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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE SI CONFIGURA, ALLE ORIGINI DELLA SCOLASTICA, IL TEMA DELL’ANIMA IN RELAZIONE AL RAPPORTO TRA FEDE E RAGIONE ...

Lezione N.: 
3

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale            22-23-24  ottobre  2014

Basilica di Saint Denis

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE

SI CONFIGURA, ALLE ORIGINI DELLA SCOLASTICA, IL TEMA DELL’ANIMA

IN RELAZIONE AL RAPPORTO TRA FEDE E RAGIONE  ...

 

   Il nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale” ha avuto inizio e questa sera prendiamo il passo per percorrere il terzo itinerario. Ci troviamo di fronte al “paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini” [ci siamo arrivate e arrivati a giugno, e di qui ripartiamo oggi], ed è il primo scenario culturale che dobbiamo osservare.

   Se entrassimo [a far merenda] in una delle molte abbazie che dal V al IX secolo costellano il territorio europeo e visitassimo, dopo la cucina, lo scriptorium, ebbene, lì sentiremmo gli amanuensi dire: «Ma come, ancora un altro saggio Sull’Anima da ricopiare? All’anima! Ma quanti saggi Sull’Anima sono stati scritti in questi ultimi anni? Centinaia!». Come mai, dal V al IX secolo, nel momento in cui il movimento della Scolastica è in incubazione, sono stati scritti così tanti saggi sul tema dell’anima? Sulla scia di questo interrogativo prendiamo il passo questa sera per percorrere un itinerario piuttosto impervio.

   La scorsa settimana, concludendo il tradizionale “rituale della partenza”, abbiamo preparato insieme [vi ricordate?] un metaforico zainetto-intellettuale, vale a dire, abbiamo sollecitato [attraverso un ragionamento progressivo supportato dalle azioni del conoscere, del capire e dell’applicare] la nostra mente a dar forma ad un “contenitore [ad uno spazio mnemonico]” nel quale poter depositare tre elementi, tre oggetti culturali, utili per osservare consapevolmente il “paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini”.

   Il primo di questi tre oggetti, come ricorderete, corrisponde alla “Scuola palatina”, e la fondazione della Scuola palatina – un evento che si concretizza per impulso di Acquino di York nel 782 ad Aquisgrana nel cuore dell’impero carolingio – è da considerarsi come il primo serio tentativo capace di avviare un movimento in grado di contrastare il più grave dei mali: l’ignoranza.

   Il secondo oggetto, come ricorderete, corrisponde alla “Casa della saggezza”, e l’edificazione a Toledo, voluta dal califfo Omayyade intorno all’anno 870 di questo laboratorio culturale – dove si organizzano convegni aperti a studiosi islamici, ebrei, cristiani e laici per commentare le Opere di Platone e di Aristotele – determina la nascita di una Scuola, la “Scuola di Toledo ” [specializzata in traduzioni] che contribuisce a mettere in incubazione il movimento della Scolastica.

   Il terzo oggetto che abbiamo sistemato nel nostro metaforico zaino intellettuale coincide con il “tema del rapporto tra la Fede e la Ragione” e questo argomento, insieme agli altri due [la fondazione della “Scuola palatina” di Aquisgrana e l’edificazione della “Casa della saggezza” a Toledo], ci fa incontrare, ancora una volta, un personaggio insieme al quale, già dalla scorsa settimana, abbiamo preparato la partenza: questo personaggio abita nel “paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini” e porta in sé la sintesi dei tre oggetti, dei tre temi, utili per osservare, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, questo scenario: infatti è stato direttore della “Scuola palatina” alla corte di Carlo il Calvo, ha partecipato, molto probabilmente, a più di un convegno organizzato dalla “Scuola di Toledo” [nella “Casa della saggezza”, sconfinando clandestinamente] ed è stato, secondo la Storia della Filosofia, il primo dei pensatori del movimento della “Scolastica medioevale” ad affrontare con determinazione il “tema del rapporto tra la Fede e la Ragione”. Questo personaggio, come sapete, si chiama Giovanni Scoto Eriùgena e di lui e del suo pensiero sappiamo molte cose e degli argomenti che Giovanni Scoto Eriùgena ha trattato dobbiamo ancora servirci nel momento in cui ci stiamo avviando sulla strada che vogliamo percorrere.

   Sappiamo che Giovanni Scoto Eriùgena conosce bene il greco [dopo di lui nessuno lo parlerà più così correttamente in occidente fino al XIII secolo] tanto da poter tradurre in latino il testo della Fonte della conoscenza di Giovanni Damasceno e il testo del Dionigi l’Areopagita [due opere che abbiamo incontrato e studiato nelle loro linee generali durante il viaggio precedente]. Nel tradurre queste due opere [ricche di citazioni provenienti dai “Dialoghi” di Platone, dalla “Metafisica” di Aristotele, dalle “Enneadi” di Plotino e da “l’Isagoge” di Porfirio] Giovanni Scoto Eriùgena eredita il gusto per la conoscenza dei “grandi sistemi [a cominciare da quello di Proclo di Costantinopoli contenuto nell’opera intitolata “Dionigi Areopagita”]” con cui i Filosofi greci e i Padri della Chiesa hanno dato forma all’Universo [questi sistemi, in questi anni, li abbiamo osservati nella loro complessità]: si pensa e si crede [e anche Giovanni Scoto Eriùgena lo pensa e lo crede] che l’Universo sia il frutto del progetto di una mente ordinatrice [o quella divina di Dio o quella di un Ente intelligente e necessario], ed è sulla base di questa convinzione che emerge il tema del rapporto tra la Fede [il credere che l’Universo, l’Essere, sia il frutto di un progetto di una mente ordinatrice] e la Ragione [il pensare che questo progetto si possa e si debba descrivere per dare un senso alla vita, per dare un’essenza all’esistenza] … 

   Per Giovanni Scoto Eriùgena, come abbiamo studiato la scorsa settimana, la Fede e la Ragione, in quanto create dalla stessa Persona [da Dio], non possono essere considerate in antitesi tra loro ma, in realtà, si rafforzano a vicenda perché l’autorità della Fede conferma la Ragione e, a sua volta, la facoltà della Ragione chiarisce il contenuto della Fede e, di conseguenza, se ne deduce che il primo posto spetta alla Ragione che, al contrario della Fede, ha la possibilità di basarsi su se stessa ed è conscia del proprio raggio d’azione e dei propri limiti. Questa riflessione di Giovanni Scoto Eriùgena sul rapporto tra Fede e Ragione [considerata riprovevole e condannata da due Sinodi] fa pendere il piatto della bilancia, sebbene appena un po’, dalla parte della Ragione e costituisce il primo passo sul territorio della Scolastica.

   Da questa riflessione dipende il fatto che la Filosofia [la Ragione] e la Teologia [la Fede] sono due discipline interdipendenti nel disegnare il quadro dinamico dell’Universo e Giovanni Scoto Eriùgena agisce [a suo rischio e pericolo] di conseguenza e, tra l’862 e l’866, scrive la sua opera principale intitolata De divisione naturae [La divisione della natura] e quest’opera [che abbiamo già osservato alla fine del maggio scorso e che rappresenta il primo testo della biblioteca della Scolastica] consiste in una descrizione sistematica dell’Universo a partire dall’idea [mutuata dal pensiero del filosofo neoplatonico Proclo di Costantinopoli contenuto nei testi del “Dionigi Areopagita”] che tutto il Cosmo si muova con un duplice movimento, discendente ed ascendente, il cui punto di partenza e di arrivo è Dio [secondo la concezione che Tutto è emanato dall’Uno e Tutto ritorna all’Uno] e questo movimento a spirale, discendente e ascendente, determina il formarsi di una “sfera infinita” [la forma per eccellenza].

   Per Giovanni Scoto Eriùgena la Natura – cioè l’intera Realtà universale, l’Essere – si distingue in quattro forme che lui chiama a sua volta “nature”.

   La prima natura la chiama “non creata ma creante” ed è Dio Padre: una “natura” senza principio e senza causa appunto perché non creata, e in quanto creante è principio di tutte le cose, e la sua essenza è assolutamente incomprensibile e ineffabile [se ne può solo intuire l’esistenza mediante la “inconoscenza”, attraverso un procedimento intuitivo], e, proprio perché è al di sopra di ogni comprensione, di questa “natura” si deve parlare come di una “super-essenza”. Dio, come l’Uno di Plotino, non può che stare al di là delle categorie, e per esprimere questo “aldilà”, scrive Giovanni Scoto Eriùgena, si può utilizzare unicamente il termine latino “super” per cui di Dio si può dire esclusivamente che è “superessenziale”, e il termine “super”, da questo momento, cessa di essere una semplice preposizione che significa “sopra” per diventare un vero e proprio concetto filosofico [il primo concetto di carattere scolastico] che sta ad indicare non una posizione ma una particolare “qualità”. Giovanni Scoto Eriùgena sviluppa per un verso la “teologia negativa [di Dio possiamo dire solo ciò che non è]” e scrive, parafrasando il Dionigi Areopagita, che “Dio non lo si conosce, lo si avverte”, ma poi sente anche l’esigenza, dettata dalla Ragione, di impostare in senso positivo la riflessione teologica, per cui, secondo lui [e questo è un altro passo sul territorio della Scolastica], gli attributi con cui si designano le creature – quelli derivanti dalle idee virtuose [le tre principali idee platoniche] di Bontà, di Giustizia e di Bellezza – possono essere usati per parlare della Natura di Dio a condizione che siano elevati “al massimo grado di qualità” applicando loro il suffisso “super”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è qualche cosa che è per voi oggi “superessenziale”?... E di che cosa pretendete la “massima qualità”?...  

Bastano [sono essenziali] due parole per rispondere, scrivetele...

 

   Quelle che stiamo dicendo sembrano essere cose lontane o addirittura fuori dal tempo ma il primo passo sul territorio della Scolastica ci fa riflettere sulla nostra arretratezza: è mai possibile che dal punto di vista della “qualità della vita” – anche per noi che viviamo in quello che chiamiamo il “mondo ricco” – siamo ancora così arretrati? Non solo ma, per quanto riguarda l’ambiente, per esempio [l’equilibrio del pianeta, il rispetto della Natura], sotto certi aspetti, siamo riusciti a peggiorarne la qualità perché il termine “super” lo abbiamo saputo, o voluto, interpretare solo in termini quantitativi con una valenza speculativa [lucrosa, affaristica, facendo prevalere la perfidia, l’abuso e l’abiezione] e solo di fronte alle contraddizioni più evidenti abbiamo aperto una discussione nella quale – nonostante il tema sia, con Giovanni Scoto Eriùgena, all’ordine del giorno dall’866 – continua a non emergere il valore specifico ed essenziale del termine “super”, un termine che si qualifica soltanto, che ha un senso soltanto quando diventa il sostanziale presupposto per l’applicazione delle idee virtuose [platoniche] di Bontà, di Giustizia e di Bellezza: tutte le volte che usiamo il termine “super” al di fuori di questo contesto [etico] siamo, afferma Giovanni Scoto Eriùgena, in pericolo. Tutte le volte che il termine “super” – visto che le parole sono cose – è stato e viene utilizzato fuori da questo schema, al di fuori della logica delle idee di Bontà, di Giustizia e di Bellezza [al di fuori dell’etica], perde la sua “essenzialità” e rischia di produrre situazioni difettose, corrotte, dannose, svantaggiose, inadeguate, con pessime ricadute sul terreno sociale [il neoliberismo economico si è subito appropriato - fin dal Medioevo - del termine “super” e ne ha fatto scempio perché lo ha legato alla quantità e non alla qualità]. Il primo passo sul territorio della Scolastica ci fa capire, quindi, tutta la nostra arretratezza culturale in relazione alla riflessione sulla “qualità della vita” e difatti stiamo mettendo in discussione il concetto di “progresso” e di “crescita” continuando, però, a rimanere molto in superficie.

   Ma continuiamo ad osservare come Giovanni Scoto Eriùgena descrive sistematicamente la Realtà universale che, secondo lui, si distingue in quattro forme che chiama a sua volta “nature”, e abbiamo osservato la prima di queste “nature ”[non creata ma creante].

   Giovanni Scoto Eriùgena chiama “creata e creante” la seconda natura della Realtà universale perché Dio Padre crea il Verbum [il Pensiero e la Parola divina, in greco il Logos] che s’incarna nella persona di Gesù Cristo [la seconda persona della Trinità] e contemporaneamente crea lo Spirito Santo [terza persona della Trinità che lega il Padre con il Figlio]. Il Verbum [o il Logos] contiene gli archetipi, le idee eterne di tutte le cose, attraverso le quali Dio Padre si manifesta, e lo Spirito Santo è lo strumento della creazione perché infonde le idee nella mente delle persone chiamate ad animare il mondo. Giovanni Scoto Eriùgena comincia a porre uno dei temi più importanti della Scolastica quello della natura delle idee universali: secondo lui le idee universali sono “ante rem” esistono “prima delle cose”, e su questo tema [il tema degli Universali] avremo da riflettere ampiamente strada facendo. Giovanni Scoto Eriùgena riprende l’idea di Origene secondo cui, alla luce della Ragione, Gesù Cristo – in quanto creatura di Dio – appartiene ad una categoria divina inferiore rispetto a quella del Padre [mentre Dio Padre è autotheos, senza principio e senza causa, Gesù Cristo è un deuteros-theos, un dio di seconda categoria che non può essere “della stessa sostanza del Padre, omoousios”, ma può solo assomigliare al Padre, omoiousios] e di fronte a questa affermazione il papa Niccolò I intenta un processo contro Giovanni Scoto Eriùgena [che era già stato condannato da due Sinodi] dichiarandolo eretico; per fortuna Carlo il Calvo, il re del territorio tedesco del Sacro romano impero, il quale [in questo momento] non è in buoni rapporti con il papa, lo protegge ma non tanto per ragioni culturali ma solo per ripicca nei confronti del papato.

   La terza natura della Realtà universale viene chiamata da Giovanni Scoto Eriùgena “natura creata e non creante”, ed è il mondo [di cui facciamo parte anche noi] che comprende tutte le cose sensibili e non sensibili.

   La quarta natura viene chiamata da Giovanni Scoto Eriùgena “non creata e non creante” ed è ancora Dio come fine ultimo al quale tendono tutte le cose del mondo: le cose, ponendo termine al loro divenire, si placano finalmente in Dio.

   Siccome le quattro “nature” si presentano come quattro aspetti dell’unica Natura divina, e avendo tutto il ciclo inizio e fine in Dio, ogni cosa creata, ragiona Giovanni Scoto Eriùgena, è una “teofania” cioè è una “manifestazione di Dio” e questa affermazione risulta di carattere “panteistico” come se Dio creatore s’identificasse con la sua creazione perdendo il necessario privilegio di essere trascendente come vuole la dottrina ufficiale della Chiesa. Temendo un nuovo processo per eresia Giovanni Scoto Eriùgena conia una definizione per giustificare il proprio ragionamento e afferma che «Dio è infinitamente più perfetto delle sue creature e pertanto tutto il mondo è in Dio, ma Dio non è nel mondo» ma, nonostante questa significativa formula, non sfugge alla condanna.

   Giovanni Scoto Eriùgena poi definisce le caratteristiche dell’essere umano e scrive che «la persona riunisce in sé tutte le creature perché intende come un angelo, ragiona con il proprio intelletto, sente come un animale e vive come un germe» e in questo senso, conclude Giovanni Scoto Eriùgena, se ragioniamo dobbiamo affermare che «gli esseri umani sono superiori agli angeli perché questi mancano della vita vegetativa e sensitiva» e questo ragionamento, in odore di eresia, costituisce l’inizio di una riflessione che porterà [tra circa sei secoli, oltre il Medioevo] a collocare l’essere umano al centro dell’Universo.

   Poi Giovanni Scoto Eriùgena affronta il tema del “male” e, sulla scia del pensiero di Agostino di Ippona, identifica il “male” come se fosse un “puro non essere” perché Dio, l’Essere clemente e misericordioso per eccellenza, non può essere origine del male ma lo ignora addirittura e, di conseguenza, questa affermazione porterebbe a negare l’esistenza del peccato originale e, quindi, la dannazione. Naturalmente Giovanni Scoto Eriùgena si rende conto di questa discrepanza con la dottrina ufficiale e allora dichiara che «l’espressione suprema del male è il peccato, e del peccato, appunto perché Dio lo ignora, è responsabile la libera volontà dell’essere umano che liberamente si è allontanata da Dio [il peccato è in itinere non in origine]». Leggiamo un frammento tratto dal trattato De divina praedestinatione [La predestinazione divina] di Giovanni Scoto Eriùgena sul rapporto emblematico tra l’onniscienza divina e la libertà umana [un altro tema che il movimento della Scolastica affronterà con ardore polemico] e, anche in questo caso – pure per il modo ironico in cui Giovanni affronta questo tema – si mette nei guai, e scrive: «Alcuni sono convinti che Dio, volendo, in quanto onnipotente, potrebbe fare in modo che gli umani non commettano più peccati. Ma poi, ci dobbiamo domandare, che valore avrebbe una vita portata a termine senza peccati se non ci fosse la possibilità di farli e di non farli?  Se Dio garantisce la libertà dobbiamo ammettere anche l’esistenza della libertà di peccare perché non avrebbe senso proibire una cosa che non si può commettere».

   C’è da dire che, come sempre succede nella complessa Storia della Chiesa, certe prese di posizione considerate eretiche [la parola greca “haìresis” significa “la capacità di scegliere”] da una parte vengono condannate [dai papi, dai sinodi, dai tribunali ecclesiastici] mentre per altre vie entrano nell’area dell’ortodossia magari attraverso lo strumento della liturgia per cui quando, negli stessi anni in cui Giovanni Scoto Eriùgena sta componendo il De divisione naturae, Rabano Mauro, arcivescovo di Magonza [discepolo di Alcuino, studente alla Scuola di Tours, pellegrino a Gerusalemme, invitato ai convegni della Scuola di Toledo, teologo, enciclopedista, poeta e musico] compone l’inno intitolato Veni Creator Spiritus [Vieni Spirito creatore], che tuttora si canta in occasione del conferimento degli incarichi ecclesiali [dell’amministrazione dei sacramenti] dalla cresima fino all’elezione del papa: Rabano Mauro illustra già nei versi della prima strofa di questo inno fondamentale – «Veni Creator Spiritus, mentes tuorum visita, imple supérna gràtia, quae tu creàsti péctora [Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato]» – l’immagine della “natura creata e creante” secondo il sistema con cui Giovanni Scoto Eriùgena descrive l’Universo per esaltare lo Spirito Santo come strumento della creazione che infonde le idee nella mente delle persone chiamate ad animare il mondo.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – la produzione, la realizzazione, l’esecuzione, la costruzione, l’ideazione, l’invenzione – mettereste per prima accanto al termine “creazione”?...

Scrivetela...

 

   Giovanni Scoto Eriùgena sottopone il sistema della dottrina e l’autorità della Fede al vaglio della Ragione ed è chiaro che questa è una scelta molto pericolosa perché hanno cominciato a funzionare “tribunali ecclesiastici” molto severi nella difesa dell’ortodossia e nel catalogo dell’ortodossia cristiana risalta in primo luogo la proposizione con la quale si dichiara che “la Fede prevale sulla Ragione” e, quindi, chi mette in dubbio questa affermazione viene perseguito.

   E il verbo “perseguire”, adesso, diventa per noi un richiamo in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Sapete che noi abbiamo tre compagni di viaggio che si chiamano Millemosche, Pannocchia e Carestia; ebbene, loro come la pensano in proposito: ritengono che “la Fede sovrasti la Ragione” o che “la Ragione prevalga sulla Fede”? Quando bisogna rispondere a questa domanda mentre si è attanagliati dalla fame, a pancia vuota, diventa difficile rispondere con coerenza: è più facile credere ai miracoli anche se è improbabile che certi miracoli possano avvenire.

   Prima di assumere la nostra settimanale razione di Storie dell’anno Mille, il libro di Tonino Guerra e Luigi Malerba del quale abbiamo già letto una serie di racconti, dobbiamo conoscerli un po’ meglio questi due autori.

   Nel testo del romanzo Storie dell’anno Mille, scritto a quattro mani da Tonino Guerra e Luigi Malerba, sarebbe difficile distinguere le invenzioni che spettano all’uno e quelle che sono dell’altro. Se vogliamo fare delle ipotesi si potrebbe dire che l’attitudine all’astrazione grottesca e alla logica del nonsenso sembra derivare dalle pagine dei libri di Luigi Malerba come La scoperta dell’alfabeto e Salto mortale [due romanzi da leggere], mentre il senso irresistibile che il corpo è qualcosa che vive di per sé e può impadronirsi di noi rispecchiano un carattere tipico della narrativa di Tonino Guerra come avviene ne L’uomo parallelo [scritto con lo stile della favola] e ne L’equilibrio [altri due romanzi da leggere].

   Tonino Guerra è nato a Santarcangelo di Romagna, in provincia di Forlì, nel 1920 ed è morto all’inizio della primavera del 2012. Nel 1946 esordisce con la pubblicazione di tre libri di poesie in dialetto romagnolo: I scarabócc [Gli scarabocchi], segue la pubblicazione di una serie di racconti come La storia di Fortunato e Dopo i leoni, e poi comincia a lavorare nel mondo cinematografico [a scrivere per il cinema] dove il suo nome, nel giro di qualche anno, diventa noto a livello internazionale perché partecipa alla sceneggiatura dei film di Michelangelo Antonioni [L’avventura, L’eclisse, La notte, Deserto rosso, Blow up], e collabora con registi come De Sica, Rosi, Monicelli, Giraldi, Lattuada, i Fratelli Taviani, Bellocchio, Tarkovskij e, soprattutto, è il consulente privilegiato di Federico Fellini [pensate al film “Amarcord”].

   Luigi Malerba [si chiamava Luigi Bonardi] è nato nel 1927 a Berceto, in provincia di Parma [è morto nel maggio del 2008] e, dopo aver gestito un’azienda agricola ed essere stato direttore di una società pubblicitaria, è passato attraverso l’esperienza cinematografica scrivendo e dirigendo una serie di film: Il cappotto, La lupa, La spiaggia, Amore in città. Nel 1963 pubblica La scoperta dell’alfabeto e nel 1966 si aggiudica, con il romanzo Il serpente, il Premio Selezione Campiello. Nel 1970 per il romanzo Salto mortale [del 1968] riceve il Prix Médicis a Parigi.

   Luigi Malerba e Tonino Guerra hanno composto molte opere significative [e non mancherà l’occasione di osservarne ancora qualcuna strada facendo]. All’inizio degli anni ’70 Guerra e Malerba s’incontrano e decidono di lavorare insieme per promuovere [oltre che per divertirsi, come dicono loro] la “cultura poetica” e, tra le cose create, danno vita alle Storie dell’anno Mille.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il testo di “Storie dell’anno Mille” nasce come sceneggiatura per un film che è stato realizzato nel 1971 dal regista Franco Indovina con il contributo di validi attori e di maestranze qualificate: questo film – dal forte carattere sperimentale – è visibile in rete…

Le competenze acquisite in proposito rendono più fruibile la proiezione: buona visione...

 

Nel testo di Storie dell’anno Mille si ritrovano le caratteristiche letterarie comuni ad ambedue gli scrittori: la predilezione per la campagna, per il paesaggio emiliano e romagnolo, l’attenzione ai caratteri contadini, il gusto per l’avventura e la capacità di raccontare le storie più inverosimili in maniera del tutto concreta.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In cineteca trovate i film scritti da questi due personaggi, in biblioteca trovate i loro libri e sulla rete trovate molti siti a loro dedicati, visitateli...

Tonino Guerra nel 1990, a Pennabilli, in Val Marecchia, ha creato un museo a cielo aperto intitolato “I luoghi dell’anima: l’orto dei frutti dimenticati, un museo dei sapori utile a farci toccare il passato”... Se sulla rete mettete in ricerca “Tonino Guerra Pennabilli” potete conoscere e capire meglio di che cosa si tratta pensando che questo luogo [che vale la pena visitare] non è lontano da qui... Tonino Guerra scrive: «Le coordinate per arrivare all’orto dei frutti dimenticati sono: Terra, Europa, Italia, Marche, Pesaro Urbino, Montefeltro, Pennabilli, più facile di così!»

Fate visita al museo dei luoghi dell’anima e all’orto dei frutti dimenticati

 

   E adesso assumiamo la nostra settimanale razione di Storie dell’anno Mille. Ci siamo chieste e chiesti se Millemosche, Pannocchia e Carestia ritengano che “la Fede sovrasti la Ragione” o che “la Ragione prevalga sulla Fede”, ebbene, riflettere su questa questione è già difficile in condizioni normali, figuriamoci quando si ha fame, in questo caso è più facile credere ai miracoli anche se è improbabile che certi miracoli [o contro-miracoli] possano avvenire, ma una cosa però è certa: nel complicato rapporto tra la Fede e la Ragione – che si sia a pancia piena o a pancia vuota – spunta sempre per prima “l’anima” ad attirare l’attenzione su se stessa.

   Ora leggiamo, e poi rifletteremo su questa affermazione. Ci troviamo [come ricorderete] - insieme a Millemosche Pannocchia e Carestia - nel refettorio del convento di Fra Giudone eccetera ecceterone.

 

LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra  Luigi Malerba,  Storie dell’anno Mille

IL MIRACOLO DEL PORCO

Millemosche Pannocchia e Carestia si svegliano che sono ancora addormentati.

Fanno fatica a aprire gli occhi e anche la bocca il naso e tutto il resto. Finalmente si mettono in piedi e sono ancora nel refettorio. Annusano l’aria, si guardano attorno perché non ci credono e invece è proprio odore di salsicce di porco.

«Però è un odore vecchio».

«Mica tanto. Al massimo sarà di quattro o cinque giorni».

«A quest’ora se lo saranno mangiato tutto».

«Di che cosa stai parlando?».

«Del porco».

«Bisognerebbe sapere dove lo hanno preso. Forse ce n’è un altro».

«Fra Guidone fa i miracoli. Perché non gli chiediamo un porco anche noi?».

«Allora è meglio che lo chiediamo direttamente a Dio. Tanto Fra Guidone dipende da Dio anche lui».

«Io non so se si può parlare di porci con Dio».

... continua la lettura ...

 

   Il “tema dell’anima” è il primo a fare da corollario a quello del “rapporto tra la Fede e la Ragione e, difatti, è un argomento di vasta portata che emerge subito sul territorio che abbiamo appena incominciato ad attraversare [si pensi a quale uso ed abuso della parola “anima” si sta continuando a fare tutt’oggi senza domandarsi di che cosa si stia parlando]. E poi gli autori del racconto che abbiamo appena letto, pur con la solita aria burlesca, fanno sì che i nostri eroi [Millemosche Pannocchia e Carestia], piuttosto bricconcelli ma raziocinanti [Carestia è disposto a mangiarsi il corpo di Pannocchia apparentemente trasformato in porco e quindi disumanizzato perché il porco non ha l’anima, e poi Carestia dubita che un tipo come Pannocchia possa avere l’anima e se l’avesse, come sostiene Millemosche, questa rimarrebbe intatta garantendo a Pannocchia l’immortalità], riflettano come se si muovessero dentro ad un Universo che corrisponde al sistema delle “quattro nature [increata e creante, creata e creante, creata e non creante, increata e increante]” disegnato da Giovanni Scoto Eriùgena che abbiamo descritto poc’anzi: il sistema delle “quattro nature”– con il quale la Scolastica alle sue origini disegna la forma dell’Universo – sembra complicato ma rispetto al modo con cui descrive il funzionamento della Realtà universale la filosofia tardo-neoplatonica [secondo la visione di Proclo di Costantinopoli contenuta nel “Dionigi Areopagita” che tra poco riosserveremo] risulta assai semplificato senza tuttavia perdere alcun elemento fondamentale.

   Questo sistema “scolastico-medioevale [delle “quattro nature”]” – che emerge in filigrana in tutti i racconti di Storie dell’anno Mille – è ancora fortemente radicato nella nostra mente, e lo è nelle sue quattro componenti fondamentali che corrispondono alle parole-chiave: Dio, il Mondo creato, l’Essere umano, l’Anima. Queste quattro parole-chiave [Dio, Mondo, Essere umano e Anima], che costituiscono il perimetro all’interno del quale si va formando l’immagine dell’Universo “medioevale”, spiccano nel “paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini”: e noi ora siamo di fronte a questo variegato scenario e dobbiamo cominciare ad osservarlo con attenzione, procedendo con ordine.

   Il movimento intellettuale [e filosofico] della Scolastica nasce, come sappiamo, verso la fine del VII secolo e dura fino alla metà del 1400 passando attraverso tre fasi successive: l’origine e lo sviluppo [che dura fino alla fine del XII secolo], l’apogeo [che dura per tutto il XIII secolo] e la lenta decadenza [che ha inizio dal XIV secolo].

   Il tema che domina il percorso della Scolastica è, come sappiamo, quello del “rapporto tra la Fede e la Ragione”. Sulle soluzioni da dare ai problemi che questo tema suscita, a cominciare da quello dell’idea dell’anima immortale, è nato un dibattito assai vivace sulla scia del quale sono aumentate non tanto le certezze [che continueranno ad essere messe in discussione] ma si sono moltiplicati gli interrogativi di natura esistenziale, e questo dipende dal fatto che il tema del “rapporto tra la Fede e la Ragione” si misura con una serie di paradossi [di contraddizioni, di aporie] che stimolano la ricerca e promuovono l’azione dell’investimento in intelligenza [per questo la Scolastica è stato un significativo movimento culturale che ha lasciato un’impronta indelebile nella Storia del Pensiero Umano].

   Il primo [e più rilevante] paradosso su cui dobbiamo riflettere – legato al tema del “rapporto tra la Fede e la Ragione” – consiste in questo: siccome  il movimento della Scolastica nasce e si sviluppa nel momento in cui sull’Ecumene carolingia [nello spazio europeo del Sacro romano impero, dal IX secolo] la Cristianità ha preso definitivamente il sopravvento, imponendo, con l’apporto determinante del Neoplatonismo, la propria ideologia, succede che, in teoria, il fine della Scolastica – che dichiara di essere una “filosofia cristiana” – non è [apparentemente] quello di scoprire la “verità” perché questa è già stata rivelata da Dio e la Chiesa, attraverso una serie di concilî [a partire da quello di Nicea del 325], ha già dato descrizione di questa “verità” elaborando una “dottrina”; quindi, lo scopo del movimento filosofico della Scolastica è ufficialmente quello di chiarire e interpretare la verità stessa in quanto “verità già data”. Ma come si può pensare che chi riflette per “chiarire” e “interpretare” la verità utilizzando lo strumento della “ragione” non si domandi se questa “verità predicata” sia davvero la Verità autentica [la Verità con la V maiuscola]?

   Comunque, questa “verità già data” – raccolta nel perimetro dell’ortodossia – ha una sua identità che si basa [d’autorità] su tre presupposti: su “Dio”, unico e personale, autore del mondo, principio e fine di ogni cosa, su “l’Essere umano”, composto di corpo corruttibile e di anima immortale e sul “Mondo”, creato da Dio ma da Lui separato, e questa formulazione della “verità” costituisce il contenuto della Fede, che è per definizione un dono di Dio. Tutti i pensatori della Scolastica sono persone che dichiarano di avere Fede ma, essendo intellettuali, pensano anche che le “forme” della Fede, cioè le proposizioni con le quali vengono formulati i dogmi [e ce lo ha ben spiegato Giovanni Scoto Eriùgena questo concetto], non si sarebbero potute codificare senza il linguaggio della Ragione umana che è, come la Fede, un altrettanto importante dono di Dio e, di conseguenza, chi può fermare la Ragione quando, con la sua dialettica, fa da supporto alla sete di conoscenza che spinge la persona a mettersi in ricerca?

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il sistema “medioevale” è ancora fortemente radicato nella nostra mente attraverso le sue quattro componenti fondamentali che corrispondono alle parole-chiave: Dio, Anima, Essere umano, Mondo creato…    

Quale di queste parole - Dio, Anima, Essere umano, Mondo creato – mettereste per prima...

Scrivetela...

 

   Dobbiamo domandarci: come fanno a stare insieme, legati ad un progetto comune, questi quattro concetti?

   Sappiamo che il messaggio originario del Cristianesimo si basa sulla “buona notizia [euanghelon, il vangelo] della risurrezione del corpo di Gesù”, mentre l’idea dell’anima immortale è un concetto che ha le sue radici nella cultura dei Libri dei Veda [della sapienza indiana] e questa idea [l’anima è una scintilla dell’Essere prigioniera del corpo che tende a tornare all’Essere], circa 2500 anni fa al tempo dell’Età assiale della Storia, si è sviluppata nell’Ellade e poi in tutto il bacino del Mediterraneo ha dato vita a un pensiero religioso e poetico basato sulle mitiche figure corrispondenti di Orfeo e di Dioniso. Secondo la “sapienza poetica orfico-dionisiaca ” [alla quale abbiamo dedicato molti viaggi negli ultimi tre decenni] il corpo [la materia, l’esistenza] è la prigione dell’anima [dello spirito, dell’Essenza] e quindi è bene che il corpo perisca e si dissolva in modo che l’anima possa riacquistare la propria libertà e, di conseguenza, se l’anima è immortale che bisogno c’è – come afferma il messaggio cristiano – di far risorgere il corpo che è il depositario di tutti i mali?

   Il concetto dell’anima immortale si è sviluppato con il progredire della cultura ellenistica [con le Scuole pitagoriche, epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche: le abbiamo frequentate tutte in questi anni] e il Cristianesimo delle origini, per comunicare il proprio messaggio di salvezza al mondo ellenistico, ha dovuto fare i conti con questa idea – a cominciare da Paolo di Tarso [dall’anno 51 con la Prima Lettera ai Tessalonicesi] – cercando la strada per far avvicinare il più possibile il concetto de “l’anima immortale” alla propria dottrina, pur sapendo che la notizia della risurrezione del corpo e l’idea dell’anima immortale sono due concetti in contraddizione.

   Sappiamo che ci vogliono circa quattro secoli perché il principio dell’anima immortale – attraverso l’opera intitolata Dionigi Areopagita – entri a pieno titolo [alla fine del V secolo] nella dottrina del Cristianesimo e, come molte e molti di voi sanno, ciò avviene con una prassi davvero insolita e anticonvenzionale perché l’opera intitolata Dionigi Areopagita è il frutto di una delle più straordinarie operazioni di “depistaggio ideologico” della Storia del Pensiero Umano e, quindi, questa iniziativa fa nascere, sulle soglie della Scolastica, un tormento nell’animo dei pensatori cristiani [i quali non sono inconsapevoli e si rendono conto di quello che è avvenuto] a cominciare da Agostino di Ippona.

   Come sono andate le cose, come si è potuto far convivere insieme due principi in contraddizione come quello dell’anima immortale e quello della resurrezione del corpo? Nel viaggio dello scorso anno scolastico abbiamo studiato la forma, le parole-chiave e le idee-cardine del Dionigi Areopagita: ho ripetuto spesso, dal dicembre scorso, che noi avremmo continuato ad incontrare questo Libro perché ha condizionato la Storia della Cultura medioevale e moderna e non si può prescindere dallo studio di quest’opera [sebbene a grandi linee e senza nascondere le difficoltà]. Come si è potuto far convivere insieme due principi in contraddizione come quello dell’anima immortale e quello della resurrezione del corpo? Per rispondere a questa domanda bisogna procedere con pazienza e con cautela: si tratta di uno dei temi intellettuali più importanti della Storia del Pensiero Umano.

   Il cosiddetto Corpus dionisiano [molte e molti di voi lo sanno già, ma altre persone lo vedono per la prima volta questo Libro] è formato da quattro trattati – Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini, Teologia mistica – e il suo autore dichiara di chiamarsi Dionigi, di essere un giudice ateniese, che, come si legge negli Atti degli Apostoli, al versetto 34 del capitolo 17, avrebbe seguito Paolo di Tarso dopo la sua conferenza, piuttosto fallimentare tenuta all’Areopago di Atene: quando i filosofi epicurei, stoici, scettici ed eclettici sentono dire da Paolo che Gesù è risorto con il corpo [“anastasis”, e “anastasia” in greco è la resurrezione] lo interrompono, ridacchiano, e tagliano corto dicendo: «Va bene, su questo punto ti sentiremo un’altra volta», e il testo degli Atti continua con queste parole: «Così Paolo si allontanò da loro. Alcuni però lo seguirono e credettero. Fra questi vi era anche un certo Dionigi, uno del consiglio dell’Areopago, una donna di nome Dàmaris e alcuni altri».

   Ma noi sappiamo che l’autore dei trattati del Dionigi Areopagita è il filosofo neoplatonico Proclo di Costantinopoli [412 circa - 485] il quale si serve di questo mitico personaggio che, ai suoi tempi [tra la stesura degli Atti degli Apostoli e l’Opera di Proclo c’è una distanza di quasi 400 anni], era già entrato nella leggenda: Dionigi sarebbe stato il “primo vescovo di Atene” e poi nientemeno che “vescovo di Parigi” dove sarebbe morto martire.

   L’intento di Proclo di Costantinopoli nel comporre i trattati del Dionigi Areopagita è quello di salvare le idee fondamentali della Filosofia neoplatonica perseguitata dagli imperatori bizantini che vogliono imporre a tutti i loro sudditi la “dottrina cristiana” in funzione della gestione del potere imperiale [vi ricordo che Giustiniano fa chiudere d’autorità nel 529 la Scuola di Atene, e i filosofi neoplatonici - lo scolara Damascio con un piccolo gruppo di studenti - fuggono in Persia con la biblioteca dell’Accademia, chiamata metaforicamente “la statua di Atena” e predisposta a suo tempo da Proclo di Costantinopoli]. Proclo di Costantinopoli decide di scrivere un’opera con la quale trasforma l’ideologia ortodossa del Cristianesimo in una corrente neoplatonica, e compie con grande sagacia intellettuale, costruendo un falso, una delle più straordinarie “imposture filologiche” che mai sia avvenuta nel corso della Storia del Pensiero Umano: il fatto è che questo “falso” è servito a salvaguardare il pensiero del Neoplatonismo ma, soprattutto, ha giovato allo sviluppo della “dottrina” del Cristianesimo. Proclo sa benissimo che senza la filosofia neoplatonica [senza un giustificato inserimento dell’idea dell’immortalità dell’anima] il Cristianesimo non potrebbe avere una “dottrina” degna di questo nome e, quindi, crea l’affinità tra i due apparati [tra Neoplatonismo e Cristianesimo] facendo compenetrare i due sistemi in modo che i concetti neoplatonici fondamentali [l’Uno-En, l’Intelletto-Nous e l’Anima del mondo-Psiche] siano determinanti, per cui Proclo confeziona un’opera squisitamente “neoplatonica” che abbia in sé tutte le caratteristiche dell’ortodossia “cristiana” facendo finta che sia stata scritta da un ipotetico autorevole personaggio di provata fede cristiana.

   I testi del Dionigi Areopagita sono così aderenti ai dettami dell’ortodossia cristiana che i filosofi della Scolastica [e li stiamo per incontrare] li considerano e fanno finta di considerarli [perché sono consapevoli dell’utilità dell’operazione compiuta da Proclo] come se fossero “autenticamente cristiani” e questo può avvenire inequivocabilmente in virtù dello “stile” che Proclo utilizza: uno stile che rafforza la “dottrina” contenuta nel testo degli Atti degli Apostoli che cataloga, per la prima volta, i principi [le parole-chiave dell’Epistolario di Paolo di Tarso] della dottrina cristiana.

   Sappiamo [lo sa Proclo, e lo sanno gli Scolastici] che il testo degli Atti degli Apostoli è quello di un “catechismo [quest’opera è il primo catechismo della Chiesa di Roma, non è un testo storico ma apologetico]” e lo “stile catechetico” è prettamente metaforico [gli avvenimenti storici vengono allegoricamente addomesticati in funzione del loro valore educativo, in funzione pastorale]. Proclo e gli Scolastici sanno che il testo degli Atti viene redatto dalla “Scuola ellenistica Clementina” diretta dal primo papa storico, Clemente Romano, all’inizio del II secolo [e conosciamo bene questo papa, e la storia della stesura di quest’opera straordinaria]. Il finale del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli è strategico dal punto di vista della metafora dottrinale e i nomi [quello di Dionigi e quello di Dàmaris] delle due persone che si convertono dopo il discorso [assolutamente improbabile] di Paolo di Tarso all’Areopago sono allegorici [hanno un significato catechetico, dottrinale, in funzione pastorale]: infatti con il nome “Dionigi [Dionisios]” – secondo l’intento di papa Clemente Romano [il quale sa quanta importanza abbia la cultura greca per la trasmissione del messaggio evangelico] – si vuole creare, sulla parola di Paolo, un nesso con la figura di Dioniso e con la tradizione orfico-dionisiaca da utilizzare come veicolo per portare la “buona notizia della resurrezione di Gesù” ai pagani. Infatti Clemente Romano [e anche gli altri due Padri Apostolici, Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne] capisce che la figura di Cristo potrà imporsi se si sovrapporrà, soprattutto nelle campagne [nei pagi], alla figura di Dioniso.

   Se il Cristianesimo vuole diffondersi deve darsi una solida base culturale di carattere ellenistico [ed è questa, dal 51, la strategia di Paolo di Tarso] e, quindi, nel costruire la sua “dottrina” la Chiesa deve tenere conto soprattutto del concetto orfico-dionisiaco dell’immortalità dell’anima oltre che basarsi sulla buona notizia della resurrezione del corpo di Gesù perché, per i pagani di cultura orfico-dionisiaca, il “corpo” è considerato la prigione dell’anima e, quindi, è bene che si decomponga e che non risorga, e questo ostacolo il Cristianesimo lo deve superare: deve recuperare il concetto dell’anima immortale. Ed è proprio in questa prospettiva – nell’azione di recupero del valore dell’anima immortale [secondo la dottrina orfica contenuta nei Dialoghi di Platone] – che nasce la pagina [capitolo 17 versetti 16-34] degli Atti degli Apostoli dove si racconta che ad Atene Paolo persuade “un certo Dionigi [Diòniso]” insieme ad una donna che si chiama “Dàmaris”.

   Questi due nomi, mediante un intreccio filologico concepito secondo lo “stile allegorico”, danno vita ad una significativa metafora di carattere dottrinale, infatti, il nome “Dàmaris” deriva dal verbo greco “dàmazo” che significa “seguire una nuova via, intraprendere una nuova strada”, e la “metafora dottrinale” che scaturisce dall’incontro dei due nomi [Diònisos e Dàmaris] significa che: “la nuova via da seguire [Dàmaris] è quella dell’anima [Diònisos]” e se Paolo [che è l’emblema della Chiesa di Roma] vuole essere ascoltato sul tema della resurrezione del corpo deve fare proprio anche l’argomento dell’immortalità dell’anima perché la figura di Diòniso [evocata allegoricamente con il nome di Dionigi che all’Areopago si mette al seguito di Paolo] è più affine a Cristo di quanto i filosofi ateniesi che, con la loro prosopopea canzonano Paolo, possano pensare.

   Tutti i filosofi della Scolastica [a cominciare da Agostino di Ippona], quindi, assecondano la [falsa] credenza che il Dionigi Areopagita sia un’opera composta da quel metaforico personaggio [il Dionigi dell’Areopago] consapevoli che questi trattati – con il loro stile impeccabile di stampo neoplatonico impresso loro dalla scrittura di Proclo – fanno diventare, alla fine, la dottrina del Cristianesimo la depositaria dell’idea dell’immortalità dell’anima relegando la cultura orfico-dionisiaca in secondo piano.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a leggere [o a rileggere] – alla luce della riflessione che abbiamo fatto – il testo del capitolo 17 degli “Atti degli Apostoli” dal versetto 16 al versetto 34

La Chiesa abbaziale di Saint Denis [San Dionigi] è un famoso edificio gotico, situato nell’omonimo comune della periferia di Parigi San Dionigi [e questa figura viene miticamente fatta risalire a Dionigi Areopagita con delle evidenti forzature di carattere allegorico e apologetico] è il patrono di Francia e, secondo la leggenda, è stato il primo vescovo di Parigi, morto martire insieme ai suoi compagni, il prete Eleuterio e il diacono Rustico

San Dionigi avrebbe portato la propria testa, dopo la decapitazione avvenuta nell'Île de la Cité, da Montmartre [che vuol dire appunto "Monte del martirio"] a Saint Denis

Con la guida di Parigi e navigando in rete fate una visita alla Basilica di Saint Denis [di San Dionigi] per scoprire – attraverso la scrittura e le immagini – quanti oggetti artistici e quanti reperti storici contiene questo importante edificio

 

   Abbiamo lasciato Millemosche e Carestia alle prese con un porco che pensano sia Pannocchia, mentre invece Pannocchia ha solo perso i sensi ed è rimasto tramortito e non li ha potuti seguire. Millemosche e Carestia credono che Pannocchia sia stato trasformato in maiale per miracolo da un Dio che risulterebbe poco misericordioso se così fosse e, difatti, più che di un miracolo si tratta di un “contro-miracolo”. Ma non ci resta che leggere.

 

LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra  Luigi Malerba,  Storie dell’anno Mille

IL CONTROMIRACOLO

Millemosche e Carestia spingono il porco verso una scaletta di pietra che porta dove sono le celle. Poi uno per le orecchie e l’altro per la coda lo tirano su gradino per gradino e lo fanno entrare dentro la prima porta che trovano. E lì continuano la discussione sul porco che si è accovacciato in un angolo e li guarda con gli occhietti rossi. Carestia corre da qualche parte a cercare un coltello o un altro arnese qualsiasi basta che abbia una lama e possibilmente anche un manico, mentre Millemosche si siede a terra vicino al porco e lo guarda in faccia come si guarda una persona umana. Gli occhi del porco gli sembrano quelli di Pannocchia e anche le orecchie e anche il muso è quasi uguale. Il naso un po’ meno con quei due buchi tondi uno vicino all’altro. Poi il porco fa un grugnito e a Millemosche gli sembra proprio di avere sentito la voce di Pannocchia. Carestia gli mette in mano un coltello.

... continua la lettura ...

 

   Noi, invece, non possiamo perderci tra i cespugli perché dobbiamo procedere sul nostro cammino.

   Abbiamo osservato come Giovanni Scoto Eriùgena, nella sua opera intitolata De divisione naturae, abbia disegnato la forma dell’Universo: una forma che ha determinato l’immagine della Realtà [le quattro nature dell’Essere] per tutto il tempo della Scolastica [per più di cinquecento anni], un’immagine che tuttora, in modo indelebile, rimane impressa nella nostra mente [e la maggior parte delle persone non ha la consapevolezza intellettuale dell’origine di questa immagine].

   Ora, per completare la nostra complessa riflessione, dobbiamo osservare [e ricordare] come Proclo di Costantinopoli abbia disegnato, in chiave neoplatonica nei testi del Dionigi Areopagita, la forma dell’Universo, e ci dobbiamo occupare di questo tema assai macchinoso per capire come Proclo [utilizzando la logica di Aristotele interpretata attraverso il pensiero di Platone secondo l’impianto delle “Enneadi” di Plotino] abbia saputo, attraverso il sistema che ha costruito, far conciliare l’idea dell’anima immortale con quella della risurrezione del corpo.

   Proclo di Costantinopoli nei Trattati del Dionigi Areopagita descrive, nei minimi particolari, come si configura la struttura gerarchica dell’Essere [come è fatta la Realtà universale]: per lui sopra tutto c’è l’Uno [e l’Uno è “la suprema sintesi alla quale si possa risalire con l’Intelletto” così come è scritto nelle “Enneadi” di Plotino, l’opera neoplatonica per eccellenza] ma naturalmente maschera questo concetto laico dando all’Uno [in greco “En”] una natura divina, chiamandolo “Dio [Thèon]”: questo è un compromesso solo filologico perché per Proclo l’Uno continua ad essere il supremo Pensiero che trascende tutto, anche Dio, ed è la fonte da cui sgorga tutta la realtà. L’Uno, scrive Proclo, fa scaturire la realtà del Cosmo [il Molteplice] emanando [così come dalla nostra mente scaturiscono le Idee e hanno origine i pensieri] una serie continua di Unità supreme [di Elementi divini], responsabili dell’ordine provvidenziale del mondo, che Proclo chiama Enadi [manifestazioni dell’Uno]; ogni Enade è Dio [Ogni Dio - scrive Proclo - è un’Enade in sé perfetta, e ogni Enade in sé perfetta è Dio] perché l’Essere ha una natura trascendente [è Trascendenza], e ogni Enade è Intelletto [Noùs] perché l’Essere ha una natura intellettuale [è Pensiero, Logòs], e ogni Enade è Anima [Psiche] perché l’Essere ha una natura mistica [è Spirito, Pneuma].

   Quindi, in principio, dall’Uno scaturisce una triade suprema: Dio-Intelletto-Anima [e Proclo preserva la visione neoplatonica della realtà, con l’Uno al vertice, perché anche Dio scaturisce dall’Uno], e l’Uno emana le Enadi per triadi, emette tre Enadi per volta, in rapporto logico [dialettico] tra loro.

   Dalla triade suprema, Dio-Intelletto-Anima, scaturiscono tre prime Enadi che formano la triade Potenza-Sapienza-Intelligenza [che corrisponde anche a Padre-Figlio-Spirito Santo] da cui fluiscono altre tre Enadi, Buono-Bello-Giusto, da cui sgorgano altre tre Enadi, Infinito-Molteplice-Composito e così via in una serie lunghissima e sistematica di emanazioni perché, da ogni Enade presente nella triade, nasce una nuova triade.

   E qual è il posto e il destino dell’essere umano in questo complesso sistema? Secondo la logica della struttura gerarchica dell’Essere [secondo Proclo] ogni persona acquisisce la propria salvezza in comunione con la triade che dà un senso alla sua vita, [noi dipendiamo da una triade, scrive Proclo] formata da tre Enadi: “[noi siamo] Essere divino [perché la persona è a immagine e somiglianza del Padre] - [noi siamo] Esistenza corporea [perché la persona ha lo stesso Corpo di Gesù Cristo, del Figlio, destinato a risorgere] - [noi siamo] Essenza spirituale [perché la persona è dotata di un’anima immortale, scintilla dello Spirito Santo]”; ebbene, se è così [se la sostanza dell’essere umano corrisponde a quella di queste tre Enadi], vuol dire che, nell’essenziale unità di questa triade, “il corpo risorto e l’anima immortale” rappresentano lo stesso attributo, uno degli attributi della perfezione [téleion] divina e, quindi, i due concetti contrapposti dell’immortalità dell’anima [l’Essenza spirituale] e della resurrezione del corpo [l’Esistenza corporea] si compenetrano perfettamente in virtù del concetto neoplatonico dell’Uno [della Suprema Sintesi.

   E tutto il sistema della generazione delle cose [l’essenza della Realtà] avviene [secondo Proclo] per mezzo di una discesa a spirale mediante una armonica rotazione [una processione] circolare che tende a dar forma ad una “sfera infinita” [un tema che prossimamente, strada facendo, incontreremo].

   Da quale scelta intellettuale deriva la costruzione di un sistema così complicato? Proclo [da buon mistico-intellettuale neoplatonico] non crede a un Dio che, con la bacchetta magica, crea dal nulla tutte le cose ma ipotizza l’esistenza di un Pensiero supremo [ò Logòs] dotato di una Intelligenza superiore [Noùs] capace di produrre Idee [e l’Idea, secondo Platone, è l’oggetto reale], e sono le Idee gli elementi costitutivi delle multiformi strutture del Cosmo.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – l’universo, lo spazio, il creato, o quale altra parola – preferite accostare per prima al termine “cosmo”?…

Scrivetela, basta una parola per sostenere il cosmo…

 

   Ci siamo avventurate ed avventurati sul terreno accidentato di questa riflessione perché dobbiamo capire il motivo per cui nel periodo della Scolastica alle sue origini [da Agostino di Ippona a Giovanni Scoto Eriùgena] compaiano così tanti trattati [decine e decine] sul tema dell’anima, ebbene, tutto l’itinerario di questa sera è servito per formulare questo interrogativo: come mai nel periodo della Scolastica alle sue origini compaiano così tanti trattati sul tema dell’anima?

   La dottrina cristiana [come abbiamo studiato] accetta definitivamente l’idea dell’anima immortale sulla scia [dell’ambiguità] del sofisticato esercizio intellettuale messo in atto da Proclo nel Dionigi Areopagita, ma “l’anima immortale” che Proclo presta al Cristianesimo è quella emanata dall’Uno di Plotino al quale Proclo ha messo una maschera da Dio, un Dio che non è, però, identificabile con Dio Padre perché il Dio biblico, con cui il Dio Padre cristiano s’identifica, non risulta essere, secondo la Scrittura, un “creatore di anime” perché questa sarebbe una contraddizione ed è, quindi, comprensibile che gli intellettuali scolastici sentano l’esigenza e si sforzino di dare un carattere prettamente “cristiano” ad un oggetto di natura orfico-dionisiaca e di struttura neoplatonica come è “l’anima”. Proclo ha reso compatibile – mediante il sofisticato e razionale “sistema triadico” – il concetto dell’anima immortale con la teologia ora, però, bisogna dare all’anima una “natura cristiana”, e questa risulta un’operazione piuttosto difficoltosa.

   Ed è per questo motivo che la prima ondata di opere che va ad arricchire la biblioteca che troviamo nel “paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini” è costituita da Trattati sull’anima: ne vengono scritti a decine e le studiose e gli studiosi di filologia hanno dovuto operare delle scelte in proposito. Le studiose e gli studiosi di filologia ritengono veramente significativi “sette trattati sull’anima” che sono stati tradotti in italiano [la loro lingua originale è il latino] e raccolti in un volume per la prima volta recentemente.

   I trattati sull’anima – i sette trattati considerati più significativi su questo tema: raccolti in un volume che potete consultare in biblioteca – sono stati scritti da vari autori in un periodo di tempo compreso tra l’esistenza di due grandi personaggi: Agostino di Ippona [morto nel 430] e Giovanni Scoto Eriùgena [morto intorno all’877], ed è questo lo spazio di tempo in cui entra in incubazione il pensiero che porta a far fiorire il movimento della Scolastica. Chi sono gli autori [alcuni sono personaggi di nostra conoscenza] e come s’intitolano i sette più importanti Trattati sull’anima che vanno ad arricchire la biblioteca della Scolastica alle sue origini? Facciamo l’inventario.

   Il primo trattato è di un autore anonimo chiamato Pseudo-Gerolamo e s’intitola Dialogo fra Gerolamo e Agostino sull’origine delle anime; il secondo trattato è di Cassiodoro di Squillace e s’intitola L’anima; il terzo trattato è di Alcuino di York e s’intitola Sulla natura dell’anima; il quarto trattato è di Rabano Mauro e s’intitola Trattato sull’anima; il quinto trattato è di Ratramno di Corbie e s’intitola L’anima; il sesto trattato è di Incmaro di Reims e s’intitola La differente e molteplice natura dell’anima e il settimo trattato è di Godescalco d’Orbais e s’intitola Questioni sull’anima.

   Questi autori – che si definiscono intellettuali cristiani – sanno accogliere l’eredità del mondo classico e la elaborano in maniera originale e nei testi di questi Trattati parlano dell’anima per parlare dell’essere umano posto di fronte ai temi dell’esistenza quotidiana. Questi autori si compiacciono di aver ereditato dalla filosofia neoplatonica l’idea della spiritualità e quella dell’immortalità dell’anima e vogliono tradurre queste idee in termini cristiani perché, mentre la resurrezione del corpo è una speranza proiettata dopo la morte [una morte che sembra riportare al nulla], la spiritualità e l’anima risultano essere due componenti della vita stessa che, nel presente, incidono positivamente sulla qualità dell’esistenza terrena. Non era [e non è] facile ragionare in termini cristiani sul tema dell’anima immortale [esiste una contraddizione in proposito] perché la dottrina sul peccato originale [inserita nel racconto della creazione] da una parte spiega l’esistenza del male e della morte ma dall’altra pone l’interrogativo su come avrebbe potuto il Creatore creare delle anime nuove viziate dal peccato d’origine! E, di conseguenza, l’anima diventa “cristiana” di nome ma non di fatto perché questo oggetto non riuscirà mai ad essere dotato di una “natura cristiana” sua propria ma continuerà ad essere “l’idea sublime” formulata nelle Enneadi di Plotino.

   Nei Trattati sull’anima c’è un filo conduttore che non è costituito dalle risposte date [sempre incerte e sempre dipendenti dalla cultura neoplatonica] ma dagli interrogativi che tutti gli autori si pongono: questo “patrimonio di interrogativi sull’anima” non solo è propedeutico per lo sviluppo della filosofia della Scolastica ma lo è anche per la nostra riflessione di persone contemporanee sempre alle prese con i problemi, non risolti, dell’esistenza umana e sempre in difficoltà a dare un’anima alle cose.

    E ora leggiamo il catalogo di questi interrogativi che tagliano trasversalmente i testi dei sette più importatati Trattati sull’anima: Perché l’anima si chiama così? Quante definizioni si possono dare dell’anima? Qual è la natura dell’anima? L’anima ha o non ha una forma? Quali sono le Virtù morali dell’anima: la prudenza, la fortezza, la giustizia, la temperanza? Qual è l’origine dell’anima? Qual è la sede dell’anima? In che rapporto sta il corpo rispetto all’anima? L’anima è lo strumento che serve per capire se le persone sono malvagie o sono buone? Qual è la sorte dell’anima dopo questa vita? La mente è fatta a immagine dell’anima? L’anima è più piccola nei bambini e più grande nelle persone più forti? L’anima è corporea? L’anima si muove localmente assieme al corpo o va per conto proprio? L’anima è una idea sublime [preziosa]?

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete questi quindici interrogativi e sceglietene almeno due: quelli ai quali pensate di poter dare la risposta che vi piace di più

 

   All’ultimo di questi interrogativi tutti gli autori dei Trattati sull’anima rispondono affermativamente: “l’anima è una idea sublime [preziosa]”, e noi ci associamo perché questa affermazione apre nuove prospettive ma questa è un’altra storia di cui ci dovremo occupare a suo tempo.

   E se l’avanzo di un pezzo di stoffa di frate fosse la metafora della sublimità [della preziosità] dell’anima della quale non ci si può e non ci si vuole liberare? A questa insidiosa domanda rispondono, per concludere, Millemosche Pannocchia e Carestia, e noi li seguiamo nella loro riflessione leggendo.

 

LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra  Luigi Malerba,  Storie dell’anno Mille

UN PEZZO DI STOFFA DI FRATE

Con una tonaca da frate si può fare, volendo, un vestito da cristiano. Prima di tutto si stacca il cappuccio e gli si fanno due buchi nel fondo e nei buchi si infilano le gambe. Cosi uno si trova che ha già le braghe. Poi si staccano le maniche che diventano le due gambe delle braghe. In ultimo si taglia a metà la tonaca e si gira attorno alle spalle come un mantello. Con il pezzo di stoffa avanzato si può fare quello che si vuole, delle strisce da legarsi intorno alla pancia se uno soffre il freddo alla pancia, un cappello se uno soffre il freddo alla testa, oppure un copriorecchie se uno soffre il freddo alle orecchie. O se no niente. E allora uno può vendere questo pezzo di stoffa se trova chi lo compra, oppure regalarlo a un poveraccio che passa per la strada. Se non passa nessun poveraccio allora questo pezzo di stoffa avanzato uno non sa più che cosa farne.

... continua la lettura ...

 

   I testi delle opere [classiche] – De divisione naturae, Dionigi Areopagita, Trattati sull’anima – che abbiamo tirato in ballo questa sera [e la Scuola deve sempre dire la verità in proposito] non si leggono facilmente ma questa constatazione, tuttavia, non significa che sia impossibile leggerli.

   Un percorso di Alfabetizzazione in funzione della didattica della lettura e della scrittura deve sfidare la presunta inaccessibilità dei testi classici per utilizzarne le potenzialità formali e in questo caso dalle potenzialità formali [dal modo con cui sono scritte] deriva uno stile – il cosiddetto “stile del trattato medioevale” – che gli autori di queste opere hanno, inconsapevolmente, saputo creare: gli autori del De divisione naturae, del Dionigi Areopagita, dei Trattati sull’anima sono scrittori che non si sono prodigati a raccontare delle storie ma hanno scritto cercando di “dare un nome alle cose”: che cosa significa “scrivere per dare un nome alle cose”?

   È un argomento che dobbiamo studiare, più che mai oggi, in una società in cui si sta perdendo sempre di più il senso delle parole, e, quindi, il nostro viaggio continua con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli che non dobbiamo mai perdere la volontà d’imparare, così come non è bene perdere un pezzo di stoffa di lana avanzato dalla tonaca di un frate: potrebbe sempre servire.

   La Scuola è qui, il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 24, 2014