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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLE “QUATTRO RADICI”...

Lezione N.: 
21

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2007      28-29-30   marzo  2007

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULLE “QUATTRO RADICI”...

     Con la nave Sidonia, al comando del capitano Agenore di Tiro e in compagnia di Erodoto, siamo sbarcati ad Akràgas, che si chiamerà poi Agrigentum e poi Girgenti e infine Agrigento. Mi auguro che  in settimana siate andate/andati a visitare questa bella città utilizzando l’enciclopedia e la guida della Sicilia o la rete di internet.

     Siamo (virtualmente) sbarcati ad Akràgas  nell’antico porto della polis greca che si trovava a sud-est dove oggi c’è la vivacissima località balneare (la spiaggia di Agrigento) di San Leone, fino agli anni ’60 antico e pittoresco villaggio di pescatori collocato alla foce dell’omonimo fiume (San Leone) tra punta Akràgas, il bosco della Maddalusa, e le dune che conservano l’antica necropoli di Montelusa; ma a questo proposito – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è utile osservare la carta geografica di questa zona. Siamo sbarcati ad Akràgas  in un momento di trasformazione per questa ricca e potente polis della Sicilia meridionale, nel momento di passaggio tra il governo della tirannide e quello delle ritrovate Istituzioni democratiche. In questo clima di rinnovamento, sappiamo che si affaccia sulla vita politica agrigentina un ragazzo appena ventenne, che tra non molto farà parlare di sé, diventerà adulto lasciando il segno non solo negli annali di Akràgas ma nella Storia del Pensiero Umano universale. Sappiamo che costui si chiama Empedocle di Agrigento.

     Già la scorsa settimana, mentre la nostra nave approdava nel porto che oggi si chiamerebbe di San Leone, ci siamo chiesti: chi è Empedocle di Agrigento? Abbiamo detto che è una domanda difficile perché la risposta, o meglio, le risposte comportano non poche difficoltà. E le difficoltà stanno nel fatto che anche le notizie (come per Pitagora) sulla vita di Empedocle di Agrigento sono fortemente condizionate dalla tradizione mitica la quale ci presenta un personaggio (suo malgrado) molto ambiguo, bifronte, con due facce, con due volti sui quali fa calare spesso molte maschere (e il termine “maschera” ha un posto di rilievo nel catalogo delle parole-chiave del movimento della sapienza poetica orfica, su cui siamo edotte/edotti). La parola-chiave maschera ci fa riflettere sul fatto che (sempre osservando la carta geografica sull’atlante) a circa sette chilometri a sud-ovest di Agrigento troviamo una cittadina, sul mare, che si chiama Porto Empedocle. Sulla strada che collega Agrigento a Porto Empedocle s’incontra una località che si chiama Caos dove si trova la casa natale di Luigi Pirandello (1867-1936) che ospita un museo, e nel giardino, ai piedi di un pino marittimo, c’è l’urna con le sue ceneri.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Avete mai visto, a teatro, la rappresentazione di una delle commedie di Luigi Pirandello?…

     Nel testo della commedia intitolata Il berretto a sonagli ci sono due idee molto significative: quella delle corde e quella dei pupi e tanto le corde quanto i pupi (i burattini) fanno riferimento alle maschere. Queste due idee vengono spiegate dal personaggio-chiave della commedia: lo scrivano Ciampa  (l’alter ego di Tararà della novella La verità, che abbiamo già letto). Ciampa sostiene che tutti abbiamo come tre corde d’orologio in testa (oggi gli orologi non sono più a corda ma ce li ricordiamo ancora): la corda seria, la corda civile e la corda pazza, queste tre corde (queste tre forme di mascheramento) noi le utilizziamo a seconda delle circostanze. Di conseguenza Ciampa sostiene che tutti siamo pupi, siamo burattini, siamo marionette sul palcoscenico della vita dove l’essere e l’apparire s’intrecciano inesorabilmente, dove la realtà e il mito (il mito orfico) s’intersecano ineluttabilmente. D’altra parte senza il mito (senza la capacità d’immedesimarci in modelli mitici e di utilizzare le tante maschere che abbiamo a disposizione), sostiene Campa, l’esistenza non avrebbe senso e la quotidianità non sarebbe sopportabile.

     Leggiamo due frammenti da:

LEGERE MULTUM….

Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli  (1917)

   CIAMPA - «Deve sapere, signora, che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza. Soprattutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qui in mezzo alla fronte. Ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. Ma non si può. Io mi mangerei, per modo d’esempio, il signor Fifì. Non si può. E come faccio allora? Do una giratina così alla corda civile e gli vado innanzi con cera sorridente, la mano protesa: - Oh quanto mi è grato vedervi, caro il mio signor Fifì. Capisce, signora? Ma può venir il momento che le acque s’intorbidano. E allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quello che devo. Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio» …

 

   CIAMPA - «Pupi siamo! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, essere nati pupi così per volontà divina. Nossignori. Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede di essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori . A quattr’occhi non è contento nessuno della sua parte: ognuno ponendosi davanti il proprio pupo gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri no, dagli altri lo vuole rispettato. Lei forse, con suo marito, il cavallier Fiorica, mio riverito principale, se lo conoscesse soltanto come un buon amico, potrebbe stare insieme nella pace degli angeli. La guerra è dei due pupi: il pupo marito e la pupa moglie. Dentro si strappano i capelli, si vanno con le dita negli occhi; appena fuori però si mettono a braccetto: corda civile lei, corda civile lui, corda civile tutto il pubblico che, come vi vede passare, sorrisi, scappellate, riverenze e i due pupi godono tronfi di orgoglio e di soddisfazione. Non so se mi sono spiegato. Veniamo a noi, signora. Che devo andare a fare a Palermo?» …

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ciampa dice:  «Veniamo a noi, signora. Che devo andare a fare a Palermo?» … 

Ebbene: che cosa deve andare a fare Ciampa a Palermo?… Lo scoprirete leggendo il testo della commedia, lo trovate in biblioteca: accendete la vostra curiosità…  

     Ma noi ora non possiamo ancora andare a Palermo, dobbiamo rimanere ad Akràgas, dove vive Empedocle il quale, a detta della tradizione mitica, ha più di una corda in testa, e utilizza molte maschere. Infatti c’è chi afferma che Empedocle è un filosofo, è un medico, è un fisico, è un democratico e soprattutto è un poeta orfico. E c’è invece chi nega energicamente questa tesi sostenendo che Empedocle è uno stregone, è un negromante, è un ciarlatano, è un guru, è uno che dice di essere un Dio e che irride sarcasticamente con superiorità tutti quelli che incontra.

     Ma allora, chi è veramente Empedocle di Agrigento? Tutte le studiose e tutti gli studiosi – e noi ci uniformiamo – per definire Empedocle di Agrigento hanno utilizzato una definizione data dallo storico delle religioni, orientalista e pensatore positivista francese Joseph Ernest Renan (1823-1892), che, in un libro intitolato Venti giorni in Sicilia. Mélanges di storia e di viaggi, scrive: «Empedocle di Agrigento è una persona di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo Cagliostro». Che cosa significa questa frase? Che cosa significa essere «mezzo Newton e mezzo Cagliostro»? Significa (per lo meno avere due maschere) essere per metà scienziato e per metà negromante. E allora, chi è veramente Empedocle di Agrigento? Che cosa sappiamo di lui? Entriamo nel balletto delle maschere.

     Empedocle nasce ad Agrigento intorno al 492 a.C. in una famiglia nobile e benestante. Diogene Laerzio, nella Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, scrive che suo padre si chiama Melone e suo nonno ha il suo stesso nome Empedocle. Il nonno Empedocle è famoso in tutto il mondo greco: è un allevatore di cavalli da corsa e – ci dicono le cronache – ha vinto la settantunesima Olimpiade. Nel mondo ellenico la vittoria alle Olimpiadi è considerata un evento eccezionale: i vincitori, nelle loro polis, vengono ricompensati e glorificati per tutta la vita. A questo proposito la tradizione mitica ci racconta che quando l’olimpionico Diagora vede entrambi i suoi figli vincere anch’essi le Olimpiadi, viene invitato dai presenti a uccidersi sul posto: «Muori, o Diagora,» gli dicono «giacché più di questo nella vita non potrai ottenere!». Ma lui prontamente risponde: «Va bene, ma prima mi mancherebbe la vittoria dei nipoti, e quindi aspetto». Diogene Laerzio, nella Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, scrive che Empedocle, nonno di Empedocle, festeggia la vittoria olimpica offrendo agli agrigentini «un bue  impastato di miele e di farina» (È una ricetta particolare? Sono nuove tendenze culinarie?).

     Inoltre Diogene Laerzio, nella sua Raccolta, ci racconta il momento in cui Empedocle, da adolescente, fa un primo incontro importante sul piano della cultura. Infatti un giorno arriva ad Akràgas un personaggio che viaggia da una polis all’altra a divulgare (a cantare) il suo pensiero. Questo personaggio noi lo conosciamo, lo abbiamo già incontrato, si chiama Senofane di Colofone ed abita ad Elea. Empedocle ascolta Senofane sotto i colonnati del Tempio di Eracle (il Tempio di Eracle o di Ercole – quello che resta di questa costruzione – è il più antico edificio sacro che si trova nella Valle dei Templi, in posizione elevata proprio all’inizio della Via dei Templi). Alla fine della lezione tenuta da Senofane, davanti a un numeroso pubblico, il ragazzo Empedocle alza la mano e fa una domanda al maestro di Elea e chiede: «Maestro, esiste un modo per riconoscere le persone sagge?». Il vecchio Senofane risponde che non si tratta di una cosa molto difficile: «Per riconoscere le persone sagge, ragazzo, basta essere saggi. E per essere saggi, prosegue, bisogna diventarlo, e per diventarlo bisogna studiare, è necessario curare la propria anima: tu studi?». Empedocle capisce il messaggio anche se non è riuscito ad afferrare molto bene tutti i concetti espressi da Senofane: soprattutto il concetto fondamentale che sintetizza il pensiero del vecchio filosofo di Elea: l’Uno è Tutto.

     Comunque, proprio in seguito a questo incontro, Empedocle, ci racconta Diogene Laerzio, decide di dedicarsi con impegno all’osservazione della natura (physis) e allo studio della fisica. Oltre alla sperimentazione naturalistica Empedocle si dedica anche all’attività politica e partecipa a rovesciare il regime di Trasideo, il figlio del tiranno Terone. Poi, mentre ad Akràgas rifioriscono le Istituzioni democratiche e c’è un maggiore clima di apertura (a molti cittadini viene restituito il passaporto), decide di partire per Elea dove spera d’incontrare ancora Senofane, ma il vecchio maestro non c’è più.

     Alla Scuola di Elea incontra Parmenide e Zenone: questo incontro non lo soddisfa, ma lo delude. Per quale ragione il giovane Empedocle rimane deluso dalla Scuola di Elea? Empedocle è sicuramente un ragazzo che ama l’azione, che tende alla concretezza, curioso dei fenomeni della natura. Parmenide, con il suo intellettualismo astratto, gli sembra completamente fuori della realtà, e il pensiero di Zenone, con i suoi paradossi, gli pare piuttosto sconcertante. E così il giovane Empedocle, nonostante abbia comunque imparato qualcosa (c’è sempre qualcosa da imparare nelle esperienze che si fanno), torna subito in Sicilia piuttosto infastidito da tutte queste sottigliezze logiche e paradossali.

     In Sicilia, secondo il racconto di Diogene Laerzio, Empedocle decide di iscriversi alla Scuola pitagorica (e sappiamo di che cosa si tratta). C’è chi dice, continua Diogene Laerzio, che sia stato allievo di Telauge, il figlio di Pitagora, chi di Brontino e di Epicarpo. Ma anche con i pitagorici Empedocle ha dei problemi: la Scuola pitagorica, lo sappiamo, è soprattutto una setta politico-religiosa, ed Empedocle, scrive ancora Diogene Laerzio, con il suo carattere estroverso, non è uno scolaro ubbidiente e viene accusato di chiacchierare troppo fuori dalla Scuola: sappiamo che  la regola pitagorica non sopporta che si vada a spettegolare in giro sui “misteri” della Scuola.

     Empedocle, ci racconta Diogene Laerzio, viene punito e fatto entrare nel gruppo di quelli che durante le lezioni non erano autorizzati a parlare. Poco male perché Diogene Laerzio c’informa che lo stesso trattamento, subìto da Empedocle, sarebbe stato riservato, da lì a poco, anche a Platone: noi sappiamo che nella Scuola pitagorica la regola del silenzio doveva essere rispettata.

     Gli argomenti trattati dalla Scuola pitagorica, preferiti da Empedocle, sono la Metempsicosi e la Magia. Essendo però considerato un alunno poco disciplinato ad un certo punto si rende conto che i suoi maestri pitagorici (Telauge? Brontino? Epicarmo?) sono assai restii a svelargli tutti i segreti della Magia che lui avrebbe voluto conoscere. E allora, Empedocle, decide di emigrare verso oriente dove sa che ci sono delle Scuole molto qualificate in materia. Sappiamo, è Diogene Laerzio che c’informa, che Empedocle studia presso gli Egiziani, presso i Caldei e soprattutto presso i Magi. In queste Scuole che frequenta con grande impegno impara le cosiddette “arti mistiche”: l’ipnosi, la telecinèsi (la facoltà di spostare gli oggetti con la mente) e la lettura del pensiero.

     Qui comincia a delinearsi la doppia valenza che assume la figura di Empedocle: da una parte il fisico sperimentatore e dall’altra il praticante di arti mistiche. Questo fa sì che Plinio il Vecchio e molti altri storici considerano Empedocle, proprio a causa di queste sue pratiche esoteriche, più un negromante, più un ciarlatano, che uno scienziato. Noi però dobbiamo considerare il fatto che, nella Storia del Pensiero Umano e in particolare anche nella cultura orfica, la Magia è una vera e propria disciplina con regole, norme, precetti, canoni, ben precisi (pensate, per esempio, all’episodio dei Magi nella letteratura dei Vangeli).

     Qual è il ruolo della Magia, che finalità ha? La Magia è una disciplina che si occupa della mediazione tra gli esseri umani e gli dèi (il Cristianesimo fa proprio il concetto della “mediazione”). Il ruolo della maga e del mago è quello di essere un tramite tra il mondo umano e il mondo divino, tanto che le maghe e i maghi vengono considerati come una specie di divinità subalterne. La Magia si attua attraverso un culto che si chiama Teurgia (ne abbiamo già parlato). La Teurgia è un’arte capace di evocare, a fin di bene, la divinità. Quindi il mestiere della maga e del mago (del teurgo, del medium) è di tutto rispetto visto che ci sono sempre state persone che sentono il bisogno di una mediazione tra l’umano e il divino.

     Qualche cosa succede al tempo di Empedocle che rovina la reputazione di chi si dedica all’esercizio della Magia. Che cosa succede? Si è sempre pensato che tra il regno umano e quello divino (sede dell’Idea del Bene) ci sia il regno dei demòni (la sede del Male). In Caldea nasce e si sviluppa una setta religiosa, i cui adepti, i goeti, professano riti demoniaci (a fin di male). I goeti si riuniscono nel buio delle caverne e praticano sacrifici umani per evocare i demòni. Al tempo di Empedocle, quindi, la confusione che si crea tra il ruolo dei teurghi (che operano a fin di bene) e le pratiche dei goeti (che collimano con la criminalità) finisce per danneggiare la reputazione della Magia come disciplina di mediazione tra l’umano e il divino.

     Empedocle paga lo scotto di questa situazione. Empedocle, presso le Scuole d’oriente, impara a fare il mago ma non dimentichiamo che è stato soprattutto un ottimo medico, un esperto di anatomia umana, uno di coloro i quali hanno preparato la strada perché la medicina diventi una disciplina a sé stante, come avverrà in seguito con Ippocrate di Cos (460 circa-380 circa a.C.).

     Tornato in patria, Empedocle si rende subito conto che i suoi concittadini non hanno usato bene la maggiore libertà data dalle Istituzioni democratiche ma sono assai peggiorati in quanto a morale pubblica e privata e quindi decide di dedicarsi alla riforma dei costumi. Lancia una vera e propria campagna di moralizzazione intitolata: il “digiuno dal male”. Empedocle pensa che sia necessario «digiunare dal male» per purgarsi, per purificarsi, da tutti i peccati commessi (nel predicazione di Savonarola si ritrova quest’eco). Diogene Laerzio (zelante come sempre) scrive che Empedocle comincia anche ad accusare gli amministratori della città di aver rubato al pubblico erario, e attacca l’Assemblea dei mille – il gruppo aristocratico che aveva ripreso le leve del potere – e propone un nuovo governo fondato sull’eguaglianza civile, sulla partecipazione popolare. L’entusiasmo del popolo minuto di Akràgas per l’iniziativa di Empedocle cresce e si forma, intorno a lui, un forte movimento di opposizione e gli viene proposto di guidare una rivolta e di assumere il titolo di tiranno. Ovviamente, racconta Diogene Laerzio, il filosofo rinuncia (come già a suo tempo aveva fatto Eraclito che abbiamo incontrato a Efeso qualche settimana fa): Empedocle vuole salvare le Istituzioni democratiche e non vuole il ritorno della tirannide e quindi si limita a suggerire una serie di nomi di cittadini onesti e morigerati a cui affidare il governo della polis.

     È chiaro che Empedocle, a questo punto, si merita il titolo onorifico di “salvatore dei principi democratici dello Stato” e assume – proprio prendendo le distanze dal potere materiale – un ruolo carismatico, con un atteggiamento (che lui asseconda) simile a quello di una divinità.

     Diogene Laerzio scrive e noi leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Empedocle era solito incedere per le vie di Agrigento preceduto da uno stuolo di giovani, e circondato da ammiratori che volevano servirlo Indossava un vestito di porpora, una cintura d’oro e i calzari di bronzo. Aveva una folta barba e si cingeva il capo con una corona delfica in onore di Apollo.

Di se stesso diceva [Fr. 100]: «O amici, che la città sul biondo Agrigento abitate, lì sull’Acropoli io vi saluto: io tra voi. Dio Immortale, non più mortale, m’aggiro onorato da tutti, com’è conveniente, di bende cinto e di fiorite corone. Quando giungo nelle città fiorenti, dagli uomini e dalle donne sono onorato; essi a migliaia mi seguono, per apprendere dove sia il sentiero che porta alla salvezza, alcuni di un oracolo hanno bisogno, altri, afflitti da ogni sorta di malanni, vogliono sentire una salutare parola»

     Questo autoritratto, come racconta Diogene Laerzio, contribuisce a creare la figura ambivalente di Empedocle. Empedocle è nello stesso tempo un fisico, un medico, un tecnico e un profeta, un mago, una figura eccentrica. Sta di fatto, continua a raccontare Diogene Laerzio, che un giorno la polis di Selinunte (che oggi è uno stupendo sito archeologico) viene colpita da una grande pestilenza ed Empedocle intuisce che l’epidemia è da attribuirsi alle acque stagnanti di un fiumiciattolo che attraversa il centro abitato. Empedocle studia la situazione, esamina con cura il territorio circostante, fa scavare dei canali di deviazione e convoglia su quel fiume altri due corsi d’acqua vicini, in modo da garantire un deflusso regolare delle acque: il tutto, scrive Diogene Laerzio, a sue spese. È chiaro che dopo questo intervento che sana la situazione, Empedocle viene onorato come se fosse un Mago (persino come se fosse un Dio) anche dai cittadini di Selinunte.

     Plutarco di Cheronea (personaggio di nostra conoscenza), in uno dei suoi Opuscoli denominato La curiosità, racconta un significativo episodio a proposito di Empedocle:

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Opuscoli morali. La curiosità  (anteriori al 127 d.C.)

Empedocle, nei pressi di Agrigento, fece sbarrare con centinaia di pelli d’asino una stretta gola tra i monti per impedire allo scirocco di penetrare nella valle sottostante.

Questo sistema fu messo a punto dal filosofo agrigentino per contrastare il diffondersi di un’epidemia. Da quel giorno ad Empedocle, che era considerato come un Dio, venne attribuito il soprannome di «domatore dei venti».

     Aristotele definisce Empedocle «inventore di retorica» e scrive che ebbe come allievi Gorgia e Pausania (questi personaggi, questi sofisti, questi esperti di retorica, li incontreremo prossimamente). A questo proposito Aristotele aggiunge (e anche Diogene Laerzio conferma questa notizia) che Pausania «era anche il suo amante»: era l’amante di Empedocle. Diogene Laerzio, nella sua Raccolta, ci racconta un altro episodio significativo:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Empedocle fu invitato a pranzo da un personaggio autorevole, da un deputato dell’Assemblea: il convito era al punto che ormai bisognava bere, ma nessuna bevanda veniva servita; tutti stavano tranquilli, ma Empedocle, assunto un atteggiamento di disgusto e di disprezzo, diede ordine che si portasse da bere. Allora il padrone di casa rispose, piccato, che attendeva l’arrivo di un ministro del Consiglio. Quando costui arrivò fu fatto accomodare al posto d’onore [fu eletto simposiarco] e, come se in quella città ci fosse la tirannide, il nuovo arrivato ordinò che allora potevano bere e se qualcuno non avesse voluto eseguire il suo ordine gli fosse versato il vino in testa. Empedocle rimase fermo e quieto, ma il giorno seguente citò entrambi, il deputato e il ministro, davanti al tribunale che, dopo averli giudicati come aspiranti alla tirannia, li condannò a morte.   

     Questo verdetto è sembrato eccessivo anche ad Empedocle e quindi si adopera perché i due vengano graziati ma anche perché non vengano più eletti.

     Empedocle è stato un grande poeta (fa parte a pieno titolo del movimento della sapienza poetica orfica) ed è stato anche un bravo cantante. A questo proposito è Giamblico di Calcide, (un personaggio di nostra conoscenza) che nella sua Vita di Pitagora ci racconta un episodio che riguarda Empedocle cantante:

LEGERE MULTUM….

Giamblico di Calcide, Synagoge. Della vita pitagorica (300-330)

Una volta, mentre Empedocle conversava con il giudice Anchito, un giovane, stravolto dall’ira, irruppe nella sua casa e aggredì il magistrato per vendicarsi del fatto che, proprio quel giorno, costui aveva condannato suo padre. Empedocle, con intuito eccezionale, afferrò una cetra che aveva lì accanto e, con estrema freddezza, si mise a cantare dei versi che lui stesso aveva composto:

Il canto è un farmaco per l’ira ed i dolori

il canto è l’unico oblio a tutti i mali

Il giovane, all’udire la sua voce melodiosa, si calmò di colpo ed Empedocle riuscì a salvare la vita dell’amico. Quanto a questo giovane aggressore, pare che in seguito sia diventato uno dei suoi migliori discepoli.

     Il fatto è che, secondo la tradizione mitica, Empedocle di Agrigento, oltre a questi gesti significativi, ha fatto anche i miracoli. Secondo la tradizione mitica, la lista dei miracoli di Empedocle di Agrigento è molto lunga. Ne riferiamo uno solo anche per citare un’opera, una delle biografie su Empedocle, scritta all’inizio dell’800 da un abate agrigentino, Domenico Scinà, il quale si dimostra molto attento ai miracoli di Empedocle. Leggiamo questo frammento che ricorda – è un abate che scrive – la letteratura dei Vangeli:

LEGERE MULTUM….

Domenico Scinà, Vita e filosofia d’Empedocle girgentino  (Palermo 1813)

Infermava una donna a Girgenti di una malattia uterina dai maestri di medicina chiamata isterica; non v’è dubbio che, in specie le donne, molte di esse sappiano fingere, eppure nel caso della girgentina pare che essa fosse autentica, giacché insensibile riusciva al tatto e giacché pareva che più non respirasse e morta veniva reputata da tutti. Allora Empedocle la prese per mano e le ridette la vita.

     Empedocle di Agrigento, come si è detto, è un mago, è uno scienziato, è un filosofo ed è anche un poeta: egli ha scritto due poemi in esametri intitolati Sulla natura o Le origini e Purificazioni [Katharmoi], per un totale di cinquemila versi, di cui se ne sono conservati ben, circa, 400. Aristotele sostiene che Empedocle di Agrigento ha scritto anche 43 tragedie, alcuni saggi politici, un racconto storico su Serse, il re dei Persiani, (e qui Erodoto drizza le orecchie) e poi un Proemio in onore di Apollo. Ma, asserisce Aristotele, un bel giorno, giudicando tutte queste opere non all’altezza del suo ingegno, le consegnò alla sorella perché le utilizzasse per accendere il fuoco e lei, ben contenta (era un ottimo combustibile) le adoperò in proposito.

     Come scienziato, ad Empedocle di Agrigento, va riconosciuto il merito di aver sperimentato la consistenza fisica dell’aria, dimostrando che questo elemento non ha niente a che vedere con il vuoto: in un frammento della sua opera intitolata La natura, egli scrive: «Se una fanciulla, giocando con un recipiente di rame, prima ottura con la bella mano l’apertura del vaso, poi immerge il tutto a testa in giù nel corpo leggero dell’acqua argentea, l’acqua non entra all’interno della coppa giacché la massa dell’aria la respinge».

     Empedocle, come scienziato, scopre anche la forza centrifuga e nota che se leghiamo un secchio d’acqua a una fune e lo facciamo girare vorticosamente intorno a noi, l’acqua s’incolla sul fondo del secchio e non ce la fa più a cadere.

     Inoltre Empedocle, come scienziato, concepisce una primordiale, e assai suggestiva, teoria dell’evoluzione anticipando di 2300 anni la rivoluzionaria teoria di Darwin. Secondo la teoria formulata da Empedocle, le particelle degli elementi primordiali si sono combinate tra loro senza nessun ordine prestabilito e i primi esseri viventi sono nati per caso. Scrive Empedocle: «Spuntarono tempie senza collo, braccia nude erravan prive di spalla e occhi solitari vagavan senza fronti» [Fr. 57]. E poi aggiunge che da ogni parte si scorgevano «piedi striscianti con innumerevoli mani» [Fr. 60], e «molti nacquero con due volti e due petti, e si videro stirpi bovine con volti umani e stirpi umane con volti bovini» [Fr. 61]. Empedocle concepisce, in principio, un mondo di esseri le cui parti non sono state assemblate da una mente programmatrice, bensì secondo la più disordinata e assoluta casualità; ma, continua Empedocle, con il passare del tempo, «i miscugli peggio assortiti cominciarono a morire e restarono in vita solo gli esemplari le cui membra meglio di tutti s’accordavano» [Fr. 59]. È chiara, in Empedocle di Agrigento, l’intuizione evoluzionistica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Sulla parola evoluzione è utile riflettere in termini autobiografici… C’è un periodo (ce ne sarà più di uno…) della vostra vita di cui potete dire: «Questo è stato un momento di evoluzione»?  Scrivete quattro righe in proposito… 

     Empedocle di Agrigento ha scritto due opere (due poemi in esametri) intitolate Sulla natura o Le origini e Purificazioni, Katharmoi. I problemi che hanno posto nei secoli e che continuano a porre alle studiose e agli studiosi le opere di Empedocle sono molteplici e complicati. Il poema di argomento fisico è solitamente menzionato con il titolo Sulla natura ma noi sappiamo che questa dicitura (Sulla natura, Peri physeos) indica soprattutto un genere letterario (il genere del poema filosofico di stampo orfico sapienziale) e quindi si presume che quest’opera sia stata chiamata dall’autore: Le origini (Genesis). Quest’opera era formata da circa duemila versi e ne rimanevano circa 350. La situazione, ultimamente, si è notevolmente modificata: il numero in nostro possesso dei frammenti dell’opera di Empedocle intitolata Sulla natura o Le Origini è aumentato. Che cosa è successo? Il numero in nostro possesso dei frammenti dell’opera di Empedocle intitolata Sulla natura o Le Origini è aumentato perché è stata fatta una scoperta di grande importanza: nel 1990 un antichista belga, il professor Alain Martin, ha iniziato a studiare un papiro conservato nella Biblioteca Nazionale e Universitaria di Strasburgo. Questo papiro proviene dalla città egiziana di Achmim che nell’antichità si chiamava Panopoli (la città di Nonno) ed era sede di una delle più importanti Scuole pitagoriche del bacino del Mediterraneo. Su questo Papiro di Panopoli, databile intorno alla fine del I secolo d.C., il professor Martin ha identificato i resti di un libro contenente il poema fisico di Empedocle. Questa identificazione – alla quale ha partecipato anche lo studioso tedesco Oliver Primavesi – ha restituito settantaquattro esametri (venticinque dei quali coincidono con quelli già noti e quarantanove costituiscono una consistente nuova scoperta). I nuovi versi acquisiti permettono di inquadrare in termini più chiari e coerenti il pensiero di Empedocle che è sempre stato soggetto ad interpretazioni contrastanti.

     Si capisce che l’intento di Empedocle, nello scrivere il suo poema, è essenzialmente didattico: egli si propone, prima di tutto, di ricostruire la genesi del mondo a partire dal suo fondamento. Si capisce anche che il poema fisico è stato scritto per primo rispetto all’altro poema Katharmoi, Purificazioni, in modo da costruire un discorso morale, in modo da formulare un programma etico, sulla base dei principi fisici costitutivi dell’Universo.

     Con questo nuovo ritrovamento appare più chiaro il pensiero di Empedocle. Quali sono le caratteristiche del pensiero di Empedocle di Agrigento? Empedocle di Agrigento tesse la trama della sua riflessione per definire come è fatto l’Universo (la cosmologia) e da dove e come nascono tutte le cose, tutti gli esseri (l’ontologia), utilizzando tre fili (tre linee speculative).

Il primo filo (verde) è caratterizzato dal naturalismo della Scuola di  Mileto.

Il secondo filo (rosso) è caratterizzato dal misticismo di carattere scientifico della Scuola pitagorica.

E il terzo filo (blu) è un intreccio tra l’idea dell’Essere della Scuola di Parmenide di Elea e l’idea del divenire della Scuola di Eraclito di Efeso.

     Ma vediamo come procede la tessitura di Empedocle che, come possiamo capire, si pone come una sintesi dei pensieri e delle linee speculative precedenti. Empedocle studia (il filo verde) il problema dell’arché, del principio di tutte le cose, guardando alla Scuola di Mileto dove gli esponenti del naturalismo ionico (Talete, Anassimandro, Anassimene: li abbiamo incontrati) mettono al centro dell’attenzione una componente (l’umido, l’àpeiron, l’aria-aria-aria) che costituisce l’elemento iniziale. Empedocle ad un unico elemento, concepito dai pensatori di Mileto come principio di tutte le cose (l’arché), contrappone una pluralità di elementi in origine. Egli non utilizza il termine “elemento”, in greco “stoicheia” (secondo il vocabolario di Platone), tipico della Scuola di Mileto, che risulta un termine di natura prevalentemente empirica, ma fa entrare in gioco una parola che deriva dal vocabolario (il filo rosso) della Scuola pitagorica: la parola radice, in greco rhixoma.

     Secondo la Scuola pitagorica, la parola radice, “rhixoma”, ha una valenza scientifica rispetto alla parola elemento che ha una valenza empirica: che cosa significa? Questi concetti non sono semplicissimi da capire: bisogna provare a decodificarli. Secondo Empedocle, il ragionamento empirico (della Scuola di Mileto) è “sperimentale”, mentre il ragionamento scientifico (della Scuola di Pitagora) è “sperimentato”. Cerchiamo di fare un esempio concreto su come la pensa Empedocle: se prendiamo un ramoscello e lo mettiamo nell’acqua perché faccia le radici, compiamo un gesto empirico di natura “sperimentale”, infatti non sappiamo se spunteranno le radici. Quando prendiamo il ramoscello, se ha fatto le radici, e lo piantiamo in terra perché diventi un albero compiamo un gesto “scientifico” perché c’è già qualcosa di sperimentato. E allora: il ramoscello è l’elemento, ma le radici, rixώmata-rhixomata, sono l’origine dell’elemento stesso. E allora in origine, afferma Empedocle, prima dell’elemento ci sono le “radici”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale parola (corrispondente ad una persona, ad un luogo, ad un libro, ad un fatto…) scrivereste accanto alla parola “radici”?   Basta una frase per rispondere…

     Ecco che intrecciando il filo verde, naturalistico sperimentale, della Scuola di Mileto con il filo rosso, mistico scientifico, della Scuola pitagorica, Empedocle costruisce il primo quadro del suo pensiero: in principio ci sono quattro radici.

     Questo concetto Empedocle lo esprime con dei bellissimi versi, quelli del Fr.6 dell’opera Sulla natura o Le origini:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Sulla natura o Le origini  [Fr. 6]

Ascolta: quattro son le radici di tutte le cose [rhixomata ton panton].

Era avvivatrice, Zeus [Eros] splendente.

Aidoneo [Ades], e Nesti che di lacrime

distilla l’immortale [la mortale] sorgente

     Che significato hanno questi versi? Questi versi proclamano che quattro sono di radici primordiali della natura [rhixomata ton panton] e precisamente: l’aria [Era avvivatrice], il fuoco [Zeus – secondo Platone è Eros – splendente], la terra [Aidoneo o Ades] e l’acqua [Nesti].

     Il concetto delle radici, rhixomata, permette ad Empedocle di tessere l’idea dell’essenza e dell’esistenza della realtà anche con il doppio filo (blu) della Scuola di Parmenide di Elea e di Eraclito di Efeso. Che cosa significa questo? Significa che le radici, rhixomata, che danno origine all’Universo – ogni radice: l’aria [l’etere], il fuoco, la terra, l’acqua – possiedono le caratteristiche dell’Essere di Parmenide. Le radici, rhixomata, sono «eterne» [Fr. 11-14], si trovano «ovunque», e permangono «identiche a se stesse» [Fr. 17].

     Non è casuale il fatto che le radici, rixώmata, siano «quattro»: è evidente ancora una volta  l’influsso (il filo rosso) della Scuola pitagorica per cui l’uno, il due, il tre e il quattro sono i numeri più illustri dalla cui somma scaturisce il numero dieci, la divina tetractys.

     Questa (con lo sguardo rivolto ad Elea) è l’essenza delle radici, rhixomata, ma contemporaneamente le radici, rhixomata, conservano tutta la dinamica della loro esistenza: una dinamica simile al concetto del “divenire” della Scuola di Eraclito: diciamo simile perché Empedocle sostiene che la dinamica delle radici, rhixomata, non corrisponde propriamente al “divenire” degli elementi di Eraclito. Le radici, rhixomata ton panton, di Empedocle possiedono gli attributi dell’Essere di Parmenide ma conservano la loro «tangibile realtà fenomenica», sono infatti «corpi estesi» ciascuno dotato di una «qualità propria» tuttavia, sostiene Empedocle, non possono essere «né di più, né di meno, ingenerate e incorruttibili» , quindi “sono intellettualmente dinamiche” ma non “in reale divenire”. Scrive Empedocle [Fr. 17] : «Le radici di tutte le cose [rhixomata ton panton], sono eguali e coeterne, ma ciascuna ha il suo diverso pregio e carattere che a vicenda predomina nel volgere del tempo». Continua Empedocle [Fr. 21] : «Le radici rappresentano il germe da cui deriva tutto quel che fu, che è e che sarà, non soltanto le cose mortali, ma anche gli dèi dalla lunga vita che godono gli onori supremi».

     Empedocle vuole salvare l’esperienza sensibile, l’esistenza dei fenomeni, mantenendo – anzi considerando irrinunciabili – le qualità essenziali delle cose. Difatti le radici essendo eterne, ingenerate, incorruttibili, non generano le cose, tutto si crea dal mescolarsi delle radici,rhixomata, stesse. Empedocle nega il concetto della “generazione”, nega il “divenire” della generazione, e scrive [Fr. 8] : «C’è solo il mescersi, il mescolarsi e il mutarsi di cose commiste; la nascita non è che un nome, avente corso tra gli esseri umani». Il cambiamento,  secondo Empedocle, è perciò un processo meccanico, un variare delle mescolanze tra le radici, rixώmata-rhixomata, determinato dal fatto, si legge nel Fr. 21, che: «Le radici, qualitativamente immutabili, scorrono le une attraverso le altre, e assumono aspetti diversi».

     In generale, nei suoi versi, Empedocle fa un impiego assai largo delle analogie e per chiarire la dinamica della mescolanza delle radici, rhixomata, utilizza l’esempio delle pittrici e dei pittori: le pittrici e i pittori, scrive Empedocle, dopo aver preso delle sostanze naturali, ciascuna delle quali dotata di un proprio colore, e dopo averle mescolate in differenti proporzioni, creano con tali impasti [Fr. 23] «figure somiglianti alle infinite cose esistenti, alberi e persone, fiere e uccelli e pesci che nutre l’onda degli dèi».

     Ma questa metafora può risultare una contraddizione – ed Empedocle se ne deve essere accorto – perché, nel loro agire, le pittrici e i pittori producono comunque un “divenire reale” ancorato all’esistenza; Empedocle, allora, per dare ragione al modo in cui avvengono le commistioni e gli scambi tra le radici, atti a produrre un “divenire apparente”, perché le radici hanno i caratteri dell’Essere e sono “immutabili”, introduce due principi fondamentali. Empedocle sostiene che a mescolare tra loro le radici, rixώmata-rhixomata, intervengono due principi attivi fondamentali che lui chiama: Odio o Discordia [neikos] e Amore o Amicizia [philotes].

     L’Odio o Discordia [neikos] è, secondo Empedocle, esterno alle radici e tale da «pesare, in tutte le direzioni, egualmente su di esse» [Fr. 17].

     L’Amore o Amicizia [philotes] è invece, secondo Empedocle, interno alle radici ed «eguale ad esse in lunghezza e larghezza» [Fr. 17].

     Pur essendo realtà materiali, sostiene Empedocle, Odio e Amore possono essere colti solo dall’intelletto così si giustifica la distinzione tra il (duplice) principio vitale e la materia. Poi Empedocle spiega che «per effetto dell’Amore il molteplice tende a costituirsi in Unità, mentre sotto l’azione dell’Odio l’Unità si scinde e genera la molteplicità» [Fr. 17]. I due principi – Amore e Odio – sono in perenne conflitto: di volta in volta l’uno oppure l’altro acquisisce il predominio, ma senza mai annientare l’avversario.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “amore”: amicizia, benevolenza, fratellanza, familiarità, intimità, simpatia?…

Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “odio”: contrasto, disprezzo, ripugnanza, antipatia, ostilità, rancore?…

Scrivete due parole…

     Per le sue intuizioni Empedocle è una figura imbarazzante: e le intuizioni non hanno tempo né età. Prima abbiamo citato Darwin (che ha studiato Empedocle con interesse sulla scia del concetto di evoluzione), e ora dobbiamo citare Freud che non ha potuto evitare di fare un salto di stupore quando ha pensato che Empedocle avesse intuito quella che lui chiama la legge dell’ambivalenza e della conflittualità perenne di odio e amore. Siccome Empedocle – dicono le cronache – è anche uno sciamano (un po’ negromante, un po’ mago, un po’ stregone, un po’ taumaturgo), ci fa sorridere l’idea che la psicanalisi abbia cominciato a muoversi da Agrigento prima di arrivare a Vienna (qualche annetto dopo).  Empedocle sostiene che probabilmente, in origine, in principio, l’unico a regnare fosse l’Amore, per cui le particelle elementari delle quattro radici (l’aria, il fuoco, la terra, l’acqua) erano «più adatte a mescolarsi, e si desideravano l’un l’altra» [Fr. 22]. Il mondo, in questa prima fase, viene definito da Empedocle con un termine che, ancora una volta, proviene dalla Scuola di Elea: «lo Sfero». Sappiamo che «sferico» è il dio [l’Uno] di Senofane e «rotondo nella sua unicità» è l’Essere di Parmenide.

     Scrive Empedocle:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Sulla natura o Le origini  [Fr. 27]

Lì non si distinguono le agili membra del sole, né la stirpe della terra coperta di selve, né mare. Così, negli spazi profondi dell’armonia, saldamente è infisso lo Sfero, raggiante nella sua rotonda unicità.

     All’interno dello Sfero non c’è che serenità e felicità, sennonché l’Odio [la Discordia], pian piano, riesce a intrufolarsi in tutta questa perfezione e dà inizio a una successiva fase di elevata conflittualità. La Discordia dovrebbe prendere il sopravvento ma allora sarà l’Amore a intrufolarsi pian piano per tornare, in seguito a governare.

     Empedocle scrive – lo abbiamo letto un momento fa – che le quattro radici (l’aria, il fuoco, la terra, l’acqua) sono formate da particelle elementari. Il concetto della frantumazione delle quattro radici in minuscole particelle che si mescolano fra loro introduce le teorie atomistiche di Leucippo e di Democrito che incontreremo prossimamente. A differenza di costoro (ma torneremo su questo argomento a tempo debito), però, Empedocle non ammette l’esistenza del vuoto e per dimostrarlo dice che «da ciò che non è, non è possibile che nasca qualcosa che è» [Fr.12]. Questa frase, che è stata pronunciata da tutti i personaggi che abbiamo incontrato, rappresenta il fondamento dell’ateismo greco: essere convinti che nulla possa nascere dal nulla, significa negare l’idea della creazione e concepire il mondo o come un’Entità eterna e immutabile (questo è il pensiero della Scuola di Elea, di Parmenide), o come un Universo in continua trasformazione (questo è il pensiero di Eraclito), o come un insieme delle due teorie (e questo è il pensiero di Empedocle). In nessuno dei tre casi, però, è previsto l’intervento di un Ente Superiore che accenda la scintilla divina che segna l’inizio dei tempi.

     Per il movimento della sapienza poetica orfica – di cui Eraclito, Pitagora, Parmenide, Empedocle, fanno parte a pieno titolo – sopra tutto c’è il Destino. Il concetto del Destino lo abbiamo studiato ne Le Storie di Erodoto: il Destino non è una divinità, ma è una situazione, una condizione, uno stato determinato o dal Caso o dalla Necessità  (qui s’innesta la riflessione teologica). Anche gli dèi greci – la cui funzione è soprattutto quella di essere metafore del linguaggio poetico orfico – sono soggetti ai voleri (casuali o necessari) del Destino.

     Naturalmente la critica pungente e sarcastica di Aristotele ha colpito anche l’opera di Empedocle. È evidente che nell’opera Sulla natura o Le origini di Empedocle ci sono molte contraddizioni. Empedocle – dicono i critici – mescola elementi psicologici con elementi naturali, pensa che elementi sentimentali (come l’Amore e l’Odio) s’insinuino nell’evoluzione dei fenomeni fisici: nella Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura troveremo, strada facendo, chi ripensa le intuizioni di Empedocle in senso moderno.

     In molti punti della sua opera Empedocle afferma che l’Amore unisce e che la Discordia divide, altre volte invece sostiene che l’Amore tende a riunire il simile al simile e che, quanto più c’è affinità tra due particelle di materia, tanto più grande sarà il loro amore reciproco. Se prendiamo, dice Empedocle, una pietra, un secchio d’acqua e un po’ di fumo, e li lasciamo liberi di andare dove vogliono, ci accorgiamo che la pietra viene attratta dalla terra, che l’acqua cerca di raggiungere il mare e che il fumo punta diritto verso il cielo. Aristotele, nella Metafisica, non perde l’occasione (più di cento anni dopo) di ironizzare sulla confusione che fa Empedocle tra sfera sentimentale e sfera naturale:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Metafisica

Se uno segue la ragione, si rende conto che l’Amicizia è causa di bene, e che la Contesa è causa di male, se invece segue il balbettio di Empedocle, secondo il quale ogni cosa tenderebbe a raggiungere il proprio simile, sprofonderà in breve tempo in un mondo inabitabile dove ciascuno dei quattro elementi giace inerte e separato.

     Per Aristotele l’Amore è un sentimento positivo, una forza psicologica alla quale non si può in nessun caso imputare un cataclisma così negativo come la separazione degli elementi primordiali, ma Aristotele sta elaborando il suo sistema – anche con il contributo di Empedocle – su altre basi che ri-studieremo a suo tempo.

     Aristotele brontola ma – siccome ha letto Empedocle con attenzione – sa benissimo che per lui il mondo non subisce soltanto questa condizione meccanica ma è un insieme di forze che possono essere utilizzate dall’Umanità. Aristotele brontola (si capisce che quando brontola impara…) e tende a considerare Empedocle più uno sciamano che uno scienziato, ma sa benissimo che Empedocle, più che mago, va considerato come un iniziatore di tecniche volte a dominare i venti, il mare, le siccità, le malattie e la stessa morte. Empedocle è Dioniso che si è definitivamente trasformato in Prometeo: ricorda Leonardo da Vinci o il Dottor Faust. Aristotele sa benissimo che, come Pitagora, anche Empedocle trova nella “ragione” il fulcro su cui poggiano e si unificano il sentimento (soggettivo) dell’interiorità, della spiritualità che l’essere umano percepisce in se stesso e l’esperienza del mondo esteriore che invita alla conoscenza oggettiva.

     Aristotele non lo dice ma ha fatto tesoro della riflessione di Empedocle. Per Empedocle, come per Parmenide, l’Essere è indivisibile e immutabile, solo che le caratteristiche dell’Essere (quando studieremo il pensiero di Aristotele ci accorgeremo che ha imparato questa lezione) invece di ritrovarsi in una realtà unica e sovra-sensibile si ritrovano in quattro realtà tra loro qualitativamente distinte, ciascuna delle quali è infinita, eterna, immutabile. L’acqua, o l’umido, di Talete, l’aria-aria-aria di Anassimene, il fuoco di Eraclito e la terra di quelli come Erodoto, sono le “quattro radici” del mondo: ingenerate, imperiture, da esse deriva tutto ciò che nasce e che perisce. L’Essere di Parmenide quindi – con questa operazione intellettuale di Empedocle – si trasferisce nel cuore stesso della natura fisica: diventa accessibile. E la molteplicità e il mutamento della natura fisica si possono spiegare a partire dai quattro elementi immutabili, così come la chimica moderna spiega i fenomeni a partire dagli elementi della tavola di Mendelejev.

     Ma le “quattro radici”, abbiamo detto, sono soltanto gli ingredienti materiali dell’Universo: sono come i colori – ricordate l’immagine di Empedocle? – sulla tavolozza di una pittrice, di un pittore, che se ne serve per mescolarli «secondo un giusto accordo, creando figure di uomini, alberi e animali».

     Le quattro infinite radici – abbiamo detto – sono soggette a due forze tra loro contrapposte, l’Amicizia e la Contesa (l’Amore e l’Odio), la prima intenta a mescolare i quattro elementi, la seconda a separarli fino a raccoglierli ciascuno in un suo stato di aggregazione totalmente estraneo, anzi avverso agli altri. Quando vince l’Amicizia, allora gli elementi si raccolgono per compenetrazione reciproca. Se l’Amicizia dominasse senza doversi confrontare con l’avverso principio della Contesa, nulla nascerebbe e nulla perirebbe, e non avremmo né molteplicità né mutamento. Se, d’altra parte, fosse assoluto il dominio della Contesa ognuno dei quattro elementi sarebbe immobile e prigioniero in se stesso.

     Stimolati da Aristotele, abbiamo ripetuto tutto questo ragionamento per riflettere sul fatto che c’è qualcosa di profondo nella tesi sconcertante di Empedocle: senza Contesa, l’Amicizia sarebbe eterna immobilità. Lo stesso avverrebbe se la Contesa non fosse sovrastata dalla forza unificante dell’Amicizia. L’Amicizia unisce il dissimile col dissimile (l’acqua col fuoco ad esempio), mentre la Contesa unisce solo il simile al simile (l’acqua con se stessa).

     Da questi ragionamenti si possono ricavare molte riflessioni sul piano morale. Se la Contesa è necessaria perché l’Amicizia sia dinamica significa che bisogna garantire la Contesa con forme di regolamentazione: qui emerge il pensiero “democratico” di Empedocle. Il sistema democratico – in conformità con la legge Universale – si basa sulla Contesa e l’etica deve provvedere a dare le norme per regolamentare il rapporto Contesa-Amicizia. Nasce il concetto della Costituzione: il regolamento condiviso perché la Contesa possa dinamicizzare l’Amicizia.

     Anche secondo il ragionamento di Empedocle alle radici dell’esistenza sembra esserci dunque un “peccato primordiale” – la separazione degli elementi dall’unità dello Sfero – di cui già aveva parlato Anassimandro, di cui parlano i libri di Veda, i libri della sapienza indiana, e di cui parla il movimento della sapienza poetica orfica. Se leggiamo i frammenti delle opere di Empedocle capiamo che questo pensatore vive una doppia ispirazione a cui obbedisce: quella tipicamente ellenica, che mira, come già hanno fatto i pensatori ionici, a «ridurre tutte le cose dentro le misure della ragione», e quella orfico-pitagorica, che considera come un male l’esistenza separata dall’essenza ed esalta l’impegno contemplativo come unica forza capace di sollevare la persona oltre la vita terrena dove l’Amore lotta per imporsi ma questa lotta sembra essere vana.

     Leggiamo il famoso frammento 2:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Sulla natura o Le origini  [Fr. 2]

Gli esseri umani vedono soltanto una piccola parte di una vita che non è vita; condannati a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte; e, sospinto in tutte le direzioni, si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli umani e abbracciate dalla loro mente. Tu dunque, poiché sei qui giunta [giunto], saprai non più di quanto la mente umana possa.

     Questa potrebbe essere (e non sembra un balbettìo) la sibillina risposta postuma di Empedocle ad Aristotele. Il pensiero di Empedocle contiene molti tratti di stampo pitagorico (il filo rosso). Questi tratti li troviamo soprattutto nell’opera intitolata Purificazioni [Katharmoi]. Empedocle odia le fave, non mangia la carne degli animali e crede nella metempsicosi, nella migrazione delle anime.

     Leggiamo che cosa scrive nelle Purificazioni a proposito della migrazione della sua anima:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Purificazioni

Infatti una volta già sono stato fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dall’acqua.

     E ancora leggiamo un frammento dalle Purificazioni dove, più che la dichiarazione che Empedocle fa di essere stato un demonio, ci colpisce la sua straordinaria capacità poetica:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Purificazioni

Certi demòni che per delitti commessi in passato e per antico decreto degli dèi suggellato da vasti giuramenti, hanno avuto in sorte una lunga vita. Costoro dovranno errare per tre volte diecimila stagioni, nascendo sotto ogni forma di creatura mortale e percorrendo i penosi sentieri della vita. L’impeto dell’etere li spingerà verso il mare, il mare li sputerà sulla terra, la terra li lancerà verso i raggi del sole splendente e da questo, a sua volta, nei vortici dell’etere, giacché ogni radice li accoglierà da un’altra e tutte insieme li odieranno. Anch’io, Empedocle, sono tra questi: esiliato dall’Amore per aver dato troppa fiducia alla furente Discordia.

     Certamente Empedocle è un poeta che appartiene a pieno titolo al movimento della sapienza poetica orfica. Anche nell’opera fisica Sulla natura o Le origini, che tutto sommato vuole essere un trattato di scienze naturali, tutte le volte che deve parlare di un astro, di un fenomeno meteorologico o di una creatura umana inventa splendide immagini che danno la misura del suo genio creativo.

     Leggiamo qualche esempio:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Sulla natura o Le origini

Il sole che acuto saetta [Fr. 40]  La luna dal chiaro occhio [Fr. 42] Il mare, sudore della terra [Fr.55] La notte solitaria e cieca [Fr. 49] Le fessure dei prati di Afrodite [Fr. 66]

     Quest’ultima allegoria (di che fessure si tratta?) si rifà a quando Empedocle tratta l’argomento del parto e, per indicare il luogo dal quale la neonata o il neonato si affaccia alla vita, ricorre a una suggestiva metafora: «La fessura del prato di Afrodite». Forse qualcuno ricorda che questa metafora suona all’unisono con «Il rialzo del tempio di Afrodite», un’allegoria proveniente dagli Epigrammi del poeta latino di origine spagnola Marco Valerio Marziale vissuto nel I secolo d.C. (tra il 38 e il 104) e continuatore a Roma del movimento della sapienza poetica orfico-priapèa, il quale deve aver letto con interesse e ammirazione le opere di Empedocle. Marziale sta in un altro Percorso ma tuttavia, per chi ne vuole sapere di più, c’è un servizio su di lui sul  n. 13 de L’ANTI bagno.

     Uno dei temi più affascinanti in relazione ad Empedocle è, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, quello che riguarda la sua morte. La tradizione mitica ci ha lasciamo molti racconti in proposito: i più significativi sono sei (“Le sei morti di Empedocle”, è il titolo di un saggio) e hanno tutti qualcosa di spettacolare.

     Empedocle – dice un racconto – sarebbe morto per auto-strangolamento all’età di 60 anni: questa versione ce la fornisce l’abate Domenico Scinà nella sua biografia Vita e filosofia d’Empedocle girgentino stampata a Palermo nel 1813. C’è chi sostiene che Empedocle sarebbe morto durante un esilio nel Peloponneso, e chi, come Demetrio di Trezene, di suicidio per impiccagione a un ramo di corniolo: queste due versioni le riporta Diogene Laerzio nella sua Raccolta sulle vite e le dottrine dei filosofi.

     Ancora Diogene Laerzio scrive che Empedocle, secondo Neante di Cizico, sarebbe morto a 77 anni cadendo da un carro mentre andava a una festa popolare a Messina, e sempre Diogene Laerzio scrive che Telauge, in una lettera all’amico Filolao, dichiara che Empedocle sarebbe scivolato in mare per debolezza senile.

     Ma la versione più nota sulla morte di Empedocle, quella più in sintonia col personaggio, sulla quale hanno puntato l’attenzione molte scrittrici e molti scrittori di tutti i tempi, resta comunque quella di Eraclide Pontico. Chi è Eraclide Pontico? Eraclide Pontico è nato ad Eraclea Pontica in Bitinia, una colonia greca sul Mar Nero, ed è vissuto tra il 388 e il 315 a.C.. Eraclide Pontico è stato discepolo di Platone e suo sostituto come scolarca all’Accademia di Siracusa. Eraclide Pontico è stato soprattutto un grande astronomo e ha proposto un particolare modello cosmologico in parte geocentrico (con la Terra al centro) e in parte eliocentrico (con al centro il Sole). Eraclide Pontico è il primo astronomo a sostenere che la Terra, al centro dell’Universo, ruota in 24 ore attorno al proprio asse, mentre Mercurio e Venere ruotano intorno al Sole: è quindi il primo astronomo a formulare un’ipotesi (seppure parziale) eliocentrica. Eraclide Pontico ha scritto molte opere delle quali ci rimangono una serie di frammenti e, in uno di questi frammenti, racconta la morte di Empedocle:

LEGERE MULTUM….

Eraclide Pontico, Frammento 83

Empedocle, subito dopo aver resuscitato la donna agrigentina, si rese conto di aver raggiunto il massimo della popolarità e di non poter fare altro che cercare di sparire come se fosse stato un Dio. E allora calzò i suoi sandali di bronzo e s’incamminò fino a raggiungere la vetta dell’Etna e giunto lassù si tuffò nel cratere del vulcano.

A testimonianza del gesto il vulcano, dopo qualche istante, eruttò un sandalo di bronzo con un suono d’arpa

     È chiaro che in questo racconto gioca un ruolo fondamentale la tradizione mitica anche perché Agrigento è un po’ lontano dall’Etna, ed Eraclide Pontico è un tipo un po’ fantasioso il quale, in un altro frammento, asserisce di aver parlato faccia a faccia con un lunatico, un tipo caduto dalla luna. Tuttavia Empedocle che si tuffa nel cratere dell’Etna per tornare alle radici – il vulcano è aria, fuoco, terra e acqua – è un’immagine classica la quale, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ha dato molti frutti. Non è casuale il fatto che uno scienziato e contemporaneamente uno sciamano come Empedocle sia legato ad un grande laboratorio come è l’Etna.

     Noi ci domandiamo come mai Erodoto, nel testo de Le Storie, non citi mai l’Etna sebbene questa straordinaria montagna abbia dato spesso spettacolo: è davvero un mistero il silenzio di Erodoto sull’Etna.

     Empedocle ci invita a osservare l’Etna e noi osserviamo un libro: questo libro s’intitola Catasto magico (questo titolo sarebbe piaciuto ad Empedocle), la cui autrice è Maria Corti, nata nel 1915 e morta nel 2002 a Milano. È vissuta tra Milano e Pavia dove ha insegnato per molti anni Storia della lingua italiana e dove ha presieduto il «Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei»; ha ideato significative riviste culturali come Strumenti critici, Alfabeta, Autografo. Oltre a opere di narrativa, Maria Corti ha scritto saggi filologico-letterari, e ha diretto l’edizione critica delle Opere di Beppe Fenoglio (1978).

     Pubblicato nel 1999, Catasto magico, è un saggio scritto sotto forma di romanzo e ha come protagonista l’Etna. L’Etna è un concentrato di immaginario fantastico, è un patrimonio di miti, di storie e di sorprendenti intrecci culturali. Nel suo cratere sembra pulsare la realtà più profonda dell’Universo, da cui emergono presenze inafferrabili: divinità sotterranee, mostri giganteschi, immagini fantomatiche di maghe, fate, eroi.

     L’Etna è protagonista nelle pagine dei molti scrittori che, da Esiodo a Ovidio, da Hölderlin a Maupassant, si sono imbattuti nel mistero che s’incarna nel vulcano. Nel corso dei secoli, l’Etna ha rappresentato il soprannaturale per i Greci, i Romani, i Cristiani, i Normanni: è quindi una sorta di oggetto di «archeologia dello spirito».

     Maria Corti annoda, tesse fra loro i fili sparsi delle leggende, dei racconti, delle cronache e delle riflessioni che il grande vulcano ha ispirato. Tutto ciò fino all’ultimo capitolo, dove prende corpo un racconto sulla Sicilia di oggi (ma potrebbe essere qualunque posto del mondo), in cui risultano ormai impossibili quei legami di senso tra realtà e fantastico che hanno nutrito le passate culture, la sapienza poetica orfica. L’Etna senza più magia assiste muto a un truce fatto di sangue: il cadavere di un ragazzo ventenne viene sepolto in un cimitero di periferia, separato per sempre dal mondo dei vivi. Nessun viaggio sulla nave dei morti conduce più al cratere, nessun suono d’arpa ne esce come quando Empedocle vi si gettò dentro. I morti non parlano più ai vivi, i vivi vivono solo nella morte, l’immaginario non si alimenta più. Ma non bisogna perdere la speranza, dice la scrittrice, e scrive: «È meglio aver fiducia, se non in noi, almeno nei quattro Elementi divini venerati da Empedocle, Fuoco, Terra, Acqua, Aria, sempre vivi nelle viscere dell’Etna, e sempre pronti a dominare i destini degli isolani con voci robuste e sinistre che si levano dalla sua gola e impregnano col proprio fiato le nuvole».

LEGERE MULTUM….

Maria Corti, Catasto magico (1999)

Chi saliva dal buio e profondo cratere dell’Etna, come le Sirene, chi vi scendeva come l’impavido suicida filosofo presocratico, Empedocle. Uno stravagante andare e venire, a tempo con i drammi individuali, una grande stazione dove si parte o si arriva; e tutto andrebbe avanti come prima se l’Etna non passasse ai poeti materia dalla singolare fascinazione, che essi accolgono nella loro fantasia e comunicano al mondo.

... continua la lettura ...

     Queste pagine che abbiamo appena letto funzionano anche da REPERTORIO; infatti abbiamo incontrato due opere di cui possiamo approfondire la conoscenza: la tragedia in frammenti intitolata La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin (una nostra vecchia conoscenza) e il racconto Fiamme di Antonio Tabucchi. Adesso possediamo alcune parole-chiave che possono facilitare il nostro avvicinamento a queste due opere.

     Ma ora dobbiamo salutare la Sicilia e dire arrivederci all’Etna perché dobbiamo imbarcarci: la nostra nave Sidonia ci aspetta al porto di San Leone, e il capitano Agenore di Tiro, con l’aiuto di Erodoto, ha cominciato a sciogliere gli ormeggi. Dobbiamo tornare in Grecia.

     Siamo diretti ad Atene dove ci aspetta un personaggio che ha due soprannomi: Noùs, che significa la Mente e ò physikótatos, «il super-fisico», perché la sua passione è lo studio per le scienze naturali. Costui si chiama Anassagora di Clazomene che, in questo momento, ad Atene, dove è emigrato da tempo, ha qualche problema: come mai? Il discorso è complicato: va rimandato al prossimo itinerario…

     Correte, la Scuola è qui …

     Nel pensiero di Empedocle ci sono molte allusioni che potremmo definire “pasquali”. La vitalità dell’intuizione, scrive Maria Corti (si consiglia la lettura di Catasto magico), ispira ad Empedocle «la visione orfica di una via delle purificazioni che guidano l’essere umano a vite sempre più nobili con l’esito finale della divina immortalità». S’intravede – nell’ambito della migrazione delle anime – l’ipotesi pasquale dell’immortalità dopo le purificazioni quaresimali. Come purificarsi oggi in una società contaminata in molti dei suoi aspetti? Sembra che non ci sia nulla – ce lo suggerisce la Storia del Pensiero Umano – di più decontaminante che lo studio [studium] inteso come cura dell’anima

     E siccome – lo abbiamo già citato molte volte – scrive Gregorio Magno, papa dall’anno 590,  nei suoi Dialoghi, che: «Studiare è cominciare a risorgere», ebbene: Buona Pasqua di “studio” a tutti

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 30, 2007