanno favorito questo? È una bella domanda!
Ma per rispondere a questa domanda dobbiamo aspettare il prossimo itinerario fra quindici giorni, dopo la pausa pasquale.
Nell’attesa ritorniamo sul nostro sentiero specifico, ritorniamo al VI secolo a.C., e al lavoro che stanno compiendo gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],. Per gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], i “germogli di Iesse” corrispondono al binomio Ezechia-Giosia e rappresentano il terzo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”. Con la creazione del binomio “Ezechia-Giosia” gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], vogliono mettere in evidenza – come abbiamo imparato – il rapporto che intercorre tra il concetto della “sovranità” e quello della “servitù” inteso come “spirito di servizio”: è “sovrana” la persona che fa il proprio dovere, ed è in virtù di questo fatto che la sovranità appartiene al popolo, può appartenere a ciascun membro del popolo. Nella mente degli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale],, la relazione che intercorre tra il concetto della “sovranità” e quello della “servitù” inteso come “spirito di servizio” è la condizione necessaria per edificare una società che possa considerarsi “salvata [Isaia]”.
Abbiamo detto che il terzo anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” – l’anello dei “germogli” – avrebbe dovuto dare agli ebionim una piena dignità ma in realtà le classi subalterne vengono menzionate paternalisticamente per esaltare ancora una volta i re Ezechia e Giosia, i quali: «Renderanno giustizia ai poveri [ebionim] e difenderanno i diritti degli oppressi [‘ebedim]». Questa affermazione non basta a giustificare il fatto che ciascun membro del popolo d’Israele aveva la possibilità [secondo i suoi meriti] di assumere in sé la “sovranità” e quindi la prerogativa di essere considerato, come i re virtuosi, “servo del Signore”; ebbene: questo fatto andava espresso con maggiore chiarezza nella Scrittura. E gli scrivani del “Codice Priester” [del Codice sacerdotale], si fanno carico di questa situazione e, quindi, costruiranno un quarto anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]” nel quale dilateranno la figura del “servo del Signore” definendone le qualità in modo che ogni singola persona possa davvero, con “spirito di servizio” [portato alle estreme conseguenze] onorare il “patto di solidarietà” e rispettare la “Legge uguale per tutti”.
E così, strada facendo, siamo arrivati anche a Pasqua. Il concetto della Pasqua – tanto che la si consideri come il “passaggio” da una situazione di schiavitù ad una di liberazione, significato che emerge nei Libri dei profeti posteriori, quanto la si consideri come “resurrezione” nel significato che le viene attribuito dalla Letteratura dei Vangeli – porta con sé l’idea della “laicità della fede”: il Signore non vuole sacrifici rituali, ma vuole che si rispettino i patti e le Leggi perché ciò comporta anche dei sacrifici, ma anche delle soddisfazioni [è certamente paradossale il fatto che oggi si provi più soddisfazione a non rispettare i patti e le Leggi]. Gli scrivani d’Israele che compongono i testi che formano il Libro di Isaia – e i testi di tutti i Libri dei “profeti posteriori” – ribadiscono questa idea pasquale. Quindi, con due brani che proclamano [con lo stile del “proclama di Amos”] la “laicità della fede”, la Scuola – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – celebra la Pasqua:
LEGERE MULTUM….
Libro di Isaia 29
Il Signore ha detto: «Questo popolo si avvicina a me per onorarmi. Mi onora però soltanto con la bocca, mentre con il cuore è lontano da me. Tutto il suo culto è senza significato, perché consiste solo in rituali religiosi. Perciò continuerò a sorprendere questo popolo in modo del tutto incomprensibile. Così la saccenteria dei suoi saccenti sarà messa in difficoltà e la loro scaltrezza non servirà a niente».
Guai a quelli che cercano di nascondere al Signore i loro progetti! Tramano nell’ombra, pensano di non essere visti e dicono: «Nessuno sa quel che noi facciamo!» Essi capovolgono i compiti. Confondono il vasaio con l’argilla. Può forse il vaso dire al vasaio: «Non mi hai fatto tu!» O ancora: «Tu non capisci niente»?
Fra poco la foresta del Libano diventerà un giardino, e il giardino si cambierà in una foresta. Quel giorno i sordi sentiranno leggere le parole di un libro e i ciechi, che prima erano nelle tenebre, apriranno i loro occhi e vedranno. Gli umili e i poveri si rallegreranno e gioiranno ancora una volta per quel che farà il Signore. Sarà la fine per chi opprime e schernisce gli altri. …
Libro di Isaia 58
Dice il Signore: «Mi cercano ogni giorno, desiderano conoscere le mie decisioni. Anzi reclamano da me leggi giuste e vogliono che sia vicino a loro. Sembrano una nazione che agisce con giustizia e osserva le leggi. Ma poi mi dicono: “Perché digiunare se non ci guardi? Perché comportarsi bene se non lo noti?”». E io rispondo: «Proprio mentre digiunate vi preoccupate dei vostri affari e maltrattate i vostri lavoratori. Litigate con violenza, urlate e fate anche a pugni. Proprio perché digiunate in questo modo, io non vi ascolto. Per voi digiunare vuol dire piegare la testa come una pianta appassita, vestirsi di sacco e stendersi nella cenere. Pensate che sia fatto di queste esteriorità il digiuno che mi piace? Per digiuno io intendo un’altra cosa: rompere le catene dell’ingiustizia, rimuovere ogni peso che opprime gli esseri umani, rendere la libertà agli oppressi e spezzare ogni legame che li schiaccia. Digiunare significa dividere il pane con chi ha fame, aprire la casa ai poveri senza tetto, dare un vestito a chi non ne ha, non abbandonare il proprio simile. Questa, popolo mio, sarà l’alba di un nuovo giorno in cui i tuoi mali guariranno presto. Se ti comporterai in modo giusto il Signore ti proteggerà con la sua presenza. Quando lo chiamerai ti risponderà, quando chiederai aiuto egli dirà: “Eccomi”». …
E infine – lo abbiamo già citato qualche volta ma “repetita iuvant [le cose ripetute sono di giovamento]” – ricordiamo che cosa ha scritto Gregorio Magno, papa dall’anno 590, nei suoi Dialoghi: «Studiare è cominciare a risorgere».
Ebbene, ci rivediamo fra quindici giorni per continuare il nostro viaggio con il quarto anello della “sequenza dell’equilibrio dei meriti [dei doveri]”: chissà dove si innesta questo anello?
E in virtù dell’ammonimento di Gregorio – «Studiare è cominciare a risorgere» – si capisce che “studiare è un gesto pasquale” e quindi: buona Pasqua di “studio” a tutti, auguri!
Tra quindici giorni la Scuola è qui...