Autorizzazione all'uso dei cookies

LO SGUARDO DI ERODOTO SULL’ELEMENTO INDEFINITO, L’ÁPEIRON…

Lezione N.: 
12

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sguardo di Erodoto                  200724-25-26  gennaio 2007

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULL’ELEMENTO INDEFINITO, L’ÁPEIRON…

     Siamo approdati e ci troviamo, in compagnia di Erodoto e del capitano Agenore di Tiro (che sono assenti perché hanno deciso di passare la serata andando a spasso), nella polis di Mileto dove, la scorsa settimana, abbiamo visitato la “zona umida” della città. Dire che Mileto ha una “zona umida” è una metafora per affermare che abbiamo incontrato Talete, personaggio che ha un posto significativo nella Storia del Pensiero Umano. Talete pensa che il principio di tutte le cose (l’arché) vada ricercato non nelle grandi immagini mitiche create dalla fantasia delle poetesse e dei poeti nel tempo degli albori, bensì attraverso l’analisi dei dati materiali forniti dall’esperienza. In greco il termine “esperienza” corrisponde alla parola έmpeirίa-empeiría, da cui deriva il termine “empirico” (è “empirico” ciò che deriva dell’esperienza), e Talete pensa che il principio di tutte le cose (l’arché) vada ricercato attraverso lo studio empirico (con la sperimentazione) dei fenomeni naturali. Per Talete il principio di tutte le cose (lo abbiamo studiato la scorsa settimana) è identificabile con l’umido.

     La scorsa settimana, nella metaforica zona umida di Mileto, abbiamo incontrato anche Bertoldo: lo abbiamo incontrato per festeggiare i suoi 400 anni di vita. Bertoldo, lo sappiamo, rappresenta il contadino della bassa padana (bassa in tutti i sensi) e la “bassa” è zona umida per eccellenza. Bertoldo è un maestro in sapienza poetica orfica (riesce a sopravvivere perché è in possesso di questa cultura): egli è l’espressione del mondo rurale in cui è profondamente radicata la dottrina orfica. La maschera orfica, il personaggio letterario di Bertoldo è stato creato da Giulio Cesare Croce nel 1606, e di lui la scorsa settimana abbiamo percorso le tappe principali della vita. Giulio Cesare Croce, nel gennaio del 1607 (è lui che c’informa) dopo aver terminato le Sottilissime astuzie di Bertoldo comincia a comporre Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino. La scorsa settimana abbiamo concluso il nostro itinerario dicendo che avremmo incontrato ancora Giulio Cesare Croce il quale, indossando la maschera orfica di Bertoldo, avrebbe narrato al re Albino un classico racconto allegorico sul modello di Erodoto: la narrazione è rivolta anche a noi.

LEGERE MULTUM….

Giulio Cesare Croce,  Sottilissime astuzie di Bertoldo (1606)

RE    Orsù, sia come si voglia, io voglio che tu t’inchini a me.

BERTOLDO    Io non posso far questo, abbi pazienza.

RE    Perché non puoi?

BERTOLDO    Perché io ho mangiato delle pertiche di salice e però non vorrei scavezzarle (spezzarle, romperle) nel piegarmi.

RE   Ah, villan tristo, io voglio al tuo dispetto che tu t’inchini, come tu torni alla presenza mia.

BERTOLDO    Ogni cosa può essere, ma duro gran fatica a crederlo.

RE    Domattina si vedrà l’effetto; va’ pur a casa per questa sera.

 

37. IL RE FA ABBASSAR L’USCIO DELLA SUA CAMERA ACCIÒ BERTOLDO CONVENGA INCHINARSI  NELL'ENTRAR DENTRO LA MATTINA

Partissi Bertoldo, e il Re fece abbassar l’uscio della sua camera tanto che chi voleva entrare in essa, bisognava per forza inchinarsi con il capo; e ciò fece acciò che Bertoldo alla tornata ch’ei faceva si dovesse inchinare nell’entrare e così venisse a fargli riverenza (l’inchino) al suo dispetto. E così stava aspettando il giorno per vedere il successo della cosa.

 

38. ASTUZIA DI BERTOLDO PER NON INCHINARSI AL RE

La mattina l’astuto Bertoldo tornò alla corte, come era suo solito, e veduto l’uscio abbassato in quella maniera pensò subito alla malizia e conobbe che il Re aveva fatto far questo solamente perché esso nell’entrare a lui se le inchinasse; onde in cambio di chinare il capo e abbassarlo nell’entrare dentro, voltò la schiena ed entrò all’indietro a tal che, in cambio di far riverenza al Re, gli voltò il pòdice e l’onorò con le natiche. Allora il Re conobbe che costui era astuto sopra gli altri astuti ed ebbe caro simil piacevolezza; pur, mostrando d’essere alquanto alterato, gli disse:

RE    Chi t’ha insegnato, villan ribaldo, d’entrar nelle case a questa foggia?

BERTOLDO    Il gàmbaro.

RE    Perché il gàmbaro? Tu hai avuto un buon pedante (precettore), certo.

 

39. FAVOLA DEL GÀMBARO E DELLA GRANZELLA (LA GRANCÈOLA, IL GRANCHIO) NARRATA DA BERTOLDO

Tu dei sapere che il mio padre aveva fin a dieci figliuoli ed era povero come ancora son io, e perché spesse volte non vi era pane da cena, egli, in iscambio di cibarci e mandarci pasciuti a letto, ci soleva contare qualche favola a buon conto per farci addormentare, e così la solevamo passare fino alla mattina; onde fra l’altre ch’io gli udì raccontare, questa mi restò nella mente, e se tu hai pazienza di darmi un poco di audienza, udirai cosa che non ti spiacerà e torna a punto al proposito nostro.

RE    Di’ pur su, che ciò mi sarà di sommo piacere.

BERTOLDO  Diceva il mio padre che quando le bestie parlavano e che le civette cacavano mantelli, che il gàmbaro e la granzella (il granchio), amici carissimi, si disposero d’andare un poco per lo mondo a vedere come si viveva negli altri paesi (e il gàmbaro allora caminava all’innanzi come fa l’altro bestiame, e similmente la granzella non andava per traverso, come fanno al presente). Ora costoro partironsi dalle paterne case, andarono molto tempo girando il mondo e furono nel regno delle cavallette; poi passarono su quello delle lucerte, che confina con quello del re de’ parpaglioni (farfalloni), e così circondarono gran parte della terra e videro vari riti (usanze, consuetudini) e vari costumi fra quelle bestiole; alla fine capitarono nel paese de’ schiràtoli (degli scoiattoli), ed era sera. E perché fra gli schiràtoli e le donnole era grandissima guerra per esser confinanti insieme e per una nuova sospizione (sospetto)  di tradimento si stava in arme dall’una e dall’altra parte, arrivati questi due compagni in simil luoco, furono dalle guardie scoperti e tolti per duoi (due) spioni; e subito presi e legati furono condotti innanzi al loro capitano, il quale, fattogli essaminare minutamente non trovò in essi altro se non che, desiderosi di veder del mondo, erano giunti in quelle parti e che come forastieri non erano informati di cosa alcuna, e che bramavano di esser posti in libertà e tornarsene alle patrie loro; o pure, se volevano trattenergli per soldati, gli dessero il soldo come agli altri, ch’essi gli averìano serviti in quella guerra fidelissimamente. Inteso ciò dal capitano, subito gli fece slegare, e parendogli essere bestie da fazione (adatte ad azioni militari), per avere tanti piedi e tante braccia, gli accettò e subito gli fece passar la panca («lasciare la panca», aver superato il livello scolastico ed essere pronti per il servizio militare). Ora avvenne che, essendo mandato il gàmbaro a spiare quello che si faceva nel campo de’ nemici, come quello ch’era nuovo personaggio in quel paese e che caminava con grandissimo silenzio e spesso si copriva tutto sotto la coda, non sarebbe conosciuto così facilmente; esso andò animosamente nel campo nemico e, trovando le guardie che dormivano, passò avanti e andò fino al padiglione del donnolotto (il capo delle donnole), pensando ch’ivi ancora si dormisse; ma il meschino ebbe la mala fortuna perché ivi si stava svegliato e giocavano a massa e topa (gioco che si fa con i dadi). Onde nel porre ch’ei fece il capo dentro, subito fu visto da uno di quei soldati, il quale cheto cheto si levò da giocare, che il povero gàmbaro non se n’avidde, e preso uno stanghetto gli tirò così fatto colpo sul capo, che lo stordì di maniera ch’ei parea morto, e se egli non si fusse trovato indosso le sue solite arme, il cervello gli andava a spasso. Colui che lo percosse, non sapendo ch’ei fosse una spia, ma credendosi che quivi fosse capitato a caso, non avendo mostaccio a proposito da spia e credendolo morto, lo prese per le corna e lo gettò in un fosso, e senza altro sospetto tornò a giocare. Ora, ritornato il misero in se stesso e non potendo appena levare il capo per la gran percossa ricevuta, giurò di mai più non voler entrare con il capo inanti in luoco alcuno, ma caminare con la coda, acciò se più gli veniva dato delle busse, che più tosto gli fusse dato sulla schiena che sulla testa. Così, tornato al campo, fece la relazione di quanto gli era intraveduto (capitato), e come le guardie dormivano ma che nel padiglione si veghiava; onde il capitano fece armare chetamente le sue schiere, e andò ad assaltare il nemico e prese il padiglione e uccise tutti quelli che vi erano dentro, e fecero le vendette del bastonato gàmbaro. Il quale, per non giunger più a simil passo, disse alla granzella: «Andiamoci con Dio, perché la guerra non fa per noi». «Ma come fuggiremo – disse la granzella – che non siano vedute le nostre pedate (impronte)?»  «Tu caminerai per traverso – disse il gàmbaro – e io all’indietro, e così ci terremo di sotto (ci sottrarremo a ogni ricerca)». Piacque la proposta alla granzella, e subito si levò in punta di piedi e gentilmente cominciò a caminare di gallone (spostarsi di lato) e con tanta destrezza che il gàmbaro a pena poteva tenergli dietro; e così si partirono dal campo e mai non potèro coloro sapere dove fossero andati per lo stravagante caminare che facevano. Così giunsero alle case loro e, per i pericoli ne’ quali erano stati, lasciarono per testamento che tutti i descendenti loro dovessero per l’avenire caminare sempre come avevano fatto essi nel tornare alle case loro; e fin ora si vede che il gàmbaro camina all’indietro e la granzella per fianco. E perché il gàmbaro ebbe quella bacchettata sul capo nel cacciarsi nel padiglione, io me lo son sempre tenuto a mente, e per questo nel cacciarmi nella tua camera sono entrato alla roversa perché meglio è che il sedere sia percosso che il capo. Or che ne dici? Non è bella questa favola?

RE    Sì, certo, e sei stato un grand’uomo. Orsù vattene a casa e torna domani da me e fa’ ch’io ti vegga e non ti vegga, e portami l’orto, la stalla e il molino.

BERTOLDO  Indovinala tu, grillo (il grillo è bestia da indovinelli). Orsù, io vado, e m’ingegnarò di fare quel ch’io saprò…

     Il re mette in continuazione alla prova Bertoldo con i suoi indovinelli e Bertoldo, esercitando la sapienza poetica orfica, risponde e controbatte. Se volete sapere come risponde Bertoldo continuate a leggere le Sottilissime astuzie che Giulio Cesare Croce sa, con la sua scrittura, mettere in scena. La Scuola ha colto l’occasione per ricordare i 400 anni dalla nascita del personaggio di Bertoldo: rimaniamo in attesa che nel 2008, in occasione dei 400 anni della prima edizione dell’opera di Giulio Cesare Croce, i festeggiamenti siano corali (noi abbiamo già coinvolto Arione di Metimna che è un esperto in festeggiamenti corali) da parte di tutto il mondo della cultura. Intanto il modo migliore per celebrare la figura di Bertoldo è quello di leggerlo, quattro pagine al giorno per dieci minuti al giorno.

     Adesso noi, in Mileto, dobbiamo dedicarci a risolvere un altro tipo i indovinello, a sciogliere un interrogativo che ci siamo posti la scorsa settimana. Siamo ancora a Mileto perché Mileto non ha solo una zona umida ma possiede anche una zona aerea da esplorare, e una zona non ben definita, indefinita, da scoprire: di che cosa si tratta? Possiamo rispondere a questa domanda continuando a frequentare la Scuola di Mileto. Qui si distinguono altri due personaggi, discepoli di Talete, impegnati a definire il principio di tutte le cose (l’arché). Per Talete il principio di tutte le cose (lo ripetiamo ancora) è identificabile con l’umido. Ma non è questa l’intuizione fondamentale che emerge dal pensiero di Talete: l’idea cardine che dobbiamo attribuirgli consiste nel far rilevare che il principio di tutte le cose (l’arché) ha una doppia valenza. Nell’elemento che Talete ritiene originario c’è una valenza materiale (e allora la sua dottrina si presenta come scientifica, nel senso che mira a spiegare, come sempre vuole la scienza, i dati di natura con dati di natura) e c’è una valenza simbolica (allegorica). Quello che conta, nel pensiero di Talete, non è tanto l’indicazione di un elemento, ma il fatto di aver ipotizzato un principio universale della natura che non si identifica con nessuno dei singoli elementi, ma li supera (li trascende) tutti. È da questo postulato (da questo presupposto, ipotesi, principio) che nasce ben presto la disciplina che prende il nome di metafisica e che in origine nasce da uno stato d’animo che si traduce nella volontà di conoscere e di capire ancora di più di ciò che possiamo conoscere e capire nel campo della fisica (conoscere e capire oltre-meta lo studio della fisica). La metafisica è, secondo Aristotele, la voglia inesauribile di conoscenza la quale, per esprimersi, ha bisogno di un linguaggio allegorico, e il linguaggio allegorico per eccellenza non è forse quello della poesia?

     Ci siamo domandati più di una volta quale direzione prende il movimento della sapienza poetica orfica con Talete, con la Scuola naturalistica di Mileto? Adesso cominciamo a renderci conto che, nonostante prenda campo lo studio empirico dei fenomeni naturali, si può ancora continuare a parlare di sapienza poetica, e in particolare di sapienza poetica orfica: c’è ancora posto per la poesia, c’è ancora posto per la forma poetica e, strada facendo, potremo concretamente constatare questo fatto.

     Abbiamo annunciato che nella Scuola di Mileto si distinguono altri due personaggi, discepoli di Talete, impegnati a definire il principio di tutte le cose (l’arché). Abbiamo detto che il principio di tutte le cose (l’arché) ha una doppia valenza: materiale e simbolica, naturale e allegorica, fisica e metafisica. Da questo momento l’argomento che riguarda il principio di tutte le cose (l’arché) ci si presenta come l’immagine di una bilancia sui cui piatti ci sono le componenti della doppia valenza che viene attribuita all’arché: su un piatto la componente materiale, naturale, fisica, sull’altro piatto la componente simbolica, allegorica, metafisica.

     Dopo Talete il primo personaggio della Scuola di Mileto che incontriamo si chiama  Anassimandro di Mileto: diciamo subito che egli fa pendere la bilancia verso la componente simbolica, allegorica, metafisica. Chi è Anassimandro (610-545 a.C.)? Ancora una volta dobbiamo dire che la maggior parte delle notizie che possediamo di questo personaggio le dobbiamo all’opera di Diogene Laerzio con cui abbiamo fatto conoscenza la scorsa settimana. La Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi di Diogene Laerzio è una storia aneddotica della filosofia che costituisce un importante repertorio di notizie e riporta molte citazioni (pagine intere ed estratti) di opere che sono andate perdute e che, attraverso questo testo, sono state in parte ricostruite dai primi umanisti e lasciate come patrimonio di studio a nostra disposizione. Scrive Diogene Laerzio che Anassimandro è nato a Mileto circa nel 610 a.C. ed è un discepolo, e forse anche un parente, di Talete di cui è più giovane di circa vent’anni: Anassimandro appartiene alla seconda generazione della Scuola di Mileto. Anassimandro viene ricordato da Diogene Laerzio innanzi tutto per aver disegnato per primo una carta geografica. Le carte geografiche e le carte nautiche costruite da Anassimandro (e qui il capitano Agenore di Tiro annuirebbe se non fosse con Erodoto a spasso per la città) vengono accolte dai mercati dell’epoca con grande favore, in un momento in cui, nell’intraprendere un viaggio, ci si affidava (Erodoto ce lo racconta) unicamente agli oracoli e alla buona sorte. Le carte geografiche e le carte nautiche costruite da Anassimandro, ci fa sapere Diogene Laerzio, hanno una particolarità: sono non solo dei disegni, ma soprattutto degli elenchi di consigli e dei cataloghi di annotazioni sui territori, paesi e popoli che si sarebbero incontrati sul cammino; sono il prototipo della guida turistica.

     Un’altra notizia su Anassimandro come “inventore di tecniche” è relativa ad uno strumento che si chiama gnomone: di che cosa si tratta? Questa notizia la troviamo nell’opera di Favorino, un intellettuale gallico nato ad Arles, in Provenza (allora si chiamava Arelate) intorno all’85 d.C. e morto a Roma dopo il 143 d.C.. Favorino di Arles è un filosofo, grande erudito e profondo conoscitore della lingua e della cultura greca. Favorino, trasferitosi dalla Gallia del sud a Roma, dirige una Scuola di indirizzo eclettico (l’Eclettismo prende il meglio di ogni pensiero filosofico e lo utilizza per sviluppare un progetto di studio e di trasformazione della società) nella quale studia anche Publio Elio Adriano che nel 117 d.C. succede a Traiano (di cui è cugino) e diventa imperatore (il protagonista de Le memorie di Adriano). Alla morte di Adriano (nel 138 d.C.), di cui è amico e consigliere, Favorino cade in disgrazia e viene mandato in esilio sull’isola di Chio dove, nonostante le difficoltà, continua a studiare e a scrivere. Favorino (anche col favore del vento della Ionia) ha scritto molte opere di filosofia: noi adesso vogliamo citare la sua opera più vasta che s’intitola Varia erudizione, una vera e propria enciclopedia in 24 libri, in cui lo scrittore raccoglie e spiega il significato di molte parole-chiave, di molte idee significative, di molti oggetti culturali di valore e presenta molti personaggi degni di essere ricordati.

     Poi di Favorino vogliamo ricordare Sull’esilio, un opuscolo consolatorio in cui lo scrittore ribadisce che, nonostante le difficoltà economiche e materiali che incontra un esiliato (lui a Chio si guadagna da vivere lavorando in campagna come bracciante, raccogliendo anche il “mastic”), c’è tuttavia il modo (e questa è la teoria di Ovidio…) di trovare, nell’esperienza dell’esilio, nuovi stimoli per accrescere la propria cultura e per investire in intelligenza. Favorino, in esilio a Chio, ha comunque la fortuna di trovarsi davanti alle coste dell’Anatolia (da dove soffia il vento della Ionia) e quindi su quest’isola trova molti riferimenti intellettuali per arricchire la sua cultura greca.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con l’atlante e con la guida della Grecia fai una visita all’isola di Chio e poi con l’enciclopedia e sulla rete cerca qualche notizia in più su Favorino di Arles, e se trovi uno spunto puoi scrivere quattro righe in proposito: buon viaggio e buona ricerca…

     Perché abbiamo puntato l’attenzione su Favorino di Arles? Perché egli, nell’opera Varia erudizione, cita Anassimandro, riportando una notizia che raccoglie probabilmente a Chio in ambiente spartano: infatti sull’isola c’era una numerosa comunità di discendenti di emigranti spartani (Chio è stata alleata di Sparta durante la guerra del Peloponneso). Leggiamo il frammento che c’interessa:

LEGERE MULTUM….

Favorino di Arles, Varia erudizione (143 d.C. circa)

Anassimandro disegnò nell’agorà di Sparta un quadrante, al centro del quale conficcò un’asta la cui ombra si spostava sul terreno a seconda dell’ora. L’asta di opportuna lunghezza, la cui ombra serve a segnare le ore con il sole, fu detta da Amassimandro gnomone. Questa parola porta in sé il temine gnώmη-gnòme, la conoscenza

     Quindi di Anassimandro si dice che abbia inventato lo gnomone, ovvero l’orologio solare (la meridiana). Un’altra notizia curiosa su Anassimandro la troviamo nell’opera di Cicerone (106 a.C.-43 a.C.) intitolata  La divinazione. Leggiamo che cosa scrive Cicerone:

LEGERE MULTUM….

Marco Tullio Cicerone, La divinazione (45 a.C.)

Si dice che Anassimandro di Mileto abbia previsto, con un sistema inventato da lui, di cui purtroppo a noi non è giunta notizia, un terremoto nella zona di Sparta salvando la vita a molti lacedemoni. 

     Questa notizia è davvero interessante perché ci piacerebbe sapere, come anche a Cicerone (che si rammarica di non averlo scoperto), con quale sistema Anassimandro ha previsto il terremoto: risulterebbe una scoperta di grande utilità…

     Le notizie sulla vita di Anassimandro sono comunque scarse: possiamo ritenere, dalla sua abilità di cartografo, che abbia molto viaggiato, così come ha molto viaggiato Talete; e probabilmente, se erano parenti, avranno a anche viaggiato insieme …

     Diogene Laerzio scrive che Anassimandro, da giovane, ha partecipato alla fondazione di una colonia sul Mar Nero chiamata Apollonia, in onore del dio Apollo. Questa non è una notizia particolarmente straordinaria, poichè i Greci hanno fondato più di millecinquecento colonie nel solo Mediterraneo, oltre che sulle coste dell’Italia centro meridionale anche sulle coste della Francia e della Spagna. Erodoto (ora è a spasso per Mileto con Agenore ma è già intervenuto nel testo de Le Storie come se volesse alludere al fatto che la fondazione di una colonia sul Mar Nero non costituisce un fatto eccezionale) ci racconta che una volta un certo Coleo, un armatore di Samo, trascinato da una tempesta, con la sua nave ha superato persino le Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra) e si è installato addirittura nei pressi delle coste dell’Oceano Atlantico per poter commerciare in quella remota zona del mondo traendone grande vantaggio.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie IV 152

Ma poi una nave di Samo, di cui era proprietario Coleo e che faceva vela verso l’Egitto, fu dal vento dirottata verso l’isola di Platea Quindi essi [i Sami], salpati dall’isola [di Platea] con gran desiderio di raggiungere l’Egitto, veleggiarono, trasportati dal vento di Levante, fuori rotta e, siccome il vento non cessava di spirare, oltrepassate le colonne d’Ercole, come guidati da un dio giunsero a Tartesso (insediamento di origine fenicia alla foce del Gualdalquivir).

 Questo scalo commerciale [Tartesso] era a quel tempo ancora inesplorato; siccome i Sami, ritornati in patria, realizzarono con le merci i guadagni più elevati di tutti i Greci di cui abbiamo precise informazioni

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Siccome torneremo in questo luogo insieme ai Focesi, per saperne di più sugli insediamenti fenici nell’area della foce del fiume Guadalquivir è utile consultare la guida della Spagna sulla pagina di Cadice e, in particolare, del museo archeologico e delle Belle Arti di questa città, buona ricerca…

     Noi ci domandiamo come mai Erodoto, ne Le Storie, non cita mai Anassimandro sebbene sia un personaggio (come Talete, che viene citato più volte) degno di menzione? Ci sembra di capire che Anassimandro simpatizzasse per Sparta, ed Erodoto, come sappiamo (possiamo dirlo liberamente tanto è a spasso), simpatizza per Atene e quindi non ama coloro i quali non sono in sintonia con la polis a cui lui è affezionato.

     Su Anassimandro, a proposito di Sparta, c’è un episodio, dal risvolto comico, che lo vede nelle vesti di cantante a Sparta. Si racconta che un giorno alcuni ragazzi, avendolo sentito cantare in coro (sappiamo che a Sparta la lirica corale era tenuta in gran conto), lo abbiano preso in giro perché stonava e di fronte a questo fatto sembra che Anassimandro, che non sopportava i giudizi negativi, si sia rivolto agli altri coristi dicendo: «Signori, per cortesia: cerchiamo di andare a tempo!».

     Anassimandro ha scritto diverse opere: Sulla Natura (Peri fiseως-Peri fiseos), Il giro della Terra, Intorno alle stelle fisse, La sfera, e tante altre. Di tutte queste opere non è rimasto praticamente nulla, a eccezione di quattro frammenti, costituiti ciascuno di una o due parole, e di una frase la cui interpretazione ha sempre messo a dura prova gli studiosi. Leggiamo questo frammento di Anassimandro: l’unico rimasto dell’opera, un poema (c’è ancora posto per la poesia!), intitolato Sulla natura:

LEGERE MULTUM….

Anassimandro, Sulla natura (il frammento)

Il principio degli esseri è l’ápeiron (l’infinito o l’indefinito) da dove viene la vita degli esseri e dove si compie anche la loro distruzione, secondo necessità, giacché tutti pagano, l’uno all’altro, la pena e l’espiazione della ingiustizia, secondo l’ordine del tempo

     Da questo frammento si può dedurre che per Anassimandro il principio vitale dell’Universo (l’arché) non è l’umido, non è un elemento preciso (come pensa Talete) bensì una sostanza indefinita da lui chiamata ápeiron, dalla quale tutto avrebbe avuto origine e nella quale tutto andrà a finire. Anassimandro sostiene che uno dei quattro elementi (già identificati) – l’Acqua, l’Aria, la Terra e il Fuoco – non può essere considerato l’essenza primordiale dell’Universo perché, se uno dei quattro elementi prevalesse sugli altri, in tal caso, la supremazia di questo elemento determinerebbe la contemporanea scomparsa degli altri. Anassimandro pensa che l’Acqua, l’Aria, la Terra e il Fuoco siano entità limitate e che sopra di loro ci sia come un Super-elemento, invisibile allo stato naturale. Dopo aver fatto questo ragionamento diventa più chiara anche la seconda parte della frase di cui si compone l’unico frammento rimasto di Anassimandro: ogni qual volta uno di questi Esseri (l’Acqua, l’Aria, la Terra e il Fuoco) commette un’ingiustizia nei confronti degli altri, vale a dire invade il loro campo, il Super-elemento, l’ápeiron, lo ricaccia nei suoi confini naturali. Gli elementi quindi sono metaforicamente concepiti da Anassimandro come degli dèi sempre pronti ad assalire i loro opposti: il Caldo vorrebbe prevaricare sul Freddo, il Secco sull’Umido e viceversa, ma la necessità li sovrasta tutti e impone loro che rimangano inalterate certe proporzioni. L’equilibrio che procura la sostenibilità è un tema di grande attualità!

     L’ápeiron è un Super-elemento che risulta essere indefinito ma in possesso di una caratteristica fondamentale: la necessità. È evidente che con il termine “giustizia” si deve intendere il rispetto dei limiti assegnati. Il concetto dell’ápeiron ricorda il principio egizio della Maat (l’ordine, la giustizia, la necessità) che scaturisce dalle inondazioni regolari e programmate del Nilo.  Nell’unico frammento di Anassimandro c’è qualcosa di poetico, c’è la cultura del movimento della sapienza poetica orfica. Nel testo di questo frammento (che fa parte di un poema) si può percepire qualcosa di più di un semplice equilibrio tra elementi diversi: alcune parole, in particolare, come la parola “necessità” e la parola “espiazione”, rivelano nel pensiero di Anassimandro il desiderio mistico di un ordine supremo. Il termine “necessità” (ed ecco che il significato della parola “bisogno”, una delle parole degli albori, si sta evolvendo…) nel pensiero di Anassimandro introduce l’idea del “bisogno di conoscenza” che la persona umana sente e questo fatto costituisce il primo passo sul terreno della “metafisica”. La parola “necessità”, in greco, oltre che con il termine anagkh-anagke, comincia anche ad essere espressa con il termine άpeiron-ápeiron (quando ristudieremo il pensiero di Aristotele ne prenderemo atto).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In funzione della didattica della lettura e della scrittura partecipiamo all’evoluzione del significato del termine “necessità”…

Occorrenza,  esigenza, opportunità, urgenza: quale di queste parole metteresti per prima accanto alla parola “necessità”? 

Scrivila…

     Sappiamo che il principio di tutte le cose (l’arché) ha una doppia valenza: materiale e simbolica, naturale e allegorica, fisica e metafisica. Sappiamo che l’argomento che riguarda il principio di tutte le cose (l’arché) ci si presenta come l’immagine di una bilancia sui cui piatti ci sono le componenti della doppia valenza che le viene attribuita: su un piatto la componente materiale, naturale, fisica, sull’altro piatto la componente simbolica, allegorica, metafisica. Anassimandro di Mileto, abbiamo già detto in partenza, fa pendere la bilancia verso la componente simbolica, allegorica, metafisica. Anassimandro ha riflettuto, probabilmente insieme a Talete, sul tema delle Origini del Mondo e ha formulato, in forma poetica, un’ipotesi sulla nascita dell’Universo. Noi conosciamo l’ipotesi di Anassimandro sulla nascita dell’Universo attraverso l’opera di un personaggio famoso e, se lo citiamo, non possiamo fare a meno di presentarlo, e se lo presentiamo finiamo su un sentiero collaterale di cui dobbiamo percorrere un tratto.

     Il personaggio che stiamo evocando si chiama Plutarco, il quale è nato ed è morto a Cheronea in Beozia tra il 46 d.C. e il 127 d.C.. Il REPERTORIO E TRAMA del settimo itinerario (era la fine di novembre dello scorso anno e stavamo attraversando la regione della Beozia insieme ad Esiodo) chiedeva quale famoso personaggio è nato e morto a Cheronea. Qualcuno lo ha trovato, e il REPERTORIO E TRAMA del settimo itinerario anticipava il fatto che avremmo incontrato da vicino questo personaggio. Ebbene, in una delle sue opere Plutarco di Cheronea racconta la suggestiva ipotesi di Anassimandro sulla nascita dell’Universo.

     E allora non possiamo fare a meno di chiederci: chi è Plutarco di Cheronea, che ha un ruolo importante nella storia della letteratura greca del cosiddetto periodo greco-romano ma la cui fama va ben oltre il periodo in cui è vissuto? Citare Plutarco di Cheronea ci complica un po’ le cose: come mai? Procediamo con ordine e raddoppiamo l’attenzione. Plutarco non possiede un suo pensiero originale, si autodefinisce un platonico ma, seguendo lo stile scettico-eclettico della sua epoca (il primo secolo d.C.), raccoglie le sollecitazioni che vengono da tutte le correnti filosofiche presenti e passate (meno l’epicureismo che lui rifiuta decisamente). Plutarco di Cheronea si considera un fedele custode dell’eredità spirituale e religiosa del mondo greco (è stato anche sacerdote del tempio di Delfi e consultando l’enciclopedia, cercando in biblioteca e navigando sulla rete potete trovare molte notizie sulla vita di Plutarco di Cheronea): la sua opera è vastissima e i suoi scritti trattano un’infinità di temi (s’interessa e si occupa di molteplici e svariati argomenti). Plutarco di Cheronea è molto abile a rendere vivace la sua esposizione e a mantenere un atteggiamento etico coerente in tutti i giudizi che dà, e questo suo comportamento ha reso le opere di Plutarco accettabili anche da parte dei cristiani che non le rifiutano ma le utilizzano:  siccome il Cristianesimo si sta affermando, ciò che trascina con sé viene conservato. Queste caratteristiche fanno di Plutarco di Cheronea uno degli scrittori che è stato più letto nelle Scuole e che ha avuto maggior fortuna fino all’epoca del Romanticismo. I libri di letteratura greca collocano Plutarco di Cheronea nella categoria degli scrittori di storia. Voi direte: ecco un continuatore dell’opera di Erodoto! Per carità: parliamo sottovoce, non facciamoci sentire da Erodoto: meno male che Erodoto e il capitano Agenore, in questo momento, sono a spasso per Mileto.

     Perché stiamo dicendo questo? Vedremo, ve l’ho detto che, citando Plutarco di Cheronea, le cose si sarebbero complicate: ma andiamo con ordine. In quale opera di Plutarco di Cheronea si trova la suggestiva ipotesi di Anassimandro sulla nascita dell’Universo? La risposta a questa domanda  impone, prima di tutto, una riflessione a cominciare dal titolo. Questa questione è una faccenda complicata, è una questione da specialisti, ma è bene affrontarla: ci si avvicina alle opere soprattutto attraverso la curiosità che suscitano certi temi insoliti, e la curiosità fa venire la voglia di vedere come sono fatte queste opere, e di conseguenza, può pure capitare di leggerne una pagina, e, a volte, una pagina tira l’altra.

     L’opera di Plutarco di cui stiamo parlando è conosciuta con il titolo di Ethica (in greco), Moralia (in latino) e Scritti morali (in italiano) ma dovrebbe essere chiamata Apophthegmata Plutarchensis, cioè con il titolo, in greco, dell’edizione romana del 1471. L’espressione greca Apophthegmata Plutarchensis in latino significa Plutarchi Opuscula e in italiano la traduciamo Opuscoli di Plutarco: come vediamo Opuscoli di Plutarco, risulta una definizione molto più vasta rispetto al titolo Scritti morali che in latino corrisponde al termine Moralia e, in greco, Ethica. Il titolo Scritti morali – in latino Moralia, in greco Ethica (tuttora l’aggettivo “morali” continua ad essere usato per definire questo libro) – di Plutarco è inadeguato perché non copre tutta la vastità di quest’opera. Chi ha dato il titolo di Ethica (in greco) – Moralia (in latino), che, in italiano, corrisponde a Scritti morali – a quest’opera di Plutarco di Cheronea? Questo titolo lo si deve ad un altro personaggio che deve ora entrare in scena: ve l’ho detto che le cose, citando Plutarco di Cheronea, si sarebbero complicate, ma procediamo con ordine (approfittando anche dell’assenza provvidenziale di Erodoto e di Agenore di Tiro che, per fortuna, si attardano a spasso per Mileto: c’è un grande mercato a Mileto!). Il personaggio che ha dato il nome di Ethica (in greco) – Moralia (in latino), Scritti morali (in italiano) – a quest’opera di Plutarco si chiama Massimo Planùde, uno dei più importanti intellettuali bizantini (dell’Impero romano d’Oriente) dell’età medioevale: questa sera non facciamo che invadere Percorsi collaterali. Massimo Planùde è nato a Nicomedia intorno al 1260 ed è morto a Costantinopoli intorno al 1305, è un monaco ed è un grande umanista che ha promosso l’edizione e la divulgazione di molte opere classiche. Massimo Planùde ha raccolto anche un gran numero di Epigrammi (di brevi scritti contenenti una sentenza, una riflessione, un ragionamento) che hanno formato l’Antologia Planudea che, successivamente, è confluita nella famosa Antologia Palatina: una straordinaria miniera di informazioni sulla cultura classica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Per saperne di più sul personaggio di Massimo Planùde e sull’ Antologia Palatina è utile utilizzare l’enciclopedia, consultare la biblioteca e navigare  sulla rete… Se trovate qualche spunto interessante potete scrivere quattro righe in proposito, buona ricerca…

     Massimo Planùde, nel 1296, ha raccolto in un’opera complessiva i trattati attribuiti a Plutarco di Cheronea che sono stati tramandati e che erano sparsi in diversi manoscritti. Massimo Planùde pone all’inizio di quest’opera gli Scritti morali (di argomento morale) di Plutarco perché lui, monaco e umanista, li ritiene più importanti, più significativi rispetto agli altri: questo fatto ha determinato il titolo dell’opera che è stata chiamata Ethica (in greco), Moralia (in latino) e Scritti morali (in italiano). Il fatto è che, oltre agli opuscoli con gli Scritti morali, quest’opera contiene molti più opuscoli che trattano di svariati argomenti: di storia, di letteratura, di politica, di filosofia, di pedagogia. Per questo motivo l’edizione romana del 1471 (175 anni dopo) intitola quest’opera, in greco, Apophthegmata Plutarchensis che in latino significa Plutarchi Opuscula e in italiano Opuscoli di Plutarco. Però l’edizione veneziana del 1509 (38 anni dopo), scritta in latino, introduce nuovamente nel titolo la parola Moralia che, in italiano, diventa Scritti morali e, nelle edizioni più recenti, Opuscoli morali che risulta essere un titolo di compromesso. Plutarco di Cheronea nell’opera Opuscoli morali – sono 83 opuscoli che trattano di argomenti svariatissimi (storia, letteratura, politica, filosofia, pedagogia…) – racconta la suggestiva ipotesi di Anassimandro sulla nascita dell’Universo.

     Ma, prima di leggere questa pagina, è doveroso ricordare che l’opera più famosa di Plutarco di Cheronea s’intitola (e qui non ci sono problemi) Vite parallele (Bioi  paràlleloi), che consiste in una serie di 50 biografie, di cui 46 abbinate in modo che alla vita di un greco è contrapposta quella di un romano. Vite parallele è come un sommario di tutta la storia greca e romana vista attraverso le figure dei personaggi più importanti. Plutarco è veramente abile a delineare un personaggio mettendone in rilievo, attraverso gli aneddoti e i vari particolari, le qualità del carattere e la profonda umanità. Plutarco è convinto che la biografia più che la storia renda possibile la conoscenza delle persone. Dalle vicende dei grandi personaggi del passato trae lo spunto morale per esaltare la virtù, per invitare all’imitazione e condannare i vizi. Plutarco, nel confronto tra Greci e Romani, esalta i Greci e fa esercizio di patriottismo: i Greci, pur vinti militarmente dai Romani, prevalgono culturalmente.

     L’opera Vite parallele di Plutarco ha avuto un grande influsso sulla letteratura europea moderna: prima di tutto sui Saggi di Montaigne, poi nella tragedia, a cominciare da Shakespeare, Corneille e Racine fino all’Alfieri, a Goethe, a Schiller, a Rousseau, a Leopardi. I romantici ammirano Plutarco per la drammaticità, il pathos, il senso tragico della vita e la dedizione dei suoi eroi (Catone, Bruto) alla libertà. Per questo motivo più che essere un’opera storica, Vite parallele è un’opera pedagogica e di valore allegorico.

     E allora voi direte: Plutarco riprende lo stile di Erodoto! Per carità – ve l’ho detto – non citiamo Erodoto (e speriamo non arrivi ora)! Ma perché stiamo facendo tutta questa manfrina? Perché uno degli Opuscoli di Plutarco s’intitola: De Herodoti malignitate, Sulla malignità di Erodoto. Plutarco scrive che Erodoto è un bugiardo ed è ambiguo, lo considera un miscredente e un profanatore di santuari, uno che irride gli dèi e coltiva il relativismo morale. Plutarco di Cheronea, educato ad Atene, insegnante di grande successo a Roma, stimato dagli imperatori Traiano e Adriano,e, in seguito, apprezzato dai tragici romantici europei, ha un difetto (e chi non ha almeno un difetto?): forse non ha capito il senso orfico e la portata allegorica de Le Storie di Erodoto. La critica di Plutarco ha fatto molto male all’opera di Erodoto: ne ha decretato l’emarginazione per molto tempo, fino al Rinascimento. Oggi la situazione si è invertita: Plutarco è caduto nel dimenticatoio (ed è un male), mentre Erodoto, da più di un secolo, è al centro dell’interesse degli intellettuali di tutto il mondo. Erodoto, naturalmente, per ragioni anagrafiche, non ha mai saputo dell’esistenza dell’opuscolo intitolato De Herodoti malignitate, Sulla malignità di Erodoto, ed è bene non lo sappia (noi, comunque, la prossima settimana, saremo obbligati a tornare sull’argomento e dovremo inventarci qualcosa per distrarre Erodoto).

     E ora prima che ritorni leggiamo la pagina degli Opuscoli morali dove Plutarco di Cheronea racconta la suggestiva ipotesi di Anassimandro sulla nascita dell’Universo: è qui che, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, volevamo arrivare.

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Opuscoli morali  (anteriori al 127 d.C.)

Anassimandro di Mileto dice che dall’Eterno si separarono il Caldo e il Freddo, e che una Sfera di fuoco si distese intorno all’aria che avvolgeva la Terra, come corteccia intorno a un albero; spaccatasi poi questa Sfera e separatasi in taluni cerchi, si formarono il Sole, la Luna e gli Astri. All’inizio c’era solo l’άpeiron-ápeiron, la sostanza indefinita, poi il Caldo e il Freddo si separarono e si portarono l’uno all’esterno e l’altro al centro dell’Universo, generando rispettivamente il Secco e l’Umido. Questi due elementi continuarono la contesa: d’estate il Secco riusciva a prevalere e a strappare grandi quantità di mare, trasformandole in vapore acqueo, e d’inverno l’Umido riconquistava le posizioni perdute riprendendosi le nuvole e facendole precipitare sotto forma di pioggia o di neve.  L’άpeiron-ápeiron sorvegliava dall’alto e faceva in modo che nessuno dei due avesse mai il sopravvento. L’alternarsi del Caldo e del Freddo non è un fenomeno che riguarda solo le stagioni: quasi tutte le manifestazioni dell’animo umano oscillano tra momenti di esaltazione e lunghe pause di riflessione. (Questo brano è di grande attualità!)… Per Anassimandro di Mileto (qui il racconto entra nella sapienza poetica…) la Terra è una grande colonna cilindrica, bassa e larga, sospesa nell’aria al centro dell’Universo. Essa non può cadere da nessuna parte giacché, trovandosi perfettamente al centro, non avrebbe motivo per scegliere una direzione piuttosto che un’altra. Questa colonna cilindrica è alta un terzo del proprio diametro ed è fatta di pietra. Intorno alla Terra girano immense ruote di fuoco foderate di aria compressa. Sul bordo interno di queste ruote, là dove in genere si attaccano i raggi, ci sono invece dei buchi attraverso i quali si riescono a intravedere i bagliori dell’involucro incandescente che è al di là dell’aria compressa. Gli astri quindi non sono dei corpi infuocati, così come a noi sembra di vedere, bensì solo i guizzi di quel Fuoco che si trova all’esterno della volta celeste e che s’infiltra attraverso i fori delle ruote. La ruota del Sole è 27 volte più grande del diametro della Terra, mentre quella della Luna lo è solo 19 volte.

Per Anassimandro di Mileto l’uomo nacque coperto di squame in una sostanza acquosa, una specie di fango e, siccome all’inizio le condizioni climatiche erano tali da non consentire la vita, fu tenuto in incubazione per tutto il periodo dell’infanzia nella bocca di alcuni animali molto simili ai pesci, dopo di che uscì all’aperto e, liberatosi delle squame, ce la fece a sopravvivere da solo.

     Ora, indipendentemente da ciò che scrive Plutarco di Cheronea sulle teorie più poetiche che scientifiche di Anassimandro sulla nascita dell’Universo, dobbiamo ribadire che Anassimandro di Mileto ha il merito di aver intuito la presenza di “una zona indeterminata”, di un qualcosa di supremo, a volte chiamato ápeiron, altre volte Necessità. Queste due parole abbiamo già detto finiscono per identificarsi, tanto che Aristotele nel IV libro della Fisica cita la Necessità chiamandola «L’ápeiron che tutte le cose abbraccia e tutte le cose regge». Anassimandro di Mileto è nello stesso tempo un pensatore fisico e mistico che indirizza la Storia del Pensiero verso la metafisica. La metafisica è secondo Aristotele la voglia inesauribile di conoscenza la quale, per esprimersi, ha bisogno di un linguaggio allegorico: e il linguaggio allegorico per eccellenza non è forse quello della poesia?

     Ci siamo domandati più di una volta quale direzione prende il movimento della sapienza poetica orfica con la Scuola di fisica di Mileto? Adesso cominciamo a renderci conto che nonostante prenda campo lo studio empirico dei fenomeni naturali (anche Anassimandro è un fisico e partecipa con determinazione allo studio empirico dei fenomeni naturali) si deve ancora continuare a parlare di sapienza poetica orfica. La poesia, la forma poetica, è ancora al centro dell’attenzione e continueremo a rendercene conto, strada facendo: la “fisica” ha bisogno della “poesia” per comunicare i concetti che esprime.

     Ma ecco che – abbiamo fatto appena in tempo – Erodoto e il capitano Agenore sono di ritorno, tutti belli allegri, dal loro giro a spasso per Mileto: sono andati al mercato, si vede dalla borsette che hanno in mano.

     Noi cambiamo subito discorso però non cambiamo argomento e per non dover far incontrare Erodoto con Plutarco (i due sono abbastanza distanziati tra loro), facciamo subito entrare in scena uno scrittore italiano contemporaneo che si chiama Giovanni Arpino. Perché facciamo entrare in scena questo scrittore? Giovanni Arpino, in funzione della scrittura, ha utilizzato il concetto dell’ápeiron per definire un certo modo di costruire il testo di un racconto.

     Chi è Giovanni Arpino?  Giovanni Arpino è nato a Pola il 27 gennaio 1927 e sabato avrebbe compiuto 80 anni, ma purtroppo è morto vent’anni fa, a Torino, nel dicembre del 1987 e noi (la Scuola pubblica) cogliamo quindi anche l’occasione per commemorarlo. Giovanni Arpino ha scritto molti romanzi che si possono leggere: Sei stato felice, Giovanni (1951), La suora giovane (1959), Una nuvola d’ira (1962), Il fratello italiano (1980). Dal romanzo Un delitto d’onore (1961) il regista Pietro Germi ha ripreso il soggetto per il famoso film Divorzio all’italiana (1962). Il romanzo più importante di Giovanni Arpino s’intitola L’ombra delle colline che, nel 1964, ha ricevuto il premio Strega. L’ombra delle colline, di cui si consiglia la lettura, è il racconto in prima persona di un intellettuale che, in un viaggio da Roma al Piemonte, rivive nella memoria le sue esperienze giovanili: il fascismo, la guerra, la guerra partigiana, le illusioni, la caduta delle illusioni (sul tema de “la caduta delle illusioni” avremo modo di parlare prossimamente: a Catania).

     Giovanni Arpino dalla fine degli anni ’60 si è anche dedicato alla critica letteraria e a scrivere soprattutto racconti, e alcuni dei quali sono serviti per il teatro e per il cinema: per esempio il racconto Il buio e il miele del 1969 è diventato, nel 1974, un film di Dino Risi dal titolo Profumo di donna che molti di voi avranno sicuramente visto. I Racconti di Giovanni Arpino, pubblicati in alcuni volumi Un gran mare di gente (1981) e Raccontami una storia (1982), sono scritti in modo scorrevole, sono di piacevole lettura, velati di comicità, ma soprattutto invitano alla riflessione.

     Ma perché stiamo citando Giovanni Arpino su questo Percorso? Lo abbiamo già anticipato: stiamo citando Arpino perché questo scrittore utilizza la parola-chiave ápeiron per definire un concetto di carattere letterario. In un articolo scritto nel 1969 da Arpino per una rivista letteraria possiamo leggere: «Il mio modo di scrivere tiene conto del fatto che c’è un ápeiron nella vita, vale a dire un elemento superiore e non definito ma necessario che tiene unito il reale e l’immaginario, la concretezza e la fantasia, la veglia e il sogno: saper cogliere l’essenza di quest’ápeiron induce alla scrittura e fa da elemento propedeutico alla costruzione del testo». Forse è più facile capire queste quattro righe scritte da Giovanni Arpino se leggiamo un suo racconto:

LEGERE MULTUM….

Giovanni Arpino, Polvere negli occhi, in Racconti (1982)

Domani, massimo dopodomani, sarò microscopico, un granello di polvere, la metà d’un moscerino. E finalmente potrò sfogare l’odio che tengo in corpo, finalmente, consumerò la mia vendetta. Accade da mesi: rimpicciolisco. Ma non come capita a tutti i vecchi, le cui ossa s’incurvano, lo sterno si piega, le gambe sembrano rientrare quali misere fisarmoniche. Ho quasi ottant’anni, ma non sono questi i fenomeni senili che mi riducono. Sono le parole, le parole altrui. Gli insulti. Le dimenticanze. La prima volta che notai il mio cambiamento? Una domenica. A tavola si mangiavano paste dolci, dopo l’arrosto e l’insalata, e le dita di mio nipote picchiarono sulle mie. Stavo per afferrare una ventaglina di sfoglia, così cara alle mie gengive. Le dita di quel nipote scossero le mie come fossero mosche. “Nonno, ancora. E sta fermo”, disse soltanto.

... continua la lettura ...

     «Nella vita – scrive Giovanni Arpino – c’è un elemento superiore e non definito ma necessario, un ápeiron (possiamo dire una Necessità), che tiene unito il reale e l’immaginario, la concretezza e la fantasia, la veglia e il sogno». Questo elemento è “necessario” per continuare a dare un senso alla vita…

     Erodoto e Agenore di Tiro ci comunicano che, nel loro giro a spasso per Mileto, oltre ad una “zona umida” e ad una “zona indeterminata”, hanno intravisto anche una “zona aerea, eterea e pneumatica” e quindi hanno molte cose (aeree, eteree e pneumatiche) da raccontare, ma adesso, ormai, davanti a queste tre parole si sentono stanchi.

     E allora l’appuntamento è per la prossima settimana: chissà se riusciremo a svolazzare nella “zona aerea, eterea e pneumatica” che hanno individuato i nostri mitici accompagnatori? Non vi preoccupate: Agenore di Tiro sa fare anche questo, è esperto di terra, di acqua e anche d’aria, che sia pneumatica, che sia eterea o che sia ventosa. Non fatevi mancare l’aria: per far respirare bene la mente è necessario incontrare l’aria con tutti i suoi significati…

     La Scuola è qui, accorrete: non offre la libertà (che oggi è spesso un termine vacuo, vuoto di significato, perché non c’è libertà senza che ci siano le regole), la Scuola (domani è la giornata della memoria) offre alcune ore d’aria, l’aria di Mileto…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 26, 2007