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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLA CORRENTE DEROBERTISTA ...

Lezione N.: 
16

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2007      21-22-23  febbraio 2007

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULLA CORRENTE DEROBERTISTA ...

     La scorsa settimana, nella ricca polis di Crotone, abbiamo incontrato un mitico personaggio: Pitagora di Samo. A Crotone, in compagnia di Erodoto (che conosce bene questi posti avendo vissuto l’ultima parte della sua vita a Turi, non lontano da Crotone) e del capitano Agenore di Tiro, abbiamo studiato i tre argomenti principali proposti dalla Scuola pitagorica: la dottrina della metempsicosi, il concetto del numero e la visione del cosmo. Pitagora ha anche potenziato e introdotto nel movimento della sapienza poetica orfica, soprattutto sulla scia delle parole-chiave armonia e inquietudine, il tema della contraddizione, dell’aporia, del contrasto vitale. Questo tema, cioè il tema dell’armonia misteriosa dei contrari, ci ha spinti nuovamente a metterci in viaggio e, da Crotone, saremmo dovuti ritornare nella regione della Ionia, sulla costa asiatica che si affaccia sul mar Egeo: per la precisione avremmo dovuto raggiungere la polis di Efeso perché lì c’è un personaggio (altrettanto mitico) che di contraddizioni, di aporie, di contrasti, se ne intende. Invece abbiamo cambiato itinerario: abbiamo deciso di fare una variazione (ogni tanto si fa) di Percorso: perché abbiamo preso questa decisione?

     La scorsa settimana, dopo aver salutato il mistico Pitagora, che ha consigliato a tutti noi di essere più sobri e più umili in modo da poter intraprendere con cuore puro la via della conoscenza, il capitano Agenore di Tiro ha cominciato a dar vento alle vele della nostra bella nave, la Sidonia, per uscire dal porto nuovo di Crotone e per iniziare la navigazione in mare aperto. Erodoto, sul ponte sotto l’albero maestro, osservando con interesse la grande e poderosa struttura del Castello di Crotone, fatto costruire nel 1541 da don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, avendo raccolto l’invito pitagorico all’umiltà, ha dichiarato di non sapere nulla dei viceré. Anche il capitano Agenore di Tiro, sebbene uomo di mondo, ha ammesso di non sapere chi fossero i viceré. Prima di salire sulla nave, Erodoto su questo argomento aveva anche interpellato Pitagora, il quale, in modo enigmatico, aveva risposto: «A me è dato sapere che nei Viceré ci sono i numeri…». Pitagora non avrebbe potuto rispondere se non in modo misterioso…

     Ebbene, potevamo non soddisfare la curiosità dei nostri illustri compagni di viaggio? E allora, prima di puntare la prua verso est, verso Efeso, abbiamo deciso di allungare il viaggio e di navigare verso sud, verso la Sicilia, verso la città di Catania. I Viceré, a quel punto, si sono subito messi in allerta, ma noi che cosa abbiamo da temere? Sull’albero maestro della nostra nave, sventolano, oltre alle bandiere della poesia e della perfezione anche le bandiere dell’armonia e dell’inquietudine. Queste bandiere – poίesis, téleios, armonia, taraxis – sono il nostro lasciapassare ed è per questo che siamo giunti senza intoppi in vista dei territori dei Viceré. E a questo punto alla curiosità di Erodoto e di Agenore di Tiro si aggiunge anche la nostra curiosità: che cosa hanno da raccontarci i Viceré? E che significato ha l’affermazione enigmatica di Pitagora: «A me è dato sapere che nei Viceré ci sono i numeri…»?

     Puntando in direzione sud sud-ovest, dal porto nuovo di Crotone, il capitano Agenore di Tiro ha condotto la nostra bella nave Sidonia all’attracco nel porto vecchio di Catania. Al tempo di Erodoto questa bella città, posta sulla costa orientale siciliana bagnata dal mar Ionio, si chiamava Katane ed era stata una delle prime colonie greche della Sicilia, fondata dai Calcidesi di Nasso già nella prima metà dell’VIII secolo a.C.: di questa antica polis, alleata di Atene, non rimane più nulla se non il luogo della sua ubicazione in concomitanza con le vestigia romane. Se noi adesso dovessimo visitare Catania impiegheremmo tutta la serata, sarebbe bello ma ora il tempo non ce lo consente. Voi però, in settimana, utilizzando una guida della Sicilia che trovate anche in biblioteca o navigando in rete su internet, potete dedicarvi a compiere una visita virtuale alla bella città di Catania.

     Noi adesso possiamo soltanto ricordare i passaggi che hanno caratterizzato la storia di questa città (che collimano con i passaggi che hanno caratterizzato la storia della Sicilia): la polis greca di Katane è poi diventata (dal 263 a.C.) una città romana, Catana, e i resti romani di un teatro, di un odeon, di alcuni edifici termali e di un anfiteatro sono tuttora visibili e si trovano sul luogo dove sorgeva la polis greca. Dopo la caduta dell’impero romano Catana è stata una città ostrogota (dal 495 d.C.) durante il regno di Teodorico, poi è stata una città bizantina (dal 535 d.C.) e dal IX secolo è stata una città araba e da questo momento ha cominciato a prendere forma il paesaggio agricolo catanese con l’importazione di nuove colture (il limone, l’arancio amaro) e l’introduzione di nuove tecniche d’irrigazione. La conquista normanna della Sicilia (i Normanni governano dal 1061) impoverisce anche Catania perché pone fine al sistema arabo della piccola proprietà agraria con il ritorno  del latifondo, di concezione romana, e della servitù della gleba, e pone fine anche ai redditizi traffici commerciali con l’Africa del nord. Dal 1194 la Sicilia è governata dagli Svevi e nel 1239 l’imperatore Federico II di Svevia (che ha deciso di portare la corte in Sicilia) fa costruire a Catania il Castello Ursino (tuttora unico monumento della città mediovale) come simbolo del potere imperiale. Catania nel 1266 è occupata dagli Angioini, una casata di origine francese, e dal 1302 è governata dagli Aragonesi di Spagna. Gli Aragonesi tengono per lunghi periodi la corte a Catania e ne favoriscono lo sviluppo economico e culturale perché fondano il Siculorum Gymnasium che è la prima (e per secoli sarà l’unica) università siciliana. Quando nel 1412 la Spagna diventa un regno unito anche Catania (con la Sicilia) è annessa alla corona spagnola e nel 1415 cominciano a governare i viceré (Erodoto e Agenore, a questo punto, drizzano le orecchie). Il governo dei viceré continua nei secoli successivi (il 1500, il 1600): l’età dei viceré spagnoli in Sicilia è contrassegnata da una grave crisi economica e da continue incursioni di pirati, da frequenti epidemie, da ricorrenti carestie.

     Noi abbiamo già incontrato una famiglia vicereale, i Corbera di Salina (ve li ricordate?) che hanno partecipato, per contrastare la crisi economica (per arricchirsi di più?), alla fondazione dei nuovi borghi feudali contadini fra i quali, nel 1572, quello di Santa Margherita in Belice: qui, nel novembre scorso, siamo stati ospiti nel palazzo dei Filangeri di Cutò di proprietà, fino al 1918, della famiglia della madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ma sarà meglio dire ospiti di un Gattopardo, del principe don Fabrizio di Salina (che non se ne abbia a male!).

     L’età dei viceré spagnoli culmina con due grandi sciagure che trasformano il volto della Sicilia e di Catania in particolare. La prima sciagura che ha colpito la Sicilia orientale e naturalmente soprattutto Catania è stata la grande eruzione dell’Etna del 1669: l’Etna, con i suoi 3350 metri di altitudine, è proprio alle spalle di Catania. Questa eruzione ha creato un nuovo gruppo di colline (la catena dei monti rossi di Nicolosi) e la lava è arrivata fino alle mura di Catania, colmandone il porto,  ma ha risparmiato la città e quindi, per quanto drammatica, non è stata la disgrazia peggiore. La  maggiore sciagura per Catania, e per tutta la Sicilia perché ne la cambiato il volto, è stato il terribile terremoto del 1693. Questa è una data fondamentale perché la storia della Sicilia si divide in due tempi: prima e dopo lo spaventoso terremoto del 1693 che ha devastato la Sicilia sud-orientale con una gravissima ripercussione su tutta l’isola. L’eruzione dell’Etna nel 1669 ha risparmiato Catania, il terremoto del 1693 l’ha distrutta. In pochi minuti la città greca, romana, ostrogota, bizantina, araba, normanna, sveva, angioina, aragonese, viene rasa al suolo e quasi nulla è rimasto dell’antica Catania.

     La ricostruzione ha conferito a Catania l’aspetto settecentesco che si vede oggi nella parte centrale della città, la quale è solcata da strade ampie e regolari che si tagliano ad angolo retto, intramezzate da vaste piazze, fiancheggiate da eleganti edifici barocchi. Per lo sgombero delle macerie, dopo il terremoto del 1693, vengono create due grandi vie che, ancora oggi, formano l’ossatura della città: via Uzeda, dal nome del viceré dell’epoca (tenete a mente questo nome, Uzeda, perché a breve ci riserverà una sorpresa) che oggi si chiama via Etnea, e via San Francesco che oggi si chiama via Vittorio Emanuele.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con la guida della Sicilia, sulla quale trovi senz’altro una pianta della città di Catania, puoi cercare queste due vie – la via Etnea ex via Uzeda e la via Vittorio Emanuele ex via San Francesco - e potrai constatare che i principali monumenti, di cui questa città è ricca, sono collocati sul perimetro di queste due arterie…  Quali sono i principali monumenti di Catania e quale vorresti visitare per primo? …

Scrivi quattro righe in proposito…

     A questo punto Erodoto e il capitano Agenore di Tiro dovrebbero ritenersi soddisfatti perché hanno inquadrato storicamente – e noi con loro – l’epoca dei viceré. E mentre dal porto risaliamo verso il centro di Catania, ecco che, all’imbocco della via Etnea sotto porta Uzeda (questa porta ha conservato il cognome del viceré dell’epoca del terremoto), intravediamo e poi distinguiamo chiaramente un personaggio dall’aspetto maestoso, con il volto splendente e le chiome ondeggianti, vestito con una candida tunica di lino e avvolto in un mantello bianco di lana: ma è Pitagora! Come ha fatto ad arrivare qui prima di noi? Pitagora, lo sappiamo, non ha nessuna difficoltà a trovarsi contemporaneamente a Crotone, a Metaponto e a Catania (soprattutto in un Percorso di studio). Pitagora sorride compiaciuto e ci saluta cordialmente e poi ci mostra un libro che tiene tra le mani e lo consegna a Erodoto che lo guarda e ne legge il titolo: I Viceré. Sono questi I Viceré che, secondo Pitagora, dobbiamo incontrare? Pitagora annuisce e poi in modo enigmatico ripete ancora la frase misteriosa: «A me è dato sapere che nei Viceré ci sono i numeri…» e infine, in un lampo di luce, scompare ai nostri occhi. Ora però (se I Viceré è il titolo di un libro) la frase di Pitagora comincia ad avere un senso e risulta meno enigmatica.

     Erodoto però è rimasto senza parole: per lui, in questa apparizione di Pitagora nella Catania settecentesca, c’è qualcosa di misterioso che forse a noi sfugge, e quindi lo osserviamo assorto nei suoi pensieri. Noi sappiamo che Erodoto (come del resto il capitano Agenore di Tiro) è piuttosto scettico nei confronti della dottrina della metempsicosi, eppure Pitagora – pensa Erodoto – non è comparso come se fosse morto e sepolto e lo si capisce dal suo abbigliamento: vada per la tunica di lino, ma Pitagora che appare con un mantello di lana non può che essere ancora vivo e vegeto. Perché? A che cosa sta pensando Erodoto? Sta pensando a quello che ha scritto nel II libro de Le Storie, dove racconta, con dovizia di particolari, gli usi, i costumi, i culti religiosi degli Egiziani. Leggiamo il testo del capitolo 81 del II libro de Le Storie.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  II  81

Portano [gli Egiziani] delle tuniche di lino guarnite di fiocchi intorno alle gambe: inoltre sogliono portare dei mantelli di lana bianca, come sopravveste; tuttavia queste vesti di lana non si possono portare dentro il tempio, né vengono seppellite insieme con loro: sarebbe un’empietà.

In questo vanno d’accordo con le prescrizioni dette orfiche, bacchiche e pitagoriche, poiché neppure a chi è iniziato a questi misteri è permesso di farsi seppellire in vesti di lana. E su questo argomento si racconta una misteriosa leggenda…

     Pitagora, che appare con un mantello di lana, non può che essere ancora vivo e vegeto. Ed è davvero vivo e vegeto – pensa Erodoto – nell’ambito di un Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura. E che cosa narra la misteriosa, la sacra leggenda a cui fa accenno Erodoto nel brano che abbiamo letto? Chissà se Erodoto, nel testo del II libro de Le Storie, racconta alle lettrici e ai lettori questa misteriosa sacra leggenda? Chissà? I misteri stimolano la curiosità e sono un invito alla lettura.

     Ma adesso la curiosità in Erodoto si accende per l’oggetto che Pitagora gli ha consegnato e che mette subito a nostra disposizione (in funzione della didattica della lettura e della scrittura): è (come vedete) una pregevole edizione economica la quale reca in copertina la bella immagine di donna Franca Florio con sette giri di perle al collo, e le perle rimandano al mare. I libri di solito sono oggetti di grande maneggiabilità e si leggono anche in viaggio: è utile quindi, per guadagnare tempo, risalire sulla nostra bella nave e, mentre ci occupiamo de I Viceré, possiamo anche navigare. La Sidonia, al comando del capitano Agenore di Tiro (che prende subito in mano la situazione), esce dal porto di Catania e comincia a vele spiegate a fare rotta verso est, verso il mare Egeo, verso la costa asiatica della Ionia, verso Efeso.

     Sull’albero maestro della nostra nave, oltre alle bandiere della poesia (poίesis), della perfezione (téleios), dell’armonia (armonia) e dell’inquietudine (taraxis), comincia a sventolare anche il vessillo (rosso e giallo) de I Viceré.

     I Viceré (sono questi I Viceré che dobbiamo incontrare secondo la natura del nostro Percorso) è il titolo di un romanzo che, purtroppo, non è conosciuto dalle cittadine e dai cittadini italiani nonostante venga considerato importante quanto I promessi sposi. Anche il testo de I promessi sposi è sconosciuto agli italiani ma per lo meno la trama nelle sue linee generali, i personaggi principali e l’autore, Alessandro Manzoni, hanno una certa popolarità (se non altro per effetto degli sceneggiati). Il romanzo I Viceré di Federico De Roberto è un oggetto culturale pressoché sconosciuto. Questo romanzo, e il nome del suo autore (altrettanto sconosciuto ai più), è legato ad un significativo caso letterario che ha animato un vivace dibattito tra gli addetti ai lavori, dibattito cominciato negli anni trenta e poi ripreso con maggiore intensità negli anni cinquanta.

     Chi è Federico De Roberto? Nelle storie della letteratura Federico De Roberto viene sommariamente presentato come il più giovane esponente del terzetto degli autori veristi formato da lui e dai due più noti scrittori Luigi Capuana e Giovanni Verga (due personaggi che tutti abbiamo sentito nominare). Federico De Roberto, che ha una ventina d’anni in meno di Capuana e di Verga, è nato a Napoli il 16 gennaio 1861 da padre napoletano, don Ferdinando, ufficiale di Stato Maggiore del Regno delle Due Sicilie e da madre catanese, donna Marianna degli Asmundo, appartenente ad una famiglia della piccola nobiltà siciliana. Federico, a cui non interessa né la carriera militare né la carriera diplomatica, studia e ottiene il diploma di ragioniere all’istituto tecnico di Catania ma anche per questa professione burocratica non si sente portato, perchè piuttosto appassionato per lo studio dei Classici latini e greci e su consiglio di Luigi Capuana comincia a scrivere articoli e saggi per le riviste letterarie che poi raccoglie e pubblica in un volume intitolato Arabeschi (1883). Pubblica anche i suoi primi racconti in un libro intitolato La sorte (1887) che viene recensito molto positivamente da Luigi Capuana. Federico De Roberto scrive con grande impegno e con grande passione: l’elenco dei volumi dei suoi racconti è molto lungo e una parte della sua produzione la si può trovare nelle biblioteche. Federico De Roberto può continuare a pubblicare i suoi testi perché ha una piccola cerchia di lettori fedeli e perciò, vivendo in modo molto sobrio, riesce a mantenersi economicamente, ma avrebbe potuto essere maggiormente conosciuto e letto se il mondo culturale italiano non lo avesse ignorato completamente e se la critica letteraria del nuovo Stato nazionale lo avesse preso in considerazione.

     Federico De Roberto scrive anche molti saggi letterari: ricordiamo quello su Leopardi (1898) e l’ultima raccolta di saggi All’ombra dell’olivo (1920). Ma le opere a cui si dedica con maggior impegno sono i romanzi: il suo primo romanzo s’intitola Ermanno Reali (1889), segue L’illusione (1891) e I Viceré (1894), e poi Spasimo (1897) e ancora L’imperio che viene pubblicato postumo.

     Nel (sempre più pedante) mondo della cultura italiano, a parte Luigi Capuna e Giovanni Verga (insieme al quale scrive un libretto lirico), Federico De Roberto non solo non trova estimatori,  ma trova qualche illustre detrattore, ma lui non fa neppure in tempo a saperlo. Federico De Roberto muore all’improvviso, a Catania sulla porta di casa, stroncato da un attacco di flebite il 26 luglio 1927 e naturalmente la sua scomparsa passa del tutto inosservata nell’ambiente culturale nazionale;  anche i pochi letterati che lo conoscono e che potrebbero ricordarlo vengono distratti da un altro decesso, avvenuto a Napoli il 27 luglio, il giorno dopo il suo, quello della scrittrice Matilde Serao che è una figura molto popolare e quindi viene ricordata con tutti gli onori.

     Abbiamo detto che Federico De Roberto non solo non trova estimatori ma trova qualche illustre detrattore: infatti, nel 1939, don Benedetto Croce (che viene considerato la massima autorità in campo letterario) stronca impietosamente, con due paginette pubblicate sulla rivista Critica, l’opera di De Roberto e in particolare il romanzo I Viceré. «È un’opera pesante, scrive Croce, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore»: questo giudizio impietoso influisce negativamente sul destino di scrittore di Federico De Roberto e ne determina per anni l’emarginazione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è un episodio nella vostra vita in cui avete subìto il rifiuto, l’allontanamento, l’esclusione, l’emarginazione? 

Scrivete quattro righe in proposito…

     I veri studi e le attente ricerche sui testi di Federico De Roberto, come grande documentarista di stampo verista (sulla scia di Capuana e Verga) e acuto cultore dello psicologismo francese (sulla scia di Flaubert), cominciano nel dopoguerra: nei primi anni cinquanta i critici della letteratura cominciano a disapprovare il giudizio di don Benedetto Croce soprattutto quando si scopre un articolo (passato inosservato) scritto da Luigi Pirandello nel 1927 in occasione della morte (uno dei pochi che si è ricordato di commemorarlo) di De Roberto. Il grande drammaturgo agrigentino (che nel 1934 riceve il premio Nobel e muore nel 1936) scrive che lui ha imparato l’arte dello scrivere soprattutto dalla sincerità, dalla nobiltà e dall’acutezza narrativa di Federico De Roberto e aggiunge che il romanzo I Viceré potrebbe stare, per la sua lezione morale, al pari de I promessi sposi.

     Negli anni cinquanta prende forma, per volontà di un certo numero di intellettuali, quella che è stata chiamata la corrente derobertista: qui troviamo un filo conduttore che si traduce nella parola-chiave: delusione. La corrente derobertista vanta come precursore illustre Luigi Pirandello e nel romanzo I vecchi e i giovani, scritto da Pirandello nel 1913, si riconosce l’influenza di Federico De Roberto. Il valore del romanzo I vecchi e i giovani, che mette in evidenza la delusione per la caduta degli ideali risorgimentali e che all’atto della pubblicazione (criticato da Benedetto Croce) è stato considerato poco pregevole, ha avuto un riconoscimento postumo e merita senz’altro di essere letto. La corrente derobertista vanta poi, come rappresentante illustre, lo scrittore siciliano, di Pachino, Vitaliano Brancati (1907-1954), del quale il 24 luglio di quest’anno si ricorda il centenario della nascita. Vitaliano Brancati si è laureato con una tesi su Federico De Roberto e come insegnante tra il 1936 e il 1938 ha fatto conoscere le opere (in particolare I Viceré) dello scrittore catanese ai suoi studenti (tra loro c’è anche Leonardo Sciascia). L’influenza di Federico De Roberto su Vitaliano Brancati (autore dei famosi romanzi Il bell’Antonio, Don Giovanni in Sicilia, Paolo il caldo e dell’inquietante testo teatrale La governante) si può cogliere soprattutto nell’opera, che raccoglie dieci racconti, intitolata Il vecchio con gli stivali (1946) dove si coglie la delusione per la caduta degli ideali resistenziali, in particolare il racconto che dà il titolo al libro, Il vecchio con gli stivali, merita di essere letto.

     La corrente derobertista vanta inoltre come continuatore illustre una nostra recente conoscenza: Giuseppe Tomasi di Lampedusa il quale ha scritto che non avrebbe mai potuto comporre Il Gattopardo se non avesse letto I Viceré e le opere di Federico De Roberto. Con questa affermazione noi completiamo la nostra riflessione su Il Gattopardo prendendo atto che questo romanzo si rifà ad un modello letterario riconosciuto dall’autore. Sappiamo che anche il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in cui si celebra la delusione per la inesorabile caduta di tutti gli ideali, ha avuto nel 1958 un riconoscimento postumo.

     I Viceré di Federico De Roberto, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa costituiscono insieme un caso letterario affascinante e sconcertante. La conoscenza del testo di questi tre romanzi, che sono imparentati tra loro, oggi viene ritenuta indispensabile (dagli addetti ai lavori)  per capire la nostra storia nazionale, ma il libro di De Roberto pubblicato nel 1894 è stato ignorato per più di mezzo secolo, il romanzo di Pirandello edito nel 1913 è stato considerato a lungo come una dello opere meno significative di un autore di fama internazionale, e Giuseppe Tomasi di Lampedusa come sappiamo in vita non ha mai trovato un editore per Il Gattopardo.

     Ci lamentiamo sempre del fatto che non ci sono ideali condivisi ma dominano gli interessi di categoria. Gli ideali si coltivano (non piovono dal cielo), e la letteratura, la cultura, l’esercizio dell’investimento in intelligenza potrebbero e dovrebbero giocare un ruolo in questo senso: la Scuola (degli Adulti, in particolare) dovrebbe essere il luogo istituzionale deputato per lo studium, vale a dire per la cura dell’anima. Dallo studium et cura, come c’insegna la tradizione intellettuale dal tempo di Erodoto, scaturiscono gli ideali. L’esercizio dello studium et cura è necessario per contenere la delusione e per individuare degli ideali da perseguire.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole: il desiderio, il sogno, l’aspirazione, il modello, l’esempio… mettereste per prima – in questo momento della vostra vita – accanto alla parola “ideale”? …

     Abbiamo citato poco fa Leonardo Sciascia il quale ha appartenuto alla corrente derobertista.  Nel 1977 Leonardo Sciascia ha scritto un famoso articolo intitolato Perché Croce aveva torto nel quale rigetta il giudizio (lo ha davvero letto con attenzione Croce questo romanzo?) di don Benedetto Croce su I Viceré. Croce sostiene che nel testo de I Viceré non c’è poesia e Sciascia ribatte che l’elemento poetico in questo romanzo sta proprio nel fatto che l’autore non cerca di fare poesia ma s’impegna a sviluppare un ingegno prosaico proprio perché la società, la cultura e la letteratura italiana è povera d’ingegni prosaici. «Il romanzo I Viceré, scrive Sciascia, risulta tecnicamente ben fatto, scritto con sicurezza, composto con un ritmo vigilato e costante, in cui i numerosi personaggi stanno tutti sullo stesso piano, nella stessa luce cruda, tutti necessari, tutti importanti e indimenticabili come in un coro che interpreta a più voci la stessa sinfonia».

     Il romanzo I Viceré di Federico De Roberto è il secondo volume di una trilogia di cui fanno parte L’illusione e L’imperio che, lasciato incompiuto dall’autore, viene pubblicato postumo nel 1929. In questa saga narrativa si racconta la storia di tre generazioni della potente famiglia catanese degli Uzeda di Francalanza, di antica origine spagnola che discendono da quell’Uzeda che è Viceré al momento del terribile terremoto del 1693. La famiglia degli Uzeda di Francalanza, alla metà del 1800, è pronta a tutto pur di conservare la supremazia anche nella nuova fase storica che sta interessando la Sicilia e che comporta l’annessione dell’isola al Regno d’Italia. Il romanzo I Viceré di Federico De Roberto è soprattutto un’implacabile lezione di opportunismo politico. Apparentemente il romanzo non ha protagonisti se non nel senso che ogni personaggio è interprete di un racconto personale dentro ad un grande racconto corale.

     Nel testo de I Viceré, assistiamo ad un significativo paradosso narrativo perché in realtà una persona di primo piano, una figura di spicco, c’è: è un personaggio centrale e dominante che però non c’è più, ma è paradossalmente presente per assenza. Questo personaggio è donna Teresa Uzeda principessa di Francalanza, e il romanzo inizia con l’annuncio corale della sua morte. Dal grandioso funerale (raccontato con spirito tragicomico dallo scrittore) di donna Teresa Uzeda principessa di Francalanza prende avvio il racconto, e poi la lettura (attesa con impazienza e con apprensione) del suo testamento contiene tutta la trafila della narrazione, contiene il senso della storia.

     Del romanzo I Viceré, con decine di personaggi che si muovono in circa 700 pagine da far scorrere lentamente con il metodo del LEGERE MULTUM (quattro pagine per dieci minuti al giorno), è difficile, se non impossibile, raccontare la trama, possiamo dire però che tutto il racconto si svolge tra due documenti: un testamento (a cui abbiamo accennato) e un comizio. Sono due documenti sapientemente ricostruiti, e questa ricostruzione mette bene in evidenza la capacità che Federico De Roberto possiede di far collimare nella sua persona il romanziere con lo storico. Il testamento di donna Teresa Uzeda principessa di Francalanza contiene il tema della feudalità storica e della feudalità familiare. Nel testo del comizio le due feudalità, storica e familiare, si nascondono dietro alla mistificazione risorgimentale (si pensi alle figure di Tancredi e di Angelica ne Il Gattopardo), si mascherano con il trasformismo e il conformismo, con la demagogia, con le false e alienanti mete patriottiche e coloniali, con il mutar tutto affinché nulla muti (questa idea la troviamo già pienamente espressa nel testo de I Viceré). Come I vecchi e i giovani di Pirandello e Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, I Viceré sono il prodotto di una delusione, di una disperazione storica per la caduta degli ideali che hanno animato il Risorgimento e il percorso di unificazione della nazione. La delusione e la disperazione storica di Federico De Roberto è sostanzialmente identica, in un quadro storico diverso, anche a quella con cui si misura, cinquant’anni dopo (alla fine della seconda guerra mondiale), Vitaliano Brancati.

     La lettura de I Viceré prevede che, all’inizio (e questo vale per tutti i romanzi dell’800), non ci si curi dell’identificazione dei tanti singoli personaggi: è un utile esercizio quello di imparare a seguire il ritmo della coralità. Inoltre la lingua che Federico De Roberto utilizza è molto significativa: usa spesso curiosi modi di dire che ormai sono scomparsi dal sistema della comunicazione contemporanea ma che ci fanno capire l’evoluzione storica del nostro linguaggio. E ora leggiamo l’inizio de I Viceré: è solo un frammento e risulta poca cosa di fronte al grande quadro d’insieme che lo scrittore costruisce pagina per pagina. L’incipit di questo romanzo è un esempio di coralità e mette alla prova la nostra capacità di attenzione, e il dialogare dei personaggi è rapido e convulso come si addice alla circostanza: l’annuncio della morte di donna Teresa Uzeda principessa di Francalanza. Questa tragica notizia infonde in tutti (dai servi, ai parenti di vario grado fino ai figli in perenne contesa tra loro) non un sincero rammarico né un profondo dolore, come si vorrebbe far credere, ma un senso corale di insicurezza, di inquietudine.

LEGERE MULTUM….

Federico De Roberto,  I Viceré  (1894)

Giuseppe, dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo sulle braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell’arco, la rastrelliera inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde, quando s’udì e crebbe rapidamente il rumore d’una carrozza arrivante a tutta carriera; e prima ancora che egli avesse il tempo di voltarsi, un legnetto sul quale pareva fosse nevicato, dalla tanta polvere, e il cui cavallo era tutto spumante di sudore, entrò nella corte con assordante fracasso. Dall’arco del secondo cortile affacciaronsi servi e famigli: Baldassarre, il maestro di casa, schiuse la vetrata della loggia del secondo piano, intanto che Salvatore Cerra precipitavasi dalla carrozzella con una lettera in mano.

«Don Salvatore? Che c’è? Che novità?…»

Ma quegli fece col braccio un gesto disperato e salì le scale a quattro a quattro.

Giuseppe, col bambino ancora in collo, era rimasto intontito, non comprendendo; ma sua moglie, la moglie di Baldassarre, la lavandaia, una quantità d’altri servi già circondavano la carrozzella, si segnavano udendo il cocchiere narrare, ininterrottamente:

«La principessa morta d’un colpo Stamattina, mentre lavavo la carrozza…»

«Gesù! Gesù!…»

«Ordine d’attaccare il signor Marco che correva su e giù il Vicario e i vicini appena il tempo di far la via…»

«Gesù! Gesù! Ma come? Se stava meglio? E il signor Marco? Senza mandare avviso?»

«Che so io?Io non ho visto niente; m’hanno Iersera dice che stava bene…»

«E senza nessuno dei suoi figli!In mano di estranei!Malata, era malata; però, così a un tratto?…»

Ma una vociata, dall’alto dello scalone, interruppe subitamente il cicaleccio:

«Pasquale! Pasquale!…»

«Ehi, Baldassarre?»

«Un cavallo fresco, in un salto!…»

«Subito, corro…»

Intanto che cocchieri e famigli lavoravano a staccare il cavallo sudato e ansimante e ad attaccarne un altro, tutta la servitù s’era raccolta nel cortile, commentava la notizia, la comunicava agli scritturali dell’amministrazione che s’affacciavano dalle finestrelle del primo piano, o scendevano anch’essi giù addirittura.

«Che disgrazia! Par di sognare! Chi se l’aspettava, così? »

E specialmente le donne lamentavano:

«Senza nessuno dei suoi figli! Non aver tempo di chiamare i figli!…»

«Il portone? Perché non chiudete il portone?» ingiunse Salemi, con la penna ancora all’orecchio.

Ma il portinaio che aveva finalmente affidato alla moglie il piccolino e cominciava a capire qualcosa, guardava in giro i compagni:

«Ho da chiudere? E don Baldassarre?»

«Sst! Sst!…»

«Che c’è?»

I discorsi morirono una seconda volta, e tutti s’impalarono cavandosi i berretti ed abbassando le pipe, perché il principe in persona, tra Baldassarre e Salvatore, scendeva le scale. Non aveva neppure mutato di abito! Partiva con gli stessi panni di casa per arrivar più presto al capezzale della madre morta! Ed era bianco in viso come un foglio di carta, volgeva sguardi impazienti ai cocchieri non ancora pronti, intanto che dava sottovoce ordini a Baldassarre, il quale chinava il capo nudo e lucente ad ogni parola del padrone: «Eccellenza sì! Eccellenza sì!». E il cocchiere affibbiava ancora le cinghie che il padrone saltò nella carrozza, con Salvatore in serpe; Baldassarre, afferrato allo sportello, stava sempre ad udire gli ordini, seguiva correndo il legnetto fin oltre il portone per acchiappare le ultime raccomandazioni: «Eccellenza sì! Eccellenza sì!».

«Baldassarre! Don Baldassarre!…» Tutti assediavano ora il maestro di casa poiché, lasciata la carrozza che scappava di corsa, egli rientrava nel cortile: «Baldassarre, che è stato? E ora che si fa? Don Baldassarre, chiudere?…».

Ma egli aveva l’aria grave delle circostanze solenni, s’affrettava verso le scale, liberandosi dagli importuni con un gesto del braccio e un «Vengo!…» spazientito.

Il portone restava spalancato; tuttavia alcuni passanti, scorto lo straordinario movimento nel cortile, s’informavano col portinaio dell’accaduto; l’ebanista, il fornaio, il bettoliere e l’orologiaio che tenevano in affitto le botteghe di levante, venivano anch’essi a dare una capatina, a sentir la notizia della gran disgrazia, a commentare la repentina partenza del principe:

«E poi dicevano che il padrone non voleva bene alla madre! Pareva Cristo sceso dalla croce, povero figlio!…»

Le donne pensavano alla signorina Lucrezia, alla principessa nuora: sapevano nulla, o avevano loro nascosto la notizia? E Baldassarre, Baldassarre dove diamine aveva il capo, se non ordinava di chiudere ogni cosa? Don Gaspare, il cocchiere maggiore, verde in viso come un aglio, si stringeva nelle spalle:

«Tutto a rovescio, qui dentro.»

Ma Pasqualino Riso, il secondo cocchiere, gli spiattellò chiaro e tondo:

«Non avrete il disturbo di restarci un pezzo!»

E l’altro, di rimando:

«Tu no, che hai fatto il ruffiano al tuo padrone!»

E Pasqualino, botta e risposta:

«E voi che lo faceste al contino!…»

Tanto che Salemi, il quale risaliva all’amministrazione, ammonì:

«Che è questa vergogna?»

Ma don Gaspare a cui la certezza di perdere il posto toglieva il lume degli occhi, continuava:

«Quale vergogna? Quella d’una casa dove madre e figli si soffrivano come il fumo negli occhi?…»

Molte voci finalmente ingiunsero:

«Silenzio, adesso!»

Però quelli che s’eran messi troppo apertamente con la principessa avevano il cuore piccino piccino, sicuri di ricevere il benservito dal figlio. Giuseppe, in quella confusione, non sapeva che fare: chiudere il portone per la morte della padrona era una cosa, in verità, che andava con i suoi piedi; ma perché mai don Baldassarre non dava l’ordine? Senza l’ordine di don Baldassarre non si poteva far nulla. Del resto, neppur gli scuri erano chiusi su al piano nobile; e poiché il tempo passava senza che l’ordine venisse, qualcuno cominciava ad accogliere un dubbio e una speranza, nella corte: se la padrona non fosse morta? “Chi ha detto che è morta? Il cocchiere! Ma non l’ha veduta! Può aver capito male!”. Altri argomenti convalidavano la supposizione: il principe non sarebbe partito così a rotta di collo, se fosse morta, perché non avrebbe avuto nulla da fare lassù E il dubbio cominciava a divenire per alcuni certezza: doveva esserci un malinteso, la principessa era soltanto in agonia, quando finalmente Baldassarre affacciossi dall’alto della loggia gridando:

«Giuseppe, il portone! Non hai chiuso il portone? Chiudete le finestre della stalla e delle scuderie Dite che chiudano le botteghe. Chiudete tutto!»

«Non c’era fretta!» mormorò don Gaspare.

E come, spinto da Giuseppe, il portone girò finalmente sui cardini, i passanti cominciarono ad accrocchiarsi: “Chi è morta? La principessa? Al Belvedere?”. Giuseppe si stringeva nelle spalle, avendo perso del tutto la testa; ma domande e risposte s’incrociavano confusamente tra la folla: “Era in campagna? Ammalata da quasi un anno Sola? Senza nessuno dei figli!”. I meglio informati spiegavano: “Non voleva nessuno vicino, fuorché l’amministratore Non li poteva soffrire”. Un vecchio disse, scrollando il capo: “Razza di matti, questi Francalanza!”.

I famigli, frattanto, sbarravano le finestre delle scuderie e delle rimesse; il fornaio, il bettoliere, l’ebanista e l’orologiaio accostavano anch’essi i loro usci. Un altro crocchio di curiosi radunati dinanzi al portone di servizio, rimasto ancora aperto, guardavano dentro alla corte dove c’era un confuso andirivieni di domestici; mentre dall’alto della loggia, come un capitano di bastimento, Baldassarre impartiva ordini sopra ordini:

«Pasqualino, dalla signora marchesa e ai Benedettini ma dà la notizia al signor marchese e a Padre don Blasco, hai capito? non al Priore! A te, Filippo: passa da donna Ferdinanda Donna Vincenza? Dov’è donna Vincenza? Prendete lo scialle e andate alla badia parlate alla Madre Badessa perché prepari la monaca alla notizia Un momento! Salite prima dalla principessa che ha da parlarvi Salemi? Giuseppe, ordine di lasciar passare i soli stretti parenti È venuto Salemi? Lasciate ogni cosa; il principe e il signor Marco v’aspettano lassù, che c’è bisogno d’aiuto.

Natale, tu anderai da donna Graziella e dalla duchessa.

Agostino, questi dispacci al telegrafo e passa dal sarto…»

A misura che ricevevano le commissioni, i servi uscivano, aprendosi la via in mezzo alla folla; passavano con l’aria affrettata di altrettanti aiutanti di campo tra i curiosi che annunziavano; “Vanno ad avvertire i parenti i figli, i cognati, i nipoti, i cugini della morta”. Tutta la nobiltà sarebbe stata in lutto, tutti i portoni dei palazzi signorili, a quell’ora, si chiudevano o si socchiudevano, secondo il grado della parentela. E l’ebanista la spiegava:

«Sette figliuoli, possiamo contarli: il principe Giacomo e la signorina Lucrezia che è in casa con lui: due; il Priore di San Nicola e la monaca di San Placido: quattro; donna Chiara, maritata col marchese di Villardita: e cinque; il cavaliere Ferdinando che sta alla Pietra dell’Ovo: sei; e finalmente il contino Raimondo che ha la figlia del barone Palmi Poi vengono i cognati; i quattro cognati: il duca d’Oragua, fratello del principe morto; padre don Blasco, anch’egli monaco benedettino; il cavaliere don Eugenio e donna Ferdinanda la zitellona…»

Ogni volta che lo sportello si schiudeva per dar passaggio a qualche servo, i curiosi cercavano di guardare dentro il cortile; Giuseppe, spazientito, esclamava:

«Via di qua! Che diavolo volete? Aspettate i numeri del lotto?»

Ma la folla non si moveva, guardava per aria le finestre ora chiuse quasi aspettando l’apparizione della stampiglia coi numeri.

(Qui non può non venire in mente la frase misteriosa pronunciata da Pitagora: «A me è dato sapere che nei Viceré ci sono i numeri…». Il fatto è che – per ora – quali siano i numeri non si sa…)

E la notizia correva di bocca in bocca come quella d’un pubblico avvenimento: “È morta donna Teresa Uzeda” i popolani pronunziavano Auzeda “la principessa di Francalanza È morta stamani all’alba C’era il principe suo figlio No, è partito da un’ora.”  L’ebanista frattanto, in mezzo a un cerchio di gente attenta come alla storia dei Reali di Francia, continuava a enumerare il resto della parentela: il duca don Mario Radalì, il pazzo, che aveva due figli maschi, Michele e Giovanni, da donna Caterina Bonello, e apparteneva al ramo collaterale dei Radalì-Uzeda; la signora donna Graziella, figlia d’una defunta sorella della principessa e moglie del cavaliere Carvano; cugina carnale perciò di tutti i figliuoli della morta; il barone Grazzeri, zio della principessa nuora, con tutta la parentela; e poi i parenti più lontani, gli affini, quasi tutta la nobiltà paesana: i Costante, i Raimonti, i Cùrcuma, i Cugnò A un tratto s’interruppe per dire:

«Tò! Guardate i lavapiatti che arrivano prima di tutti!»

 

Don Mariano Grispo e don Giacomo Costantino arrivavano, come ogni giorno, all’ora della colazione, per far la corte al principe, e non sapevano niente: scorgendo la folla ed il portone chiuso, si fermarono di botto:

«Santa fede! Buon Dio d’amore!…»

E a un tratto affrettarono il passo, entrarono interrogando costernati il portinaio che dava le prime notizie: «Non mi sembra vero! Un fulmine a ciel sereno!…». Poi salirono per lo scalone con Baldassarre che risaliva anch’egli in quel punto dalla corte e faceva loro strada mormorando:

«Povera principessa! Non poté superarla! Il signor principe è subito partito.»

Traversando la fila delle anticamere dagli usci dorati ma quasi nude di mobili, don Giacomo esclamava a bassa voce, come in chiesa:

«È una gran disgrazia! Per questa famiglia è una disgrazia più grande che non sarebbe per ogni altra…»

E piano anch’egli, don Mariano confermava, scrollando il capo:

«La testa che guidava tutti, che aggiustò la pericolante baracca!…»

Introdotti nella Sala Gialla, si fermarono dopo qualche passo, non distinguendo nulla pel buio; ma la voce della principessa Margherita li guidò:

«Don Mariano! Don Giacomo!…»

«Principessa!Signora mia!Com’è stato?E Lucrezia?Consalvo?La bambina?»

Il principino, seduto sopra uno sgabello, con le gambe penzoloni, le dondolava ritmicamente, guardando per aria a bocca aperta; discosta, in un angolo di divano, Lucrezia stava ingrottata, con gli occhi asciutti.

«Ma com’è avvenuto, così a un tratto?» insisteva don Mariano.

E la principessa, aprendo le braccia:

«Non so non capisco È arrivato Salvatore dal Belvedere, con un biglietto del signor Marco Lì, su quella tavola, guardate Giacomo è partito subito.» A bassa voce, rivolta a don Mariano, intanto che l’altro leggeva il biglietto: «Lucrezia voleva andare anche lei» aggiunse; «suo fratello ha detto di no Che ci avrebbe fatto?».

«Confusione di più! Il principe ha avuto ragione…»

«Niente!» annunziava frattanto don Giacomo, finito di leggere il biglietto. «Non spiega niente! E hanno avvertito gli altri? hanno dispacciato?…»

«Io non so Baldassarre…»

«Morire così, sola sola, senza un figlio, un parente!» esclamava don Mariano, non potendo darsi pace; ma don Giacomo:

«La colpa non è di questi qui, poveretti! Essi hanno la coscienza tranquilla.»

«Se ci avesse voluti…» cominciò la principessa, timidamente, più piano di prima; ma poi, quasi impaurita, non finì la frase.

Don Mariano tirò un sospiro doloroso e andò a mettersi vicino alla signorina.

«Povera Lucrezia! Che disgrazia! Avete ragione! Ma fatevi animo! Coraggio!»

Ella se ne stava a guardare per terra, battendo un piede, levò la testa con aria di stupore, quasi non comprendendo. Ma, come uditasi un frastuono di carrozze che entravano nel cortile, don Mariano e don Giacomo tornarono ad esclamare, a due: «Che sciagura irreparabile!» …

     E così, nella primavera dell’anno 1855, siamo entrati nel palazzo catanese della famiglia Uzeda di Francalanza dove, uno dopo l’altro stanno per arrivare tutti coloro che sono coinvolti in questa storia: c’è da preparare e celebrare il funerale dell’autorevole defunta secondo le sue ultime volontà. E il grandioso (tragicomico) funerale diventa anche un modo per conoscere meglio donna Teresa Uzeda principessa di Francalanza. Poi c’è da attendere l’apertura e la lettura del testamento. Qualcosa che sta nel testo di questo romanzo possiamo ereditare anche noi. Possiamo conoscere i numeri: così la frase di Pitagora non è più misteriosa: anche a noi è dato sapere «che nei Viceré ci sono i numeri». Il popolo minuto, abbiamo letto, aspetta i numeri dell’evento (almeno tre numeri) e noi apparteniamo al popolo, e come si deve fare per venire a conoscenza dei numeri? Per sapere i numeri (badate bene che non possono essere suggeriti) bisogna scoprirli leggendo almeno la prima quarantina di pagine, contrariamente non hanno nessun potere: parola di Pitagora.

     Un potere che ci è dato, in un Percorso in funzione della didattica della lettura  della scrittura, è quello di allungare e di accorciare lo spazio e il tempo a vantaggio dello studio. Diciamo questo perché la nave Sidonia, al comando del capitano Agenore di Tito, è già in vista di Efeso. Sappiamo che a Efeso dovremmo incontrare un personaggio: perché usiamo il condizionale? Perché non è facile venire a contatto con questo protagonista della Storia del Pensiero Umano: al massimo possiamo ascoltarlo mentre parla dietro ad una tenda, ma non con noi, bensì mentre riflette ad alta voce con sé stesso.

     Questo personaggio si chiama Eraclito. Eraclito è nato ed è vissuto ad Efeso, tra il 544 circa e il 483 circa a.C., e si distingue per la sua auto-emarginazione. Questa caratteristica di Eraclito dipende soprattutto dalla rabbia per la caduta degli ideali su cui si fonda la polis, dallo sdegno per la rimozione dell’idea del bene comune sopraffatta dallo sviluppo degli interessi particolari. C’è una linea di continuità tra questo aspetto della figura di Eraclito (l’auto-emarginazione) e il concetto della delusione coltivato in termini letterari dalla corrente derobertista. L’auto-emarginazione di Eraclito ha fatto fiorire intorno a questo personaggio una ricca tradizione mitica, ma prima di dare spazio (in funzione della didattica della lettura e della scrittura) a questo argomento, dobbiamo chiarire che Eraclito di Efeso vive nella Ionia in un momento storico particolare e questo fatto, a detta delle esperte e degli esperti, ha sicuramente influito sul suo carattere e sul suo stile di vita.

     Dal 546 a.C. l’intera regione ionica è stata assoggettata dai Persiani e si suppone che Eraclito sia stato testimone della rivolta (questo avvenimento ce la racconta Erodoto ne Le Storie) delle poleis ioniche, le quali, con l’unica eccezione di Efeso, nel 498 a.C. si alleano in una lega per abbattere il dominio persiano e vengono sconfitte e punite severamente da Dario. Questa catastrofe probabilmente condiziona la vita di Eraclito e il suo pensiero assume caratteristiche spiccatamente pessimistiche che si traducono nel contenuto e nella forma della sua scrittura. La scrittura di Eraclito possiede una forma particolare: dai suoi testi emerge un tono distaccato ed altero ed uno stile particolarissimo, breve e brillante, sentenzioso ed enigmatico, ricco di immagini sia spettacolari, attinte dal repertorio dei miti orfici, che semplici, attinte dalla realtà materiale più consueta.

     Di Eraclito ci rimangono 130 frammenti che derivano da un poema intitolato Sulla natura che probabilmente era formato da tre capitoli: la fisica (Tutto), la teologia (Uno) e la politica (Molti). I frammenti di Eraclito difatti sono stati catalogati in tre gruppi: quello dei frammenti fisici, dei frammenti teologici e dei frammenti politici. I frammenti di Eraclito sono stati pubblicati in molte edizioni (si trovano facilmente in biblioteca) e formano una significativa composizione di poesia ermetica. Ne I frammenti di Eraclito è come se la sapienza poetica orfica (stiamo viaggiando sempre su questo sentiero) abbia saputo conformarsi allo stile del linguaggio poetico più recente per continuare ad inserirsi nel dibattito contemporaneo sui grandi temi esistenziali che continuano ad essere fondamentali come lo erano 2500 anni fa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La Scuola consiglia alle cittadine e ai cittadini la lettura de I frammenti di Eraclito ma deve precisare che questo esercizio non porta spesso ad una comprensione immediata del testo, è necessario quindi non fermarsi in superficie ma attivare la capacità riflessiva perché in ogni frammento di Eraclito è racchiuso un concetto logico che contiene anche più di un significato: buona lettura riflessiva, ponderata, meditata …

     Ma chi è, secondo la tradizione mitica, Eraclito di Efeso? Lo scrittore Strabone di Amasea (67 a.C. - 20 d.C.), nella sua famosa opera in 17 libri intitolata Geografia, scrive che il padre di Eraclito si chiama Blosone o Blisone, ed è un discendente diretto di Androceo, il mitico fondatore della colonia greca di Efeso,  a sua volta figlio di Codro, il leggendario tiranno di Atene. Per questa nobile provenienza, alla famiglia di Eraclito spetta da sempre il titolo di basilèus, ovvero della massima carica sacerdotale della pòlis. Eraclito quindi, che è il primogenito, è destinato a far carriera nella sua città. Ma il nostro informatore principale, Diogene Laerzio, nella sua opera intitolata Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, ci racconta che Eraclito rinuncia al privilegio di basilèus (di Sommo Sacerdote) in favore di suo fratello minore. Così comincia il processo di auto-emarginazione che caratterizza la vita di Eraclito. La volontà di auto-emarginazione, in Eraclito, matura anche probabilmente in ragione del suo carattere chiuso e scorbutico. Eraclito disprezza l’ignoranza e la superstizione e detesta tutti coloro che non reagiscono contro queste due sciagurate realtà, che lui considera i mali peggiori. Possiamo leggere alcuni frammenti molto significativi a questo proposito.

LEGERE MULTUM….

Eraclito di Efeso, Frammenti  (5.  7.  9.)

Molti sono scadenti, pochi quelli che valgono.

I più pensano solo a saziarsi, proprio come bestie d’armento.

Gli esseri umani si dimostrano privi d’intendimento, sia prima di porgervi orecchio, sia dopo avervi ascoltato, e non si accorgono di quello che fanno, mentre sono svegli, proprio come dimenticano ciò che hanno fatto mentre stavano dormendo.

L’erudizione non insegna a essere intelligenti, altrimenti sarebbero intelligenti anche Esiodo, Pitagora, Senofane ed Ecateo

     Diogene Laerzio ci racconta ancora che Eraclito si è sempre vantato di non aver mai avuto maestri e aggiunge che quando sentiva il bisogno di consultarsi con qualcuno, era solito dire: «Aspettate un momento che vado a interrogare me stesso»; per quanto riguarda gli altri (nel frammento che abbiamo letto ne cita quattro, Esiodo Pitagora Senofane ed Ecateo, e noi li conosciamo e non so se possiamo essere d’accordo con lui) non ha che parole di disprezzo. L’unico personaggio che Eraclito stima come saggio è il vecchio Biante di Priene (uno dei sette sapienti). Da che cosa dipende la stima che un incontentabile come Eraclito nutre per Biante? A questo proposito ci può aiutare Erodoto (che se la ride sotto i baffi perché lui non era ancora nato mentre Eraclito parlava). Probabilmente Eraclito condivide il consiglio molto utile che il saggio Biante di Piene, interpellato insieme a Talete di Mileto, ha dato agli abitanti della Ionia. Essendo il territorio da loro abitato diventato poco sicuro a causa delle mire espansionistiche di Creso e di Ciro, Biante di Priene consiglia agli Ioni di emigrare tutti in Sardegna (che avrebbe avuto un futuro turistico notevole), ma gli Ioni non lo ascoltano. Ma leggiamo come questa notizia ci viene data da Erodoto:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie I  170

Agli Ioni che, pur sotto il peso della sventura s’erano nondimeno adunati nel Panionio, Biante di Priene, secondo quanto ho sentito dire, diede un consiglio molto utile e, se gli avessero dato ascolto, sarebbero stati di gran lunga i più felici dei Greci: li esortava a salpare con una flotta unica, e, recatisi in Sardegna, fondare colà un’unica città tutta di Ioni.

Così, liberi di ogni schiavitù, sarebbero vissuti felici, abitando la più vasta di tutte le isole e dominando sugli altri popoli. Se rimanevano nella Ionia, diceva, non vedeva speranza di libertà futura.

Questo fu il parere di Biante di Priene agli Ioni, avvenuto ormai il disastro

     Per saperne di più è utile leggere il I libro de Le Storie dove spiccano due personaggi: Creso re della Lidia e Ciro re dei Persiani.

     Diogene Laerzio ci racconta che Eraclito, dopo aver rifiutato il titolo di basilèus (di Sommo Sacerdote) per lasciarlo al fratello minore, se ne va a giocare a dadi con alcuni ragazzini nel tempio di Artemide. E ai cittadini incuriositi che gli domandano perché si sia comportato così, risponde senza mezzi termini: «Perché vi stupite, canaglie! Non è forse meglio giocare con dei fanciulli che partecipare con voi al governo di questa città?». Eraclito non ha, e si sforza di non avere, alcuna ambizione di potere che non è una virtù da poco. Seguiamo ancora la narrazione di Diogene Laerzio.  Un giorno Dario, il re dei Persiani, desiderando circondarsi d’intellettuali e di uomini di cultura,  scrive ad Eraclito una lunga lettera per invitarlo a corte dove, a quanto pare, lo avrebbe ricoperto d’oro dalla testa ai piedi. Eraclito rifiuta sdegnato la proposta del re e risponde: «La mia mente rifugge dalla insolente e insaziabile ambizione perché è generatrice d’invidia. Il potere produce invidia e l’invidia avvelena la società che diventa ingovernabile. Gli intellettuali non devono stare a corte ricoperti d’oro ma mescolati in mezzo al popolo, nutrendosi di orzo tritato». Questa citazione ricorda il pensiero di Antonio Gramsci sul ruolo degli intellettuali nella società e probabilmente Gramsci, che frequenta i Classici con assiduità, ha in mente anche Eraclito.

     A proposito di orzo tritato (che Eraclito considera un nutrimento sano per il corpo e per lo spirito, e anche utile per il benessere tanto della persona quanto della società) Plutarco di Cheronea, che abbiamo incontrato qualche settimana fa, non dimentica di citare Eraclito nei suoi Opuscoli morali, in quello su La loquacità:

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Opuscoli morali  (anteriori al 127 d.C.)

I cittadini di Efeso sapevano godersi la vita e non amavano pensare al futuro. Si racconta che una volta la città subì un lungo assedio da parte dei Persiani ma gli efesini continuarono a vivere come se le provviste accumulate non dovessero mai avere fine. Quando, a causa del protrarsi dell’assedio, i viveri cominciarono a scarseggiare un saggio di nome Eraclito intervenne all’assemblea del popolo e qui, senza dire una parola, prese dell’orzo tritato, lo mescolò con l’acqua e se lo mangiò restando seduto in mezzo a loro. I cittadini di Efeso capirono il muto rimprovero e da quel momento iniziarono un periodo di austerità fintanto che i Persiani si scoraggiarono e tolsero l’assedio.

     Eraclito, in politica, si schiera dalla parte del tiranno. Questo fatto può sembrarci strano ma non lo è perché a Efeso governa un certo Ermodoro, persona di eccezionale virtù, oltre che vecchio amico della famiglia di Eraclito. Ermodoro di Efeso è considerato dalla tradizione l’esponente politico più onesto e capace che sia mai esistito sul faccia della terra. Naturalmente questa persona così proba finisce per non essere ben vista a Efeso. I cittadini di Efeso, scrive Diogene Laerzio, decidono di mandare in esilio Ermodoro con la seguente motivazione: «Non desiderando che nessuno di noi sia degnissimo, e costatando che invece ce n’è uno, invitiamo costui – che non può distinguersi da tutti – ad andare a vivere altrove». Eraclito inveisce contro i suoi concittadini falsi democratici, invita tutti gli uomini ad impiccarsi e ad affidare il governo ai bambini, dopo di che abbandona la città e va a fare l’eremita. Eraclito, scrive Diogene Laerzio, si riduce a vivere allo stato selvaggio, si nutre solo di erbe e di piante selvatiche (considera un lusso anche l’orzo tritato) e quando termina di scrivere il suo libro intitolato Sulla natura va a depositarlo, affinché non finisca in mani profane, nel tempio di Artemide. Il testo del libro di Eraclito, aggiunge Diogene Laerzio, a detta di tutti quelli che si sono provati a leggerlo risulta incomprensibile (probabilmente leggono senza riflettere) e questo fatto ha determinato il soprannome con cui Eraclito è passato alla storia: ò skoteinós, l’oscuro, o il tenebroso.

     Socrate, secondo la tradizione riportata da Diogene Laerzio, è uno dei primi lettori di Eraclito e rilascia in proposito una famosa dichiarazione: «Dell’opera di Eraclito di Efeso ciò che si comprende è eccezionale, per cui desumo che lo sia anche il resto che non si comprende, ma, per giungere al fondo di questa parte non immediatamente comprensibile, bisognerebbe essere un tuffatore di Delo». Che cosa intende dire Socrate? Intende dire che solo un subacqueo (un pescatore di spugne di Delo), abituato alle tenebre degli abissi, potrebbe capirci qualcosa? Oppure Socrate vuole sostenere che per capire il pensiero di Eraclito bisogna immergersi nello strato profondo in cui è radicata la cultura di Delo (siamo stati a Delo qualche mese fa…) cioè bisogna tuffarsi nella tradizione intellettuale del movimento della sapienza poetica orfica che pone in primo piano il tema de l’armonia misteriosa dei contrari a cominciare dalle contrastanti figure di Apollo e Dioniso? Eraclito non desidera essere immediatamente capito (neppure desidera essere capito): la sua è una scrittura oracolare secondo lo stile del movimento della sapienza poetica orfica e in un suo frammento [Fr.14.A1] possiamo leggere: «L’oracolo non dice, né nasconde, ma accenna soltanto». E in un altro frammento [Fr. 14 A 86, Fr. 14 A 61] leggiamo: «Gli esseri umani sono privi d’intendimento e, pur avendo prestato orecchio, assomigliano ai sordi. Per loro testimonia il detto: i presenti sono assenti». A sessant’anni, secondo la tradizione, Eraclito si ammala d’idropisia: una malattia che lo fa gonfiare d’acqua sempre di più e quindi è costretto a ritornare in città per farsi curare. Il vecchio Eraclito, che ha sempre preteso di curarsi da solo e che, dopo tanti anni di solitudine non è più abituato a comunicare con il prossimo, in presenza dei medici si mette a parlare per enigmi e chiede, racconta Diogene Laerzio, se ci sia qualcuno in grado «di mutare un’inondazione in una siccità». I medici non capiscono e lui li manda all’Ade.

     La malattia di Eraclito è considerata, dalla tradizione mitica, una vendetta del destino: come Pitagora è perseguitato dalle fave, così Eraclito è perseguitato dall’acqua. Come mai Eraclito è perseguitato dall’acqua? Nel poema Sulla natura, Eraclito ha condannato l’acqua come la parte peggiore dell’essere umano. L’anima, sostiene Eraclito, è composta di percentuali di fuoco e di acqua che variano da individuo a individuo: il fuoco fa elevare l’anima verso mete sempre più nobili e l’acqua invece trascina l’anima nelle passioni più turpi. Leggiamo che cosa scrive in un frammento [Fr. 14, 51]: «L’ubriaco barcolla e può essere condotto per mano anche da un fanciullo imberbe, proprio perché si trova con l’anima troppo inumidita». A volte I frammenti di Eraclito sfiorano la comicità se non se ne coglie il valore metaforico: le passioni appesantiscono l’anima come l’acqua spegne il fuoco.

     Eraclito, solo e malato, prova a curarsi a modo suo, scrive Diogene Laerzio: «Si seppellì in una stalla sotto il calore dello sterco animale, nella speranza che l’umore evaporasse». Secondo Neante di Cizico, racconta ancora Diogene Laerzio, Eraclito si fece spalmare di letame da alcuni schiavi e si espose al calore del sole; sennonché, reso irriconoscibile dagli escrementi, fu divorato da un branco di cani.

     Come possiamo constatare, nei confronti di Eraclito di Efeso la tradizione mitica  tende a far emergere soprattutto il pessimismo, ma il pensiero di Eraclito, essendo ben radicato nel movimento della sapienza poetica orfica, va al di là del pessimismo e investe campi della Storia del Pensiero Umano che sono di grande attualità. Il testo di uno dei frammenti [Fr. 14 A 62] più tragici di Eraclito di Efeso dice: «Gli esseri umani vogliono vivere, ma ancora di più sembra che desiderino morire, infatti procreano figli perché nascano altri destini di morte: Amore (Eros) e Morte (Thànatos) combattono la loro battaglia». Con queste parole Eraclito porta nella Storia del Pensiero Umano un’idea sulla quale riflette con attenzione il dottor Sigmund Freud (1856-1939).  Sigmund Freud fino al 1920 considera l’inconscio della persona dominato dalla libido cioè dall’energia dell’istinto sessuale tesa alla conservazione dell’individuo e della specie. Ma nel 1920  Freud pubblica un testo intitolato Al di là del principio del piacere e nella prima pagina del libro pone una citazione, l’ultima parte del Frammento 14 A 62 di Eraclito: «Eros e Thànatos combattono la loro battaglia». Con questo saggio il dottor Sigmund Freud modifica una parte del suo pensiero e introduce quello che ha chiamato: il tema di Eros (Amore) e Thànatos (Morte). Al posto della libido compare l’Eros che comprende gli istinti di conservazione della specie e dell’individuo, ma a questo Eros – sempre nell’inconscio – Freud contrappone gli istinti di morte e di distruzione (Thànatos) che egli vede come tendenze della natura a ristabilire lo stato originario. Attraverso l’istinto di morte e di distruzione (Thànatos) la materia organica e vivente tende a ritornare al primitivo stato inorganico, per cui la vita si risolve in una preparazione alla morte. Il riconoscimento che «Eros e Thànatos combattono la loro battaglia» rappresenta per Freud una inversione di rotta: ma questa è un’altra storia che fa parte di un altro territorio nel quale approderemo, e ne percorreremo i sentieri, a suo tempo…

     Ma ora siamo a Efeso, nel territorio della Ionia, per incontrare Eraclito perché di Eraclito di Efeso, a parte la pur interessante trafila della tradizione mitica che abbiamo percorso, non abbiamo ancora detto nulla. Eraclito di Efeso ci aspetta al varco, perché deve proporci ancora una riflessione (ancora più profonda) su uno dei temi fondamentali elaborati dal movimento della sapienza poetica orfica: il tema de l’armonia misteriosa dei contrari. Eraclito di Efeso su questo tema fondamentale – che ci accompagna da prima delle vacanze natalizie – ha costruito la sua dottrina fisica, metafisica e politica.

     Eraclito di Efeso affronta tre significativi argomenti: il Tutto (la fisica), l’Uno (la metafisica) e i Molti (la politica). Per conoscere e per capire come Eraclito sviluppa questi temi – il Tutto, l’Uno e i Molti – significativi da sempre nella Storia del Pensiero Umano bisogna aspettare la prossima settimana, mentre per scoprire i numeri ne I Viceré«A me è dato sapere che nei Viceré ci sono i numeri…» ci suggerisce Pitagora – si può cominciare, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, da domani stesso.

     L’invito, con i numeri o senza i numeri, è a correre a Scuola. La Scuola è qui per proporre la riflessione di Eraclito sul tema dell’armonia misteriosa dei contrari: questo esercizio di riflessione, indipendentemente dai numeri e dall’effimera speranza di una vincita di un terno al lotto, è un sicuro investimento in intelligenza.

     Il viaggio continua a Efeso nella Ionia…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 23, 2007