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LO SGUARDO DI ERODOTO SUL NOME DI “TELECLE”, E SU “IL GATTOPARDO”…

Lezione N.: 
6

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sguardo di Erodoto 2006           16-17 - 22 (Redi)  novembre  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SUL NOME DI “TELECLE”, E SU “IL GATTOPARDO”…

     Della vita di Erodoto (della sua biografia) noi conosciamo ben poco. Le fonti (i grammatici alessandrini) c’informano che Erodoto, ancora giovane, viene coinvolto in un’azione politica proprio dal padre Lyxes e dallo zio Paniassi. I due, infatti, partecipano alla rivolta contro Ligdami il tiranno di Alicarnasso, che riesce comunque, con le sue guardie, a domare l’insurrezione. I ribelli devono scappare e si rifugiano a Samo, un’isola montuosa e ospitale a due giorni di navigazione da Alicarnasso verso nord-ovest.

     E sull’isola di Samo, la scorsa settimana, siamo sbarcati anche noi. Il giovane Erodoto, in fuga, ha trascorso a Samo alcuni anni della sua vita e forse è da qui che è partito per i suoi viaggi nel mondo. Che cosa ha trovato il giovane Erodoto a Samo? Il giovane Erodoto, a Samo, ha trovato, prima di tutto, una Scuola.

     E noi che cosa abbiamo trovato a Samo? Noi ci siamo accorti (se questa settimana vi siete dedicati, almeno un paio d’ore, alla ricerca) che il clima, la vegetazione, i buoni vini (il famoso moscato di Samo: siamo stati a bere un bicchierino a Pithagòrio con Erodoto e con Agenore di Tiro), le aree archeologiche, le belle spiagge rendono piacevole un soggiorno a Samo. Ma siamo sbarcati qui, con la nostra bella nave Sidonia - sul cui albero maestro (sul cui albero genealogico lessicale) batte sempre la bandiera della poίesis, della poesia, affiancata ora anche dalla bandiera della téleios, della perfezione – soprattutto per studiare, per investire in intelligenza.

     Samo, 2500 anni fa, è stato uno dei principali centri della civiltà ionica: il primo centro dove il movimento della sapienza poetica orfica ha operato una sintesi e ha prodotto un Manifesto culturale. Quali idee sono contenute in questo significativo documento? Lasciamo parlare Erodoto (che è anche un po’ emozionato nel ritrovarsi a Samo insieme a noi). Erodoto ci presenta un primo personaggio, questo personaggio si chiama: Policrate. L’incontro con Policrate, tiranno di Samo, avviene con la mediazione del testo dell’opera di Erodoto. Il personaggio di Policrate, ne Le Storie di Erodoto, viene citato nel II e nel III libro per 24 volte. Il nome di Policrate è diventato celebre soprattutto perché è il protagonista di uno dei tanti racconti allegorici che possiamo leggere nell’opera di Erodoto: il Racconto dell’anello di Policrate, nel libro III 39-46, uno dei brani più studiati. Nel Percorso precedente abbiamo già citato questo brano per affrontare l’argomento delle forme allegoriche in Erodoto, e poi per riflettere sul tema del Destino, o meglio sulla questione del Destino in rapporto alla Fortuna. Policrate (ce l’ha scritto nel nome: molto fortunato) è baciato dalla Fortuna: le cose, gli affari, le azioni che intraprende gli vanno tutte bene, fila sempre tutto secondo il suo volere, ma questo, spiega Erodoto in molti capitoli de Le Stori, è un fatto negativo perché chi è troppo fortunato attira su di sé l’invidia degli dèi e la punizione del Destino prima o poi si abbatte su di lui. «Chi è troppo fortunato fa una brutta fine» così scrive a Policrate il faraone Amasi, il re dell’Egitto. Il faraone Amasi (molti di voi se lo ricordano come un vero mattacchione, da come ce lo descrive Erodoto) la sa lunga sul tema del Destino e (come dice Sigmund Freud che, nel codificare la psicanalisi, ha studiato con attenzione i racconti allegorici de Le Storie di Erodoto) Amasi è geloso, come sanno essere gelosi gli dèi dell’Olimpo, della Fortuna sfacciata del tiranno di Samo e di conseguenza consiglia al suo amico (si ricambiano l’ospitalità) e al suo alleato Policrate (c’è un patto di non-belligeranza) di procurarsi volontariamente, ogni tanto, un contrattempo, di programmare un inconveniente, di pianificare un danno, uno svantaggio, un dispiacere, tanto per evitare l’invidia degli dèi e la punizione del Destino. Ma Policrate è troppo fortunato e così il faraone Amasi pensa di procurarglielo lui un dispiacere rompendo l’alleanza.

     Ma ora leggiamo il Racconto dell’anello di Policrate facendocelo narrare da Erodoto. C’è un particolare, nel testo del capitolo 41 del libro III de Le Storie, che c’interessa in relazione al tema del rapporto tra la parole-chiave poesia e la parola-chiave perfezione (sono le bandiere che stanno sventolando sull’albero maestro – sull’albero genealogico lessicale – della nostra nave).

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Storie  III  39 40 41 42 43

Quando Cambise marciava contro l’Egitto, anche gli Spartani fecero una spedizione contro Samo e contro Policrate, figlio di Eace, che, essendo insorto, aveva preso il comando della città.

In un primo tempo, dopo averla divisa in tre parti, ne aveva affidato due ai fratelli Pantagnoto e Silosonte, ma poi, mandato a morte il primo e cacciato in esilio il più giovane, Silosonte, aveva preso in pugno tutta la città. Avuto il potere, aveva stretto un patto di ospitalità con Amasi, re d’Egitto, mandandogli doni e ricevendone altri da lui. In breve tempo, rapidamente la fortuna di Policrate era cresciuta molto e se ne parlava con ammirazione nella Ionia e per il resto della Grecia: dovunque, infatti, rivolgesse le sue spedizioni, tutte gli riuscivano felicemente.

Aveva cento navi a cinquanta remi e mille tiratori d’arco. Taglieggiava e depredava tutti, senza fare nessuna distinzione: diceva, infatti, che a un amico si fa cosa più gradita restituendogli quanto gli si è tolto, che a non prendergli nulla del tutto. S’era così impadronito di parecchie isole e di molte città anche sul continente: tra l’altro, aveva vinto in battaglia navale i Lesbi che erano accorsi in massa in aiuto di Mileto, e li aveva catturati: questi, incatenati, scavarono tutta la fossa che circonda le mura di Samo.

Amasi, certo, non ignorava la grande fortuna di Policrate, ma questa gli dava piuttosto dell’inquietudine. E siccome tale prosperità si faceva di giorno in giorno più grande scrisse e mandò a Samo una lettera di questo tenore: “Amasi dice questo a Policrate: fa senza dubbio piacere sentir dire che un amico e un ospite è fortunato, ma i tuoi grandi successi mi procurano turbamento, perché so che la divinità è invidiosa. E, in certo qual modo, per quanto riguarda me e quelli che mi stanno a cuore, desidero che parte degli affari abbiano buon esito, parte no; e in tal modo variare la vita con alterne vicende, piuttosto che avere in tutto il favore della fortuna.

“Infatti, non ho mai sentito dire di alcuno che, essendo in tutto fortunato, non abbia, alla fine, malamente concluso la sua vita, come divelto dalle radici. Tu, di fronte a tanto favore della sorte, dammi ascolto e fa’ così: pensa fino a che tu abbia trovato qual è l’oggetto per te più prezioso e la cui perdita al tuo cuore darà il più grave dolore e gettalo via in modo da farlo scomparire dagli occhi degli uomini.  E se, d’ora in poi, ai successi non si alterneranno i rovesci, rimedia tu stesso nel modo che ti ho suggerito”.

Policrate, quand’ebbe letto quelle parole e si fu convinto che Amasi lo consigliava bene, si diede a cercare fra i suoi tesori, quello per la cui perdita il suo cuore avrebbe sofferto di più e, cercando, lo trovò: egli aveva un sigillo, che portava incastonato in un anello d’oro, fatto di smeraldo, opera d’arte di Teodoro di Samo, figlio di Telecle. Poiché, dunque, era deciso a disfarsene, ecco come fece: allestita con tutto l’equipaggio una nave a cinquanta remi, vi salì egli stesso e diede ordine di portarlo in mare aperto; quando fu ben lontano dalla sua isola, alla vista di tutti i compagni di navigazione, sfilatesi l’anello, lo gettò tra le onde. Ciò fatto, fece vela per il ritorno e, rientrato a palazzo, si crogiolava nel suo dispiacere.

Quattro o cinque giorni dopo, ecco cosa gli accadde: un pescatore che aveva preso un pesce grande e bello, pensò che valesse la pena di farne dono a Policrate. Portatolo, dunque, alle porte della reggia, chiese di essere ammesso alla presenza di Policrate e, ottenutolo, gli disse presentandogli il pesce: «O re, avendo io pescato questo pesce, non ho ritenuto opportuno portarlo al mercato, sebbene io mi guadagni la vita con il lavoro delle mie mani; ho pensato, invece, che esso è degno di te e di un re come sei tu: a te, quindi, l’ho portato e ne faccio dono ».

A queste parole, il re, tutto contento, rispose: «Hai fatto molto bene e io ti sono doppiamente grato, sia per le tue parole, sia per il dono e ti invito a pranzo ».

Il pescatore se ne tornò a casa, tutto orgoglioso di questo invito. Ma, quando i servi tagliarono il pesce, trovarono che nel ventre c’era l’anello di Policrate; come lo videro e lo presero in mano lo portarono tutti contenti a Policrate e, consegnandogli l’anello, gli spiegarono in che modo era stato trovato.

Gli entrò, allora, nell’anima l’idea che quel fatto fosse di origine divina. Perciò scrisse in una lettera quanto aveva fatto e quello che gli era toccato e quando l’ebbe scritta, la fece portare in Egitto.

Amasi, appena letto il messaggio pervenutogli da Policrate, si convinse che non era possibile a un uomo sottrarre un altro uomo al destino che gli incombeva e che non poteva fare una buona fine Policrate, che aveva una fortuna così sfacciata da ritrovare anche quello che voleva gettar via.

Mandò, quindi, un araldo a Samo a dire che denunciava il patto di ospitalità. Egli lo faceva perché, se qualche rovescio grave e doloroso fosse capitato a Policrate, non avesse il suo animo a provarne dolore, come quando si tratta d’un ospite.

     Potete leggere per conto vostro (dal capitolo 39) fino al capitolo 60 del libro III de Le Storie  dove Erodoto continua a raccontare le avventure di Policrate mescolandole con avvenimenti che riguardano Periandro, il tiranno di Corinto. Ma la grandezza di Samo, allude Erodoto, non dipende dalla fortuna di Policrate ma scaturisce da motivi di carattere culturale. Erodoto, nel capitolo 60 del libro III , scrive espressamente «…di essersi dilungato a parlare più volentieri dei Sami perché presso di loro sono state realizzate le tre opere più importanti che ci siano tra i Greci tutti …». Quali sono queste tre opere?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quali sono queste tre opere?…  Vai a scoprirlo completando la lettura (sono, più o meno, venti righe…) di questo capitoletto e scriviti un appunto…

     Abbiamo già detto che Samo, circa 2500 anni fa, è stato il primo centro veramente importante della civiltà ionica. A Samo si sviluppa la più autorevole Scuola di ingegneria, di scultura e di cesellatura dell’età arcaica, una Scuola non solo di carattere tecnico, che insegna a costruire oggetti di gran pregio, ma anche di carattere teorico, che educa a riflettere sul fatto che la poesia riversa le sue peculiarità – il senso della proporzione, l’armonia, l’euritmia, e poi l’iniziaticità, la compiutezza, la completezza, la perfezione – sulla statua, e anche sul tempio, e anche sugli edifici e gli oggetti in genere. Il giovane Erodoto (forse per lui, in un certo senso, è stata una fortuna dover scappare da Alicarnasso per rifugiarsi a Samo) alla Scuola di Samo deve aver imparato che per leggere, per capire, il significato di una statua (e dei repertori culturali in genere) è necessario risalire alle Origini, ai Racconti sulle Origini, alle forme poetiche con cui i Racconti sulle Origini vengono intrecciati. Il giovane Erodoto, alla Scuola di Samo, deve aver imparato che per conoscere e per capire il significato degli oggetti artistici e dei repertori culturali, è essenziale (per poterli descrivere) conoscere e capire il rapporto che intercorre tra la poesia e la perfezione, tra la parola poίhsiς-poìesis e la parola téleios.

     Gli esegeti, gli attenti commentatori, dell’opera di Erodoto ci suggeriscono che nel testo del capitolo 41 del libro III de Le Storie (che abbiamo letto pochi minuti fa) c’è un particolare il quale fa riferimento all’importanza della Scuola di Samo nello sviluppo del movimento della sapienza poetica orfica e dell’evoluzione della Storia del Pensiero Umano, ma si tratta anche di un raro elemento di carattere biografico (sono pochissimi) che rimanda alla formazione del giovane Erodoto a Samo. Erodoto scrive: «Egli (Policrate) aveva un sigillo, che portava incastonato in un anello d’oro, fatto di smeraldo, opera di Teodoro di Samo, figlio di Telecle». Teodoro, il secondo importante personaggio che incontriamo sulla scia del testo di Erodoto, è uno degli insigni maestri della Scuola di Samo.

     Erodoto cita Teodoro di Samo anche nel libro I al capitolo 51 (potete andarlo a leggere  questo capitolo) quando è al servizio del re Creso: uno che non badava a spese (in questo caso Creso, con ricchi doni, doveva placare l’ira di Apollo: così dicevano i sacerdoti, molto interessati, del tempio di Delfi). Di Teodoro di Samo sappiamo che è un ingegnere, un architetto, un bronzista cesellatore, il quale ha senz’altro lavorato nella progettazione e nella realizzazione del famoso Heráion di Samo (se avete consultato, e letto, la guida della Grecia avete certamente incontrato questo famoso monumento): il grande tempio in onore della dèa Héra (la dèa Héra è la sposa di Zeus, e la conosciamo per la sua gelosia nei confronti di Latona: bisognava tenersela buona).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Negli scavi dell’ Heráion è stato rinvenuto il capolavoro scultoreo della Scuola di Samo, si tratta di una statua della dèa Héra…

La cosiddetta Héra di Samo è uno straordinario reperto archeologico ed è conservato al museo del Louvre, a Parigi: hai mai visto questa statua?…

Di Teodoro di Samo si sa ancora che ha inventato (un’invenzione importantissima in campo artistico) la tecnica per fondere il bronzo e qui bisognerebbe documentarsi un po’ per capire di che cosa si tratta …

     Questo è ciò che sappiamo di Teodoro: naturalmente non sappiamo chi fosse suo padre, e allora: come mai Erodoto lo nomina? Erodoto lo nomina, come spesso fa con i nomi dei padri, non per creare una corrispondenza familiare ma per costruire una coincidenza culturale. Il nome del padre di Teodoro di Samo corrisponde al termine Telecle, e in questo nome c’è un messaggio che sintetizza il programma della Scuola di Samo. Il nome Telecle è composto da due parole: la parola téleios che, come ben sappiamo, significa iniziatico, completo, compiuto, perfetto, e la parola kleío che significa girare la chiave (kleís è la chiave) e quindi vuol dire aprire la porta: Telecle è colui che apre la porta, che favorisce la conoscenza e la comprensione dell’iniziaticità, della completezza, della compiutezza, della perfezione. Il nome di Telecle è un simbolo, è una metafora, è l’emblema del Manifesto della Scuola di Samo, e Teodoro di Samo è un grande personaggio, allude Erodoto, in quanto figlio di questo Manifesto culturale: il primo Manifesto culturale del movimento della sapienza poetica orfica.

     Quali sono le idee-cardine contenute nel Manifesto della Scuola di Samo? Il movimento della sapienza poetica orfica, di cui Erodoto ne Le Storie documenta lo sviluppo, è la prima significativa corrente di pensiero della cultura greca. Sappiamo che il movimento della sapienza poetica orfica si occupa della questione delle Origini. Nell’occuparsi di questo tema fondamentale (di come sia avvenuto il passaggio dal Caos al Cosmo, dal Disordine all’Ordine, dal Nulla al Mondo, dal Vuoto alla Natura) emergono due importanti parole-chiave in diretto rapporto tra loro: la parola poesia e la parola perfezione. La storia di queste due parole-chiave, come abbiamo studiato negli itinerari precedenti, è strettamente collegata all’oggetto della maschera (intrecciata con la paglia di grano) e poi all’oggetto della statua (intagliata nel legno, scolpita nella pietra e nel marmo, fusa nel bronzo). La parola poesia e la parola perfezione si concretizzano in questi due oggetti: la maschera e la statua. Secondo il movimento della sapienza poetica orfica all’Inizio ci sono i Racconti orali sulle Origini tramandati da anonimi cantori in una condizione di caos, in uno stato di disordine (quando si raccontano le Origini, all’Inizio c’è sempre il Caos). In questa situazione di disordine, di Caos – per opera di sapienti e sconosciuti aedi, rapsodi, citaredi –  nasce (si crea) la poesia. In Principio, quindi, c’è la poesia, e per poesia s’intende la forma poetica che si concretizza negli Inni sacri, nelle Canzoni di gesta, nelle Narrazioni epiche. La poesia (ed ecco perché si parla di sapienza poetica) è lo strumento che mette in Ordine i Racconti sulle Origini e che, di conseguenza, s’identifica con l’Origine stessa. Ciò che dà un volto alla situazione iniziale, secondo il movimento della sapienza poetica orfica, è la poesia, e la poesia è, quindi, da considerarsi, allude Erodoto, come iniziatica: l’inizio di qualunque cosa, quando si tratta davvero di un inizio, comporta una parola poetica, un gesto poetico, un atto poetico.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Hai celebrato un “momento iniziale” con una parola poetica, con un gesto poetico, con un atto poetico? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     L’iniziazione si compie in un percorso di ricerca, e la compiutezza produce la completezza (ciò che è compiuto è completo), e la completezza, secondo la logica del vocabolario ionico che usa una parola precisa teleios-téleios, corrisponde alla perfezione (ciò che è completo, per la cultura orfica, è perfetto: “cosa fatta, capo ha; chi ben comincia”). Nella sua evoluzione la poesia costruisce l’intreccio che dà la forma ai Racconti sulle Origini e, attraverso la prosopopea (l’arte di costruire forme poetiche), mette la maschera sui volti dei mitici protagonisti delle Origini: Orfeo, Dioniso. La poesia trasmette alla maschera i suoi caratteri tanto che la maschera viene considerata, in tutte le culture, un oggetto iniziatico, compiuto, perfetto. La prosopopea orfica (l’arte d’intrecciare le maschere con lo strumento della poesia) crea gli dèi i quali si presentano come figure iniziatiche, compiute, perfette. Nel passaggio epocale dalla ruralità (dalle maschere intrecciate con la paglia di grano che rappresentano Orfeo e Dioniso) al modello della polis (alle statue di Delo raffiguranti Apollo e Artemide) la maschera lascia il posto alla statua e i Racconti poetici sulle Origini (forma e contenuto) vengono rappresentati dalla statua e la statua fa propri i caratteri della poesia: l’iniziaticità, la compiutezza, la completezza, la perfezione. Perché sono belle le statue greche? Perché sono frutto del movimento culturale della sapienza poetica orfica sul cui Manifesto, ai primi posti, ci sono due parole-chiave fondamentali: poesia e perfezione. Per questo motivo, a Samo, la principale Scuola di pensiero della sapienza poetica orfica è una Scuola di scultura.

     Erodoto, in fuga, trascorre a Samo alcuni anni della sua vita: che cosa trova il giovane Erodoto a Samo? Trova, appunto, una Scuola che mette al centro del suo programma due parole-chiave in rapporto tra loro: la parola poìesis, la poesia, e la parola téleios, l’iniziaticità, la compiutezza, la completezza, la perfezione. L’incontro con queste due parole si rivela di grande utilità per il giovane Erodoto: queste due parole sono un punto di partenza dal quale lo scrittore di Alicarnasso prende le mosse per ripercorrere la trafila (che stiamo percorrendo anche noi in queste settimane) della cultura orfica e, non a caso, ci dicono gli studiosi, l’opera di Erodoto è intrisa di motivi orfici. Questa affermazione dipende prima di tutto dal fatto che l’opera di Erodoto, non è tanto un’opera di storia ma è, in primo luogo, un’opera di poesia dove il racconto allegorico supera di gran lunga, per qualità, il resoconto storico.

     Ma, in particolare, che cosa significa affermare che un’opera è intrisa di cultura orfica? Significa constatare che sotto la maschera degli dèi, che sono sempre tra i massimi protagonisti nella produzione letteraria greca, c’è la figura di Orfeo, c’è la forma poetica. Il racconto sulle Origini, in cui gli dèi sono protagonisti, è compiuto se viene narrato con parole speciali, se è contenuto nella forma poetica: allora è perfetto; ed è lo strumento della poesia a renderlo perfetto. È la poesia che rende perfetto il momento delle Origini con tutti i suoi protagonisti. Erodoto è consapevole del fatto che prima degli dèi c’è Orfeo: c’è la poesia. Come mai, allude Erodoto, se gli dèi non sono mai stati, continuano ed esistere? È la poesia – è la prosopopea, è la letteratura, è l’arte – che li ha fatti esistere e che continuerà a farli esistere, perché la poesia è in Principio: è iniziatica, compiuta, perfetta e trasmette queste caratteristiche ai mitici personaggi protagonisti dei fantastici Racconti sulle Origini. Erodoto, ne Le Storie, cataloga (inconsapevolmente), per primo, le parole-chiave e le idee-cardine del movimento della sapienza poetica orfica che risulta essere (dal X al VI secolo a.C.) il primo significativo movimento intellettuale della cultura greca. La cultura orfica, dopo 2500 anni, continua ad essere alla base della nostra cultura. Possiamo fare un esempio?

     Gli dèi, sembra alludere Erodoto, a noi appaiono particolarmente fortunati: sono immortali, non invecchiano, vengono venerati, adulati, pregati, sono perfetti, ebbene, c’è solo un pericolo: non sarà che la legge del Destino, di fronte a tutta questa fortuna, finirà per abbattersi anche su di loro, visto che il Destino sovrasta gli dèi? Gli dèi sono fortunati e, come gli umani particolarmente fortunati (Policrate, Creso), sono destinati a fare una brutta fine. L’unico rimedio è quello, secondo il consiglio del faraone Amasi (un mattacchione, per dirla con Erodoto), di procurarsi volontariamente, ogni tanto, un contrattempo, di programmare un inconveniente, di pianificare un danno, uno svantaggio, un dispiacere. E così gli dèi, in virtù della poesia, sono venuti a vivere in terra: questo è l’inconveniente, in virtù della poesia, che hanno scelto gli dèi per eludere il Destino. Gli dèi hanno cercato di creare una situazione in cui tutto cambi (cambiano le maschere) proprio perché tutto possa continuare a rimanere come prima, in uno stato di perfetta immobilità.

     In funzione della didattica della lettura e della scrittura in questo momento non può non venire in mente un personaggio letterario molto significativo creato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e immortalato nel romanzo intitolato Il Gattopardo (1958). Il complesso personaggio del principe Fabrizio di Salina, il protagonista de Il Gattopardo, è una figura che vive «sotto un cipiglio zeusiano»: l’aggettivo (costruito da Giuseppe Tomasi di Lampedusa) naturalmente deriva da Zeus, il re degli dèi.

     Questo romanzo è molto famoso, è un classico, ma dubito che lo abbiano letto molti cittadini italiani e poi, in ogni caso (proprio perché è un classico), va periodicamente riletto; e allora, intanto, leggiamone una pagina, leggiamo l’incipit, l’inizio de Il Gattopardo. Questo romanzo inizia con la descrizione di un Olimpo palermitano dipinto sulle pareti del palazzo dei Salina: gli dèi non sono mai stati, ma continuano ed apparire: è la poesia – è la letteratura, è l’arte – che li fa esistere perché la poesia è in Principio.

LEGERE MULTUM….

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958)

Maggio 1860

“Nunc et in bora mortis nostrae. Amen.”

La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.

... continua la lettura ...

     A questo punto è doveroso concentrare la nostra attenzione su tre paesaggi intellettuali rappresentati da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dal principe Fabrizio di Salina, dal palazzo Filangeri di Cutò a Santa Margherita in Belice. Ne parleremo subito, ma prima dobbiamo dire che la nostra permanenza sull’isola di Samo è terminata e quindi siamo sul punto di rimetterci in viaggio: aspettiamo l’ordine del capitano Agenore. Ci rimettiamo in viaggio per attraversare, ancora una volta, il Mar Egeo da est verso ovest: dobbiamo la raggiungere le coste dell’isola Eubea, quella che si protende a ridosso della penisola Attica (potete, domani, dare un’occhiata all’atlante per visualizzare la direzione della nostra rotta). Siamo diretti nel golfo Maliakòs (a nord dell’Attica), dove attraccheremo, per poi, via terra, inoltrarci verso sud, all’interno del territorio ellenico, nella regione della Beozia tra il monte Parnaso e il monte Elicona: lì c’è un personaggio che ci sta aspettando. Fra poco, mentre viaggeremo virtualmente nel Mar Egeo, occuperemo il tempo della navigazione, tanto per non annoiarci, facendo un altro viaggio virtuale (un viaggio virtuale dentro all’altro) accompagnati da personaggi più recenti (reali e virtuali). Faremo un viaggio nel territorio siciliano: dalla Val di Mazzara alla valle del Bèlice: come preludio ad un prossimo incontro (tra qualche settimana) con la Mega Hellas, con la Magna Grecia. Il capitano Agenore ci richiama all’ordine e c’invita a prendere i nostri posti sulla nave Sidonia, dobbiamo salpare da Samo e fare rotta verso ovest - nord ovest. Sull’albero maestro della nostra nave sventola la bandiera della poìesis, della poesia, affiancata dalla bandiera del téleios, della perfezione; e questo sventolìo è un invito, è un invito a riflettere.

     Infatti, mentre la nave va, noi riflettiamo sul fatto che non possiamo leggere o rileggere (quattro pagine al giorno, per dieci minuti al giorno) Il Gattopardo senza sapere che, nel costruire il testo di questo romanzo, lo scrittore (cultore di sapienza poetica orfica) cerca di mettere sempre (usando soprattutto l’ironia) due parole-chiave in rapporto tra loro: la parola poìesis, la poesia, e la parola téleios, l’iniziaticità, la compiutezza, la completezza, la perfezione. Non si può (e non si deve) – secondo il movimento della sapienza poetica orfica, e secondo lo scrittore de Il Gattopardo – intrecciare una maschera, scolpire o fondere una statua, progettare e realizzare un edificio (sacro o profano che sia), scrivere quattro righe in proposito, leggere o rileggere quattro pagine al giorno, per dieci minuti al giorno, senza essere edotti in poesia, senza conoscere le forme poetiche e i contenuti poetici, senza capire le metafore, senza comprendere le allegorie, senza applicarsi sulle figure simboliche. Una materia, un argomento, un racconto, un oggetto, è compiuto, è perfetto, è téleios, se contenuto in una forma (in greco: eidos, idea). L’origine è data dalla forma e, secondo il Manifesto della Scuola di Samo, il primo Manifesto culturale del movimento della sapienza poetica orfica, in principio a tutte le forme è la poίesis-poìesis, la poesia, la forma poetica.

     Questa riflessione sul rapporto tra la parola poìesis, la poesia, e la parola téleios, l’iniziaticità, la compiutezza, la completezza, la perfezione, è indispensabile, scrive Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per capire lo sviluppo delle discipline che prendono forma sotto la spinta intellettuale del movimento della sapienza poetica orfica: l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia, la letteratura, la scienza. Il complesso personaggio del principe Fabrizio di Salina (troviamo in lui l’epica, la lirica, la tragedia, la storia, l’eloquenza, la filosofia, la letteratura, la scienza) è una figura, abbiamo detto, che vive «sotto un cipiglio zeusiano»: l’aggettivo naturalmente deriva da Zeus, il re degli dèi, ma don Fabrizio (sotto cui si cela il volto dello scrittore) è soprattutto un Orfeo che cerca di mettersi la maschera di Zeus.

     Con Il Gattopardo siamo di fronte a una significativa (e straordinaria) prosopopea orfica: Giuseppe Tomasi di Lampedusa (un Orfeo lui stesso, perché è un poeta di talento) nasconde (gioca a nascondere) il suo volto orfico sotto la maschera di don Fabrizio (un personaggio, in parte autobiografico, che, come Orfeo, è l’anima del romanzo). Ma il personaggio del principe di Salina (che si vergogna di stare nei panni di Orfeo: lui si considera un razionale uomo di scienza piuttosto che uno spirito poetico sentimentale) tende, nell’intreccio romanzesco tessuto dallo scrittore con ironia, a mascherarsi da Zeus, il più temuto ma anche il più patetico tra gli dèi; questa situazione narrativa (questa prosopopea) serve allo scrittore per mettere in evidenza il carattere di don Fabrizio, prigioniero di una contraddizione, che è motivo di malinconia, di nostalgia, di immobilità, di crisi esistenziale, ma anche di sapienza, anche di sapienza poetica.

     Ora riprendiamo la lettura delle pagine de l’incipit, de l’inizio, de Il Gattopardo in cui lo scrittore ci presenta don Fabrizio. Poco fa abbiamo letto la prima pagina, che contiene la descrizione de l’Olimpo palermitano dipinto sulle pareti del Palazzo dei Salina. Gli dèi non sono mai stati, ma continuano ed apparire: è la poesia – la letteratura, l’arte – che li fa esistere perché la poesia è in Principio. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958)

Al di sotto di quell’Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giù dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da più di un mese, dal giorno dei “moti” del Quattro Aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l’intimità collettiva del Salvatore. I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagine di S. Francesco di Paola; il primogenito, l’erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari; nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva: “Guiscardo,” il sauro irlandese, gli era sembrato giù di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia?) di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il Redentore?

... continua la lettura ...

     Giuseppe Tomasi di Lampedusa descrive la dimora del principe Fabrizio di Salina  facendo riferimento a un edificio preciso, a una delle case che fanno parte della storia della sua famiglia e della sua memoria personale.

     La nostra nave, ben guidata dal capitano Agenore di Tiro, non va a vele spiegate, ma procede lentamente; e allora, prima di arrivare alla meta, nel golfo Maliakòs, possiamo dedicarci, come abbiamo annunciato poc’anzi, ad un altro viaggio virtuale: possiamo farci accompagnare da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in Sicilia, sulle orme de Il Gattopardo attraverso un itinerario che, cronologicamente, dalla Magna Grecia (di 2500 anni fa), passando per l’età moderna (il 1500) e poi attraverso i primi anni del 1900, arriva fino ai giorni nostri.

     Il grande palazzo, cui Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nelle pagine che abbiamo letto, si riferisce, si trova a Santa Margherita in Bèlice: lì lo scrittore ha trascorso le estati della sua infanzia e della sua giovinezza, all’inizio del secolo scorso (dal 1900 al 1914). L’Olimpo palermitano che «esercita la sua signoria per ventitré ore e mezza» si trovava affrescato nel salone rococò del palazzo di proprietà della famiglia della madre dello scrittore, Beatrice. Questo edificio è il palazzo dei Filangeri principi di Cutò (con annesso parco e teatro) e si trova sulla piazza di Santa Margherita in Bèlice, in provincia di Agrigento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con l’atlante, con una guida della Sicilia e con la rete di Internet potete fare una visita a questa cittadina che, a causa del terribile terremoto del 1968, è stata distrutta al 90%…

     Santa Margherita in Bèlice è sorta nel 1572 al tempo dei viceré spagnoli durante un’intensa opera di fondazione di nuovi centri contadini (ne sono stati fondati oltre un centinaio in tutta la Sicilia), con stato giuridico feudale, in funzione della produzione intensiva dei cereali, del grano, che in questo momento, nella seconda metà del 1500, rende bene sul mercato europeo. Santa Margherita in Bèlice nasce per opera di Antonio Corbera appartenente a un’antica famiglia di origine catalana venuta in Sicilia al seguito dei sovrani spagnoli. I Corbera ottengono da Filippo II  la “licentia populandi” (il diritto feudale di fondare nuovi centri urbani) e danno così vita ad una nuova cittadina che viene chiamata Santa Margherita in memoria di un’antenata dei Corbera, particolarmente pia, Margherita Requesens. Santa Margherita viene fondata sul luogo di un villaggio arabo (Menzil-el-Sindi). Questi borghi contadini cinquecenteschi (tra il 1500 e il 1600 in tutta l’Europa assistiamo a questo fenomeno di colonizzazione interna) hanno tutti la stessa struttura urbanistica: una grande piazza da cui parte il reticolo delle strade che conserva la regolare articolazione in vicoli e cortili di derivazione mussulmana. Sulla piazza spiccano i due edifici principali: la Chiesa madre e il Palazzo feudale; poi, la forma ogivale della piazza, viene completata dalla cosiddetta palazzata formata dalle facciate dei palazzi dell’aristocrazia minore e dei maggiorenti del paese, compresi gli ordini religiosi. Su questo impianto architettonico si sviluppa, nel secolo successivo (nel 1600), lo straordinario fenomeno del Barocco siciliano. Oggi Santa Margherita in Bèlice ci appare (purtroppo, perché ha perso il suo antico fascino) come una cittadina tutta nuova. La Chiesa Madre (del XVI secolo, rifatta nel ‘700) è andata completamente distrutta (rimangono in piedi alcune strutture) e non è stata ricostruita (c’è una chiesa nuova di cemento armato inserita nel nuovo tessuto urbano), mentre il palazzo dei Filangeri di Cutò (che era, già prima del terremoto, in stato d’abbandono) è stato fortemente danneggiato dal sisma ma ha potuto (nelle sue strutture fondamentali) essere restaurato: una parte del palazzo è sede del Municipio e un’altra parte, da poco tempo, è adibita a museo del Gattopardo. Il museo completa – con Palma di Montechiaro e con Palermo – il Parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

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Puoi raccogliere ulteriori informazioni su questo Parco letterario, utilizzando i siti della rete …

     Il museo del palazzo dei Filangeri di Cutò a Santa Margherita in Bèlice, dedicato al Gattopardo, è molto significativo soprattutto perché contiene le tre stesure del romanzo: una prima stesura scritta a mano su più quaderni datati 1955-1956, una seconda stesura in sei parti corretta dall’autore (nel 1956) e battuta a macchina (la macchina è in mostra) da Francesco Orlando, uno dei giovani intellettuali che seguiva le lezioni di letteratura francese, inglese e italiana tenute (in privato e gratuitamente) dallo scrittore. La terza stesura è una ricopiatura (a mano) dal dattiloscritto di Orlando fatta nel 1957 da Tomasi di Lampedusa e porta sul frontespizio la dicitura “Il Gattopardo (completo)”. Questa stesura è divisa in otto parti (non in capitoli) come se fosse un dramma, e contiene, posto a compimento del manoscritto, l’indice analitico.

     Sappiamo che Tomasi di Lampedusa è morto nel luglio del 1957 (ci avviciniamo ad un anniversario) senza poter assaporare il successo che la sua opera ha ottenuto. Infatti nessuna delle grandi case editrici a cui lo scrittore aveva ripetutamente inviato i manoscritti prese la decisione di pubblicare il romanzo (pensavano, gli editori, consigliati dai loro esperti, che fosse un’opera di talento, ma che non avesse mercato): sarà Giangiacomo Feltrinelli (a cui bisogna riconoscere questo merito) che darà alle stampe Il Gattopardo. Il romanzo appare nell’autunno del 1958 a cura di Giorgio Bassani (scrittore e critico letterario conosciuto) il quale, nella primavera dello stesso anno (nel maggio del ’58), fa un viaggio a Palermo sulle orme del Gattopardo perché, avendo letto la versione dattiloscritta da Orlando (la seconda stesura), ha l’impressione di avere di fronte un testo ancora incompiuto. Bassani, a Palermo, riceve dalla moglie dello scrittore, Alessandra (detta Licy), e dal figlio adottivo, Gioacchino Lanza Tomasi, la terza stesura del romanzo. Bassani legge con grande pignoleria questa stesura definitiva e fa decine di correzioni di tipo formale: la punteggiatura, le maiuscole, i modi di interpretare la grammatica (Tomasi, per esempio, scrive pioggie con la i, così come dicono i Siciliani), le ripetizioni (sostituisce spesso, per esempio, la dicitura don Fabrizio con il principe o viceversa): Bassani agisce così per rendere il testo più scorrevole.

     Nel 1968, in occasione del decimo anno della pubblicazione de Il Gattopardo, molti critici letterari e lo stesso Gioacchino Lanza Tomasi, hanno posto il problema di queste divergenze dal testo originale e così l’edizione del 1969 ha ripristinato la corrispondenza con il manoscritto originale.

     Il museo di palazzo dei Filangeri di Cutò a Santa Margherita in Bèlice racconta questo avvenimento editoriale, e poi ci mostra molte foto significative della famiglia Tomasi e del palazzo com’era, oltre a farci sentire, in una rara registrazione, la voce dello scrittore che tiene una conversazione durante un’intervista. Ma la stanza del museo che attira di più i visitatori è quella che ricrea uno spazio multimediale: è un salotto dove, raffigurati da manichini (il pensiero, e qui anche Erodoto sorride con noi, va subito alla trafila della prosopopea: dalla maschera siamo passati alla statua e dalla statua ai manichini…) ci sono i principali protagonisti del romanzo che vengono presentati da una voce narrante attraverso una serie di immagini proiettate sul soffitto – che diventa schermo – tratte dal famoso (molto più famoso del romanzo) film Il Gattopardo di Luchino Visconti che (credo tutti) abbiate visto.

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La Scuola ha il dovere di consigliare, prima di tutto, la lettura o la rilettura del testo del romanzo in modo da poter guardare il film con maggiore partecipazione: la lettura di un libro e la visione di un film tratto dal testo di un romanzo sono due esercizi diversi, entrambi utili, ma complementari e non sostituibili l’uno con l’altro: buona lettura del romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958) e buona visione del film Il Gattopardo di Luchino Visconti (1962)…

     Chi è Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa? Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa, nasce a Palermo il 23 dicembre 1896 ed è l’erede di una nobile famiglia siciliana. Dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale (dove, fatto prigioniero dagli Austriaci, fugge dal campo di concentramento in Ungheria e torna a piedi in Italia), si laurea in legge e intraprende la carriera militare. Nel 1925, però (con la fascistizzazione dell’esercito), si dimette e trascorre il resto della sua vita in un chiuso aristocratico riserbo, coltivando gli studi letterari senza avere contatti con la società letteraria italiana e compiendo frequenti viaggi all’estero, accompagnato dalla madre Beatrice, con lunghi soggiorni a Parigi e a Londra. Nel 1932 sposa a Riga (in Lettonia) Alessandra Wolff Stomersee, detta Licy. Licy è la figlia di primo letto della moglie di suo zio Pietro Tomasi della Torretta, ed è la vedova di un barone lettone. Dopo la seconda guerra mondiale, che provoca (con i bombardamenti del 1943) danni gravissimi al palazzo Lampedusa di Palermo, lo scrittore e Licy (che hanno adottato come figlio Gioacchino Lanza) vivono, per molti mesi l’anno, a Capo d’Orlando ospiti del cugino dello scrittore: il barone Lucio Piccolo di Calanovella, intellettuale, filosofo, musicista e apprezzato poeta. Nel 1954 Giuseppe Tomasi di Lampedusa accompagna Lucio Piccolo, il quale deve ricevere un riconoscimento letterario come poeta, a San Pellegrino Terme (Bergamo) e in questa occasione incontra Eugenio Montale ed Emilio Cecchi: questa è la sua unica uscita pubblica.

     È necessario, ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, puntare,  per un momento, l’attenzione su Lucio Piccolo (1903-1969) un poeta che, nello stile del cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa, è sempre vissuto appartato a Capo d’Orlando. Tra le opere di Lucio Piccolo quella più significativa s’intitola Canti Barocchi pubblicata nel 1956 con la presentazione di Eugenio Montale. Lucio Piccolo scrive con uno stile molto elaborato (barocco) e molto elegante, e nelle sue poesie, che hanno come argomento il paesaggio e i monumenti antichi della Sicilia trasformati in simboli (in maschere orfiche), c’è una forte tensione ideale e metafisica. Lucio Piccolo, nel 1954, invia a Eugenio Montale (già poeta e intellettuale affermato) un libretto di versi edito a proprie spese e modestamente stampato, accompagnato da una lettera in cui si dichiara l’intenzione di «rievocare e fissare un mondo singolare siciliano, che si trova adesso sulla soglia della propria scomparsa senza aver avuto la ventura d’essere fermato da un’espressione d’arte… quel mondo di chiese barocche, di vecchi conventi, di anime adeguate a questi luoghi, qui trascorse senza lasciare traccia». Questa lettera di accompagnamento, si è saputo dopo, è stata scritta da Tomasi di Lampedusa.

     Ebbene questa lettera non invoglia Montale alla lettura del libretto; ma c’è un’altra cosa che attira l’attenzione di Montale e lui lo racconta con autoironia nell’Introduzione, quando curerà (nel 1956) la pubblicazione dei Canti Barocchi di Lucio Piccolo: il plico (l’impiegato postale di Capo d’Orlando aveva sbagliato a mettere i francobolli, ne aveva messi di meno) era tassato per affrancatura insufficiente, e questo fatto stimola la curiosità di Montale (era ligure ed era sensibile al risparmio sulle affrancature ), che decide di aprirlo e di leggere il libretto.

     Leggiamo che cosa scrive Montale nell’Introduzione a Canti Barocchi di Lucio Piccolo:

LEGERE MULTUM….

Eugenio Montale, Introduzione a Canti Barocchi di Lucio Piccolo (1956)

Forse volevo appurare se il libretto contenuto nel plico tassato per affrancatura insufficiente valesse centottanta lire. Lo portai con me, lo lessi distrattamentenon cominciai neppure dalle poesie barocche. Lessi le prime cinque liriche, non facili, non immediate, senza sforzarmi di capire.

... continua la lettura ...

     Eugenio Montale decide di presentare Lucio Piccolo a San Pellegrino come giovane poeta, ma quando se lo trova davanti, accompagnato da un distinto signore (suo cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa), si accorge di aver scelto di far da padrino a un uomo di soli sette anni più giovane di lui: il barone Lucio Piccolo di Calanovella, ha già cinquantun anni e ironicamente si presenta a Montale dicendo: «In fondo in ognuno di noi, indipendentemente dall’età, alberga un giovane poeta»…

     Quando Montale gli chiede di leggere qualcuna delle sue liriche, Piccolo, che è di carattere timido e riservato, prega Montale di leggerle al suo posto perché lui non pensa di essere all’altezza come dicitore. Quando Montale lo invita a dire almeno due parole Lucio Piccolo risponde che non è abituato a parlare in pubblico e, invece di parlare, chiede di poter utilizzare il pianoforte, che si trova in quella sala, per eseguire una sua composizione. Lucio Piccolo non è solo un giovane poeta cinquantunenne, ma è anche un bravo musicista, un compositore ispirato (il suo intervento al pianoforte viene salutato con un’ovazione), che ha un posto nella storia della musica contemporanea.

     A Capo d’Orlando, in località Bina c’è la villa della famiglia Piccolo di Calanovella, qui Giuseppe Tomasi e Licy con il figlio adottivo Gioacchino Lanza vengono ospitati per diversi mesi l’anno. Oggi, nel parco botanico di villa Piccolo, c’è un museo dove sono esposti molti oggetti d’arte e altre testimonianze (letterarie) che aiutano a capire meglio quello che leggiamo (quello che stiamo studiando) e che spronano a mettere per iscritto i pensieri che fioriscono nella nostra mente …

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con l’atlante, con la guida della Sicilia, con l’enciclopedia, in biblioteca e sulla rete fai una ricerca sulla località di Capo d’Orlando (in provincia di Messina) e sulla persona di Lucio Piccolo … Se la tua ricerca dà dei risultati: scrivi quattro righe in proposito …

     Giuseppe Tomasi di Lampedusa muore improvvisamente a Roma il 23 luglio 1957 e la sua morte non fa notizia: è quella di un illustre sconosciuto. Ma, nell’autunno del 1958, con la pubblicazione de Il Gattopardo, che diventa subito un caso letterario internazionale e vince il Premio Strega, lo scrittore Giuseppe Tomasi usufruisce di una celebrità postuma di cui, per ironia della sorte, in quanto persona, non saprà mai nulla: come se fosse l’estrema conseguenza del suo voler vivere appartato.

     Il Gattopardo non è solo un romanzo di carattere storico, sociale e politico ma è anche un testo di carattere psicologico-esistenziale ed è ambientato in Sicilia, al tempo delle lotte risorgimentali e dell’annessione dell’isola allo stato sabaudo. Descrive la storia di una nobile famiglia siciliana e, attraverso di essa, analizza il declino dell’aristocrazia e l’ascesa, nell’ambito della vita politica, della classe borghese. L’intera vicenda è incentrata sulla figura del principe Fabrizio Salina. Don Fabrizio è un uomo imponente e autoritario ma piuttosto pigro e quasi vittima di una sorta di noia esistenziale, ed è il perfetto interprete, lucido e disilluso, della decadenza di un mondo segnato dall’immobilismo e dal fatalismo.

     Questa figura è una proiezione autobiografica dell’autore e non solo domina tutta la schiera dei personaggi minori, ma, con il suo aristocratico distacco, intinto di ironia, e con la sua fatalistica rassegnazione, è la vera anima (è Orfeo) del romanzo. Perché questo romanzo è così coinvolgente e ha avuto così tanto successo? Perché il testo di questo romanzo è intriso di cultura orfica. La sapienza poetica orfica non è solo dipinta sulle pareti del salone rococò del palazzo dei Filangeri di Cutò ma è anche nella mente di Tomasi di Lampedusa e quando don Fabrizio, rinunciando al titolo di senatore del nuovo regno d’Italia, dice: «Noi siamo dèi e non vogliamo migliorare perché crediamo di essere perfetti…», ebbene, colui che fa questa affermazione è proprio l’autore che ironizza malinconicamente su se stesso e ferocemente sul gruppo sociale a cui ha appartenuto; e il suo personaggio, il principe di Salina, è una maschera mitica (è Orfeo che fa finta di essere Zeus) che lo scrittore crea, intreccia, alla maniera degli sconosciuti poeti orfici di cui si sente erede, per amplificare il suo pensiero: ironico, sarcastico, satirico, pungente, tagliante, graffiante, canzonatorio, mordace, caustico…

     Nel brano che ora leggiamo vediamo don Fabrizio interpretare perfettamente la sua parte: al piemontese Chevalley, inviato dal conte di Cavour a offrirgli la nomina a senatore del nuovo regno d’Italia, egli, pur sentendosi molto onorato, risponde con un rifiuto e coglie l’occasione per fare, sulla scia della sapienza poetica orfica, una precisa trattazione (una prosopopea orfica) della sua concezione dell’esistenza.

LEGERE MULTUM….

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958)

 

Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello studio.

Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: «Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna,

è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali sono state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti (Agrigento) si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti». Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo.

... continua la lettura ...

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Sul concetto della “perfezione” (téleios) dobbiamo continuare a riflettere…        

In certi momenti della vita legati al lavoro, ai riti, alle cerimonie, si tende a fare le cose nel migliore dei modi, si aspira a fare le cose “alla perfezione”: in quale occasione hai teso a questo?… 

Ci sono “oggetti” che ti sembrano perfetti?… Ci sono comportamenti di persone che conosci, o  che hai conosciuto, i quali ti sono sembrati perfetti?… Hai sognato situazioni perfette? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Il romanzo Il Gattopardo è coinvolgente e ha avuto così tanto successo perché quest’opera è intrisa di cultura orfica e i concetti della cultura orfica non ci sono indifferenti perché stanno alla base della nostra civiltà. Noi, percorrendo questi itinerari in funzione della didattica della lettura e della scrittura, abbiamo acquisito alcune competenze e alcune chiavi che ci danno la possibilità di leggere con piacere il testo de Il Gattopardo.

     Il concetto della sapienza poetica orfica è presente nella mente di Tomasi di Lampedusa (anche lui “grecista accanito”, come scrive Montale di Lucio Piccolo) e quando don Fabrizio, rinunciando al titolo di senatore del nuovo regno d’Italia, dice: «Noi siamo dèi e crediamo di essere perfetti…», ebbene, colui che fa questa “superba affermazione” è proprio l’autore che sente (si sente che è soddisfatto) di aver messo, usando la forma poetica, magistralmente in relazione la parola poίesis, la poesia, con la parola téleios, la perfezione. Il personaggio di don Fabrizio principe di Salina è significativo, è poetico, è orfico perché agisce sul palcoscenico del romanzo togliendosi, di atto in atto, la maschera e mostrando il suo vero volto: quello dello scrittore, quello del poeta (di Orfeo). Nonostante le “superbe affermazioni” del principe don Fabrizio di Salina – «Noi siamo dèi e crediamo di essere perfetti…» – e la pessimistica idea di cui è portatore –  «Nulla potrà mai cambiare» – questo personaggio, sotto la cui maschera riconosciamo il volto dell’autore, del poeta, risulta “simpatico” a chi legge

     Risulta “simpatico” anche a Erodoto e al capitano Agenore di Tiro. E il capitano Agenore di Tiro decide di circumnavigare l’isola Eubea per allungare il tragitto verso il golfo Maliakòs in modo che, la prossima settimana, possiamo ancora incontrare Giuseppe Tomasi di Lampedusa con il quale (nei primi anni del 1900) faremo una viaggio in treno da Palermo a Trapani e poi in carrozza (in landau) da Trapani a Santa Margherita in Bèlice: è un viaggio avventuroso: perché dobbiamo fare questo viaggio nel cuore della Sicilia all’inizio del secolo scorso? Non perdete questo itinerario virtuale inserito nel viaggio virtuale…

     La Scuola – «finzione vera, paradossale autenticità», secondo Fernando Pessoa – è qui …

     Siate complici delle avventure che propone: ora possiamo solo dire che sono in funzione della didattica della lettura e della scrittura…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Mercoledì, Novembre 22, 2006