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LO SGUARDO DI ERODOTO SULL’ORIGINE DELLA “SAPIENZA POETICA”…

Lezione N.: 
3

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sguardo di Erodoto 2006          25-26-27  ottobre  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULL’ORIGINE DELLA “SAPIENZA POETICA”…

     La nave Sidonia, pilotata dal capitano Agenore di Tiro, ci ha trasportato, seguendo la rotta est-sud est, dal porto dell’antica Sibari fino alle coste dell’Antica Ionia. L’Antica Ionia è la zona geografica più a ovest della Grecia ed è formata da isole, le isole Ionie, bagnate dal mar Ionio, queste isole sono: Corfù, Léucade, Cefalonia, Zante (o Zacinto), insieme alla più piccola delle isole Ionie,che si chiama Itaca e che si trova tra Cefalonia e la costa. Tutti abbiamo sentito nominare Itaca perché quest’isola fa parte, oltre che della geografia, anche del mito e quindi del nostro immaginario e la si pensa un po’ fuori dalla realtà. Ma Itaca esiste davvero ed è una terra concreta anche se la sua ragion d’essere sta soprattutto nella metafora, nel simbolo, nell’allegoria che rappresenta: Itaca è geografia ma soprattutto è poesia, è un luogo poetico, è un parco letterario, è un paesaggio intellettuale. Quindi facciamo tappa a Itaca perché Erodoto – che viaggia insieme a noi – deve parlarci di sapienza poetica.

     Che cos’è la sapienza poetica? La sapienza poetica, prima di essere il termine che definisce un movimento culturale, è un concetto fondamentale (e assai complesso) che affiora agli albori della Storia del Pensiero Umano e che poi si sviluppa in tutte le civiltà dell’Età assiale della storia: nella civiltà sumerica, nell’egizia, nell’indiana, nella cinese, nella persiana, nell’ebrea, nella greca ionica. Il concetto di sapienza poetica prende forma in rapporto al tema della ricerca del Principio della realtà, un tema (ampio e complicato) di cui abbiamo cominciato ad occuparci la scorsa settimana navigando verso est-sud est.

     Uno dei problemi che emergono (il primo problema che emerge) in relazione al tema della ricerca del Principio della realtà è quello di descrivere, di raccontare, le origini dell’Universo. Come si è formato, in che modo, come è nato, quando è nato, come è stato creato (se è stato creato) e da chi è stato creato l’Universo e soprattutto perché è stato creato? Queste domande – noi ci poniamo questi interrogativi in funzione della didattica della lettura e della scrittura – compaiono sul piano della memoria delle origini e prendono forma in concomitanza delle parole degli albori, le parole che si trovano al primo piano dell’albero genealogico lessicale (le conosciamo a memoria): paura-bisogno, ritmo-ciclo, rete-rito, cerimonia-racconto.

     È chiaro che nessun essere umano può avere memoria dell’avvenimento, degli avvenimenti legati alle origini; e l’idea delle origini, affermano gli studiosi, viene elaborata in relazione alle parole-chiave degli albori: l’homo sapiens, quando capisce che le cose e gli esseri viventi hanno una fine, affronta la paura determinata da questa situazione (fronteggia il trauma della morte individuale) coltivando il bisogno di definire anche l’origine oggettiva dell’Universo per dare un senso alla fine soggettiva: «Io muoio – pensano le nostre antenate e i nostri antenati – ma mi consolo (me ne faccio una ragione) pensando al fatto che tutto ciò che ha avuto un’origine avrà anche una fine».

     Il tema delle origini, nel tempo degli albori, viene affrontato nel contesto dell’osservazione dei ritmi e dei cicli della Natura: esistono nella Natura, si domandano i progenitori, delle tracce che indicano gli avvenimenti delle origini? Si possono riconoscere nella Natura, si domandano i progenitori, i segni delle origini? E quali segni, appartenenti alle origini, hanno colto i nostri progenitori nella Natura? Nella Natura si palesano, si manifestano, senza dubbio, i concetti della fine e dell’inizio, i quali inducono alla riflessione e allo sviluppo dell’immaginazione. Se le cose e gli esseri viventi, nella loro singolarità e soggettività all’interno del grande crogiuolo della Natura, sono destinati ad un principio e ad una fine, e se il principio e la fine sono riconoscibili e catalogabili, probabilmente ci sarà anche stato un inizio, un punto di partenza dal quale tutto l’Universo si è messo in moto (e probabilmente ci sarà anche una fine). Ma di questo inizio, di questo punto di partenza, non si può, non si riesce ad avere memoria: l’inizio, il punto di partenza, può essere solo immaginato e può essere raccontato.

     Dalla codificazione dei ritmi e dei cicli della Natura, sostenuta dalla riflessione e dall’immaginazione, nasce la rete dei Racconti delle origini i quali si sviluppano oralmente in concomitanza ai riti e servono per dare alle cerimonie della comunità. un contenuto mitico, fantastico, leggendario. Il tema delle origini provoca la nascita (questo è il dato che c’interessa in un Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura) del primo significativo genere letterario della storia della cultura: il racconto cerimoniale, mitico, fantastico, leggendario, fiabesco. L’avvenimento delle origini viene pensato, viene immaginato, durante l’Età degli albori, come un momento molto importante, decisivo, per la storia della comunità. Una comunità si sente legittimata ad esistere quando ha una visione delle origini. Se la comunità possiede, se è depositaria di un’immagine del Principio, si sente destinata ad avere una continuità e la continuità è uno dei massimi valori nell’Età degli albori tanto per i singoli che per i gruppi (pensiamo al valore dato alle genealogie dell’Antico Testamento e al fatto che nella lingua greca di Erodoto la parola “continuità” corrisponda al termine cronos, che è la stessa parola che definisce il tempo che passa, che definisce la durata).

     La continuità viene evocata, viene propiziata e si manifesta nella celebrazione ripetitiva dei riti e delle cerimonie che hanno come fondamento il racconto della mitica visione delle origini e la rappresentazione dell’immagine fantastica del Principio. Il tema della ricerca delle origini non conduce alla messa a fuoco (se non nell’immaginazione) del Principio, ma porta alla scoperta e alla definizione del concetto del tempo che passa (cronos) e dell’idea della durata, della costanza, della linearità, della stabilità.

     L’avvenimento delle origini viene quindi concepito, durante l’Età degli albori, come un momento decisivo per la storia della comunità e, di conseguenza, per narrare questa situazione straordinaria, viene creato un linguaggio straordinario. Il linguaggio (abbiamo detto la scorsa settimana) risulta lo strumento per eccellenza nella società e risulta anche lo strumento necessario in relazione allo sviluppo del tema delle origini (Per Erodoto il linguaggio è “in principio”). I cantori delle origini devono inventare parole speciali, devono produrre forme lessicali particolari, costrutti linguistici seducenti per argomentare su una questione (il tema dell’origine dell’Universo) che risulta essere fondamentale per dare un senso alla vita degli esseri umani che si riconoscono in una collettività.

     I Racconti cerimoniali – mitici, fantastici, leggendari, fiabeschi – che narrano le origini dell’Universo danno vita al repertorio culturale più importante dell’Età degli albori nel quale prendono forma i primi paesaggi intellettuali della Storia del Pensiero Umano. I repertori dei Racconti mitici sulle origini caratterizzano la successiva Età assiale della storia: ed è così che, nel periodo dell’Età assiale della storia (2500 anni fa), troviamo una significativa fioritura di opere, di testi scritti, che descrivono, raccontano, argomentano, sul tema delle origini dell’Universo.

     Nel periodo dell’Età assiale della storia (2500 anni fa) gli scrivani (la prima significativa categoria di intellettuali che conosciamo, e che sono presenti in tutte le culture spesso ai vertici dello Stato) raccolgono per iscritto ciò che i “cantori” dell’Età degli albori hanno raccontato oralmente sulla comparsa, la nascita, la creazione dell’Universo. Questa straordinaria operazione culturale ci lascia un patrimonio di opere letterarie di inestimabile valore linguistico, poetico, sapienziale. Queste opere (i testi dei grandi Racconti delle origini) le abbiamo incontrate e studiate in questi anni e ci capiterà di incontrarle e studiarle ancora perché sono oggetti culturali di fondamentale importanza in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Tra le opere che descrivono e raccontano le origini dell’Universo possiamo citare: il poema sumero Enuma Elish (Lassù nell’alto dei cieli); il papiro egizio teologico-chirurgico Edwin Smith; gli Inni dei libri dei Veda, i libri della Sapienza indiana; I detti del libro cinese del Tao; gli Avesta, le composizioni liriche raccolte da un discepolo di Zarathustra; il libro biblico della Genesi; queste opere (ne abbiamo citate alcune che abbiamo studiato a suo tempo) hanno tutte la caratteristica di essere composizioni poetiche di grande valore letterario. Queste opere ipotizzano, descrivono e raccontano la creazione e la nascita dell’Universo con un linguaggio poetico il quale risulta molto significativo perché non serve solo a rendere bella e seducente la composizione ma perché sa esprimere tutta la complessità e la problematicità della questione delle origini. Il linguaggio poetico dei grandi Racconti delle origini riporta riflessioni e interrogativi esistenziali che aprono la strada a quello che viene chiamato l’esercizio del commento sapienziale, il movimento della sapienza poetica.

     Ci si occupa del tema delle origini perché questa ricerca (la tensione verso la conoscenza) fa crescere il livello della sapienza e il tasso di saggezza nella società. Ricordiamo, per esempio, come nel libro della Genesi, dopo aver raccontato la creazione, il testo faccia un’affermazione significativa: «Questo è il racconto, questo è il midrash della creazione» si legge al versetto 4 del capitolo 2°; e la parola midrash, nella lingua ebraica del Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia), significa racconto cerimoniale e anche esercizio di sapienza poetica.

LEGERE MULTUM….

Genesi  2  1-4

Così Dio completò il cielo e la terra e ciò che vi si trova: tutto era in ordine.

Il settimo giorno, terminata la sua opera, Dio si riposò.

Il settimo giorno aveva finito il suo lavoro.

Dio benedisse il settimo giorno e disse: «È mio!».

Quel giorno si riposò dal suo lavoro: tutto era creato.

Questo è il racconto (midrash) delle origini del cielo e della terra quando Dio li creò.

     Questo versetto appartiene al codice Sacerdotale, al codice Preister, (uno dei quattro codici – Javistico, Eloistico, Deuteronomico e Sacerdotale – che, ricuciti insieme, formano il libro della Genesi): chi ha scritto (chi ha cucito/rapsodiato) questo testo si è premurato di mettere in chiaro che non è il resoconto storico della creazione (chi, in origine, poteva essere lì a testimoniare?), ma è un midrash, è un racconto cerimoniale, un esercizio di sapienza poetica, cioè un’allegoria da interpretare in chiave etica: siamo di fronte ad un esempio di commento sapienziale.

     E così ricordiamo ancora, per esempio, i significativi interrogativi che troviamo (li abbiamo letti anche le scorso anno) nel testo degli Inni vedici (sapienziali) della cultura indiana:

LEGERE MULTUM….

Inni vedici

I saggi trovarono la connessione dell’essere nel non essere cercando con riflessione

nel loro cuore. Chi veramente sa, chi può qui spiegare da dove è originata,

da dove viene questa creazione? Gli dèi sono posteriori alla creazione di questo mondo; perciò chi sa dove essa è avvenuta?

Come è avvenuta questa creazione, se l’ha prodotta o se no, colui che di questo mondo è il sorvegliatore nel cielo supremo, egli certo lo sa, oppure non lo sa?

     Siamo di fronte ad un esempio di commento in cui si esplica, in modo molto significativo, il concetto della sapienza poetica.

     I Racconti sulle origini, con un linguaggio poetico-sapienziale, narrano la creazione, la nascita, la comparsa dell’Universo e degli esseri umani, in modo da rendere problematica la questione della ricerca del Principio. Le affermazioni e gli interrogativi esistenziali che emergono dal linguaggio poetico-sapienziale aprono la strada ai primi grandi commenti, alle prime significative interpretazioni, alle prime esercitazioni esegetiche da cui parte la Storia documentata del Pensiero Umano. Gli intellettuali che vivono a ridosso dell’Età assiale della storia – ed Erodoto è uno dei protagonisti di questa stagione culturale (e Le Storie di Erodoto sono da considerarsi un capolavoro di sapienza poetica…) – si dedicano a commentare, a interpretare, a fare l’esegesi dei Racconti sulle origini, coscienti del fatto che questi Racconti non riportano la verità. Spesso i Racconti cerimoniali vengono imposti come verità per ragioni di potere, di supremazia, di ordine pubblico, ma c’è la convinzione che non riferiscono la realtà delle cose (nessun essere umano è testimone delle origini), tuttavia gli intellettuali dell’Età assiale, e tra questi si distingue Erodoto, sono altrettanto convinti che questi Racconti contengano una sapienza, una sapienza poetica, utile soprattutto a mettere in evidenza gli interrogativi esistenziali che gli esseri umani, sul tema delle origini, si sono posti incessantemente dagli albori. Il fatto che ci si pongano interrogativi esistenziali crea movimento culturale, incentiva l’investimento in intelligenza e stimola la ricerca, e la ricerca (la tensione verso la conoscenza) fa crescere il livello della sapienza e fa elevare il tasso di saggezza nella società.

     Lo scorso anno abbiamo constatato durante i nostri itinerari di studio che ne Le Storie di Erodoto troviamo l’eco della sapienza poetica contenuta nelle opere delle grandi civiltà – sumerica, egizia, indiana, cinese, persiana, ebrea, greca ionica – dell’Età assiale della storia. Dobbiamo specificare il fatto che Erodoto non conosce – a parte i poemi della cultura greca (di Omero, di Esiodo) – il testo delle opere dell’Età assiale della storia. Gli studiosi escludono che Erodoto conosca il testo delle grandi opere dell’Età assiale della storia cioè dei poemi mesopotamici, dei papiri egizi, dei codici del Profetismo ebraico e del Pentateuco biblico, dei libri dei Veda indiani, del libro del Tao cinese, delle composizioni di Zaratustra. Tra Erodoto e il Pentateuco biblico (che al tempo di Erodoto è in formazione), tra Erodoto e i libri indiani dei Veda, tra Erodoto e il libro cinese del Tao c’è proprio una distanza fisica (Erodoto non è stato in India, non è stato in Cina), ma allo scrittore, che viaggia in Asia fino ai confini estremi della Persia, non sfugge l’eco dei frammenti culturali di queste civiltà che si percepisce sul territorio del continente asiatico e, anche inavvertitamente, Erodoto ne documenta la presenza.

     Inoltre tra Erodoto e le culture dei paesi in cui viaggia – la Mesopotamia e l’Egitto – c’è un veto di carattere religioso, di cui Erodoto parla spesso: i poemi mesopotamici (l’Enuma Elish, l’Epopea di Gilgamesh) e i papiri egizi (il papiro teologico- chirurgico Edwin Smith a Menfi) sono “testi sacri” in possesso delle caste sacerdotali e inaccessibili alla gente comune; tuttavia le parole-chiave e le idee cardine filtrano attraverso il linguaggio dei riti e delle cerimonie che Erodoto descrive e attraverso le interviste che lui fa ai Sacerdoti (soprattutto i sacerdoti egizi che, come abbiamo potuto constatare lo scorso anno, si dimostrano piuttosto restii a rispondere a quel viaggiatore greco troppo curioso).

     Diverso è il discorso per le opere della cultura greca, infatti sappiamo che Erodoto conosce molti testi della letteratura greca dell’Età assiale. Molti testi della letteratura greca sono oggetto della sua formazione culturale e fanno senz’altro parte del suo bagaglio intellettuale.

     E allora: perché siamo sbarcati sull’isola di Itaca? Siamo sbarcati a Itaca, abbiamo detto, per occuparci di sapienza poetica. E il tema della sapienza poetica, sul quale a grandi linee abbiamo puntato la nostra attenzione in relazione alle grandi civiltà dell’Età assiale della storia, nell’opera di Erodoto emerge soprattutto in relazione alla cultura greca.

     Come si presenta la sapienza poetica nella cultura greca di 2500 anni fa, in particolare nel periodo cosiddetto “ionico” della Storia della civiltà greca? Per rispondere a questa domanda non basta l’itinerario di questa sera perché dobbiamo mettere insieme molti elementi e dobbiamo svelare e fare chiarezza su una contraddizione (su un’aporia) che riguarda in generale la complessa questione dello sviluppo della sapienza poetica greca.

     Prima di rispondere a questa domanda, visto che ci troviamo a Itaca (nel cuore dell’Antica Ionia), possiamo fare una breve visita a questa isola pietrosa (come la definisce Omero) utilizzando l’atlante, l’enciclopedia, la guida della Grecia e anche la rete. Sappiamo che viaggiare sulla carta, in modo virtuale, è un utile metodo per esercitarci nella lettura (in questo caso per entrare nel cuore dell’Antica Ionia e per avvicinarci – come lettrici e come lettori – alla sapienza poetica orfica). Viaggiare sulla carta è un’esperienza culturale utile per investire in intelligenza e per preparare il viaggio reale (Itaca non è lontana).

     L’isola di Itaca è effettivamente pietrosa, nel senso che è formata da due gruppi di monti collegati tra loro dall’istmo di Aetós. Sull’isola ci sono alcune località da visitare: la prima è il capoluogo che si chiama Itháki ed è il porto principale situato in una bella baia. Questa cittadina, tutta bianca, è stata in gran parte ricostruita perché distrutta nel 1953 da un violento terremoto. Nei dintorni di Itháki troviamo luoghi che ricordano la narrazione omerica: le grotte delle Ninfe, la fontana Aretusa, la roccia dei corvi e le stalle di Eumeo.

     La seconda località da visitare si chiama Stávros che si trova a 16 km da Itháki in direzione nord-ovest: sulla strada che da Itháki conduce a Stávros si trovano molti siti archeologici scoperti recentemente. Stávros è un villaggio di pescatori dove si può visitare l’interessante Museo di Odisseo e inoltre vicino a Stávros, nei pressi della baia di Pólis, ci sono i resti dell’insediamento di Pélikata – fondato verso il 2200 a.C. e abitato fino in epoca micenea – che viene indicato come il sito dell’ipotetica reggia di Ulisse.

     Nella parte settentrionale dell’isola c’è un’altra località che si chiama Kióni e lì, andando verso nord, ci sono anche le spiagge migliori.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Abbiamo citato – situate nei dintorni di Itháki – le grotte delle Ninfe che prendono il nome da una citazione che troviamo nell’Odissea: fai un’incursione nel testo dell’Odissea al verso 105 del canto XIII… Sai quale mistero (letterario) è legato alle grotte delle Ninfe?

Fai una ricerca (è utile una guida della Grecia che puoi trovare in biblioteca …) e scrivi (se hai scoperto qualcosa) quattro righe in proposito…

     Nella cultura greca ionica il tema della sapienza poetica assume caratteristiche particolari (ci sono anche molte affinità) rispetto alle culture delle altre grandi civiltà dell’Età assiale della storia. Ne Le Storie di Erodoto il tema della sapienza poetica emerge in modo significativo ed è legato ad alcuni nomi importanti che tutti conosciamo: due nomi sono quelli di Omero e di Esiodo che corrispondono a due interessanti filoni letterari dell’epica ionica e altri tre nomi sono quelli di Dioniso, di Orfeo e di Apollo.

     Apollo è il dio della luce e della sapienza, il dio della musica e della poesia, il dio della profezia, il dio che si presenta tanto come guaritore quanto come uccisore. Orfeo e Dioniso rappresentano due modi di nominare la stessa figura, infatti Dioniso e Orfeo simboleggiano lo stesso mitico personaggio; inoltre sappiamo tutti (o quasi tutti) che il nome di Dioniso si accompagna sempre a quello di Apollo (Apollo e Dioniso viaggiano in coppia).

     Nonostante Apollo sia il dio della sapienza e della poesia, e quindi particolarmente rappresentativo nella cultura greca, noi possiamo constatare che Apollo non viene considerato da Erodoto (che lo cita nella sua opera ben 29 volte) la figura più importante in relazione alla sapienza poetica. Il nome che, nella cultura greca ionica, emerge quando si parla di sapienza poetica è quello di Orfeo: difatti si parla di sapienza poetica orfica, gli altri nomi seguono a ruota, tuttavia questa affermazione contiene una contraddizione (un’aporia): di che cosa si tratta? Il nome di Orfeo è, in generale, alla base della sapienza poetica greca anche se la stessa sapienza poetica greca, nel suo sviluppo, tende a misconoscere questa base, tende a insabbiare questo punto d’appoggio originario fondamentale.

     Prima di proseguire il nostro ragionamento dobbiamo dire che i nomi di Esiodo, di Omero, di Apollo, di Dioniso, intorno ai quali, nel testo de Le Storie di Erodoto, tende a svilupparsi il concetto di sapienza poetica sono strettamente legati al nome di Orfeo.

     I nomi di Esiodo, di Omero, di Apollo, di Dioniso rappresentano grandi paesaggi intellettuali, appartenenti non solo al territorio della sapienza poetica greca ma alla Storia del Pensiero Umano in generale; i nomi di Esiodo, di Omero, di Apollo, di Dioniso e i paesaggi intellettuali che rappresentano li abbiamo già incontrati in molti Percorsi e, in questo itinerario di studio, noi torniamo ad osservarli da vicino in funzione della didattica della lettura e della scrittura, da un’angolazione, da un punto di osservazione che ci viene dato dal testo de Le Storie di Erodoto. I nomi di Esiodo, di Omero, di Apollo, di Dioniso – con le parole-chiave, le idee-cardine e gli argomenti che contengono – spesso s’intrecciano e si sovrappongono tra loro sul sentiero dell’itinerario di studio che stiamo percorrendo, ma soprattutto i nomi di Esiodo, di Omero, di Apollo, di Dioniso, s’intrecciano e si sovrappongono al nome di Orfeo che rappresenta il paesaggio intellettuale più antico, più profondo, di quella che chiamiamo la sapienza poetica greca e quindi, di fronte a questo (complicato) intersecarsi delle tematiche, dobbiamo procedere con cautela e con pazienza (due virtù che gli studenti debbono possedere e acquisire).

     Il nome di Orfeo è il fondamento culturale tanto delle opere di Omero, quanto delle opere di Esiodo, tanto del culto di Apollo quanto dei riti di Dioniso e allora è su questo presupposto che dobbiamo cominciare a riflettere.

     Siamo a Itaca e ci siamo seduti all’ombra (a Itaca c’è quasi sempre il sole) di un platano (un platano non manca mai) nel sito archeologico di Pélikata che (come abbiamo detto poc’anzi) viene indicato come il luogo dell’ipotetica reggia di Ulisse. Dobbiamo dire che, nel sito archeologico di Pélikata, la reggia di Ulisse la possiamo immaginare con la fantasia perché nella realtà – così dicono gli archeologi – possiamo constatare (da 1000 anni a.C) la presenza di Orfeo: su quelle pietre, nei reperti ritrovati, ci sono i segni della cultura orfica.

     Così come, visitando il bel Museo di Odisseo a Stávros (ci siamo passati poco fa) possiamo ammirare degli interessanti reperti di vasellame dipinto con la solita maestria dagli artigiani ionici: le immagini dipinte raffigurano un personaggio che scende nell’Ade e poi che incanta un animale. Ebbene siamo a Itaca e la tentazione di pensare ad Odisseo, di indicare Odisseo in quelle raffigurazioni è grande (e difatti i cartellini che spiegano questi reperti, sebbene usino il condizionale, citano Odisseo), ma in realtà, ci dicono gli antichisti, le figure dipinte su quei frammenti non raffigurano Ulisse ma raffigurano Orfeo. La figura di Orfeo precede quella di Ulisse (come precede le figure di tutti gli dèi e di tutti gli eroi) e il culto religioso di Orfeo a Itaca è stato una realtà ben radicata sul territorio mentre il mito di Odisseo è una fantasia letteraria d’importazione. Il primo nome che nella cultura greca emerge quando si parla di sapienza poetica è quello di Orfeo, e anche la sapienza poetica che ha dato vita all’allegoria di Itaca è permeata dal nome di Orfeo.

     Perché quando sbarchiamo a Itaca nulla ci parla di Orfeo e tutto ci parla di Odisseo? Capiamo bene che il personaggio di Odisseo è sostenuto da un racconto potentissimo, frutto di una sapienza poetica straordinaria, ma sotto questo racconto potentissimo, alle radici di questa sapienza poetica straordinaria c’è la cultura orfica: in realtà, a Itaca, dietro la maschera di Odisseo c’è la figura di Orfeo. Questa metafora riguarda tutta la storia dello sviluppo della sapienza poetica greca: sotto le maschere (nel profondo delle opere), create dalla sapienza poetica greca durante il suo sviluppo, c’è la figura di Orfeo.

     Erodoto nel testo de Le Storie non cita mai il nome di Orfeo: perché? Perché Erodoto è figlio del suo tempo e il suo comportamento è coerente: che cosa significa che Erodoto è coerente nel non citare Orfeo? Eppure, ci dicono gli studiosi, nell’opera di Erodoto la presenza di tutto ciò che il personaggio di Orfeo rappresenta è evidentissima: la mente di Erodoto è permeata di “cultura orfica”.

     A questo punto dobbiamo subito dire, per fare chiarezza, che le opere in cui si manifesta la sapienza poetica greca (in particolare le opere di Omero e di Esiodo: quelle di cui si occupa Erodoto e di cui dobbiamo occuparci anche noi) vengono elaborate e codificate nella loro versione definitiva all’interno dello spazio culturale della polis (della città) che rappresenta il fenomeno politico-istituzionale più importante della civiltà greca (di cui parleremo ancora prossimamente). La città nasce in contrapposizione alla campagna: la polis, chiusa nelle proprie mura, estromette la campagna dal proprio interno. Il bene e il bello vengono chiusi nel recinto fortificato della polis quasi a volerli difendere dalla sofferenza e dalla disarmonia che stanno al di fuori di essa, nel mondo rurale (quello che ancora oggi la scrittore Nuto Revelli chiama Il mondo dei vinti). Nell’ideologia della polis (della città-Stato) tutto ciò che è rurale viene esautorato, il nome di Orfeo porta con sé la cultura, la mentalità, l’impostazione mentale, la visione dell’universo, la religione del mondo rurale e quindi per il nome di Orfeo, che nasce, cresce e vive nella ruralità, non c’è posto nella polis anche se, dal nome di Orfeo non si può prescindere perché senza la campagna la città non vive: e non vive tanto materialmente quanto culturalmente…

     Le opere contenenti i caratteri della sapienza poetica greca si formano all’interno della polis ma si formano anche in concomitanza di una contraddizione (di un’aporia), la sapienza poetica greca costruisce una maschera dietro la quale cerca di tenere nascosta la figura di Orfeo: la figura di Orfeo viene occultata, ma la maschera non starebbe in scena senza il supporto decisivo della figura di Orfeo.

     Il testo de Le Storie di Erodoto – ed ecco un altro motivo per leggere Erodoto – sbircia sotto le maschere create dalla “sapienza poetica greca” nel corso del suo sviluppo. Il testo de Le Storie di Erodoto solleva con curiosità le maschere dietro le quali si nasconde la figura di Orfeo. Erodoto, come al solito, quando sbircia, allude anche al fatto che lo sta facendo davvero, che sta effettivamente sbirciando sotto le maschere: non cita mai il nome di Orfeo ma rimarca – alludendo – che, alla base della sapienza poetica greca, c’è il nome di Orfeo e non si può ignorare questo nome.

     Un altro importante motivo per cui l’opera di Erodoto viene considerata di fondamentale importanza nella Storia del Pensiero Umano (oltre al fatto che contiene le parole-chiave degli albori, oltre al fatto che contiene le parole-chiave dell’Età assiale della storia) è quello di aver raccolto le parole-chiave e le idee-cardine che prendono consistenza intorno al nome di Orfeo. Infatti i poeti, gli scrittori, gli intellettuali greci, che operano nell’età degli albori e nell’Età assiale della storia compreso Erodoto, non possono fare a meno di esprimere la sapienza poetica contenuta nelle loro opere in relazione alla cultura orfica: utilizzando parole e idee di produzione orfica. Le Storie di Erodoto, affermano gli studiosi, è un’opera intrisa di cultura orfica ma soprattutto è un’opera che rivela i meccanismi (le forme intellettuali) attraverso i quali avviene l’attività di mascheramento realizzata per nascondere la contaminazione orfica.

     Con il prevalere della polis, della città, si vogliono nascondere le origini rurali. Il bello della contraddizione, il buono dell’aporia è che, quest’attività di mascheramento, realizzata per nascondere la contaminazione orfica, produce opere d’arte in quantità e di qualità.

     Che cosa significa che Erodoto rivela i meccanismi (le forme intellettuali) attraverso i quali avviene l’attività di mascheramento realizzata per nascondere la contaminazione orfica? Significa semplicemente che Erodoto è capace di mettere in evidenza (di smascherare il fatto, alludendo) che le parole-chiave principali presenti nell’opera di Omero e di Esiodo (le strutture portanti su cui si manifesta la sapienza poetica degli autori) provengono dal catalogo di base della cultura orfica. L’Orfismo sta alla base della formazione culturale e intellettuale dei Greci e quindi l’Orfismo sta anche alla base della formazione culturale e intellettuale di Erodoto.

     E allora: che cosa s’intende per cultura orfica? Questo argomento lo abbiamo incontrato molte volte sulla strada dei nostri Percorsi e ogni volta che ci troviamo di fronte a un argomento già studiato abbiamo la possibilità di esercitarci a collocarlo in un nuovo contesto (questo significa ripassare). Sappiamo già (molti di voi sanno, ricordano) che la cultura orfica, l’Orfismo, è una dottrina che sta alla base della “nostra” cultura, di quella che chiamiamo la cultura occidentale (e forse, in Occidente, non abbiamo studiato ancora bene questo tema). L’antropologia culturale ci ricorda che noi, oggi, continuiamo puntualmente a pensare e ad agire in chiave orfica: molte manifestazioni della nostra vita sono permeate di Orfismo (sarebbe bene rifletterci). La cultura orfica, l’Orfismo, è una dottrina profondamente radicata nella Storia del Pensiero Umano. L’Orfismo infatti è alla base del pensiero di Pitagora, di Eraclito, due personaggi che incontreremo sul nostro cammino e, a proposito di Eraclito dobbiamo ricordare che Erodoto, in gioventù, da adolescente, ha studiato in una Scuola di impostazione Eraclitea (in Eraclito, lo ristudieremo prossimamente, orfismo e razionalismo s’incontrano creando una sinergia molto significativa). L’Orfismo è alla base del pensiero di Empedocle (che incontreremo fra qualche mese) e anche Socrate è influenzato dall’Orfismo, e Platone, il quale rielabora completamente l’Orfismo (Socrate e Platone li rincontreremo il prossimo anno), produce un pensiero che, senza la cultura orfica, sarebbe incomprensibile e noi sappiamo quanto sia importante Platone nella Storia del Pensiero Umano. L’argomento orfico lo abbiamo studiato anche sotto l’impulso di papa Giulio II, tra il 1508 e il 1511, davanti alla Scuola di Atene di Raffaello: senza la cultura orfica sarebbe incomprensibile anche il pensiero del Cristianesimo.

     Ecco perché affermiamo con determinazione che la cultura orfica, l’Orfismo, è una dottrina che sta alla base della “nostra” cultura. L’Orfismo è anche e soprattutto alla base di quel grande fenomeno letterario e di Pensiero che chiamiamo: la tragedia greca. Sul tema della tragedia, nell’anno 2003, abbiamo percorso dieci itinerari e i testi di queste dieci Lezioni li potete trovare (e leggere) sul nostro sito all’indirizzo: www.inantibagno.it.

     L’Orfismo è un pensiero che sta alla base della nostra cultura perché la nostra cultura (quella del Pianeta) affonda le sue radici nella ruralità, nel mondo contadino e attraverso la ruralità, attraverso il mondo contadino, attraverso Il mondo dei vinti, l’Orfismo, con tutto il suo apparato intellettuale, entra e continua ad entrare nella Letteratura.

     In che cosa consiste l’apparato intellettuale dell’Orfismo? Prima di continuare la nostra riflessione, visto che abbiamo citato Nuto Revelli, leggiamo due pagine tratte dal romanzo Il mondo dei vinti. Nuto Revelli (1919 - 2004) è uno scrittore piemontese, è nato ed è vissuto a Cuneo. Revelli ha intervistato, ha fatto parlare, ha dato voce a centinaia di contadine e di contadini in modo da raccogliere le loro testimonianze perché non andasse perduta una cultura che porta anche in se stessa l’apparato intellettuale dell’Orfismo.     

LEGERE MULTUM….

Nuto Revelli,  Il mondo dei vinti  (1977)

Maddalena Andreis, nata a Marmora, frazione Tolosano. Classe 1910, contadina.

Noi eravamo cinque minas (bambini) il primo aveva nove anni mentre stava per nascere il sesto. Avevamo una capra. Allora mio padre ha dovuto andare in America perché c’erano i debiti da pagare, nel 1914 è andato nell’America del nord a San Francisco, da manovale in una segheria. Qui a Malora faceva il butalé. Quando mio padre è partito per l’America io avevo quattro anni, ricordo che tutti piangevano. Là in America vivevano la mia mirina (madrina) e il mio pirino (padrino). Erano loro che avevano spedito a mio padre i soldi per il viaggio. Mia madre ha tribolato tanto per allevarci. Man mano che noi crescevamo ci mandava al pane degli altri, io sono stata affittata due anni al Preit, avevo otto anni e lavorando dal mese di San Giovanni fino a settembre mi guadagnavo il grembiule della scuola ed ero mantenuta. Andavo al pascolo. Ogni sera c’era un po’ di minestra, a colazione gli avanzi della minestra della sera, poi partivo con nella taschetta un pezzo di pane duro che bagnavo nell’acqua, rosicchiavo tutto il giorno quel pezzo di pane, avevamo i denti buoni.

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     Potete continuare per conto vostro a leggere Il mondo dei vinti, lo travate in biblioteca insieme a L’anello forte (1985) che documenta la continuazione del lavoro di ricerca sul mondo contadino: ne L’anello forte sono le donne ad essere protagoniste. Potete anche fare una piccola ricerca,sull’enciclopedia o sulla rete, per conoscere meglio Nuto Revelli e la sua storia di uomo e di scrittore. Nuto Revelli è stato ufficiale degli alpini in Russia ed ha vissuto la terribile ritirata, poi ha combattuto la guerra partigiana in Piemonte e dopo la Liberazione, prima di dedicarsi a studiare il mondo contadino in via di estinzione, si è dedicato a raccontare le sue esperienze di combattente ma soprattutto si è dedicato alla raccolta delle testimonianze dirette sulla guerra e a raccogliere le lettere dei soldati morti e dispersi nella campagna di Russia. Il lavoro di ricerca (la sapienza poetica) di Nuto Revelli è stato pubblicato in molti libri, tutti interessanti e di facile lettura.

     In che cosa consiste l’apparato intellettuale dell’Orfismo? Questa sera ci stiamo ponendo questa domanda (assai complessa) in funzione del tema della sapienza poetica. Sull’espressione “sapienza poetica” è necessario fare un’ulteriore riflessione seguendo i significati delle parole.

     Agli albori della cultura umana l’espressione “sapienza poetica” definisce il primo grande movimento culturale che si manifesta attraverso lo strumento della scrittura per conservare la memoria dei Racconti sulle origini che, per centinaia e centinaia di anni, in tutte le civiltà, erano stati tramandati oralmente. L’espressione “sapienza poetica” è determinata dal fatto che gli scrivani, per tramandare le mitiche, le fantastiche, le leggendarie, le fiabesche narrazioni sulle origini del mondo, sulla creazione dell’Universo, mettono a punto ed utilizzano un modo speciale di scrittura che prende il nome di poesia. Dobbiamo ricordare che la parola greca poίesis, che traduce il termine poesia, ha la stessa radice del verbo greco poiéo che significa fare, che significa creare: poίesis traduce, prima di tutto, il termine creatività.

     Le parole sono oggetti, sono repertori così significativi che basta osservarle con attenzione e con interesse per capire molte cose, per fare un investimento in intelligenza in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Fantasia, ispirazione, genio, suggestione, ideale: quale di queste parole metteresti per prima accanto al termine poesia? 

Come dire: che cos’è innanzi tutto per te la “poesia”?

Scrivi, basta una parola…

     In che cosa consiste l’apparato intellettuale dell’Orfismo? In che cosa consiste la cultura orfica, che cos’è l’Orfismo? Cominciamo a rispondere a queste domande spendendo una parola. La parola poίesis, poesia, è la prima parola del catalogo della cultura orfica: la figura di Orfeo corrisponde a quella di un poeta e quindi la parola poesia è la prima chiave che apre la porta dell’Orfismo. Il nome di Orfeo (tutti lo abbiamo sentito nominare anche prima di questa sera) è un modello letterario potentissimo, tutti abbiamo nelle orecchie un’espressione: Orfeo all’Inferno: quante opere d’arte prendono spunto da questo mito. Il nome Orfeo, la parola Orfeo, letteralmente significa: espulso, escluso, colui che è solo, solo e abbandonato da tutti. Orfeo è una metafora, è un’allegoria, come persona reale non è mai esistito: è un personaggio mitico e letterario: Orfeo è poesia, è la poesia stessa. Orfeo è un genere letterario, è un racconto: che cosa narra il mito di Orfeo? Orfeo è il nome di un poeta che canta i suoi versi, e i racconti mitici lo descrivono come figlio del dio Apollo e della musa Calliope. Il nome Calliope deriva dalla fusione delle parole kallos-bella e opè-voce, quindi Calliope significa: dalla bella voce. Orfeo nasce “dalla bella voce – kallos opè”, è il frutto “della bella voce”, è figlio del canto, è il canto stesso: un canto completo, iniziatico, perfetto: il termine “perfezione” è la seconda parola-chiave (dopo la parola poesia) del catalogo che si forma intorno alla figura di Orfeo.

     Il mito di Orfeo corrisponde a una religione che nasce e si sviluppa ben prima degli dèi, quindi non può essere Apollo il padre di Orfeo, ma sarà piuttosto Apollo a nascere (metaforicamente) dal mito di Orfeo. L’Orfismo è una religione diffusosi in Tracia, nel nord della Grecia. La Tracia è una regione pianeggiante, una regione agricola: il paesaggio della Tracia è il più verde e il più azzurro della Grecia, le colline sono più dolci e anche il mare è meno aggressivo (la Tracia merita una visita, almeno sull’atlante…). L’Orfismo si sviluppa dal X secolo a.C. ed è una religione che vuole riformarne un’altra da cui deriva. L’Orfismo si sviluppa come un movimento religioso che vuole rinnovare una religione più antica, arcaica, materiale e dal culto piuttosto violento. La cultura orfica vuole attuare una riforma in senso spirituale: vuole dare un’anima (un’etica) a questa religione materiale più antica. Al centro della riforma religiosa orfica c’è un mistero, un culto, legato a l’enigma della morte e della resurrezione: l’homo sapiens non si rassegna all’idea della morte. L’Orfismo – ed ecco il nòcciolo del pensiero orfico – predica che qualcosa di noi non muore ma si ricicla, si trasforma: la decomposizione non è sparizione ma è evoluzione, è metamorfosi. Qualcosa di noi risorge: l’essere umano è parte integrante della Natura e la Natura è in continua trasformazione. La Natura continua, ritmicamente, a morire e a risorgere nel ciclo delle stagioni. L’Orfismo è una dottrina che elabora, con sapienza poetica, le parole-chiave degli albori (che conosciamo a memoria) e tende a esorcizzare la paura della morte e a coltivare il bisogno di dare un senso alla vita, osservando i ritmi e i cicli (le morti e le resurrezioni) della Natura, creando forme rituali e codificando cerimonie che, attraverso il racconto, danno vita ad un nuovo catalogo di parole-chiave utili per descrivere le Origini, per rappresentare il Principio, e per sviluppare ulteriore sapienza poetica.

     Le stagioni, la loro definizione, la loro regolamentazione, sono un prodotto della sapienza poetica: non è forse vero che ogni stagione ha la sua poesia? È vero, o per lo meno si dice, che: «le stagioni non sono più quelle di una volta»: pur tuttavia autunno e inverno, primavera ed estate condizionano fondamentalmente (poeticamente?) la nostra vita.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale momento stagionale, quale ciclo stagionale preferisci? 

Gli avvenimenti della nostra vita e i nostri ricordi (la nostra memoria) sono profondamente legati alle stagioni, scrivi quattro righe in proposito

     Tutti conosciamo il famosissimo mito di Orfeo: un racconto simbolico usato da moltissimi intellettuali in tutti i tempi per costruire oggetti culturali significativi: poemi, romanzi, opere liriche, sinfonie, films, drammi, commedie, pittura, scultura …

     Ebbene è Ovidio, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, vissuto a Roma nell’età di Augusto (2000 anni fa), a raccontarci in perfetta forma letteraria la favola di Orfeo ed Euridice nel famoso libro X de Le Metamorfosi. La traduzione non rende il verso latino di Ovidio, ma il latino è la nonna dell’italiano e, tradurre dal latino, è come ascoltare la nonna che (a veglia) racconta …

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Ovidio, Le Metamorfosi    Libro X   (3 d.C.)

C’era una volta Orfeo, il mitico insuperabile cantore, il soave poeta,

figlio del divino Apollo e di Calliope, la musa dalla bella voce.

Orfeo, col canto della sua poesia, fa innamorare la bellissima Euridice,

che troppo presto muore, e lui, disperato, non riesce a darsi pace.

Decide di tentare l’impossibile impresa per ogni essere mortale:

scendere agli Inferi per riportare ancora in vita, accanto a lui, la dolce sposa.

Accarezzando le corde della lira, i guardiani infernali, Orfeo, riesce a placare

Caronte e Cerbero, ammansiti dal suono e dalla voce, lo lasciano passare

e Persefone, regina d’Oltretomba, affascinata anch’essa dal melodioso canto,

concede ad Euridice il ritorno alla luce, seguendo Orfeo, standogli accanto.

C’è solo un divieto che impone la regina: lungo il tragitto di ritorno,

Orfeo, non si dovrà voltare a guardare se Euridice lo segue lieta e fiduciosa.

Perché Orfeo non resiste alla tentazione di lanciare uno sguardo alla sposa?

Per un attimo incontra i suoi occhi, e per un attimo perde la cosa più preziosa.

Viene trascinata indietro nell’Ade, Euridice, e così muore una seconda volta.

Ritorna Orfeo, da solo, dal suo viaggio, sfigurato da un tragico destino,

in cui ha vinto la partita più difficile e in quella più facile ha smarrito il cammino.

Tutte le donne gli offrono l’amore, ma Orfeo rifiuta: solo nel canto sfoga il suo dolore

e solo il canto lo può consolare, e la sua musica è sempre più suadente,

e distrae, dal dovere coniugale, tutti gli uomini che lo stanno affascinati ad ascoltare.

Si sentono assai trascurate, le donne di Tracia, e si vendicano: catturano Orfeo,

lo sbranano, fanno a pezzi le sue tenere membra e, squartato, lo gettano in mare.

Ma non è un’orribile fine la sua, perché Orfeo non muore, non può morire del tutto,

è il suo corpo che muore: la sua anima armoniosa vive, l’armonia non può morire,

perché l’anima poetica è immortale, e questa voce, la voce suadente di Orfeo,

l’amore, l’amore per Euridice, continua e continuerà, per sempre, a cantare

     Per Ovidio l’anima si identifica con la poesia, e l’anima è immortale perché immortale è la poesia. Questo mito contiene in embrione un messaggio di salvezza eterna che la Storia del Pensiero Umano svilupperà nei secoli. Questo messaggio si basa sulla speranza che non tutto di noi muore con la morte del corpo, questa idea si contrappone al pessimismo mesopotamico di Gilgamesh, dove la morte è definitiva: «Cercare la vita eterna è come cercare di catturare il vento…», leggiamo nell’ultima tavoletta dell’Epopea di Gilgamesch.

     L’essere umano possiede, secondo il mito di Orfeo, le sue membra e la sua anima e quindi l’idea che la persona sia fatta di corpo mortale e di anima immortale si forma nella cultura orfica e arriva fino a noi. La cultura orfica, nonostante l’azione, a cui Erodoto allude, per mascherare la figura di Orfeo, emerge alla base del pensiero di Omero e soprattutto del pensiero di Esiodo (di cui ci occuperemo prossimamente). L’anima, nel pensiero omerico, che non riesce a mascherare la cultura orfica se non in parte e approfondiremo questo argomento prossimamente, s’identifica con l’inconscio dell’essere umano, con il suo dentro; l’anima è una specie di fantasma, di larva, di crisalide: l’anima è l’essere umano senza la sua consistenza materiale. Anche noi abbiamo sempre concepita così l’anima: in modo orfico. Il concetto dell’anima noi lo abbiamo recepito attraverso il Cristianesimo ma l’idea orfica dell’anima si è propagata, nella cultura occidentale, circa mille anni prima del Cristianesimo.

     L'Orfismo si basa su tre elementi fondamentali che tuttora fanno parte della nostra cultura. Il primo elemento della dottrina orfica dice che, in ogni individuo, è presente un’anima, un principio eterno, esistente prima della nascita e che sopravvive alla morte (anche il cristianesimo, in origine, si presenta come un culto orfico e l’affresco de La Scuola di Atene di Raffaello rappresenta bene, per ordine di papa Giulio II, questo concetto).

     Da dove arriva, nella cultura orfica greca, questo concetto de l’anima? Questo concetto arriva in Tracia dall’Oriente (ancora oggi, ci ricorda Erodoto sorridendo, la Tracia è al confine tra Oriente e Occidente: date un’occhiata sull’atlante), il concetto dell’anima arriva dalla cultura della valle dell’Indo. Arriva attraverso le migrazioni: migrano i popoli, migrano le idee e si sovrappongono ad altre idee. Il popolo ellenico nasce da una fusione pluriculturale: su quel territorio, nel tempo degli albori, abitavano popolazioni chiamate dagli antropologi: Pelasgi, gente del mare. Duemila anni a.C c’è stata una prima migrazione dal nord, quella degli Achei, che si sono sovrapposti e integrati con i pelasgi e con la civiltà Cretese. Milleduecento anni a.C c’è stata una seconda massiccia migrazione, quella dei Dori, che ha creato uno spostamento di popolazioni, e un’ulteriore sovrapposizione e integrazione: la grandezza della cultura greca è dovuta a questo rimescolamento, a questa trafila culturale. 

     L’Orfismo fa propria la teoria indiana dei libri dei Veda-Della Sapienza (generatori culturali dell’Induismo e del Buddismo, culture che lo scorso anno abbiamo incontrato sulla scia di Erodoto) dove l’anima, in sanscrito atman, è come una scintilla, come una goccia dell’Essere supremo, il Brahman (l’Essere divino) o il Brahma (L’Essere senza attributi divini). Nella cultura vedica (sapienziale) s’intersecano due correnti: una religiosa e una laica. Quindi: una goccia, una scintilla del Brahman o del Brama, un frammento dell’Essere supremo, è presente in ogni persona sotto forma di anima. Ma questa frantumazione dell’Essere, secondo il pensiero indiano, è un male, è un incidente provocato dall’egoismo umano; c’è stato un peccato originale, l’Uomo ha detto: questo è mio, ha detto: voglio possedere il mondo; e l’Essere si è frantumato, e per questo motivo l’essere umano è inquieto, perché l’anima (prigioniera del corpo, della materia) sente il desiderio di ritornare a casa, di ritornare ad essere tutt’uno con l’Essere, di rituffarsi nella quiete che c’era in Principio prima delle Origini. La persona, secondo i libri dei Veda indiani, deve prendere coscienza e deve operare per favorire il ritorno dell’atman, dell’anima, nella sua sede, nella sua casa naturale: nel Brahman o Brahma, nell’Essere. Questo ritorno avviene attraverso la teoria della reincarnazione o della metempsicosi (la Trasmigrazione delle anime, come la definisce Pitagora che incontreremo prossimamente), secondo cui, l’anima, alla morte dell’individuo, lascia il corpo ed entra, dopo breve tempo, in un altro corpo, cercando di migliorare via via la sua posizione in funzione dell’ascesa, del suo ritorno all’Essere, al Brahman (secondo le Scuole vediche religiose) o al Brahma (secondo le Scuole vediche laiche). L'Orfismo mutua questa mentalità indiana, che arriva attraverso le migrazioni, e la elabora, possiamo dire, in termini occidentali.

     Il secondo elemento che l’Orfismo introduce nella cultura occidentale è il concetto del contrasto determinato dal dualismo tra anima e corpo. L’anima e il corpo sono due elementi diversi in contrasto tra loro: il corpo viene considerato la prigione dell’anima e l’anima deve tendere a liberarsi dal corpo, a liberarsi dalla materia. Mentre nel pensiero Orientale (nella cultura vedica-sapienziale indiana) l’anima è al centro dell’attenzione della sapienza poetica, è al centro dell’itinerario educativo della persona e di conseguenza si coltiva l’anima per esautorare il corpo con la sua pesantezza materiale, nel pensiero orfico invece non ci si rassegna a mettere il corpo in secondo piano, si tende a trovare un equilibrio nel contrasto che emerge drammaticamente tra corpo e anima. Nel pensiero orfico anche il corpo, anche la materia, è al centro dell’attenzione e ci si prende cura del corpo per potersi misurare con l’insostenibile leggerezza dell’anima.

     Il terzo elemento della cultura orfica prevede che, dopo la morte del corpo, l’anima sia sottoposta a un giudizio, ma questo giudizio a cui viene sottoposta l’anima dipende soprattutto dal corpo. Come si può estromettere la funzione del corpo dall’attività dell’anima? L’Orfismo vive questo dilemma. I due elementi (il corpo e l’anima) sono di natura diversa, sono divisi, sono inconciliabili ma sono interdipendenti. Quindi, se il castigo consiste in una nuova vita, in una nuova reincarnazione materiale, e se il premio consiste nella liberazione dal ciclo delle incarnazioni, nella liberazione dalla carne, nel ritorno definitivo dell’anima a essere Spirito, unita per sempre all’Essere come era in origine, e se, per arrivare al premio, è necessaria una forte tensione etica, se è necessaria la volontà di fare il bene, e se la volontà di fare il bene deve fare i conti con l’attività materiale del corpo, ebbene: come si può estromettere la funzione del corpo dall’attività dell’anima e decretarne l’annientamento?  L’Orfismo vive questo dilemma.

     È su questi punti che l’Orfismo diventa un movimento riformatore e la sua forza riformatrice sta proprio nei dilemmi e nelle contraddizioni (nelle aporie) insite nei suoi elementi costitutivi: i dilemmi e le contraddizioni stimolano la ricerca, la ricerca fa sviluppare la sapienza poetica, la sapienza poetica produce un investimento in intelligenza, l’investimento in intelligenza fa aumentare il tasso di saggezza nella società.

     La riforma religiosa orfica cerca di risolvere il contrasto creato dal dualismo tra l’anima e il corpo e prescrive di coltivare ideali di vita basati sull’euritmia-euritmia cioè sull’armonia, sulla concordia, sulla giusta proporzione, sull’equilibrio, che sono le componenti, le qualità attribuite al dio Apollo (ecco da dove e come nasce la figura del dio Apollo). Nel racconto mitico sapienziale il dio Apollo diventa il padre di Orfeo, il quale canta, con la sua bella voce-Calliope (da parte della mamma) queste virtù apollinee.

     Ma l’Orfismo è qualcosa di più complesso perché affonda le sue radici in una religione più antica, materiale, legata strettamente alla Natura e direttamente collegata all’animalità. L’Orfismo cambia i connotati arcaici di questa religione ma se ne porta dietro l’eredità, e quindi le virtù di Apollo: l’armonia, la concordia, la giusta proporzione, l’equilibrio, l’euritmia non rispondono pienamente ad una realtà in cui la ragione e l’istinto si contendono il potere. l’Orfismo è un movimento religioso che si sovrappone e s’intreccia a un culto (a un mistero) arcaico, ben radicato sul territorio: il culto di Dioniso. 

     L’Orfismo, dicono gli antropologi, nasce dopo il X secolo a.C da una riforma interna ai riti dionisiaci: quindi prima dell’Orfismo ci sono i culti di Dioniso. Attenzione però: il termine “culti di Dioniso” è un’espressione creata dalla cultura orfica, e la figura stessa di Dioniso viene creata, viene costruita poeticamente dalla cultura orfica. E allora possiamo dire che il nome di Orfeo rappresenta la sapienza poetica che riforma il materialismo rozzo e bestiale degli arcaici culti di Dioniso. L’Orfismo è, nei confronti dei culti di Dioniso, una riforma in senso spirituale che impone una forte tensione etica, prescrive di fare il bene per dare più leggerezza e più valore all’anima. Impone uno stile di vita ordinato in cui si deve coltivare la temperanza, la continenza, la sobrietà, l’igiene personale, una dieta strettamente vegetariana. L’Orfismo vieta il culto dell’omofagia, cioè del cibarsi di carne cruda, che era una pratica diffusa nei rituali arcaici.

     La figura di Orfeo viene poeticamente creata prima di quella di Dioniso: è l’Orfismo attraverso la sua sapienza poetica a chiamare e a definire i culti arcaici antecedenti con il nome e la figura di Dioniso che risulta un modello arcaico, una riproduzione primitiva della figura di Orfeo.

     La figura di Dioniso, nella riflessione sapienziale dell’Orfismo, serve per ragionare sul dilemma posto dal contrasto tra anima e corpo. Che cosa significa? Su questa questione, ancora una volta, dobbiamo farci aiutare da un grande pensatore contemporaneo. La riscoperta del valore culturale di Dioniso, dei riti dionisiaci, di Orfeo e dei culti orfici è una scoperta intellettuale recente e gran parte del merito è di Friedrich Nietzsche, il cui saggio La nascita della tragedia del 1872 ha inaugurato un modo nuovo di considerare la Grecità, facendo tesoro di tutte le scoperte archeologiche e letterarie fatte alla fine del ‘700. 

     Secondo Friedrich Nietzsche (1844-1900) la grandezza della cultura greca è il risultato di una sintesi, operata dalla sapienza poetica orfica, che mette in luce le contrastanti caratteristiche insite nella figura di Apollo (di Orfeo) e nella figura di Dioniso. La cultura orfica, nel suo tentativo di armonizzare il rapporto contraddittorio tra l’anima e il corpo crea una sintesi tra la spiritualità di Apollo (ma dovremmo dire di Orfeo) fatta di equilibrio, armonia, di euritmia e la spiritualità dionisiaca, simmetrica e contraria, fatta di irrazionalità: «derivante dallo stato di vigore animale che ciascuno possiede perché la vita ha un suo lato oscuro e istintuale, che è necessario – scrive Nietzsche – alla sopportazione dell’esistenza e allo sviluppo della creatività». Per definire l’umanità, l’equilibrio, l’armonia, la persona deve confrontarsi con la propria animalità istintuale: l’essere umano è insieme umanità e bestialità, è contemporaneamente armonia e schizofrenia, è angelico e nello stesso tempo diabolico, è contemporaneamente Apollo (o Orfeo, che dir si voglia) e Dioniso, è insieme ragione e istinto.

     Tutto il ragionamento che abbiamo fatto questa sera è in funzione, secondo la natura del nostro Percorso, della didattica della lettura e della scrittura. In questo itinerario abbiamo capito che la prima parola-chiave del catalogo della cultura orfica è il termine: poesia accompagnato dal termine poeta. Quando Erodoto, nel testo de Le Storie, usa la parola poίesis, poesia, è consapevole del fatto che questo termine ha la stessa radice del verbo poiέω-poiéo che, come abbiamo già ricordato, significa fare, significa creare.

     Per Erodoto, e per la cultura dell’Età assiale della storia, la parola poίesis non esprime solo il vocabolo poesia, ma interpreta un concetto più ampio: il termine poίesis traduce l’espressione: sapienza poetica. Per Erodoto in Principio c’è la poίesis, la poesia, nel senso più ampio di sapienza poetica. Quando Erodoto parla di poesia, allude alla sapienza poetica e si riferisce al genere letterario allegorico, si riferisce a un metodo, ad una forma. La sapienza poetica è una forma, ed è appunto la forma poetica che dà inizio ai Racconti sulle Origini. Nei Racconti sulle Origini – allude Erodoto – il contenuto è frutto dell’immaginario, mentre l’elemento reale è costituito dalla forma creata appositamente per poter percepire, per poter sentire, per poter rendere comprensibile lo straordinario contenuto immaginario dei Racconti: è quindi la forma – allude Erodoto – che fa esistere le Origini. La forma, in greco eìdos, secondo Erodoto, è l’elemento concreto che trasporta, che trasmette nell’ambito della realtà, il contenuto immaginario. Questo spiega, ci dicono gli antropologi, il modo (diverso dal nostro) con cui i Greci ionici interpretano la realtà.

     I fenomeni della natura, gli avvenimenti della vita quotidiana, le manifestazioni cicliche e quelle inaspettate dell’Universo possono essere percepiti, possono essere sentiti solo se trasformati (metamorfozein) in eventi. I fenomeni, gli avvenimenti, le manifestazioni si possono conoscere-riconoscere solo se fanno riferimento a un mito, solo se hanno un aggancio con un racconto originario, straordinario, fantastico. Un fenomeno, un avvenimento, un segnale, è reale solo se c’è un evento ideale che lo sostiene, se c’è una forma che lo contiene: ricordiamoci – ci suggerisce Erodoto – che, in greco ionico, la parola forma si traduce eìdos, idea. Questo metodo d’interpretazione della realtà corrisponde alla sapienza poetica. La sapienza poetica comincia a svilupparsi (il testo de Le Storie di Erodoto ne è testimone) con la tradizione orfica.  

     Siamo a Itaca e ci siamo chiesti: come mai su quest’isola tutto parla di Odisseo che non è mai esistito, che è un contenuto immaginario, e neppure un accenno viene fatto nei confronti del pensiero Orfico della cui presenza emergono elementi reali, e neppure un accenno viene fatto delle forme orfiche che hanno lasciato una traccia concreta.

     A Itaca ci sono i frammenti di una forma reale – la sapienza poetica orfica – che persiste sotto traccia e che bisogna saper cogliere sotto la maschera di un contenuto immaginario che salta all’occhio in modo troppo evidente ma che, di per se, è ricalcato. Da che cosa dipende lo straordinario successo di Odisseo e di Achille? Dipende dal fatto che sono due contenuti (sono due maschere che assomigliano molto a Orfeo) che emergono, che escono fuori dallo stampo degli Inni orfici che costituiscono il primo modello formale dell’epica ionica, il genere letterario (la poesia sapienziale) in cui è scritta l’Iliade e l’Odissea.

     Erodoto utilizza con parsimonia la parola poesia: la utilizza una volta sola. E, con altrettanta parsimonia, solo cinque volte, utilizza la parola poiηtήs-poietés, il poeta.

     A questo proposito, in relazione a tutto il ragionamento che abbiamo fatto questa sera, i capitoli 32 33 34 35 del IV libro de Le Storie risultano molto significativi. Il testo di questi capitoli non è di facile comprensione perché Erodoto, come fa spesso, gioca con le parole, allude, e sappiamo che un’allusione presuppone la ricerca di una precisazione. Erodoto, secondo gli antichisti, allude al fatto che lo sviluppo della sapienza poetica avviene non per cause soprannaturali e straordinarie: non è il soprannaturale e lo straordinario che crea la sapienza poetica, che crea la poesia, ma è la sapienza poetica, è la poesia, che (come metodo di interpretazione della realtà) dà origine all’evento soprannaturale creando il racconto straordinario. Ed è così che il soprannaturale s’intreccia col naturale (in greco fisicos), ed è così che lo straordinario s’intreccia con l’ordinario (in greco kosmicos).

     Ma come avviene, secondo Erodoto, lo sviluppo della sapienza poetica che trova nell’Orfismo il primo canale di trasmissione? Lo sviluppo della sapienza poetica si attua, secondo Erodoto, attraverso una trafila di rapporti comunicativi che lega (in pace e in guerra, nei commerci e nei viaggi) un popolo all’altro, e a questa trafila comunicativa si deve la trasmissione delle parole-chiave, il passaggio delle idee-cardine da una nazione all’altra, da una regione all’altra, da una tradizione all’altra, da una generazione all’altra, e questa operazione di trasferimento (in greco pros-féro), questa azione di passarsi la parola e di divulgare le idee (in greco pros-fonéo) è affidata ai poeti. E anche per i poeti vale il fatto che il soprannaturale s’intreccia col naturale (col fisicos) e lo straordinario s’intreccia con l’ordinario (col kosmicos): infatti i poeti reali in carne ed ossa, che nella maggior parte dei casi rimangono sconosciuti ed esclusi, creano mitiche, straordinarie, fantastiche figure di poeti (Orfeo, Museo, Lino, Olimpo) a cui attribuire le loro opere, per avvalorare la loro poesia, per dare un senso al kosmicos, per attribuire un significato alla realtà delle cose. Ecco perché diciamo che la sapienza poetica è, in un certo senso, opera di mistificazione (c’è la parola mistero, culto, rito in questo termine), ecco perché diciamo che la sapienza poetica è opera di mascheramento, è prosopopea (dal greco ionico prósopon che significa maschera) nel senso di rappresentazione, raffigurazione, personificazione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con quali maschere hai celebrato (il Carnevale ci celebra: è un rito orfico) i Carnevali passati?

Con quale maschera vuoi celebrare quello futuro? 

Scrivi quattro righe in proposito…  

     E ora, per concludere questo complicato itinerario, leggiamo il testo di Erodoto dove incontriamo, appunto, un misterioso poeta, un misterioso compositore di Inni che non compare nelle storie della letteratura, che non compare nelle antologie. Ma leggendo questi capitoli, sono innumerevoli le domande che ci vengono in mente e che vorremmo fare ad Erodoto ed è così che (per sintetizzare e per continuare a riflettere) alcune di queste domande compaiono nel testo scritte in corsivo, non è testo di Erodoto, sono nostri pensieri: ad ogni asterisco corrisponde un punto interrogativo e una riflessione da fare:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie IV 32 33 34 35

Questo che ho detto è quanto si racconta intorno alle regioni più remote; ma degli Iperborei né gli Sciti fanno cenno, né alcun altro di quelli che vivono da quella parte; a meno che non ne sappiano qualcosa gli Issedoni. Secondo me, però, nemmeno questi ne parlano, poiché ne parlerebbero anche gli Sciti, come raccontano degli uomini che hanno un occhio solo.

* Chi sono gli Iperborei? (Non lo sa neppure Erodoto: il termine Iperborei – visto che la parola Borèa indica il settentrione – designa la gente dell’estremo nord, a nord-est del Mar Nero…) …

Ma è da Esiodo che sono nominati gli Iperborei; come pure da Omero, negli Epigoni, se pure in verità non si può dire che sia Omero ad aver composto questo poema.

* Chi è Esiodo, che Erodoto cita prima di Omero? Come mai tutte le volte che Erodoto cita Omero dubita di qualcosa, anche della sua esistenza? …

Però, quelli che a loro riguardo, tramandano di gran lunga le più numerose notizie sono gli abitanti di Delo, i quali raccontano che le offerte sacre (prosforá), avviluppate in paglia di grano, portate dagli Iperborei giungono tra gli Sciti; a cominciare da questo paese, ogni popolo, ricevendole dal popolo vicino, le porta verso occidente il più lontano possibile, fino sulle rive dell’Adriatico. Di qui, avviate verso mezzogiorno le accolgono, primi fra i Greci, quelli di Dodona; dal paese di costoro le offerte scendono verso il golfo Maliaco e passano nell’Eubea dove, da una città all’altra, si fanno giungere a Cáristo.

Dopo questa città, lasciano da parte Andro, poiché sono gli abitanti di Cáristo che le portano a Teno e quelli di Teno le accompagnano a Delo.

* Questo bell’itinerario, che ci indica Erodoto, da Dodona alla cittadina di Káriston nell’isola Eubea, dall’isola di Tìnos fino all’isola di Delo: è solo un pellegrinaggio da un santuario all’altro oppure è anche un itinerario (metaforico) che indica le tappe della trasmissione culturale?…

In questo modo, dicono, le sacre offerte arrivano a Delo; ma la prima volta gli Iperborei avevano mandato a portarle due fanciulle, cui i Delii danno i nomi di Iperoche e Laodice.

* Ecco che il soprannaturale s’intreccia col naturale (col fisicos) e lo straordinario s’intreccia con l’ordinario (col kosmicos), infatti Iperoche e Laodice sono nomi che rappresentano due attributi delle dea Artemide, quali?…

Insieme con queste fanciulle, per ragioni di sicurezza, gli Iperborei avevano mandato, come accompagnatori, cinque dei loro cittadini, quelli che vengono chiamati “perferei” (sovrintendenti…) e ricevono in Delo grandi onori.

Siccome, però, questi inviati non volevano più ritornare al loro paese, gli Iperborei, ritenendo intollerabile che dovesse sempre capitar loro di non veder tornare quelli che inviavano, da quel momento avrebbero portato, dicono, ai propri confini le offerte sacre avvolte in paglia di grano, e raccomandato ai loro vicini di farle inoltrare dal loro, nel paese d’un altro popolo. In questo modo, dicono, passando di mano in mano, giungono a Delo.

* Perché i mitici personaggi inviati dagli Iperborei a Delo a portare le offerte non ritornano? Che significato ha la “paglia di grano” che avvolge le offerte?…

Io so per conoscenza diretta che c’è questo costume il quale si può raffrontare con tale modo di presentare le offerte: le donne di Tracia e di Peonia, quando offrono un sacrificio in onore di Artemide Regina non tengono tra le mani le sacre offerte se non hanno anche della paglia di grano.

E che queste donne abbiamo l’abitudine di fare così lo so di sicuro.

* La citazione delle donne di Tracia e di Peonia (fatta con un tono molto deciso) non è forse un chiaro riferimento alla cultura orfica che sta sotto, che sta alla base, che sta alle radici?…

In onore di queste vergini che, venute dagli Iperborei, hanno finito la loro vita a Delo, si tagliano i capelli sia le fanciulle sia i giovani: le fanciulle, prima delle nozze, si recidono un ricciolo e, avvoltolo intorno a un fuso, lo depongono sulla tomba delle due vergini (la tomba si trova all’interno del recinto sacro ad Artemide, dalla parte sinistra di chi entra e vi è anche spuntato un ulivo);

* Questi due simboli – il fuso e l’ulivo – non sono casuali: perché Erodoto li cita? …

i giovani di Delo avvolgono dei loro capelli intorno a un ciuffo d’erba verde e lo depongono anch’essi sopra la tomba.

* L’erba verde rappresenta una nuova generazione che sente il dovere di riconoscere i valori (le offerte avvolte in paglia di grano, nell’erba secca) dell’antica “sapienza poetica orfica” ormai sepolta ma indimenticabile?…

Questo è l’onore che ricevono quelle vergini dagli abitanti di Delo.

Gli stessi Delii, però, raccontano che, prima ancora di Iperoche e Laodice, erano giunte a Delo, passando attraverso gli stessi popoli di cui si è parlato, anche Arge (la splendente, Elena?) e Opi (la veggente, Cassandra?), vergini provenienti dagli Iperborei. Senonché, mentre Iperoche e Laodice erano venute a portare a Ilizia (la dea delle partorienti) il tributo che gli Iperborei s’erano imposto in riconoscenza per il parto agevolato (il parto di Latona, che Ilizia avrebbe facilitato alleviandone i dolori), Arge e Opi erano giunte in compagna delle stesse dèe.

* Quante stratificazioni, quante diramazioni hanno i racconti che la “sapienza poetica orfica” ha saputo trasmettere?…

Dicono, poi, che altre testimonianze di onore vengono tributate ad Arge e Opi dagli abitanti di Delo: infatti, le donne fanno per esse delle collette, invocandone i nomi nell’Inno che per loro ha composto Oleno, poeta di Licia.

* Chi è questo Oleno, questo misterioso poeta (ecco la parola-chiave – poesia, poeta – che troviamo per prima nel catalogo della cultura orfica), chi è questo misterioso compositore di Inni che non compare nelle storie della letteratura, che non compare nelle antologie? … 

Gli isolani e gli Ioni avrebbero ricevuto dagli abitanti di Delo l’uso di inneggiare a Opi e ad Arge, chiamandole per nome e facendo collette (poiché questo Oleno venuto dalla Licia, compose anche altri Inni che vengono cantati in Delo), e quando le cosce delle vittime vengono bruciate sull’altare, la cenere che ne deriva viene tutta adoperata per spargerla sulla tomba di Opi e di Arge: la quale si trova dietro il recinto sacro ad Artemide, volta verso aurora, molto vicina alla sala da convito di quelli di Ceo (a Delo tutti gli Stati ionici, tutte le polis, possedevano un edificio che ospitava i cittadini di quello Stato, di quella polis, quando vi si recavano in pellegrinaggio).

     Quante domande vorremmo fare ad Erodoto in relazione a questo testo? Un’infinità? E le risposte? Erodoto le risposte non ce le può dare questa sera, e non ce le vuole dare a Itaca. In quale luogo, Erodoto, vuole continuare questa riflessione in corso sul tema della sapienza poetica, in particolare sul tema della sapienza poetica orfica? A questa domanda risponde il capitano Agenore di Tiro che c’invita ad imbarcarci sulla Sidonia, sulla bella nave che è pronta per la partenza. Dove ci porta la nostra nave fenicia con il suo bell’albero maestro (col suo bell’albero genealogico lessicale)?

     Sull’albero maestro è stata issata, e sta sventolando, la bandiera della poίhsiς-poίesis, della poesia e la nostra nave ci porterà a Delo: è lì che dobbiamo continuare il nostro Percorso.

     «All’imbarco» ordina, con voce decisa, il capitano Agenore di Tiro dal molo della baia di Polis, e in realtà è come se dicesse: correte la prossima settimana, accorrete numerosi che la Scuola è qui …

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 27, 2006