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LO SGUARDO DI HEGEL SULLE “FIGURE” DELL’AUTOCOSCIENZA ...

Lezione N.: 
28

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Hegel  2007     23-24-25   maggio  2007

LO SGUARDO DI HEGEL

SULLE “FIGURE” DELL’AUTOCOSCIENZA ...

     Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, descrive il viaggio della coscienza (della sua coscienza personale) alla ricerca del Sapere assoluto. La coscienza, scrive Hegel, si realizza attraverso tre momenti: il momento della certezza sensibile, quello della percezione e quello de l’intelletto: questi tre elementi devono essere utilizzati in funzione della conoscenza. Bisogna imparare ad utilizzarli e di conseguenza bisogna imparare a conoscere (questo è il piano della sensazione), bisogna imparare a capire (questo è il piano della percezione) e bisogna imparare ad applicarsi(questo è il piano de l’intelletto): imparando a conoscere le sensazioni, a capire le percezioni e ad applicarsi con l’intelletto lo spirito individuale impara a prendere coscienza.

     Quando lo spirito della persona, attraverso la certezza sensibile (il conoscere), attraverso la percezione (il capire) e attraverso l’intelletto(l’applicarsi), prende coscienza, scrive Hegel, sale su un gradino superiore in cui può cominciare ad avere coscienza di se stesso, cioè a distinguere se stesso dalla molteplicità delle cose in cui finora era immerso, come in uno stato di alienazione: attraverso la certezza sensibile (il conoscere), attraverso la percezione (il capire) e attraverso l’intelletto(l’applicarsi), lo spirito prende coscienza ed è portato a riflettere su se stesso e ad avvertire, scrive Hegel, tanto gli oggetti che lo circondano quanto gli altri spiriti che vivono intorno a lui.

     Quando lo spirito della persona prende coscienza: che cosa succede? Succede che la coscienzaavverte gli oggetti e gli altri spiriti che la circondano come un qualche cosa che la limita, come un ostacolo da superare.  Naturalmente l’avvertimento dell’ostacolo da parte della coscienza è un fatto necessario e fondamentale perché, scrive Hegel, il superamento di questo ostacolo determina il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza.

     Il termine autocoscienza dà il titolo alla terza parte della Fenomenologia dello Spirito. Tra le varie parti della Fenomenologia, l’autocoscienza, è sempre stato (ed è ancora) il capitolo preferito da parte delle studiose e degli studiosi e spesso ha avuto un ruolo determinante nell’interpretazione dell’intera opera. Hegel stesso sottolinea l’importanza di questo capitolo e scrive: «Con l’autocoscienza siamo entrati nel regno originario della verità la coscienza ha la propria chiave di volta solo nell’autocoscienza in quanto concetto dello Spirito». Naturalmente questo capitolo (che è lungo) è ancor più ricco di spunti di riflessione e ancora più complicato da decodificare degli altri.

     L’autocoscienza, scrive Hegel, è «la coscienza consapevole di essere se stessa» perché si rende conto «di essere diversa e di essere contrapposta agli altri oggetti e alle altre coscienze». L’autocoscienza è la coscienza, scrive Hegel, consapevole «di dover superare anche se stessa», e questa affermazione costituisce il primo importante spunto di riflessione di grande attualità. L’autocoscienza, scrive Hegel, è la coscienza che sa superare anche se stessa perché, a volte, «la coscienza diventa un ostacolo a se stessa: un paravento che la divide dall’autocoscienza». La coscienza, quando diventa ostacolo per se stessa, favorisce, scrive Hegel,  «l’imporsi della dittatura della coscienza»: l’autocoscienza è, quindi, scrive Hegel, «la condizione della coscienza che si oppone alla dittatura della coscienza stessa».

     Che cosa significa questa affermazione che sembra (come avviene spesso nella Fenomenologia dello Spirito) un gioco di parole? Che senso ha parlare della dittatura della coscienza? È un tema di grande attualità su cui è necessario riflettere e la Fenomenologia dello Spirito è un’opera quasi illeggibile (e sappiamo anche che ci sono dei motivi) ma è ricca di questioni (di spunti non risolti, innumerevoli volte commentati) su cui è necessario riflettere.

     Perché, insiste Hegel, è fondamentale il passaggio dalla coscienza che è «la comprensione della propria soggettività»,  all’autocoscienza cioè «alla consapevolezza che il soggetto ha una responsabilità collettiva»? (è il dramma de La coscienza di Zeno). Perché contrariamente, scrive Hegel, il termine coscienzadiventa una specie di parola magica che spesso viene evocata per garantirsi l’impunità: «Ho agito secondo coscienza», spesso sentiamo dire per giustificare una posizione intransigente o per giustificarsi dall’aver eseguito un ordine.

     Hegel mette in guardia da quest’uso della coscienza (chiusa nella soggettività) che non sale il gradino dell’autocoscienza (che non assurge alla consapevolezza della propria responsabilità) e che, quindi, dà spazio alla dittatura del principio della soggettività che non si fa carico di alcuna responsabilità collettiva e tanto meno delle conseguenze che ne derivano. Una coscienza, allude Hegel, che non sa vedere in se stessa un ostacolo da superare per elevarsi all’autocoscienza rimane troppo ristretta, troppo angusta, e quindi crea un’auto-limitazione della responsabilità. Ci sono stati momenti storici dove tutti, dalle più alte gerarchie ai semplici militari, si sentivano responsabili solo di fronte ai superiori («Ho obbedito agli ordini») e non responsabili di fronte alle conseguenze delle loro azioni.

     La coscienza che supera se stessa e si fa autocoscienza, scrive Hegel, assume come caratteristica quella di prodigarsi nella mediazione e di farsi carico delle domande che vengono dalla società. Hegel in questo passaggio ragiona con in testa una meta-figura che viene dalla cultura greca (su cui è edotto fin da Tubinga) è che è stata chiamata: lo spirito della polis: se la coscienzadiventa un principio inappellabile in politica (Hegel è molto attento a questa disciplina, allo spirito della polis), che è il luogo dove dovrebbe trovare compensazione il conflitto delle diverse posizioni, allora, allude Hegel, bisogna dire che coloro che si attengono alla dittatura della coscienza non devono entrare in politica, perché la loro coscienza non prevede alcuna responsabilità collettiva, ma solo l’osservanza dei propri princìpi o dei propri interessi.

     Facciamo un esempio che riguarda la situazione italiana e ci fa riflettere tutti: alla domanda di diritti e di doveri che viene dalle coppie di fatto (sempre più numerose), c’è chi risponde, in coscienza, che questi conviventi non possono e non devono avere né diritti né doveri perché la famiglia è sacra, ma contemporaneamente, costoro pensano, in coscienza, che quelle cittadine e quei cittadini sono fruitori di diritti (scritti nella Costituzione) perché la persona è altrettanto sacra. Abbiamo saputo che le due ministre incaricate di scrivere un decreto legge sulle coppie di fatto (sui Diritti dei conviventi) hanno cercato, in coscienza, di mediare e far assurgere la coscienza (il principio di soggettività) all’autocoscienza (alla consapevolezza della responsabilità collettiva). Sappiamo anche che c’è stata una vasta levata di scudi per affermare che, in coscienza, la convivenza di fatto non può essere equiparata a quella della (sacra) famiglia e questo, in coscienza (secondo la dittatura della coscienza), deve valere per tutti.

     Purtroppo nessuno conosce il capitolo terzo (intitolato l’Autocoscienza) della Fenomenologia dello Spirito per cui si fa diventare un problema di coscienza (di  dittatura della coscienza), un tema che è di mediazione e che riguarda l’autocoscienza perché c’è un vuoto legislativo. Chi decide di entrare in politica, sostiene Hegel,, non può esonerarsi, in nome dei propri principi – in nome di una coscienza, direbbe Hegel, che non assurge ad autocoscienza – di ascoltare le domande, le richieste, i bisogni delle cittadine e dei cittadini: perché la politica, allude Hegel, è mediazione: non è testimonianza. Per la testimonianza, che si dà con la condotta della propria vita, c’è il terreno sociale.

     I membri della famiglia cristiana (o di altre confessioni) costituita sul matrimonio religioso, i membri della famiglia laica costituita sul matrimonio civile, i membri della convivenza di fatto costituita su un patto tra le persone devono competere in modo ideale (secondo l’armonia vitale dei contrari, di orfica memoria) per dimostrare che i principi in cui credono sono salutari per tutta la società: in questa pacifica competizione ideale, sostiene Hegel, la coscienza soggettiva assurge ad autocoscienza responsabile.

     La dittatura della soggettività, la coscienza che non sale il gradino dell’autocoscienza, è in ogni suo aspetto, sostiene Hegel, incompatibile con l’agire politico (con lo spirito della polis) perché, come ci ricorda Kant: «La morale è fatta per la persona, non la persona per la morale». E questo monito, secondo Hegel, vale anche, e forse a maggior ragione, per l’ideologia: lo spirito della polis, ci ricorda Hegel, si vivifica nella competizione ideale tra le persone che concorrono al bene della società, dello Stato.

     Come descrive Hegel il percorso che porta la coscienza (il principio soggettivo) ad assumere il ruolo di autocoscienza (la consapevolezza della responsabilità collettiva)? Hegel, per descrivere il tragitto che porta la coscienza a diventare autocoscienza, utilizza le famose Gestalten, le figure (metafore, allegorie, icone, apologhi, parabole). A proposito di metafore: il tragitto che porta la coscienza a diventare autocoscienza – Hegel usa questa immagine – assomiglia alla Via crucis (tutti conoscete il rito della Via crucis): si percorre un itinerario (che è stato già percorso materialmente da Gesù) e ci si ferma ad ogni stazione di fronte a una figura, di fronte a un’icona che contiene lo Spirito di Gesù, e ogni figura propone una riflessione attraverso la quale la coscienza soggettiva è chiamata – penetrando in quelle figure – «ad assurgere ad autocoscienza» assumendosi la responsabilità di seguire materialmente quella via.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è la via crucis come rito religioso, e c’è la via crucis imposta dalle circostanze della vita

Scrivi – su queste due situazioni – quattro righe in proposito…

     Il capitolo sull’Autocoscienza della Fenomenologia dello Spirito si divide in due grandi sezioni contrassegnate dalla lettera A e dalla lettera B. La parte contrassegnata con la lettera A ha come contenuto centrale la famosa figura del servo e del padrone e la parte contrassegnata con la lettera B ha come contenuto centrale l’altrettanto celebre figura della coscienza infelice. Sono state soprattutto queste figure ad attirare l’attenzione delle studiose e degli studiosi fin dagli anni immediatamente successivi alla morte di Hegel avvenuta il 14 novembre del 1831.

     Tra le ragioni per cui Karl Marx, per esempio, si allontana dal gruppo dei giovani hegeliani ha un ruolo determinante l’interpretazione che Marx dà della figura del servo e del padrone. Nel Novecento la riscoperta della Fenomenologia dello Spirito è avvenuta attraverso il ruolo decisivo che le studiose e gli studiosi hanno dato al capitolo dell’Autocoscienza e se con i nostri Percorsi approderemo, prima o poi, nel territorio del ‘900 ci renderemo conto che il tema dell’autocoscienza è un tema ricorrente.

     Nel cammino della coscienza che finora Hegel, con il testo della Fenomenologia, ci ha fatto percorrere – attraverso le fasi della certezza sensibile, della percezione e dell’ intelletto – ci siamo rese/resi conto che la verità è qualcosa di diverso dalla coscienza, cioè che la coscienza non è in grado di giungere ad un livello soddisfacente di conoscenza: il soggetto e l’oggetto, nella coscienza individuale, chiusa nella soggettività, scrive Hegel, non coincidono ancora tra di loro. Sappiamo quindi che è necessario superare questo momento e passare al momento successivo che è quello dell’autocoscienza.

     Hegel articola il capitolo dell’Autocoscienza su quattro figure (su quattro allegorie) che costituiscono uno degli elementi più importanti e suggestivi della Fenomenologia dello Spirito e sono: la figura del servo e del padrone, la figura dello stoicismo, la figura dello scetticismo e la figura della coscienza infelice. Nell’autocoscienza, scrive Hegel, la coscienza non ha più un rapporto teorico con il mondo, ma viene ad avere un rapporto pratico e attivo. E le quattro figure dell’autocoscienza servono per spiegare e per far capire il passaggio della coscienza dalla teoria alla pratica. Nell’autocoscienza, scrive Hegel, la coscienza è convinta del proprio potere di dominio sul mondo o di opposizione ad esso. E le quattro figure, proprio per questo orientamento pratico, acquistano sempre più riferimenti sociali, culturali, politici e religiosi.

     Come si manifesta l’autocoscienza? Il primo manifestarsi dell’autocoscienza, scrive Hegel,  avviene nel desiderio: la persona ha da sempre, dentro di sé, scrive Hegel, il desiderio di imporsi su un’altra persona costringendola così a riconoscere il proprio dominio, la propria signoria. L’autocoscienza. scrive Hegel, si sente appagata solo quando è riconosciuta da un’altra autocoscienza: siamo così di fronte a due autocoscienze, a due individui, l’uno di fronte all’altro: nel conflitto che esplode, il più debole, vedendosi vinto, accetta, scrive Hegel, di diventare servo dell’altro. La figura del servo e del padrone dà inizio ad una serrata dialettica e anche  sull’interpretazione di questa figuracomincia a formarsi – abbiamo detto – il pensiero di Marx, il quale, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, formula una delle interpretazioni più note della figura del servo-padrone, descrivendo il rapporto tra l’operaio e il capitalista (siamo ormai nel pieno della Rivoluzione industriale). In questo rapporto il lavoro assume un ruolo particolare in quanto, attraverso di esso, l’uomo si oggettivizza, diventa il risultato del suo lavoro, diventa una cosa, cioè si aliena. Quando a suo tempo incontreremo Marx studieremo questo concetto in modo più ampio.

     All’inizio, scrive Hegel, il servo accetta di essere subordinato al signore, ma tale rapporto è destinato a capovolgersi. Il servo incomincia a capire che il padrone vive per il suo (del servo) lavoro, capisce che la vita stessa del padrone dipende da lui, in questo modo il servo inizia il cammino della sua emancipazione fino a sostituire il padrone: la figura del servo-padrone ha come riferimento storico il mondo greco-romano, il mondo degli schiavi. Hegel ama fare questi riferimenti, perché la coscienza, nel suo viaggio alla ricerca di se stessa, ripercorre le tappe già compiute dallo Spirito nella storia dell’umanità. Ma il servo, scrive Hegel, nonostante la sua emancipazione attraverso il lavoro, è ancora dipendente dalle cose materiali e la tappa successiva è quella che Hegel chiama la libertà dell’autocoscienza, cioè la libertà dalla dipendenza dalle cose materiali.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Qui dobbiamo chiederci (la Fenomenologia dello spirito pone molti spunti di riflessione): quanto siamo dipendenti dalle “cose”, soprattutto da quelle cose che non sono strettamente necessarie e che diventano uno strumento di alienazione e non sono utili per una pienezza di vita? … E dobbiamo anche domandarci quali sono – secondo noi - le cose non necessarie che tuttavia risultano utili per la nostra evoluzione materiale e culturale?…

Puoi scrivere – a questo proposito – quattro righe…

     Il tentativo di liberarsi dalle cose materiali non strettamente necessarie viene identificato da Hegel con la figura dello stoicismo: la dottrina filosofica dello stoicismo (lo abbiamo studiato a suo tempo) toglie ogni valore al mondo esterno, lo stoico sta lontano dal mondo e dai suoi affari chiudendosi nell’indifferenza (l’apatia) e rifugiandosi nella ragione. Ma la libertà dello stoico, scrive Hegel, è una libertà astratta, la sua apatia rivela mancanza di vitalità. Lo stoicismo fa dei discorsi edificanti, ma rischia, scrive Hegel, di «ingenerare noia».

     È necessario quindi andare oltre questo momento, e ciò avviene, scrive Hegel, con la figura dello scetticismo: lo scetticismo, scrive Hegel, è l’esperienza reale di ciò che significa la libertà del pensiero; lo scetticismo è, scrive Hegel, la realizzazione di ciò che nello stoicismo è contenuto implicitamente, cioè la negazione del mondo: lo scetticismo nega il mondo e quindi afferma la relatività delle cose materiali non necessarie e quindi dovrebbe esaltare la libertà del pensiero. Ma la coscienza scettica, scrive Hegel, non è la coscienza universale, è una coscienza «accidentale e singolare», e quindi nel complesso la coscienza scettica è, scrive Hegel, un vaniloquio inconsapevole che oscilla continuamente da un estremo all’altro: invece di negare il mondo lo scettico finisce per negare se stesso.

     La figura dello scetticismo quindi conduce ad una riflessione che porta al suo superamento e il superamento della fase scettica, scrive Hegel, porta all’importante figura della coscienza infelice: la più celebre, insieme a quella del servo e del padrone, delle figure hegeliane. Per capire questa figura, scrive Hegel, è necessario tenere presente il mondo medievale a cui questa figura corrisponde: un mondo essenzialmente cristiano. Sappiamo che questi riferimenti storici corrispondono alla convinzione di Hegel che la coscienza, nel suo viaggio alla ricerca di se stessa, ripercorre le tappe già compiute dallo Spirito nella storia dell’umanità: il viaggio della coscienza corrisponde alle tappe della Storia del Pensiero Umano. Ciò significa implicitamente che lo studio (studium et cura) della Storia del Pensiero Umano (Hegel lo afferma continuamente nelle sue Lezioni) è propedeutico al percorso che conduce la coscienza all’autocoscienza.

      Nella civiltà medievale, ed in particolare nel monachesimo, scrive Hegel, la coscienza si sente divisa: da una parte c’è in lei una forte tensione verso l’Assoluto, verso Dio, dall’altra essa non riesce a raggiungere l’unione con ciò che desidera: si sente una coscienza finita: e da qui, scrive Hegel, sente la sua infelicità. La coscienza infelice, scrive Hegel, rappresenta pienamente la coscienza legata alla realtà sensibile. La coscienza infelice determina la presa d’atto del peso delle cose materiali in funzione del desiderio del potere: più cose ho più valgo?

     Dalla coscienza infelice nasce la constatazione, scrive Hegel, che la felicità non dipende dal possesso delle cose in funzione del desiderio del potere, ma dipende dal riconoscimento dell’essenzialità delle cose. La coscienza infelice rappresenta, scrive Hegel, la coscienza che è alla ricerca del concetto, alla ricerca dell’essenza delle cose. Hegel ammette che questa operazione non è facile e la figura della coscienza infelice perdura. Il perdurare della coscienza infelice determina una situazione significativa: porta in scena la ragione con i suoi limiti e le sue potenzialità.

      Ma la ragione, scrive Hegel, che scaturisce dalla coscienza infelice, per prima cosa, ci suggerisce (per avere la consolazione, per trovare il significato della vita, per dare senso alle cose) la via della Religione. E la Religione è l’argomento della sesta parte della Fenomenologia dello Spirito che, in sintesi, anticipiamo prima di approfondire il tema della Ragione che occupa la quinta parte dell’opera. Dobbiamo dire che per Hegel la Religione non è l’astratto deismo (la religione universale) degli Illuministi, e neppure un postulato della ragion pratica (una manifestazione della legge morale) come per Kant, e neppure un prolungamento dell’etica come per Fichte. Per Hegel la via della Religione è tracciata dal Cristianesimo (nella versione della Riforma luterana) che scardina l’idea della religione tradizionale. La storia del Cristianesimo, scrive Hegel. rende conto dell’originalità che nella religione si manifesta, della genialità che porta all’autocoscienza dello spirito.

     L’incarnazione – il Verbo, il Logos che si fa carne con il conseguente manifestarsi del Cristianesimo – fa sì che lo Spirito divino percorra la storia dell’umanità, e la religione (la fede cristiana) è, quindi, l’autocoscienza dello spirito. La persona, con la religione (con la fede cristiana), acquisisce l’autocoscienza spirituale, e l’autocoscienza dello spirito innesca una dialettica per cui l’essere umano può cogliere il rapporto tra il finito e l’infinito e tra la coscienza limitata, infelice, e lo Spirito infinito, immutabile. La coscienza è infelice perché aspira, scrive Hegel, ad avvicinarsi al concetto, a conoscere l’essenza delle cose. Ebbene, il Cristianesimo indica il concetto immutabile (Dio) e quindi con la fede il soggetto si può avvicinare al concetto e la singola coscienza trova se stessa nell’Immutabile: diventa autocoscienza dello spirito e s’identifica con lo Spirito divino.

     Lo Spirito, scrive Hegel, attraverso la religiosità dell’Antico Testamento in cui il Dio trascendente appare come un estraneo, come un giudice che condanna e castiga, porta all’esperienza cristiana in cui l’Immutabile, Dio, assume la singolarità, cioè si incarna, diventa un essere umano in Cristo. Quindi, aderendo alla fede la coscienza si fa pienamente spirito e intuisce la possibilità (l’autocoscienza) di poter penetrare ogni realtà, di partecipare alla realtà stessa. La coscienza, che sa di essere ogni realtà, trova l’Immutabile (Dio, il concetto) in se stessa, e si attenua così la sua infelicità.

     Ma la ragione sa che la fede non è una certezza, ma è una speranza. Quindi, allude Hegel,  è comunque sempre la ragione, con tutti i suoi limiti, nel bene e nel male, a dire l’ultima parola.

     Che cos’è la ragione secondo Hegel, e qual è l’itinerario della ragione verso il Sapere assoluto? È l’argomento della quinta parte della Fenomenologia dello Spirito ed è uno dei temi che tratteremo nel prossimo (ultimo di quest’anno scolastico) itinerario.

     Leggiamo ora un frammento tratto dal capitolo sull’Autocoscienza (noi non ci possiamo permettere di leggere che piccoli brani perché per leggere in modo ampio la Fenomenologia dello Spirito ci vorrebbe un Percorso che dura un anno intero). Questo frammento è la prima parte della sezione dedicata alla figura del servo-padrone. Leggiamo questo frammento per mettere in gioco un ulteriore interessante concetto che Hegel propone (la Fenomenologia dello Spirito è una miniera di concetti su cui riflettere). Hegel introduce la figura del servo-padrone con un concetto fondamentale che hanno già sviluppato Kant e Fichte: il concetto di riconoscimento. Secondo il principio di riconoscimento: l’autocoscienza è tale solo quando è riconosciuta da un’altra autocoscienza. Kant ha definito il diritto come la disciplina della limitazione delle libertà dei singoli allo scopo di garantire la libertà di tutti. Fichte riprende la concezione kantiana sostenendo che la libertà è possibile se c’è un riconoscimento reciproco tra gli individui in modo che ciascuno possa porre dei limiti alla propria libertà in nome della libertà di tutti.

     Hegel – nella sua opera – ribadisce in modo ancora più forte il valore politico (nello spirito della polis) che ha il riconoscimentoreciproco tra le coscienze in modo da allargare l’area dell’autocoscienza (che è un bene per tutti): più autocoscienza (più capacità di mediazione) c’è nella società e meglio è. Hegel afferma – e sviluppa questo concetto nell’opera intitolata Scienza della logica – che lo Stato ha il dovere di favorire l’allargamento dell’area dell’autocoscienza. Hegel allude al valore che ha, da parte delle cittadine e dei cittadini, lo studiare insieme, allude al valore che ha il dare loro la possibilità di poterlo fare. La possibilità che le cittadine e i cittadini hanno di studiare insieme la Storia del Pensiero Umano (di mettere in atto una fenomenologia) favorisce processi di riconoscimento reciproco (che non significa essere d’accordo ma essere in grado di andare d’accordo) in una produttiva dialettica intellettuale: una situazione in cui l’autocoscienza riconosce l’altra autocoscienza.

     Ora leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807)

L’autocoscienza è in sé e per sé solo quando e in quanto è in sé e per sé per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto.

Il concetto di questa unità dell’autocoscienza nella sua duplicazione, cioè il concetto dell’infinità il quale si realizza appunto nell’autocoscienza, è un intreccio che presenta molti aspetti e ha molti significati. I momenti di questo intreccio, pertanto, devono essere rigorosamente distinti l’uno dall’altro, e in tale differenziazione, nello stesso tempo, devono sempre essere presi e conosciuti nel loro significato opposto, cioè come non differenti.

L’ambiguità di ciò che è differenziato è insita nell’essenza stessa dell’autocoscienza: secondo questa essenza, infatti, l’autocoscienza è infinitamente, immediatamente, il contrario della determinatezza in cui è posta. L’esposizione del concetto di questa unità spirituale nella sua duplicazione ci presenta il movimento del riconoscimento.

     La difficoltà di lettura del testo della Fenomenologia dello Spirito è evidente: va presa a piccole dosi: Hegel sostiene che il riconoscimentoreciproco non solo segna il passaggio dallo stato di natura allo Stato civile, ma soprattutto indica il passaggio dalla naturalità allo spirito. La persona così com’è, con i suoi bisogni, con i suoi istinti, con le sue tendenze, è un essere naturale che tende a impossessarsi delle cose e cerca in esse la propria soddisfazione, ma, afferma Hegel, la persona si sente realizzata solo ponendosi in una relazione di mutuo riconoscimento con un’altra autocoscienza.

     E ora con un volo (sulle ali del ricordo di Agenore di Tiro e di Erodoto) ci spostiamo dalla Mitteleuropa di Hegel alla Magna Grecia. Siamo, ancora una volta, in un paese della Sicilia: perché siamo qui, e che cosa c’entra Hegel, che cosa c’entra la Fenomenologia dello Spirito? Quest’opera c’interessa soprattutto in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Un poeta del Settecento ha cantato: «A Miniu li pueti a ccientu a ccientu » (A Mineo sono nati centinaia di poeti), per esaltare la fecondità di ingegni letterari del suo paese: Mineo. Mineo è una cittadina non lontana da Catania, e a Mineo è nato nel 1839, ed è morto nel 1915, uno scrittore: Luigi Capuana che incontriamo questa sera sul nostro itinerario. Che cosa c’entra Luigi Capuana con Hegel e con la Fenomenologia dello Spirito?

     Prima di rispondere a queste domande, visto che siamo qui, facciamo due passi per Mineo: può darsi che in paese ci sia qualche indizio utile per rispondere alle domande che ci siamo fatti. Il paese di Mineo si trova a 511 metri, arroccato sull’orlo nord occidentale dei monti Iblei. Occupa il luogo dell’antica Mene, fondata da Ducezio re dei Siculi nel V secolo a.C.. A Mineo si possono ancora trovare avanzi di mura megalitiche e di tombe, che hanno fornito materiale al Museo di Siracusa. Nel medioevo Mineo è stata sempre città demaniale e importante centro fortificato posto sulla sommità di due colli. Si entra in paese dalla settecentesca  porta Adinolfo, e in breve ci si trova sulla grande piazza Buglio dove c’è il Municipio, la chiesa gesuitica di S. Tommaso e l’antica Loggia comunale, che oggi è sede del circolo di cultura dedicato allo scrittore Luigi Capuana e sul fondo della piazza c’è il monumento a Luigi Capuana.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

A Mineo ci sono tanti monumenti (chiese, palazzi …) e quindi si consiglia di leggere le pagine dedicate a questa cittadina che si possono trovare sulla guida della Sicilia, o sulla rete:  buon viaggio…

     A noi, questa sera, interessa la Chiesa di Sant’Agrippina che si trova sulla piazza, omonima, di Sant’Agrippina che è la patrona del paese. La chiesa di Sant’Agrippina è stata ricostruita dopo il terremoto del 1693 su un edificio trecentesco il quale a sua volta era costruito su un più antico edificio sacro. In una cappella della chiesa, posta in una nicchia, c’è la statua in legno policromo di Sant’Agrippina del 1500, attribuita a Vincenzo Archifel.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il nome Agrippina non si concilia molto con la figura di una santa: chi sa qual è la storia di Sant’Agrippina?… Prova a fare una ricerca utilizzando l’enciclopedia o una raccolta di agiografie (le vite delle sante e dei santi) che puoi trovare in biblioteca o sulla rete… 

     A noi interessa il nome Agrippina e siamo a Mineo proprio per incontrare Luigi Capuana il quale ha utilizzato questo nome per dare forma poetica a uno dei suoi personaggi: uno dei più importanti personaggi femminili della letteratura italiana. E dove lo troviamo il personaggio di Agrippina? Andiamo con ordine.

     A Mineo, e alla campagna di Villa Santa Margherita, dove la sua famiglia possiede le terre, lo scrittore Luigi Capuana è sempre rimasto legato. Capuana rievoca questa terra con grande affetto nelle sue opere: nei Ricordi d’infanzia (usciti postumi nel 1922), e di questa terra ne fa lo scenario dei suoi romanzi: Scurpiddu (1898) e Cordella (1907), di molte novelle e soprattutto del suo romanzo più noto, Il marchese di Roccaverdina (1901). Della poesia e del folclore della sua terra Capuana è sempre stato un appassionato cultore, dalla giovinezza fino alla tarda età. A Mineo, durante la spedizione garibaldina del 1860, Capuana è stato segretario del comitato insurrezionale; nel 1870, a Mineo, è stato ispettore scolastico, poi consigliere comunale e per due volte sindaco, nel 1872 e nel 1885. Capuana è stato un ottimo sindaco, tanto che i suoi concittadini lo hanno ricordato, per lungo tempo, più come sindaco provvido e intelligente che come scrittore. Ma Capuana non vive sempre a Mineo, ci torna nel 1902 per rimanervi sino alla morte.

     Luigi Capuana fa parte della grande triade degli scrittori veristi siciliani (con Giovanni Verga e Federico De Roberto). Di questi tre, Capuana è stato il più irrequieto, il più giramondo, il più eclettico. C’è episodio particolarmente illuminante in questo senso: negli anni in cui ha frequentato l’università a Catania, il giovane Capuana diventa collaboratore ed amico di Lionardo Vigo, uno studioso che ha messo insieme un’ampia raccolta di canti popolari siciliani per dimostrare l’esistenza – sulla scia della Scuola poetica Siciliana fondata da Federico II alla meta del 1200 – di una lingua siciliana autonoma dal volgare toscano che sarebbe diventato la lingua nazionale. Per avvalorare la tesi di Vigo, lo studente Capuana comincia e contraffare con grande abilità canti popolari siciliani che spaccia come testi d’epoca normanna. In uno di quei canti inserisce addirittura un verso di Dante: «Donne c’aviti intellettu d’amuri». Questi documenti sono così ben contraffatti che anche i dottissimi studiosi di letteratura, come Alessandro D’Ancona, cadono nel tranello e disquisiscono a lungo se il celebre verso della canzone «Donne ch’avete intelletto d’amore» sia una reminiscenza, in Dante, dell’anonimo poeta siciliano, o se il verso siciliano sia un calco di quello dantesco. Questo episodio illustra molto bene l’intraprendenza, l’estro, l’esuberanza, la vitalità che Luigi Capuana ha messo nella sua attività letteraria per oltre cinquant’anni.

     Capuana è stato romanziere, novelliere, drammaturgo, poeta, giornalista, critico letterario e teatrale, studioso e teorico di estetica, di sicilianistica, scrittore di fiabe e novelle per ragazzi e anche di libri per la scuola, si è interessato di fotografia, di incisione, di ceramica e persino, con particolare interesse, di spiritismo.

     Nel 1864, vincendo con ostinazione l’opposizione dei familiari, Capuana lascia l’università di Catania dove è studente (un mediocre studente) alla facoltà di Legge e si trasferisce a Firenze: vuole seguire la sua vocazione letteraria e trova un posto come critico teatrale al quotidiano La Nazione e su La Nazione pubblica la sua prima novella, Il dottor Cymbalus, la prima di una serie di circa 300 novelle. A Firenze frequenta gli artisti del Caffè Michelangiolo, il caffè dei macchiaioli, e nei salotti letterari conosce Gino Capponi, l’Aleardi, il Prati e anche il suo compaesano Giovanni Verga (di cui diventa amico fraterno). Capuana a Firenze legge le opere di Balzac e di Émile Zola e conquista una solida autorevolezza come critico teatrale. Dopo un ritorno a Mineo Capuna riparte, e questa volta va a Milano dove viene assunto come critico teatrale al Corriere della Sera.

     Nel 1879 esce la prima edizione del suo primo romanzo importante, Giacinta, che fa scatenare un vivace dibattito, per l’argomento un po’ scabroso, sulla corrente verista. Nel 1888 Capuana si trasferisce a Roma dove viene chiamato a insegnare letteratura italiana alla facoltà di magistero: rimane a Roma più di tredici anni. A Roma conosce D’Annunzio, Pirandello, incontra Zola, e anche la signorina Adelaide Bernardini, che sposerà più tardi a Catania (testimone Giovanni Verga).

     Nel 1902 l’università di Catania propone a Capuana la cattedra di Lessicografia e Stilistica, lui accetta e torna in Sicilia. Nel 1914 viene messo a riposo per raggiunti limiti di età e l’anno dopo muore.

     Come abbiamo detto, Luigi Capuana ha prodotto moltissime opere (l’elenco è lunghissimo: romanzi, novelle, saggi, articoli) fra le quali il romanzo Il marchese di Roccaverdina (1901). Sulle Storie della Letteratura possiamo leggere che Capuana ha messo in chiara luce la sua personalità di critico e di scrittore nell’affermazione dell’estetica hegeliana. Che cosa significa? Abbiamo appena studiato l’importanza del passaggio dalla coscienza all’autocoscienza, e sappiamo che questo passaggio avviene attraverso una serie di figure che abbiamo studiato.  Le figure, che Hegel propone, sono presenti nel nostro spirito individuale e corrispondono alle tappe (alle stazioni) che lo Spirito universale ha già compiuto nella Storia e che ciascuna persona deve ripercorrere perché la coscienza assurga all’autocoscienza. La persona deve mettere a fuoco queste figure presenti nella coscienza individuale perché la loro messa a fuoco permette l’adesione con lo Spirito universale, la presa d’atto dell’autocoscienza. Qual è, allora, il ruolo dell’Arte, della letteratura, secondo l’estetica hegeliana? Le Arti, la Letteratura, devono favorire il manifestarsi delle figure perché, nel passaggio da una figura all’altra, la coscienza assurga all’autocoscienza verso il Sapere assoluto.

     Il romanzo intitolato Il marchese di Roccaverdina è un esempio significativo dell’applicazione dell’estetica hegeliana in letteratura. Le figure più importanti espresse da Hegel nel terzo capitolo della Fenomenologia dello Spirito emergono nel testo di Capuana: la figura del padrone e del servo, la figura dello stoicismo, la figura dello scetticismo, la figura della coscienza infelice s’intrecciano nel testo del romanzo in modo che la lettrice e il lettore possano compiere un itinerario propedeutico dalla coscienza all’autocoscienza.

     Chi è il marchese di Roccaverdina? Il marchese di Roccaverdina vive nelle sue terre di Sicilia, con la prepotenza, la cocciutaggine, gli arbitri dei suoi bisavoli che furono soprannominati i Maluomini. Nel palazzotto dove abita solo con la vecchia balia, mamma Grazia, egli ha tenuto con sé per dieci anni Agrippina Solmo, una contadina che ha dedicato al padrone la sua gioventù e la sua bellezza con animo di innamorata come se fosse una schiava (la figura del servo e del padrone). Il marchese non la vuole sposare per non correre il rischio di disonorare il suo nobile casato, e Agrippina (è una figura stoica) capisce questo fatto e accetta questa situazione. Allora il marchese la dà in moglie a un suo devoto fattore, Rocco Criscione, esigendo però che entrambi giurino davanti al crocifisso di vivere come fratello e sorella. Quando però, qualche tempo dopo le nozze, gli nasce il dubbio che Rocco e Agrippina abbiano violato il giuramento, il marchese si apposta di notte dietro una siepe e, mentre Rocco Criscione passa sulla mula, lo uccide con una fucilata. Del delitto viene accusato Neli Casaccio, che già aveva minacciato Rocco perché apparentemente gli insidiava la moglie.

     A questo punto inizia il romanzo che è la storia della lotta segreta e feroce fra il marchese e il suo rimorso (scetticismo e coscienza infelice s’intrecciano). Questo antefatto rivive, riflesso come in uno specchio stregato, nella coscienza del marchese che cerca di liberarsene prima nella confessione, e, quando l’assoluzione gli viene negata, col negare ogni fede religiosa.

     Dopo il delitto il marchese decide di sposare Zosima Mugnos che ha amato nell’adolescenza e che ora vive con la madre e la sorella in miseria. Anche Agrippina passa a seconde nozze con un pastore dei monti mentre il marchese si dà a una vita piena di attività ma il ricordo del suo delitto ritorna a lui di continuo: nell’immagine di un Crocifisso abbandonato nei mezzanini della casa, nei discorsi sullo spiritismo dell’avvocato Aquilante, nei racconti dei contadini che vedono riapparire Rocco sul luogo dell’assassinio.

     Lo scenario del racconto è un paese, Ràbbato, arso e immiserito (fa ricordare Macondo di Cent’anni di solitudine) da sedici mesi di siccità che screpola la terra, che fa morire persone e bestie. L’angoscia che scaturisce dalla coscienza infelice del marchese si confonde con l’attesa della pioggia che i fedeli invocano in processione, flagellandosi. Finalmente le nubi salgono sul cielo di Ràbbato e la pioggia scroscia, la terra verdeggia e fiorisce, Zosima diviene marchesa di Roccaverdina, l’innocente Neli Casaccio muore in carcere, muore anche don La Giura, il prete che in confessione ha conosciuto il delitto del marchese: ma il marchese, sebbene libero da ogni timore e da ogni testimone, non può sottrarsi al suo giudice segreto che lo assedia e lo spinge alla pazzia. Zosima, che dalla follia del marito apprende il suo delitto, lo abbandona. A soccorrerlo, pietosa, stoica, accorre vicino a lui, Agrippina, che gli sta al fianco finché alla pazzia furiosa succede il silenzio perché il padronediventa ebete e nei suoi occhi spiritati si legge solo il presentimento della morte: i ruoli s’invertono e Agrippina, da serva, diventa la padrona della situazione.

     Leggiamo l’incipit, l’inizio di questo romanzo:

LEGERE MULTUM….

Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina (1901)

 «C’è l’avvocato,» annunziò mamma Grazia affacciandosi all’uscio.

E siccome il marchese non si voltò né rispose, la vecchia nutrice, fatti pochi passi nella stanza, esclamò:

«Marchese, figlio mio, sei contento? Avremo finalmente la pioggia!»

Infatti lampeggiava e tuonava da far credere che tra poco sarebbe piovuto a dirotto, e già rari goccioloni schizzavano dentro dall’aperta vetrata del terrazzino. Il marchese di Roccaverdina, con le mani dietro la schiena, sembrava assorto nel contemplare lo spettacolo dei fitti lampi che si accendevano nell’oscurità della serata, seguiti dal quasi non interrotto reoboare dei tuoni.

«C’è l’avvocato,» replicò la vecchia accostandosi.

Egli si riscosse, guardò la nutrice e parve percepisse soltanto dopo alcuni istanti il suono della voce di lei e il senso delle parole.

«Fallo entrare,» rispose.

Poi, all’atto della vecchia che accennava di voler chiudere la vetrata, soggiunse:

«Chiudo io.»

Si udì subito lo sbattere di pochi goccioloni su i vetri che tremavano scossi dall’aria agitata dalla ondulazione dei tuoni.

La tavola era sparecchiata. Un lume di ottone, a quattro becchi, illuminava scarsamente la stanza. Il marchese non poteva soffrire il petrolio, e continuava a servirsi degli antichi lumi a olio per l’uso d’ogni sera. Soltanto nel salotto, e perché gli erano stati regalati dalla baronessa di Lagomorto, sua zia paterna, si vedevano due bei lumi di porcellana, a petrolio; ma non venivano accesi quasi mai. Egli preferiva le grosse candele di cera dei candelabri di argento a otto bracci, che ornavano colà le consolli dorate, nelle rarissime circostanze in cui doveva ricevere qualche persona di conto.

Con l’avvocato Guzzardi non occorreva. Era di casa, veniva a tutte le ore; entrava fino in camera, se il marchese si trovava ancora a letto.

All’infoschirsi del viso, si sarebbe detto che quella visita, a quell’ora, con quel tempaccio, non riuscisse molto gradita al marchese.

Rimasto in piedi, accigliato, mordendosi le labbra, affondando le dita tra i folti capelli neri, egli si era voltato verso l’uscio, attendendo. L’avvocato gl’incuteva una specie di paura da che si era dato agli esperimenti spiritici. Un giorno o l’altro, quei diabolici esperimenti, povero avvocato, lo avrebbero fatto ammattire! Fortunatamente, fin allora, la sua intelligenza si era conservata benissimo, per ciò il marchese continuava ad affidargli tutte le sue liti e tutti i suoi affari.

A Ràbbato, dove trovarlo un altro avvocato più esperto e più onesto di don Aquilante Guzzardi? Bisognava prenderlo così com’era, con quelle sue stravaganze, che infine provenivano da troppa dottrina. Latinista, grecista, filosofo, teologo, giureconsulto, egli era tenuto meritatamente in grandissima stima anche nei paesi vicini. «Peccato che sia ammattito per gli Spiriti!» dicevano tutti. Il marchese non era giunto ancora ad esclamare così; ma quelle magherìe, come le chiamava, lo impensierivano per l’avvenire. E quantunque egli fosse incerto se si trattasse di operazioni diaboliche o di fantasticaggini e allucinazioni, non poteva difendersi dal senso di paura che in quel momento lo turbava più forte, forse perché il vento, i lampi e i tuoni imperversanti fuori influivano su i suoi nervi e accrescevano l’effetto della solita e invincibile impressione.

Quando l’alta e magra figura dell’avvocato comparve su la soglia dell’uscio, quasi ritagliata sul fondo dell’altra stanza rischiarata dal lume portato a mano da mamma Grazia, il marchese si sentì correre un lieve brivido ghiaccio da capo a piedi.

Visto a quel modo, gli parve più alto, più magro, più strano, con la scialba faccia interamente rasa, col lungo collo fasciato dal nero fazzoletto di seta, le cui punte formavano un piccolo nodo davanti, con le falde dell’abito nero che gli scendevano oltre il ginocchio, coi calzoni neri quasi aderenti alle secche e interminabili gambe, con quelle stecchite braccia che si agitavano in ossequioso saluto:

«Buona sera, marchese!»

Anche la voce, che sembrava uscisse dalle profonde cavità dello stomaco, parve più cupa dell’ordinario al marchese, che rispose con un cenno del capo e un gesto della mano invitante a sedere.

«Pareva dovessimo avere chi sa che tempesta, eh? E invece!…» esclamò don Aquilante. «Per questo non ho voluto rimettere a domani la buona notizia che posso recarvi.»

E appena il marchese si era seduto dal lato opposto della tavola, don Aquilante riprendeva:

«Finalmente ci siamo!»

Il marchese spalancò gli occhi, interrogando.

«Neli Casaccio sarà arrestato questa notte.»

«Ma!…» fece quegli.

La voce gli moriva improvvisamente nella gola.

«La deposizione della moglie di Neli ha finito di convincere il giudice istruttore. Il mandato di arresto è stato firmato quattr’ore fa e consegnato al brigadiere dei carabinieri. Vedete, marchese, se io m’ingannavo nelle mie induzioni!»

«Che cosa ha detto quella donna?»

«Ha confermato le testimonianze di Rosa Stanga, di Paolo Giorgi, di Michele Stizza. Neli aveva esclamato più volte: Se Rocco Criscione non smette gli faccio fare una fiammata! E quando si convinse che non smetteva d’insidiargli la moglie Tutto si spiega, tutto è chiaro ora; e possiamo ricostruirci la scena. Egli lo ha atteso su la strada di Margitello, nascosto dietro la siepe di fichi d’India, dove la strada fa gomito. Era passato da Margitello la mattina, fingendo di cacciare da quelle parti. Salute, compare Neli. Salute, compare Rocco. C’è la testimonianza del bovaro. Se stasera tornate a casa, potrò ripassare da qui; faremo la strada assieme. Non vi scomodate, compare; tornerò molto tardi. Abbiamo pure la testimonianza del garzone di Santi Dimaura, che udì queste parole e intervenne nel discorso dicendo: La vostra mula sa la strada meglio di voi, e non ha paura dei fanghi di Margitello. Con la mia mula andrei anche all’inferno! rispose Rocco. E dicono che la strada sia peggio. In paradiso dobbiamo andare, con la grazia di Dio! Risposto così, Neli Casaccio si allontanò, chiamandosi dietro il cane. Egli stesso ha deposto che il garzone di Santi Dimaura ha detto la verità. Il garzone non ha saputo riferire se l’intonazione di quelle parole sia stata semplice, naturale o con qualche accento d’ironia: ma l’ironia ha dovuto esservi. Rocco scherzando, parlava della strada dell’inferno, e Neli parlava  del paradiso, per non dire apertamente: Ti manderò all’inferno io questa notte!”»                                         

«Nessuno però ha visto Neli Casaccio.»

«Capisco; voi, marchese, vorreste la certezza assoluta. In questo caso non ci sarebbe stato bisogno del giudice istruttore, né di tanti testimoni per raccogliere un indizio qua, un altro là e aggrupparli, confrontarli, svilupparli. Neli Casaccio è furbo. Cacciatore di mestiere: figuriamoci! Ma è spaccone, ha lingua lunga. Gli faccio fare una fiammata! Quando alla minaccia segue il fatto, che cosa si può chiedere di più?»

Parlando, don Aquilante aggrottava le sopracciglia, storceva le labbra, sgranava gli occhi, agitava le braccia, tenendo combaciati l’indice e il pollice delle due mani e allargando le altre dita con gesto dimostrativo, da uomo che vuole aggiungere evidenza alle sue ragioni. E incupita la voce nel pronunziare queste ultime parole, si era arrestato, fissando in viso il marchese che lo guardava con occhi smarriti, pallidissimo, umettandosi con la lingua le labbra inaridite.

«È venuta da me, l’altra mattina, la povera vedova di Rocco» rispose don Aquilante, vedendo che il marchese stava zitto.

«Sembrava la Madonna Addolorata: Non avrò pace fino a che gli assassini di mio marito non saranno in galera!”»

«Perché dice: assassini?» domandò il marchese.

«Perché lei crede che siano stati più di uno.»

«Il colpo di fucile è stato uno solo.»

«Che ne sappiamo? Uno quello che ha ucciso. E nessuno ha udito, nella notte, neppure quel colpo.»

Don Aquilante socchiuse gli occhi, scosse la testa e fece una lunga pausa.

Di tratto in tratto, quasi spruzzati per forza, pochi goccioloni sbattevano sui vetri simili a chicchi di grandine; ma i tuoni rimbombavano con lunghi echeggiamenti, tra le grida di gioia della povera gente smaniante per la pioggia nelle scoscese viuzze attorno alla vasta casa dei Roccaverdina, isolata da ogni lato e quasi arrampicata a quell’angolo della collina di Ràbbato che aveva in cima le torri dell’antico castello rovesciate dal terremoto del 1693.

Dalla parte del viale che conduceva lassù, la casa dei Roccaverdina aveva l’entrata a pianterreno, mentre dal lato opposto la facciata di pietra intagliata si elevava con tre alteri piani su le povere casette di gesso dalle quali era circondata. Gli altri lati a mezzogiorno e a tramontana, seguivano la ripida elevazione del terreno, e davano a chi guardava l’impressione che l’edificio si fosse sprofondato per un avvallamento della collina. Il terrazzino della sala da pranzo rispondeva a ponente, e il vento impetuoso lo investiva di faccia.

Durante la lunga pausa, il marchese aveva osservato con crescente inquietudine l’atteggiamento dell’avvocato che, tenendo socchiusi gli occhi e scotendo la testa, sembrava ragionasse da sé, sotto voce, poiché di tratto in tratto agitava le labbra quantunque non ne facesse uscire nessun suono.

«Per conto mio,» disse don Aquilante, destandosi improvvisamente dalla concentrazione che lo aveva fatto ammutire, «io sto tentando un’inchiesta più concludente dell’istruttoria del processo; ma forse è ancora troppo presto.»

«Non parliamo di queste sciocchezze scusate, avvocato se dico così,» lo interruppe il marchese.

«E avete torto!»

Don Aquilante, col viso rischiarato da un orgoglioso sorriso di compatimento, appoggiava i gomiti su la tavola, incrociava le dita delle mani e ne faceva sostegno al mento, intanto che con voce cupa e lenta riprendeva:

«L’ho veduto ieri, per la prima volta. Non ha ancora coscienza di essere morto. Accade così per tutti gli uomini materiali. Erra per le vie del paese, si accosta alle persone, interroga, s’indispettisce di non ricevere risposta da nessuno »

« va bene; ma io non amo ragionare di queste cose,» tornò a interromperlo il marchese, che però non riusciva a nascondere il suo turbamento. «Lasciamo in pace i morti.»

«Invece i morti soffrono di vedersi dimenticati. Io lo attirerò verso di me, lo interrogherò per sapere proprio da lui.»

«E quando sarete arrivato a sapere? Che valore avrà la vostra testimonianza?»

«Non voglio testimoniare, ma sapere, unicamente sapere. Ecco: io avevo già appreso, per altre vie, che l’assassino è stato uno solo, appiattato dietro la siepe di fichi d’India. Il nome!ho chiesto. Non me lo hanno potuto rivelare, per leggi inviolabili del mondo di là di cui noi ignoriamo la ragione.»

«Ah!» fece il marchese. «Ma se quel che voi volete darmi a intendere fosse vero, non rimarrebbe più nessun delitto impunito e il governo potrebbe abolire la polizia.»

«È un’altra quistione!» rispose don Aquilante.

«Lasciamo andare: non mi convincerete mai, mai, mai! E poi la Chiesa proibisce queste operazioni diaboliche. È provato che si tratta di inganni del diavolo. Vi siete lasciato invischiare, così dotto come siete. Ma già voi altri dotti incappate negli errori più di noi ignoranti…»

«Non direte così tra qualche mese!»

«Oh, vi prego di lasciarlo in pace cioè, di lasciarmi in pace!» si corresse il marchese. «Penso all’arresto di Neli Casaccio. Se il giudice istruttore si è deciso a ordinarlo…»

«La giustizia umana fa quel che può. O prove evidenti, o indizi che conducano a una prova morale; non ha altri mezzi.»

«E così, spesso, condanna qualche innocente!»

«Non lo fa a posta; errare humanum est! Ma nel caso nostro è difficile che sbagli. Rocco era un brav’omo; non aveva nemici. Chiassone, sì; donnaiolo, anche! Da che aveva preso moglie però Gli piaceva di scherzare ciò non ostante. La stessa moglie di Casaccio ha detto al giudice istruttore: Tempo fa, è vero mi si era messo attorno, non mi dava requie. Mandava imbasciate, quando non aveva occasione di parlarmi lui stesso. Ed io: Siete pazzo, santo cristiano! Non faccio un torto a mio marito. Povera, ma onesta! Poi si era chetato. E mio marito lo sapeva, e non lo minacciava piùErano tornati amici.”»

«Ha detto: si era chetato?»

«Sarà stato vero? La donna ha interesse di scusare sé e il marito.»

«Si era chetato!» mormorò il marchese.

E strizzò gli occhi, levandosi da sedere.

Respirava fortemente, quasi sentisse mancar l’aria nella stanza.

Aperti prima gli scuri dell’imposta, spalancò poi la vetrata e si affacciò al terrazzino. Don Aquilante lo raggiunse.

Dietro le nuvole diradate e sospinte dal vento, sembrava che la luna corresse rapidamente pel cielo. Al velato chiarore lunare i campanili, le cupole delle chiese di Ràbbato si scorgevano nettamente tra la bruna massa delle case affollate nell’insenatura della collina.

Tutt’a un tratto, il vasto silenzio fu rotto da una roca voce che gridava quasi imprecando:

«Cento mila diavoli al palazzo dei Roccaverdina! Oh! Oh! – Cento mila diavoli alla casa dei Pignataro! Oh! Oh! – Cento mila diavoli alla casa dei Crisanti! Oh! Oh!»

«È la zia Mariangela, la pazza!» disse il marchese. «Ogni notte così.»

E il grido riprendeva, roco, con una specie di cantilena feroce.

«Suo marito la tiene incatenata come una bestia,» rispose don Aquilante. «Dovrebbe immischiarsene l’autorità; farla rinchiudere in un manicomio.»

La pazza tacque.

Il vento aveva già spazzato le nuvole. Il temporale si era già allontanato, con gli stessi lampi che incendiavano un largo spazio di cielo, verso Aidone, dietro le colline di Barzino.

«Sempre così! Sarà un gran guaio anche quest’anno!» disse don Aquilante. «Buona notte, marchese.»

Il marchese stava per rispondere, quando un altro grido, acuto, straziante, gli arrestò le parole in gola:

«Figlio!... Figlio mio!»

«È la moglie di Neli Casaccio!» esclamò l’avvocato, voltandosi verso il punto da cui il grido veniva. «I carabinieri sono andati ad arrestarlo. Guardate, là, nella Piazzetta delle Orfanelle»

Al chiarore della luna, essi poterono scorgere il gruppo dei carabinieri che conducevano via l’arrestato.

E l’affettuoso grido della moglie di Neli Casaccio vibrò di nuovo dolorosamente, nell’oscurità, tra il sibilare del vento che riprendeva violentissimo.

«Figlio! Figlio mio!»

     Nella biografia di Luigi Capuana troviamo qualcosa che fa da spunto autobiografico per comporre questo romanzo. Capuana descrive in modo incomparabile il rimorso, cioè la consapevolezza tormentosa del male commesso, per cui non possiamo fare a meno di pensare che lui abbia vissuto, nella sua coscienza, qualcosa di simile a quello che prova (chi è che non ha provato rimorsi in vita sua?), in modo molto più drammatico, il marchese di Roccaverdina. Sappiamo che dal 1875 al 1892 lo scrittore ha avuto una relazione con Giuseppina Sansone, una giovane domestica che serviva in casa Capuana. Giuseppina (che ricalca il personaggio di Agrippina) viene poi sistemata con un matrimonio di convenienza, con un suo pari, anche con il suo consenso perché neppure per lei (come per Agrippina che è vittima) è concepibile uscire dal suo stato subalterno. Per Capuana non si è trattato di una relazione superficiale: a Giuseppina Sansone, che era analfabeta, lo scrittore ha indirizzato (c’è un epistolario) lettere appassionate e per lei ha composto versi d’amore scritti in dialetto.

     Stupisce, in un uomo di sensibilità e moralità moderne come Capuana, un simile comportamento di tipo feudale, dove il sentimento si scontra con le durezze delle differenze di classe. Il fatto è che il sistema delle baronìe è talmente forte che non è facile da scalfire, è durato a lungo e, sotto forme diverse, permane ancora oggi. Capuana ha il merito di dare una testimonianza letteraria nella quale si denuncia, in modo netto, e s’impone una riflessione su questo sistema, ma chi legge?

     La figura della coscienza infelicefa emergere il tema della Ragione. Che cos’è la ragione secondo Hegel, e qual è l’itinerario della ragione verso il Sapere assoluto? La Ragione è l’argomento che conclude la prima parte (la parte teorica) della Fenomenologia di Hegel ed introduce alla seconda parte (di carattere pratico) dove emerge il tema dello Spirito. Questi temi – la Ragione e lo Spirito – li tratteremo nel prossimo itinerario: l’ultimo itinerario di quest’anno scolastico (in realtà c’è ancora un breve itinerario – il trentesimo – che si svolgerà nel corso delle tradizionali cene di fine anno).

     Il prossimo itinerario ci porterà a fare, ancora, un rapido viaggio nell’Atene del VI secolo a.C. e anche un rapidissimo viaggio, addirittura, nella Cina del VI secolo a.C. (ma la Cina è vicina) in una città che viene considerata l’Atene del fiume Giallo.

     Fate salire la coscienza sul gradino dell’autocoscienza responsabile e correte a Scuola

     La Scuola è qui per l’ultima tappa di quest’anno scolastico 2006-2007

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 25, 2007