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LO SGUARDO DI ERODOTO SU “LA VIRTÙ POLITICA” ...

Lezione N.: 
24

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2007       18 -  26-27   aprile  2007

LO SGUARDO DI ERODOTO 

SU  “LA VIRTÙ POLITICA” ...

     Da due settimane siamo sbarcati ad Atene: siamo approdati nel porto del Pireo con la nave Sidonia che, ben pilotata dal capitano Agenore di Tiro, ci sta virtualmente trasportando in questo Percorso di studio. In Atene, nell’Atene del V secolo a.C., – insieme ad Erodoto che ci accompagna in questo viaggio – ci stiamo rendendo conto di quante Scuole ci siano in questa città.

      Atene diventa davvero una metropoli, cioè la madre delle città dell’Ellade, proprio perché raccoglie in sé tante Scuole di pensiero con il loro patrimonio di parole-chiave e di idee-cardine. Nonostante la decadenza politica ed economica dell’Ellade, la metropoli di Atene riesce, grazie alle sue Scuole, a mantenere ancora a lungo il potere culturale. Insieme ad Erodoto (che si è sempre riconosciuto cittadino di questa metropoli, anche se non è nato qui e anche se di qui se ne dovrà andare), possiamo constatare che in questa città – nell’Atene del V secolo a.C. – hanno continuato a svilupparsi le idee-cardine e le parole-chiave codificate nelle Scuole più importanti che abbiamo incontrato nel nostro viaggiare per il bacino del Mediterraneo sulla scia del movimento della sapienza poetica orfica: siamo al 24° itinerario e dobbiamo cominciare a fare un bilancio.

     Ad Atene continuano a svilupparsi le idee-cardine e le parole-chiave delle Scuole di Talete, Anassimandro, Anassimene di Mileto, della Scuola di Pitagora di Crotone, della Scuola di Eraclito di Efeso, della Scuola di Senofane, di Parmenide, di Zenone, di Melisso di Elea, della Scuola di Anassagora di Agrigento, della Scuola di Democrito di Abdera: queste Scuole le abbiamo frequentate tutte, durante questo Percorso, e – ci ricorda Erodoto – ne abbiamo frequentato anche altre oltre a queste che abbiamo citato. Nelle sue Scuole, concentrate qui, la metropoli di Atene raccoglie tutta la cultura del movimento della sapienza poetica orfica e mette a disposizione questa cultura per lo sviluppo futuro della Storia del Pensiero Umano: per questo motivo Atene è Atene.

     Per inciso: l’affresco denominato La Scuola di Atene di Raffaello è la rappresentazione di tutte le Scuole elleniche (dallo Ionia alla Magna Grecia) che contribuiscono a creare il movimento della sapienza poetica orfica.

     Per questo motivo Atene è un punto d’attrazione per Paolo di Tarso, per la Scolastica medievale, per l’Umanesimo, per il Rinascimento, per l’Illuminismo, per il Romanticismo e per ciascuna e ciascuno di noi.

     Ma torniamo all’ultimo personaggio che abbiamo incontrato ad Atene la scorsa settimana: Democrito di Abdera, che, continuatore della Scuola atomistica di Leucippo, codifica il concetto di materialismo. A questo punto, il contrasto fondamentale, il contrasto dei contrasti, – che è stato messo a punto attraverso lo sviluppo del movimento della sapienza poetica orfica – entra in scena, sale sul palcoscenico della Storia del pensiero Umano e attraverso due grandi registi, Platone (che raccoglie in sé anche Socrate) e Aristotele, comincia a recitare la sua parte: qual è questo contrasto fondamentale? È il contrasto tra lo Spirito e la Materia. Ma bisogna stare attenti anche a come si formula il tema perché qualcuno potrebbe dire, in questo momento, che si tratta del contrasto tra la Materia e lo Spirito e non tra lo Spirito e la Materia: che differenza c’è? Non si può rispondere con una battuta: ci vuole un Percorso intero per definire queste differenze e ce ne occuperemo a suo tempo.

     Per ora denominiamo l’argomento come il contrasto tra lo Spirito e la Materia, e il tema che vede come protagonista lo sviluppo di questo contrasto tra lo Spirito e la Materia (uno dei grandi temi che abbiamo già incontrato sugli itinerari delle Lettere di Paolo di Tarso) si trova in un grande territorio attraversato da molti Percorsi che dobbiamo mettere in programma.

     Ma questo – giunti, oggi, al 24° itinerario – è tempo di bilanci e di progetti però non siamo ancora arrivati alla fine del Percorso di quest’anno scolastico.

    L’ultimo personaggio che abbiamo incontrato ad Atene, la scorsa settimana, è Democrito di Abdera il quale abbiamo detto codifica il concetto di materialismo. La volta precedente abbiamo incontrato Anassagora di Clazòmene che ci ha lasciato un frammento molto interessante: «Gli esseri umani diventano i più intelligenti dell’universo, essendo i soli ad avere le mani». Ecco due elementi – la materia e le mani – che, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, non lasciano indifferenti.

     Nella Atene del V secolo a.C. tra la Scuola di Anassagora e la Scuola di Democrito ci sono molte divergenze ma anche alcuni punti di contatto. Il punto di contatto che lascia il segno – soprattutto sul terreno dell’Arte – dipende proprio da questi due elementi: la materia e le mani. Quando, all’inizio dell’età moderna, nel 1500, si guarda all’Atene del V secolo a.C., uno dei motivi d’interesse per le/gli intellettuali e per le artiste e gli artisti rinascimentali è proprio il tema del rapporto tra la materia e le mani. La materia è diabolica oppure è stata santificata dalla divinità (dal fatto che il Verbo si è fatto carne)? La mani sono divine oppure possono essere usate come uno strumento diabolico? Noi dobbiamo rimandare la risposta (complessa) a queste domande perché esse trovano la loro collocazione nel territorio dell’età moderna e le incontreremo, a suo tempo, sui Percorsi medioevali e rinascimentali.

     Però questi due elementi – la materia (di cui parla Democrito di Abdera) e le mani (di cui parla Anassagora di Clazòmene) – invitano, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, a fare un’incursione nell’età moderna, nell’età del Rinascimento (Anassagora e Democrito – come tutti gli altri personaggi che abbiamo incontrato appartenenti al movimento della sapienza poetica orfica – hanno avuto un grande successo nel Rinascimento). E questa incursione la facciamo con un libro, anzi con due libri che sono legati tra loro.

     Il personaggio che costituisce il tramite tra questi due libri, forse lo avete sentito nominare: si chiama Benvenuto Cellini: se lo volete incontrare, se volete guardalo in faccia, lo trovate, a qualsiasi ora, sul Ponte Vecchio a Firenze. Ha una faccia di bronzo il Benvenuto Cellini che sta sul Ponte Vecchio! Per carità non è un insulto (e vorrei che fosse chiaro perché il maestro è piuttosto rissoso, guai a dir male di lui, c’è da beccare una coltellata!): il bronzo è la materia che rende immortale il suo volto collocato al centro di uno dei monumenti più famosi (e più visitati) del mondo. Naturalmente non siamo qui a denigrare Benvenuto Cellini (veramente qualche rimproveratina gli andrebbe data), tuttavia vogliamo lodarlo, e non solo come grande artista che è stato capace di trasformare con le mani (un po’ diaboliche? Qualcuno lo pensa) la materia (in modo divino? Tutti lo dicono), ma soprattutto lo vogliamo lodare come cittadino che esegue diligentemente il compito dato dalla Scuola: scrivere dieci minuti al giorno. Così facendo Benvenuto Cellini ci ha lasciato – oltre ai suoi capolavori, grandi e piccoli, di oreficeria – anche una delle più significative autobiografie della Storia della Letteratura e del Pensiero Umano.

    Benvenuto Cellini si dedica a scrivere la sua autobiografia intitolata La vita negli anni che vanno dal 1558 al 1566: tuttavia i fatti che narra non si estendono oltre la data del 1562. Cellini scrive la sua autobiografia in parte di propria mano, come afferma all’inizio dell’opera, dopo aver invocato «Il nome di Dio vivo et immortale» e in parte la detta (probabilmente ci vede poco) a un giovanotto suo aiutante: Michele di Goro della Pieve a Groppino.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La Pieve a Groppino oggi corrisponde alla Pieve a Gròpina che si trova nel Comune di Loro Ciuffenna: l’hai mai visitata?… È un monumento straordinario che si trova sulla via Clodia, un’antica via romana di secondaria importanza la quale, per il suo tracciato a mezza costa, – dopo il degrado ambientale provocato, soprattutto nelle pianure, dalla caduta dell’impero Romano d’Occidente – diventa, col nome di Francigena, la strada europea più importante del Medioevo… La Pieve a Gròpina è la chiesa romanica di San Pietro, eretta prima dell’anno mille, e presenta al suo interno degli stupendi capitelli scolpiti da artigiani naif, privi di scuola artistica e quindi spontanei: questi capitelli sono tutti diversi uno dall’altro e uno più bizzarro dell’altro

Cerca la Pieve a Gròpina sullo stradario, sulla guida della Toscana e visitala…

     Una particolarità dell’autobiografia di Benvenuto Cellini – che ha sempre fatto esultare le studiose e gli studiosi della lingua – è la forma del linguaggio: il linguaggio di Benvenuto Cellini (come i capitelli delle colonne della Pieve a Gròpina) non è il «fiorentino delle persone colte» che Alessandro Manzoni vagheggiava, ma il «fiorentino della parlata popolaresca», pieno di sapore e di vigore, che si è conservato fino a oggi. Certe espressioni caratteristiche del Cellini scrittore (i «mia», i «tua» per i «miei», i «tuoi», «dirgnene» per «dirgliene», «arei» per «avrei», «farebbono» per «farebbero» e molte altre simili) sono tuttora in uso e, anzi, questi modi di dire e molti altri sono stati, in questi ultimi anni, esaltati dalle attrici e dagli attori comici di scuola toscana nel teatro, nel cinema.

     L’autobiografia di Benvenuto Cellini si colloca nella tradizione fiorentina delle cronache familiari e delle ricordanze domestiche, che si intrecciano con le notizie della vita cittadina. Ci sono molti esempi a questo proposito: ricordiamo quello illustre dei Commentari di Lorenzo Ghiberti, lo scultore di una delle porte del Battistero di Firenze (1452): nel resoconto che il Ghiberti fa della vita pubblica fiorentina inserisce passaggi autobiografici scritti con lo stesso tono che userà il Cellini un secolo dopo, un tono spontaneo permeato di orgoglio per il proprio talento. Difatti, nell’autobiografia del Cellini, tutto ciò che lui compie, nel campo della sua arte, è grande, meraviglioso, perfetto (viene in mente il termine greco  téleios). I due aggettivi usati più di frequente – a proposito delle opere compiute – sono bello e bellissimo. La parola virtù ricorre spesso, e quasi sempre nel significato di abilità artistica.

     I nemici di Benvenuto, cioè i suoi competitori, sono bollati con giudizi taglienti e sommari: «è un porco lavoro» scrive Cellini per definire l’opera d’un suo concorrente alla corte di Francia. Bisogna riconoscere che non risparmia le lodi e le testimonianze di stima nei confronti di altri artisti, purché non abbiano «l’imprudenza di mettersi con lui in gara per le commissioni e per i favori». Uno degli elementi – se non il principale – che hanno, da sempre, attratto le lettrici e i lettori de La vita del Cellini è la schiettezza sconcertante con cui dice le cose:; Benvenuto Cellini, attraverso questa schiettezza, si manifesta per quello che è (che, sinceramente, dice di essere): millantatore, vendicativo, collerico, superstizioso, violento. Ma si dimostra anche dotato, egli scrive, di «due qualità in grado sommo: una devozione appassionata per l’arte e uno immenso spirito d’avventura». La devozione per l’Arte di Benvenuto Cellini non si discute e per il suo spirito d’avventura è stato definito un personaggio picaresco prima del tempo: prima che i pìcari  (avventurieri sfrontati, astuti e un po’ furfanti) facciano la loro comparsa nei romanzi. E questo spiega il fascino che, in ogni epoca, La vita di Cellini ha esercitato sulle lettrici e sui lettori.

     Su Cellini scrittore ci sono due correnti di pensiero che si confrontano: una è quella diffusa dalla critica romantica, che ritiene Benvenuto Cellini «un istintivo di genio, il quale, scrivendo di getto e ignaro d’ogni scuola o regola letteraria, ha, quasi a sua insaputa, prodotto un capolavoro». In questa posizione traspare chiaramente (noi siamo stati due anni a spasso per il territorio del Romanticismo) la polemica delle/degli intellettuali romantici contro il pensiero accademico in favore della «vena popolare».

     Oggi questa posizione appare un po’ riduttiva: Benvenuto Cellini è, come lui scrive, «un uomo sanza lettere» ma nel senso leonardesco dell’espressione: che cosa significa? Significa che non ha avuto una diretta educazione umanistica, perché non ha frequentato, con metodo, una Scuola di «lettere latine e greche». La cultura umanistica (come nel caso di Leonardo da Vinci) se l’è fatta per conto suo: Benvenuto Cellini è un autodidatta di genio che frequenta, in ogni epoca della sua vita, i circoli intellettuali più all’avanguardia e fra i suoi amici ci sono Benedetto Varchi, Luigi Alamanni, Annibal Caro, il cardinale Bembo, e molti altri. Cellini compone poesie non disprezzabili, soprattutto sonetti: durante la prigionia in Castel Sant’Angelo passa il tempo «in compagnia della poesia», e un sonetto Questa mia vita travagliata io scrivo è posto in apertura dell’autobiografia. Cellini, poi, usa magistralmente la prosa scientifica: scrive due trattati, Sull’oreficeria e Sulla scultura, pubblicati nel 1568.

     Se dunque Cellini per le sue memorie si serve del «gergo popolare fiorentino», questo è da interpretarsi come una scelta, non certo come una necessità imposta dall’ignoranza. Cellini decide di usare questo stile, di servirsi di questa parlata scarna e incisiva, vigorosa e colorita come strumento efficace per dire quello che vuole dire, perché Cellini non è «ignaro» ma intende «fare opera letteraria», difatti menziona ripetutamente i lettori e, scrivendo, si rivolge al suo amico Benedetto Varchi perché gli corregga l’opera. Benedetto Varchi, dopo aver messo alcune postille sulle prime pagine, gliela restituisce praticamente intatta, scrivendo che «le imperfezioni perfezionano l’opera», questo a testimonianza del suo buon senso e del suo buon gusto.

     Ma chi è questo Benedetto Varchi di cui il Cellini si fida incondizionatamente? Benedetto Varchi (1503-1565) è un grande intellettuale fiorentino del Rinascimento ed è un profondo conoscitore delle lingue classiche (il latino e il greco) e anche della lingua poetica provenzale: scrive Sonetti sullo stile del Petrarca e dei poeti provenzali. Benedetto Varchi, pur essendo repubblicano (non rinnegherà mai il suo passato) e non nutrendo particolare simpatia per i Medici, ha collaborato, dal 1543, con Cosimo I (il figlio di Giovanni dalle Bande Nere) dal quale riceve l’incarico di scrivere una storia della città di Firenze dal 1527 al 1530 che viene pubblicata con il titolo di Istorie fiorentine in 16 libri.

     Benedetto Varchi si occupa anche (è un teorico) di pittura e scultura (scrive una serie di Lezioni su queste due arti) e difatti il suo stile di scrittura viene definito «pittorico». E proprio per merito di questo stile «pittorico», nelle Istorie fiorentine, il racconto degli avvenimenti (il sistema tributario della Repubblica, l’assedio della città e la pestilenza, la battaglia di Gavinana, l’uccisione del duca Alessandro, il duello tra Lodovico Martelli e Giovanni Bandini) e la descrizione dei personaggi (Jacopo Nardi, Donato Gianotti, Filippo Strozzi, il cardinale Ippolito de’ Medici, il Guicciardini, Lorenzino de’ Medici, Carlo V, Francesco Ferrucci) diventa memorabile. Nel dialogo L’Ercolano (e se ne avvarrà anche Alessandro Manzoni) il Varchi sostiene la fiorentinità della lingua italiana.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se vuoi incontrare Benedetto Varchi faccia a faccia sappi che lo ha ritratto un certo Tiziano Vecellio, e questo dipinto, oggi, si trova nella pinacoteca di Vienna, ma in biblioteca (su un libro d’arte) o sulla rete lo si può certamente vedere: vai alla ricerca…

     E allora seguendo anche il consiglio di Benedetto Varchi torniamo a La vita di Benvenuto Cellini. Deve essere avvincente la lettura di questa autobiografia! Leggere l’autobiografia di Benvenuto Cellini è un’esperienza affascinante, ma la Scuola deve dire che non è un esercizio facile: è un compito che presenta delle difficoltà, però la parola “difficoltà” non corrisponde al termine “impossibilità”. Per il modo in cui è costruito il testo cinquecentesco la lettura risulta rallentata, bisogna quindi coltivare la lentezza (dieci minuti al giorno per una pagina al giorno), ed è necessario avere la pazienza di seguire le note e di riflettere sul significato del testo quando non appare comprensibile al primo incontro, come quando si traduce da un’altra lingua e il fiorentino cinquecentesco del Cellini non corrisponde a pieno all’italiano corrente. Però i racconti contenuti ne La vita del Cellini ne fanno un testo veramente ricco che ha sempre costituito un’attrazione soprattutto per le scrittrici e per gli scrittori alla ricerca di spunti romanzeschi.

     Che cosa racconta a grandi linee Benvenuto Cellini nella sua autobiografia? Benvenuto Cellini racconta di essere nato in una famiglia della piccola borghesia fiorentina: una classe sociale da cui escono tanti ingegni. La sua data di nascita, la notte d’Ognissanti del 1500, sta proprio a cavallo fra i due secoli d’oro del Rinascimento. Benvenuto viene alla luce in via Chiara: a due passi dal centro mediceo. Il padre Giovanni è capomastro edile ed è anche fabbricante di strumenti musicali, infatti suona da professionista il flauto e il piffero e vorrebbe fare di Benvenuto un musico.  Nel Rinascimento (a Firenze in particolare), questa carriera è prestigiosa e remunerativa, data la continua richiesta di musici da parte di tutte le corti europee. Ma Benvenuto scrive che, fin da piccolo, ha «in uggia quel maledetto sonare». Suo padre allora, molto deluso, lo manda a bottega come apprendista d’oreficeria presso Michelangelo Bandinelli, il padre del futuro scultore (e nemico del Cellini) Baccio Bandinelli. Nella bottega orafa Benvenuto scopre la sua vera vocazione: quella di trasformare la materia (Democrito) con le mani (Anassagora) in modo creativo.

     L’apprendistato da orafo di Benvenuto Cellini si completa in varie città. Per il suo temperamento irrequieto e rissoso Benvenuto non mette radici in nessun luogo e dovunque vada «semina disordini e baruffe». Nel 1519, con il titolo di artigiano qualificato, è a Roma dove regna un papa mediceo Leone X (Giovanni de’ Medici, secondogenito di Lorenzo il Magnifico) e incomincia a farsi notare dalla clientela che conta e che può spendere: «signore di mondo, prelati della Curia». Ma la sua vera stagione romana Cellini la vive dal 1523 al 1534 sotto un altro papa mediceo Clemente VII (Giulio de’ Medici) suo grande estimatore.

     Non è un’epoca tranquilla nella storia d’Europa: nel 1527 Roma viene assediata e saccheggiata ad opera delle soldatesche dell’imperatore Carlo V. Molti artisti fuggono atterriti, riempiendo le corti italiane di racconti orripilanti. Ma Cellini non fugge: è uno di quei tipi che, nelle grandi convulsioni storiche, si trovano perfettamente a proprio agio. Racconta che sugli spalti di Castel Sant’Angelo, assaltati dei lanzichenecchi, diventa artigliere e bombardiere (le bombarde: «meravigliosi instrumenti fusi nel metallo») e si vanta d’aver tirato personalmente il colpo che abbatte il Connestabile di Borbone: uno dei comandanti delle truppe imperiali. Due anni dopo, nel 1529, quando il papa ritorna padrone del suo regno, Benvenuto si merita la nomina di maestro della Zecca pontificia, una carica molto ambita da tutti gli incisori.

     Anche a Firenze, quando saltuariamente vi rientra, le sue commissioni sono molto richieste. A Firenze governa un tiranno, Alessandro de’ Medici, odiato tanto dai “grandi”  quanto dal popolo, ma Benvenuto non si fa nessuno scrupolo: per lui è solo un cliente di riguardo come tutti gli altri e lo serve e ne riceve in cambio danaro e favori, persino il «dono speciale d’uno schioppo da caccia».

     A Roma i suoi meriti d’artista gli valgono anche dal nuovo pontefice, Paolo III Farnese, il perdono per un peccato assai grave: l’uccisione, in una rissa, di un orefice lombardo, Pompeo de Capitaneis, un episodio, questo, che di per sé vale un romanzo. Cellini, ne La vita, racconta che questo assassinio è stato preterintenzionale (la coltellata sarebbe stata accidentale: tirata nel mucchio per legittima difesa) ma l’inimicizia fra i due rende lecito il dubbio. Del resto non è il solo omicidio che viene attribuito al «fiorentino spirito bizzarro». Il papa, sempre stando al suo racconto, lo assolve dichiarando che gli uomini della tempra di Benvenuto «non hanno da essere ubbrigati alla legge». Di diverso parere è però il figlio del papa, Pier Luigi Farnese (lo aveva concepito prima di prendere gli ordini), il quale accusa Cellini di vari reati, fra cui quello d’avere sottratto gemme preziose dal tesoro pontificio, all’epoca del sacco di Roma.

     Benvenuto nel 1538 viene imprigionato ma evade (anche questo episodio vale di per sé un romanzo) in modo rocambolesco, fratturandosi una gamba, e trova rifugio nel palazzo del cardinale Corsaro, ma viene scoperto e rimesso in prigione prima a Tor di Nona, poi in Castel Sant’Angelo. La prigionia (durante la quale scrive Sonetti e si rimette in piedi) dura solo un anno perché qualcuno paga la cauzione: lo riscatta un altro cardinale, Ippolito d’Este, per incarico del re di Francia, Francesco I. Cellini ha già fatto un viaggio in Francia: si è fatto conoscere come orefice e adesso il sovrano, grande ammiratore dell’arte italiana, lo vuole al suo servizio.

     Nel 1540 cominciano, per Benvenuto Cellini, i cinque anni più brillanti della sua vita: frequenta la corte, ha un ottimo stipendio, alloggia in un vecchio palazzotto parigino presso la porta di Nesle; e sebbene la favorita del re, Madame d’Etampes, e gli artisti da lei protetti (come il Primaticcio) gli mettano in continuazione il bastone tra le ruote, Benvenuto vive il suo più felice periodo creativo (questo periodo potrebbe fare da sfondo ad un romanzo). È di quest’epoca il suo capolavoro d’oreficeria, la famosa saliera d’oro raffigurante il Mare e la Terra, eseguita per il re (oggi si trova a Vienna). Però nel 1545 l’ostilità della favorita del re obbliga Benvenuto a rientrare a Firenze.

     Qui, dopo l’assassinio del duca Alessandro in un agguato, il potere è passato a un Medici del ramo cadetto, Cosimo, il figlio di Giovanni dalle Bande Nere. Anche Cosimo è un tiranno, ma sa esserlo con più intelligenza di Alessandro. Cosimo tempera l’autoritarismo col mecenatismo, secondo la tradizione medicea. I rapporti tra Cosimo I e Benvenuto Cellini non sono sempre idilliaci: li complicano, come al solito, le gelosie dell’ambiente artistico, dove Benvenuto non tarda a farsi – o a ritrovare – dei nemici come Baccio Bandinelli (da lui soprannominato Buaccio), come il Tribolo, come l’Ammannati. A volte l’artista vorrebbe ritornare in Francia, ma a Firenze ha ritrovato una sorella che è rimasta vedova, con sei figlie da mantenere, e allora si sente in dovere di farsi carico di questa povera famiglia.

     A Firenze viene eseguita, su incarico di Cosimo I, nel 1549, la stupenda statua del Perseo, che viene esposta nella Loggia dell’Orcagna. La statua del Perseo ha una particolarità, ed è l’autore stesso che ce la fa notare: «perfetta fue la fusione perché la spada non pare pesante arnese ma leggera piuma con cui si scriva, la penna è più atta, più volte [spesso], a tagliar le teste che la spada». La leggerezza con cui la figura del Perseo tiene in mano la spada come se fosse una penna rimanda ad una riflessione che riguarda l’itinerario che stiamo percorrendo dove il movimento della sapienza poetica orfica è protagonista: il Perseo del Cellini, la cui spada – a detta dell’autore – è «leggera come una penna», più che un omaggio al mito e al potere che lo incarna, è un riconoscimento nei confronti di chi – poetesse e poeti – ha scritto i miti per poter dare «materia» alle «mani» delle/degli artisti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Dei personaggi e dei racconti mitici che abbiamo incontrato nel nostro Percorso tu quale vorresti rappresentare? 

Scrivi una riga in proposito…

     Cellini trova molte difficoltà a farsi pagare il lavoro svolto per creare la statua del Perseo. La questione si trascina per anni, perché Cosimo trova eccessiva la richiesta di diecimila scudi d’oro e continua a temporeggiare, sollecitando pareri d’esperti (“Lo varrà, non lo varrà? Certo che è un’opera un po’ bizzarra!”). Queste diatribe tuttavia non intaccano la creatività e il vigore di Cellini che nel 1558, in un periodo di relativa calma, incomincia a scrivere La vita.

     Nel 1565 decide finalmente di accasarsi e sposa Piera de’ Parigi, una ragazza popolana che lo rende padre di vari figliuoli (altri gli erano nati precedentemente, da varie relazioni, nel corso della sua vita sfrenata). L’ultimo figlio, Andrea Simone, viene al mondo nel 1569, quando Benvenuto è ormai alle soglie della settantina, e due anni dopo, il più grande orafo di tutti i tempi si spegne il 13 febbraio 1571.

     E allora giunti alla fine leggiamo l’inizio de La vita del Cellini (intesa come autobiografia, considerata come una delle più importanti autobiografie della Storia della Letteratura di tutti i tempi): leggiamo il primo capitolo che contiene anche un ammonimento importante che vale per tutti noi:

LEGERE MULTUM….

Benvenuto Cellini, La vita  (Libro primo)

Tutti gli uomini d’ogni sorte [condizione], che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa [abile, ingegnosa], o sì veramente che le virtù somigli, doverìeno, essendo veritieri e da bene, di lor propia [propria] mano descrivere la loro vita; ma non si doverrebbe cominciare una tal bella impresa prima che passato [prima che sia passata] l’eta de’ quaranta anni.

Avedutomi d’una tal cosa, ora che io cammino sopra la mia età de’ cinquantotto anni finiti, e sendo in Fiorenze patria mia, sovenendomi di molte perversità [avversità, traversie] che avengono a chi vive; essendo con manco di esse perversità, che io sia mai stato insino a questa età, anzi mi pare di essere con maggior mio contento d’animo e di sanità di corpo che io sia mai stato per lo adietro; e ricordandomi di alcuni piacevoli beni e di alcuni innistimabili mali, li quali, volgendomi in drieto [dietro], mi spaventano di maraviglia [mi rendono sorpreso, stupito] che io sia arrivato insino a questa età de’ cinquantotto anni, con la quali [quale] tanto felicemente io, mediante la grazia di Dio, cammino innanzi…

     La vita del Cellini è un testo che, nonostante richieda pazienza nella lettura, ha sempre trovato molti estimatori, soprattutto tra le scrittrici e gli scrittori di romanzi, per l’avventurosa storia che racconta. Uno di questi scrittori, che conosciamo bene, Alexandre Dumas (padre), ci viene subito incontro. Non credo sia necessario dire chi sia Alexandre Dumas: volete che Alexandre Dumas si lasci scappare una storia come questa, si lasci sfuggire l’autobiografia più rocambolesca del XVI secolo? Ho tra le mani un romanzo (il secondo libro in questione) che s’intitola Ascanio. Alexandre Dumas (1802-1870) ha scritto questo romanzo di getto, nel 1843, utilizzando l’Autobiografia di Cellini, alcune altre fonti storiche (Benedetto Varchi), e creando ad arte molti innesti fantastici. Uno degli innesti fantastici è il personaggio che dà il titolo al romanzo: Ascanio. Ma il vero protagonista di questo avvincente (come tutti quelli di Dumas) libro di avventure è Benvenuto Cellini, il più spericolato e il più romantico artista – secondo Dumas – del Rinascimento, il quale, come sappiamo dalla sua autobiografia, ha soggiornato a Parigi tra il 1540 e il 1545, in fuga da una delle sue prigionie, ed è stato incaricato dal re Francesco I di decorare la nuova reggia. Alexandre Dumas presenta Benvenuto Cellini con la sua grande abilità di romanziere facendo tesoro dell’autobiografia dell’artista così ricca di spunti avventurosi. Dumas, per completare l’opera, mette accanto a Cellini un giovane figlioccio e amico, innamorato d’una fanciulla: Ascanio, le cui vicende appassionate s’intrecciano con quelle turbolente del suo maestro.

     E Dumas coglie anche l’occasione per farci partecipare alla cesellatura della famosa saliera d’oro e ai lavori di decorazione del castello di Fontainebleau: con una guida della Francia potete dare una ripassata al castello di Fontainebleau. Ma Dumas vuole (e riesce a) portare le lettrici e i lettori di questo romanzo, nel clima del Rinascimento, segnato da una sottile ansia, dal senso della perdita di qualcosa: forse la perdita della giovinezza? E questo è Dumas che, sulla scia di Benvenuto Cellini,  fa l’autobiografia dei suoi sentimenti.

     Dumas ci accompagna per le strade della Parigi cinquecentesca, in una folla di personaggi nobili e miserabili, celebri e oscuri, e ne intreccia le avventure senza paura di esagerare: «a quell’epoca – sembra pensare Dumas – eravamo tutte/tutti più giovani, più esuberanti, la vita, per la maggior parte delle persone, era più corta e andava vissuta con la massima intensità». Il linguaggio e il modo di scrivere di Alexandre Dumas non presenta alcuna controindicazione e se ne consiglia semplicemente la lettura: probabilmente anche Benvenuto Cellini si sarebbe divertito a leggere Ascanio. Noi abbiamo solo il tempo di leggere l’incipit:

LEGERE MULTUM….

Alexandre Dumas,  Ascanio (1843)

Era il 10 luglio dell’anno di grazia 1540, alle quattro del pomeriggio, a Parigi, nella cinta dell’Università, all’entrata della chiesa dei Grands-Augustins, presso l’acquasantiera, vicino alla porta. Un bel giovane alto dalla carnagione bruna, con lunghi capelli e grandi occhi neri, vestito con semplicità signorile, armato solo di un piccolo pugnale dal manico meravigliosamente cesellato, stava lì in piedi. Certo per un’umiltà devota, non si era mosso da quel posto per tutta la durata dei vespri; la fronte china nell’atteggiamento di una pia contemplazione, mormorava a bassa voce non si sa quali parole, sicuramente delle preghiere, poiché parlava così piano che solo lui e Dio potevano sapere cosa diceva; ma siccome la funzione stava per finire, alzò la testa, e i suoi vicini poterono distinguere queste parole pronunciate a bassa voce:

«Che modo abominevole di salmodiare hanno questi monaci francesi! Non potrebbero cantare meglio davanti a Lei, che è abituata a sentir cantare gli angeli? Ah, che disgrazia! I vespri sono finiti. Mio Dio, mio Dio! Fate che io sia più felice oggi di domenica scorsa e che lei mi guardi almeno!»

  Davvero quest’ultima preghiera non è inopportuna, poiché se quella a cui è rivolta guarderà colui che gliela rivolge, vedrà la più adorabile testa di ragazzo che mai ha sognato quando leggeva le fiabe mitologiche tanto di moda a quei tempi, grazie alle belle poesie di Clément Marot, in cui si raccontano gli amori di Psiche e la morte di Narciso.

     Su questo primo spunto mitologico interrompiamo la nostra lettura, anche perché questo ci riporta sul sentiero del nostro Percorso e, quindi, dalla vie della Parigi cinquecentesca torniamo a quelle non meno esuberanti dell’Atene del V secolo a.C.. Difatti mentre percorriamo una delle vie proprio a due passi dall’agorà veniamo invitati ad entrare nel grande atrio di una bella casa, già tutto pieno di gente: queste persone stanno ad ascoltare con grande attenzione uno che parla con voce suadente. Chi è, e dove siamo? Chiediamo.

     Erodoto risponde che siamo in casa di Protagora di Abdera il più famoso dei sofisti,  soprannominato – scrive Diogene Laerzio nella sua Raccoltail Ragionamento”. Protagora è nato ad Abdera, intorno al 480 a.C., in una famiglia povera, e cerca di guadagnarsi da vivere facendo il facchino, trasportando merci per conto dei commercianti del luogo. Un giorno a Democrito – che conosciamo bene – capita di osservare il giovane Protagora che sta caricando una grossa quantità di legna sul dorso del suo asino: Democrito – scrive Diogene Laerzio – rimane colpito per l’ingegnosità con cui questo ragazzo sta sistemando il carico. «Uno che riesce a fare un lavoro così ben fatto – pensa Democrito – possiede sicuramente una predisposizione naturale per il ragionamento logico» e, quindi, –scrive Diogene Laerzio – lo iscrive subito alla sua Scuola. Protagora frequenta la Scuola di Democrito con grande profitto, impara velocemente, e diventa in breve tempo un retore: cioè un abile parlatore. Protagora – scrive Diogene Laerzio – ad Abdera presta servizio come lettore pubblico, poi emigra ad Atene dove apre la sua Scuola di eloquenza.

     I Filostrati di Lemno, che abbiamo incontrati due settimane fa (è un nome collettivo che va preso in considerazione al plurale), sono tre autori della stessa famiglia vissuti tra il II e il IV secolo d.C. e, a causa di questa omonimìa, è difficile l’attribuzione delle opere che hanno scritto. I Filostrati di Lemno sono autori anche di un libro intitolato Vite dei Sofisti. Leggiamone un frammento:

LEGERE MULTUM….

Filostrati di Lemno, Vite dei Sofisti

Protagora è stato il primo a farsi pagare cento mine per un corso d’oratoria e a introdurre tra i Greci questa usanza, cosa non biasimevole del resto, giacché noi tutti prendiamo più sul serio ciò che costa che non quello che è gratuito

     A proposito dei costi dei corsi di Protagora abbiamo anche la testimonianza del grande retore latino Marco Fabio Quintiliano (35-95 circa), a cui l’imperatore Vespasiano ha affidato a Roma la prima cattedra statale di retorica (Vespasiano, oltre che dei vespasiani, si occupa anche delle università: bisogni fisiologici e bisogni intellettuali vanno di pari passo),. L’opera più importante di Quintiliano, che ha avuto tra i suoi alunni anche Plinio il Giovane, s’intitola Institutio oratoria in dodici libri, un’opera che ha codificato le regole della retorica (l’abilità del parlare) durante tutto il Medioevo e il Rinascimento. In quest’opera c’è un frammento che riguarda il prezzo, molto alto, dei corsi di Protagora:

LEGERE MULTUM….

Marco Fabio Quintiliano, Institutio oratoria

Un allievo di Protagora scandalizzato per i mille denari che gli chiese a fine corso, cercò di non pagarlo, con la scusa che il compenso pattuito era subordinato al primo successo che egli avrebbe avuto in tribunale.

Protagora non si scompose minimamente e disse: «Caro amico, tu non hai scampo, giacché io ti cito subito in giudizio: se i magistrati ti daranno torto, mi dovrai pagare perché hai perso, se invece ti daranno ragione, mi dovrai pagare perché hai vinto»

     Protagora non risulta molto simpatico ad Atene e tutti ne dicono male, però quando parla tutti corrono ad ascoltarlo, naturalmente a pagamento, e anche noi abbiamo dovuto pagare il biglietto…

     Naturalmente quello più sarcastico nei confronti di Protagora è Platone; nel dialogo intitolato Menone  ad un certo punto Platone fa dire a Socrate una frase inequivocabile: leggiamola:

LEGERE MULTUM….

Platone, Menone

e Socrate risponde: «Io conosco un uomo, Protagora, che da solo ha guadagnato con la sua scienza più soldi di quanto non ne abbia percepito Fidia, con le sue belle opere, e dieci altri scultori messi insieme»

     Protagora ad Atene – scrive Diogene Laerzio – gestisce personalmente la sua Scuola di eloquenza per circa quarant’anni e scrive molti libri. Le opere di Protagora che possediamo s’intitolano: La verità o i discorsi demolitori [Aletheia e kataballontes], le Antilogie, Sullo stato primitivo e Sugli dèi [Peri theon].

     Sugli dèi è un saggio sul sentimento religioso che – ci racconta Diogene Laerzio – una sera Protagora, durante un convivio, vuole leggere in casa di Euripide, il grande tragediografo. Protagora ha settant’anni, è celebre, è ricco, ma quella lettura lo fa cadere in disgrazia perché qualcuno ne approfitta per denunciarlo. Sappiamo che ad Atene vige una severa legge sulla blasfemìa: questa legge però è uno strumento che permette anche di compiere degli abusi. Protagora viene denunciato da un certo Pitodoro per una frase dell’opera Sugli dèi. Questa frase incriminata ha assunto, nella Storia del Pensiero Umano, un valore emblematico: «Intorno agli dei, scrive Protagora, non ho alcuna possibilità di sapere, né che esistono, né che non esistono. Molti sono gli ostacoli che m’impediscono di sapere, sia l’oscurità dell’argomento, sia la brevità della vita umana».  Protagora viene processato e condannato, «e, scrivono i Filostrati nelle Vite dei Sofisti, per non bere la cicuta e fare la fine di Socrate, fugge dalla Grecia e muore, mentre viene inseguito dalle triremi ateniesi, naufragando con il suo battello al largo delle coste della Sicilia». I suoi libri vengono bruciati sull’agora, sulla piazza, dopo che le case di Atene, a una a una, sono state perquisite per scovare tutte le copie in circolazione: ma non tutte sono state scovate!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

 C’è un libro prezioso per te che conservi con molta cura? 

Scrivi…

     Diogene Laerzio ci fa capire che Protagora con questa fine si riscatta (diventa meno antipatico) e, a questo proposito, riporta i versi che il poeta Timone di Fliunte gli dedica.

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Timone di Fliunte nei suoi Silli ha scritto:

Al primo di tutti i sofisti, di prima e di poi,

di bella voce, d’acuto e versatile ingegno, o Protagora.

In cenere vollero ridurre i suoi libri, perché

scrisse di non sapere e di non poter comprendere gli dèi,

chi sono, come e quali sono, massima cura avendo d’un imparziale giudizio

affermando essere troppo oscuro l’argomento e troppo breve la vita umana.

Non gli valse e la fuga cercò per non bere anche lui

la fredda bevanda di Socrate e scendere nell’eterna penombra dell’Ade.

     Ma Protagora di Abdera è stato capace di elaborare un pensiero significativo che ha lasciato una traccia ben distinta nella Storia della Cultura. Il pensiero di Protagora è contenuto tutto in un frammento dell’opera intitolata La verità o i discorsi demolitori [Aletheia e kataballontes]. Leggiamo il frammento in questione (è molto conosciuto):

LEGERE MULTUM….

Protagora di Abdera, La verità o i discorsi demolitori [Aletheia e kataballontes]

L’Uomo [l’uomo, anthropos] è misura di tutte le cose:

di quelle che sono, per ciò che [in quanto] sono,

e di quelle che non sono, per ciò che [in quanto] non sono.

     In questi secoli le studiose e gli studiosi hanno dato diverse interpretazioni a questo frammento. La prima cosa che ci dobbiamo domandare riguarda la parola Uomo, anthropos in greco: si scrive con la U maiuscola o con la u minuscola? Chi è l’Uomo o l’uomo, l’anthropos, a cui allude Protagora? È una persona qualsiasi, con la u minuscola? Oppure è l’Uomo in generale, quello con la U maiuscola che riassume in sé l’opinione media della categoria delle persone? Naturalmente questo fatto crea dei problemi d’interpretazione.

     Se l’uomo [l’anthropos] di cui parla Protagora è quello con la u minuscola, se quell’uomo o quella donna, sono io, con tutti i difetti e le qualità che mi caratterizzano questo che cosa significa sul piano della conoscenza? Significa che ciò che io conosco non è una realtà oggettiva uguale per tutti, ma assume un significato preciso solo nel momento in cui «io» la percepisco, e naturalmente questo significato cambia col mutare delle mie opinioni [doxa]. In questo caso il pensiero di Protagora esprime il relativismo e questo investe sia il campo della conoscenza che quello dell’etica. Un bicchiere con dell’acqua dentro può apparire mezzo pieno o mezzo vuoto a due persone che lo guardano: Protagora si domanda: «È mezzo pieno o è mezzo vuoto questo bicchiere?». Lui risponde che è ambedue le cose, proprio perché sono due le persone che danno un giudizio: difatti nessuno dei due giudizi – osserva Protagora – è «più vero» dell’altro, al massimo potremmo dire che la definizione «mezzo pieno» è da preferire a quella «mezzo vuoto» perché «l’ottimismo» è preferibile «al pessimismo». Protagora trae la conclusione che il valore delle cose varia da persona a persona, e per lo stesso individuo, da momento a momento. Fin qui tutto fila liscio: ma quando entriamo nel territorio dell’etica (che cos’è Bene e che cos’è Male) cominciano i guai. Esiste il Bene come valore oggettivo (che sia riconoscibile da tutti)? Esiste il Male, oggettivamente parlando (distinguibile da tutti)? Oppure siamo sempre noi a stabilire ciò che è Bene e ciò che è Male? Questo è un problema non indifferente.

     Nell’Età assiale della storia, tradizionalmente, fino a questo momento le opinioni dei grandi pensatori erano abbastanza precise: tutte le azioni erano considerate buone o cattive senza alcuna esitazione. Ricordiamo il pensiero di Zarathustra, per il quale il Bene e il Male si dividono il mondo senza possibili vie di mezzo. Protagora di Abdera riflette sulla difficoltà di dividere nettamente il concetto del Bene da quello del Male: piuttosto che dividere – secondo lui – bisogna distinguere, bisogna indagare, bisogna sofisticare. Nel termine sofisticare troviamo la parola sofia che significa abilità, scienza, sapienza e saggezza: un ampio ventaglio di significati, utile per capire la ragione per cui le studentesse e gli studenti della Scuola di Protagora vengono chiamati sofisti.

     Il merito (uno dei meriti) della Scuola dei sofisti è quello di aver messo in evidenza  la zona grigia: la fascia intermedia che sta tra due estremi. La scoperta e l’identificazione della zona grigiamette in primo piano – accanto all’idea della Verità-Aletheia – il concetto del dubbio. E la parola dubbio che usa Protagora, in greco ci è familiare (ce l’ha già insegnata Erodoto) perché corrisponde al termine aporìa. Il dubbio [l’aporìa] è la zona grigia che sta intorno alla Verità per cui, secondo i sofisti, la luce splendente della Verità ci appare sempre in penombra.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il dubbio [l’aporìa] è la “zona grigia” che sta intorno alla Verità per cui – secondo i sofisti – la luce splendente della Verità ci appare sempre in penombra…

Il “grigio” è un colore molto particolare, è un termine dai molti significati: quale parola ti fa venire in mente? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     La Scuola di Protagora insegna a cercare sempre, in ogni cosa, il rovescio della medaglia. Protagora fa da battistrada a quella scienza dell’interpretazione che verrà chiamata epistemologia (viene in mente Karl Popper) ma ne parleremo a suo tempo.

     Rimaniamo nell’Atene del V secolo a.C. dove qualcuno, nei confronti di Protagora, obietta che è molto comodo «fare il sofista»: io stabilisco, ad esempio, che è Bene fare il Male e rubo, ammazzo e prevarico, e così io sono coerente con il mio codice di comportamento personalizzato. Protagora che cosa risponde a chi gli pone questa obiezione? «Va bene» risponde Protagora «se uno ci riesce non ci sono problemi». Il fatto è che non è facile – sostiene Protagora – convincere la propria coscienza che rubare e ammazzare e prevaricare si identificano col Bene. E qui si apre una discussione – che dura tuttora – su come la morale comune può condizionare il relativismo sostenuto dai sofisti. In una comunità educante dovrebbe funzionare il fatto che i giudici di noi stessi siamo noi stessi, ma è pur vero che il nostro giudizio è influenzato dalla morale degli altri.

     Qui entra in gioco la tesi di chi sostiene che, nel frammento di Protagora, il termine Uomo, sia scritto con la U maiuscola. In questo caso Protagora avrebbe detto che il Bene s’identifica con il Bene dell’Uomo in generale e quindi con il Bene della collettività. Il fatto è che negli scritti che ci rimangono di Protagora non risulta il fatto che lui abbia mai sostenuto una tesi del genere. Semmai Protagora sembra chiedersi provocatoriamente: «Ma esiste davvero l’Uomo in generale?». Probabilmente – pensa Protagora – l’Umanità è fatta di tante persone particolari e ognuna di queste persone la realtà se la inventa attimo per attimo. Protagora e i Sofisti guardano ad ogni cittadina e cittadino ateniese, senza fare distinzioni: le loro Scuole sono aperte a tutti purché si paghi la retta.

     Ogni cittadino ateniese, una volta entrato nell’assemblea (la bulè), diventa eguale all’altro. Le differenze di sangue e di censo non creano nessuna disparità di diritti. Ma è inevitabile che di fatto gli aristocratici, che sono quasi sempre anche i più facoltosi, abbiano la meglio. Pericle, lo conosciamo, è nobile e ricco: due qualità che, messe insieme alle sue doti, contribuiscono in modo decisivo ad assicurargli per un tempo assai lungo il potere. A gareggiare nell’assemblea ci sono anche dei ricchi senza prestigio di stirpe: possidenti agrari diventati industriali come Agnone, proprietari di miniere, come Nicia e Callia, fabbricanti d’armi come Cefalo. Negli ultimi anni di Pericle, tra il 430 e il 420 a.C., accanto a questi rappresentanti dell’alta borghesia entra in gioco una nuova classe, di estrazione plebea, che ha accumulato grossi capitali durante l’espansione economica della città. È stata definita l’ala popolare del partito democratico: ne fanno parte il pellicciaio Cleone, il mercante di bestiame Lisicle, il venditore di tessuti Lucrate. Nei confronti degli aristocratici, che sono eredi di una raffinata cultura familiare, tanto i borghesi come Nicia quanto i popolari come Cleone si sentono in svantaggio per la mancanza di uno strumento che, nei dibattiti dell’assemblea, finisce con l’essere decisivo: l’eloquenza, la capacita di parlare in modo persuasivo. Pur di acquistare un simile strumento, se non per sé almeno per i propri figli, essi (tutti alla fine) sono pronti a pagare.  E i venditori di eloquenza, i Sofisti, – dice sarcastico Platone – aprono le loro Scuole. Abbiamo già potuto constatare che il primo a ricevere denaro per il suo insegnamento è stato Zenone di Elea.

     I sofisti e Protagora, che è il capostipite dei nuovi maestri, diventano dei professionisti del sapere. Difatti il termine sofista assume ben presto il senso spregiativo che ha oggi. Non a caso tutti i sofisti arrivano ad Atene da fuori perché l’etica dominante – bisogna leggere le Commedie di Aristofane – non consente agli Ateniesi, anche se la tollera, la pratica dell’insegnamento dietro retribuzione.

     Noi non dobbiamo pensare che i Sofisti, nelle loro Scuole, insegnassero l’immoralità: c’è un controllo (le leggi sulla blasfemìa) della polis (dello Stato) sui programmi scolastici. Anzi si approva la funzione di preparare le nuove generazioni ad affrontare le responsabilità politiche con adeguati strumenti culturali: in quanto ai costi delle Scuole, ad Atene c’è il libero mercato. Quindi i Sofisti sono lucidamente consapevoli che il loro compito non è la pura ricerca filosofica, ma l’insegnamento della virtù politica, o più semplicemente della virtù: in greco aretή-aretè. Nella polis, in questo momento, non si fa distinzione tra la morale e la politica perché s’identificano. Platone, nel dialogo intitolato Protagora, fa dire a Protagora stesso queste parole:

LEGERE MULTUM….

Platone, Protagora

Questa [della nostra Scuola] è una dottrina che favorisce l’acquisizione della virtù [aretή-aretè] e fornisce a chi la coltiva la possibilità di decidere saggiamente sia intorno alle questioni domestiche, amministrando nel modo migliore la propria casa, sia a riguardo dei problemi politici, rendendo più efficace l’agire e il parlare politicamente.

     Il parlare politicamente – vale a dire parlare nell’intento e con la capacità di conquistare alle proprie tesi la maggioranza dell’assemblea (senza tirare fuori la spada) – è la qualità, eminentemente pratica, che la Scuola dei Sofisti si propone di sviluppare nelle cittadine e nei cittadini.  Abbiamo citato la parola-chiave aretè, la virtù, la cui citazione, elaborata in particolare da Protagora, innesca subito una riflessione su chi ha, successivamente, sviluppato questo concetto della virtù politica. Il personaggio in questione è Aristotele che, nel suo famoso saggio in otto libri intitolato Ta politikà, Politica, ad un certo punto, nel secondo libro, scrive: «La riuscita di un viaggio dipende soprattutto dalla compagnia».  Che cosa significa? Aristotele  (siamo circa nel 340 a.C.), spiega come una “compagnia sbagliata” possa rovinare anche il viaggio meglio organizzato. Quale insegnamento possiamo trarre, noi, da questa considerazione così attuale di Aristotele, noi che siamo un gruppo di viaggiatori intellettuali, e che quindi dobbiamo cogliere la metafora che Aristotele vuole utilizzare per farci riflettere. «Una compagnia sbagliata – spiega Aristotele – è quella in cui ognuno non è consapevole del fatto che è necessario prendere sempre il proprio passo in equilibrio con il passo degli altri: altrimenti rischiamo la rovina del viaggio». Ma Aristotele, nella Politica, non parla propriamente di viaggi: usa la metafora del prendere il passo per riflettere sulla disciplina con la quale si amministra lo Stato. E ragionare di Politica, per Aristotele, significa parlare della polis e dell’amministrazione dello Stato inteso come comunità: questo è il significato della parola politica.

     In questo saggio Aristotele critica gli Imperi (c’è l’Impero persiano) perché presuppongono un padrone e dei sudditi, quindi – scrive Aristotele – l’Impero non è propriamente uno Stato, ma si configura, se mai, come un’azienda (pragma): la gestione dello Stato (la politica) – scrive Aristotele – finisce per identificarsi con gli affari dell’Imperatore (pragmatica) che è il padrone dello Stato: questo crea la fine dell’amministrazione della Cosa pubblica. Naturalmente Aristotele esalta la polis, la città-Stato, come luogo della realizzazione della politica e della negazione della pragmatica. Nella polis, amministrata da cittadini rappresentanti dei cittadini, lo Stato non può essere identificato con un’azienda. Lo Stato non fa affari, perché deve dettare le regole in modo che le cittadine e i cittadini possano fare affari: lo Stato detta le regole perché si possa prendere il passo.

     Aristotele – nella Politica – usa la metafora del prendere il passo per parlare anche di politeia, che è la Costituzione, cioè il catalogo dei princìpi sui cui si fonda la polis, il catalogo dei princìpi da cui derivano le regole, perché lo Stato possa funzionare come comunità e possa garantire alle cittadine e ai cittadini di fare affari utili per il ben-essere della comunità.

     Aristotele – nella Politica – usa la metafora del prendere il passo per parlare della/del polites, che è la cittadina/il cittadino consapevole e responsabile del suo ruolo nello Stato. E quando le cittadine e i cittadini sono responsabili e consapevoli del loro ruolo nello Stato? Quando possiedono – scrive Aristotele –l’aretè, la virtù politica; e – scrive Aristotele – a che cosa corrisponde la virtù politica, l’aretè? Aristotele scrive che le cittadine e i cittadini della polis devono imparare a mettere in pratica l’àtos aretè. Atos, in greco significa il passo, e àtos aretè, possiamo tradurlo, con prendere il passo in modo consapevole e responsabile, prendere il passo virtuoso: questa è la virtù politica, l’aretè. Imparare la virtù del prendere il passo [l’àtos aretè] è un dovere fondamentale per acquisire il diritto di cittadinanza.

     Ma torniamo nell’Atene del V secolo a.C., torniamo nella Scuola di Protagora, che utilizza un metodo che dà sviluppo alla forma educativa classica (anche per non avere guai con la legge), fondata sull’apprendimento dell’epica di Omero e di Esiodo e sull’uso appropriato di esempi e di citazioni tratte dai due teologi dell’Ellade, come li chiama Erodoto. L’apprendimento, nella Scuola di Protagora, prevede l’uso di particolari tecniche del discorso, cioè la retorica, l’arte dell’argomentare e dell’esporre. Un simile progetto educativo porta con sé necessariamente una presa di posizione sui grandi temi dibattuti dal pensiero precedente. E difatti Protagora, nel suo insegnamento, tiene conto della dottrina di Eraclito sull’unità degli opposti e della dottrina di Parmenide sul carattere puramente illusorio della conoscenza sensibile: se possiamo dimostrare una cosa e anche il contrario di questa cosaciò significa che la realtà si avvicina molto all’illusione.

     Ma i Sofisti utilizzano la lezione dei loro predecessori per sostenere i propri intenti educativi, che sono quelli dell’utilità politica, e non sempre a fin di bene, del bene comune. I Sofisti (le loro Scuole) hanno un grande successo con l’imperialismo di Pericle, che fornisce il giusto clima per questi maestri nomadi i quali, non a caso, si disperdono non appena le sorti di Atene volgono al peggio. Paradossalmente tocca a Socrate, che può essere considerato (nelle sue varie maschere) il migliore dei Sofisti perché ne critica gli aspetti peggiori, pagare con la vita il crimine di pubblica corruzione che la parte più retriva della città – che, in modo ipocrita si è servita, e non a fin di bene, della peggiore retorica – comincia ad addossare a questi venditori del sapere. Ci penserà Platone a riscattare Socrate da questa ingiustizia.

     La colpa è di Protagora? Platone non attribuisce la colpa di degenerazione della sofistica a Protagora di Abdera al quale va riconosciuto il merito di avere impresso al movimento della sapienza poetica orfica, e al pensiero greco, una svolta umanistica. I pensatori precedenti considerano la persona (pensiamo agli ionici di Mileto) come un momento della natura, oppure fanno dissolvere la persona, come i pensatori di Elea, nell’oggettività impersonale dell’Essere per cui la persona è il Non-essere. L’affermazione di Protagora: La persona è misura delle coseintroduce l’idea di Umanesimo.

     Per concludere leggiamo un frammento tratto da una delle Lezioni tenute a Berlino da un certo Georg Hegel che, forse, incontreremo tra due settimane. Intanto egli, a proposito di Protagora, ci manda a dire:

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel, Lezioni sulla Storia della Filosofia (1832)

Usando le parole di Protagora di Abdera, la premessa dell’insegnamento dei sofisti è che «l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». Il senso della tesi di Protagora è stato, sin dai suoi tempi, molto controverso. C’è chi intende per uomo l’individuo singolo: nel qual caso ognuno sarebbe misura di tutte le cose, con la conseguenza di un relativismo assoluto. C’è chi intende per uomo l’umanità universale: nel qual caso la misura andrebbe ricercata in ciò che accomuna tutti gli uomini, e cioè la ragione. C’è poi chi intende per uomo il cittadino come soggetto sociale, in quanto membro della polis: nel qual caso la misura sarebbe l’ethos [costume sociale] della singola città-stato, diversa dalle altre non solo nello spazio e nel tempo ma anche nei criteri di distinzione tra il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto. Protagora sarebbe, così, il precursore delle teorie sul carattere ideologico e cioè pratico-politico, di ogni forma culturale. L’interpretazione più reale sembra quella che assume l’uomo come soggetto relativo, incapace di conoscere la realtà come è in sé perché necessariamente condizionato dalla particolare conformazione del suo apparato sensitivo. Il miele è dolce per chi è sano, è amaro per chi è malato. Un cibo disgustoso per il malato è gustoso per il sano. Come in questo, così in tutti i casi le opinioni dipendono dallo stato organico in cui si trova il soggetto. Non ci sono opinioni vere né opinioni false: ci sono soltanto opinioni politicamente utili e politicamente dannose. L’arte del sofista non è di insegnare la verità ma di modificare, come fa il medico col malato, lo stato organico della mente dell’uomo, in modo che essa abbracci le opinioni più utili alla città. La costante, nel discernere le opinioni, è dunque l’utile. Mutando le circostanze, muta anche l’utile e perciò quel che ieri era vero oggi diventa falso e viceversa. Su qualsiasi argomento è possibile svolgere due discorsi opposti tra loro eppure, a seconda delle circostanze, tutti e due veri. Protagora ha scritto, appunto, le Antilogie, una raccolta esemplificativa dei discorsi tra loro contrari.

     Chissà come mai le Antilogie di Protagora, evocate da Hegel, possano far venire in mente – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – il romanzo intitolato Il signor Veneranda di Carlo Manzoni? Lo avete letto? Se ne consiglia la lettura. Possibile che un banale, involontario fischio possa dar addito a significati e discorsi opposti eppure veri? Quante antilogie ci sono nella realtà che ci circonda?

LEGERE MULTUM….

Carlo Manzoni, Il signor Veneranda

Il signor Veneranda si fermò davanti al portone di una casa, guardò le finestre buie e spente e fischiò più volte, così, per caso, come se volesse chiamare qualcuno. Ad una finestra del terzo piano si affacciò un signore. «È senza chiave?» chiese il signore gridando per farsi sentire.

«Sì, sono senza chiave» gridò il signor Veneranda.

«E il portone è chiuso?» gridò di nuovo il signore affacciato.

«Sì, è chiuso» rispose il signor Veneranda.

«Allora butto la chiave».

«Per fare che cosa?» chiese il signor Veneranda.

«Per aprire il portone» rispose il signore affacciato.

«Va bene» gridò il signor Veneranda «se vuole che apra il portone, butti pure la chiave».

«Ma lei – gridò il signor affacciato – non deve entrare?»

«Io no» gridò il signor Veneranda.

«E allora perché vuole la chiave?»

«Se lei vuole che le apra il portone – gridò il signor Veneranda – dovrò pure aprirlo con la chiave. Il portone non posso mica aprirlo con la pipa, le pare?»

«Io non voglio aprire il portone» gridò il signore affacciato «io credevo che lei abitasse qui: ho sentito che fischiava».

«Perché tutti quelli che abitano in questa casa fischiano?» chiese il signor Veneranda, sempre gridando.

«Se sono senza chiave, sì!» rispose il signore affacciato.

«Insomma, si può sapere cosa avete da gridare? Qui non si può dormire» urlò un signore affacciandosi a una finestra del primo piano.

«Gridiamo perché quello sta al terzo piano e io sto in istrada» disse il signor Veneranda «se parliamo piano non ci si capisce».

«Ma lei cosa vuole!» chiese il signore affacciato al primo piano.

«Lo domandi a quello del terzo piano cosa vuole» disse il signor Veneranda «io non ho ancora capito: prima vuol buttarmi la chiave per aprire il portone, poi dice che se io fischio debbo abitare in questa casa. Insomma io non ho ancora capito. Lei fischia?». «Io? Io no perché dovrei fischiare?» chiese il signore affacciato al primo piano. «Perché abita in questa casa» disse il signor Veneranda; «l’ha detto quello del terzo piano che quelli che abitano in questa casa fischiano! Be’, ad ogni modo non m’interessa, se vuole può anche fischiare» …

     Il capitano Agenore di Tiro ha cominciato a fischiare e il suo gesto è inequivocabile: significa che dobbiamo imbarcarci perché dobbiamo tornare, ancora una volta, nella Mega Hellas, nella Magna Grecia. Dobbiamo raggiungere, alla svelta, Lentini.

     La polis di Leòntinoi oggi si chiama Lentini e si trova in provincia di Siracusa, tra Siracusa, Catania e Piazza Armerina: un triangolo delle meraviglie da visitare subito con l’atlante e con una guida della Sicilia.

     Ma noi torniamo nella Mega Hellas, nella Magna Grecia, perché Erodoto vuole tornare a casa: è stanco di viaggiare e vuole constatare se – accanto alla fonte Thouria – sull’albero genealogico lessicale è cresciuto davvero un ramo in più. Erodoto sa che questo ramo – il ramo della sapienza poetica orfica – si è sviluppato e su di esso sono spuntate, come gemme, una serie di parole-chiave e di idee-cardine. Con queste parole-chiave e con queste idee-cardine, Erodoto potrà finalmente scrivere Le (sue) Storie e anche noi potremo leggere e scrivere in modo più consapevole. La prossima settimana si conclude questo lungo viaggio – il secondo viaggio in compagnia di Erodoto – ma poi ne comincia subito un altro, più breve, ma ugualmente intenso: come abbiamo sentito, Hegel ha già battuto un colpo. Ma era Hegel che ha battuto un pugno sul tavolo o era un colpo di cannone, oppure tutte e due le cose? Prossimamente si saprà.

     Battete un colpo anche voi e imboccate, dopo questo itinerario di studio, anche il prossimo. Ma questo secondo viaggio in compagna di Erodoto non è ancora terminato: c’è ancora una tappa e la Scuola è qui, accorrete …

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 27, 2007