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LO SGUARDO DI ERODOTO SULL’ALBERO GENEALOGICO LESSICALE…

Lezione N.: 
2

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sguardo di Erodoto 2006  18-19-20  ottobre  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULL’ALBERO GENEALOGICO LESSICALE…

     La scorsa settimana siamo partiti per il nostro viaggio prendendo la via del mare dalla costa ionica della Calabria. Ci siamo imbarcati nel porto di Turi che è lo stesso dell’antica Sibari. Il porto di Turi, o dell’antica Sibari, si trova alla foce del fiume Crati, e noi sappiamo che krátos, in greco, significa vigore, esuberanza, floridezza, fecondità, abbondanza. Siete andate/andati ad osservare sull’atlante o sulla guida della Calabria questi luoghi così ricchi di storia?

     La nave (virtuale) su sui ci siamo imbarcati e sulla quale stiamo navigando si chiama Sidonia ed è una nave fenicia – oggi diremmo che batte bandiera libanese – perché 2500 anni fa sono soprattutto i Fenici, esperti navigatori, ad avere in appalto i trasporti marittimi nel Mediterraneo e questa nave viaggia verso est, viaggia verso il Mar Egeo: dove ci porta esattamente?

     A prua di questa imbarcazione, sulla quale stiamo navigando, c’è Erodoto che ci accompagna in questo viaggio e al timone della nave c’è il capitano Agenore di Tiro: lui sa dove dobbiamo approdare; noi non abbiamo ancora avuto il tempo di chiedere notizie sulla rotta che stiamo tenendo perché la nostra attenzione, finora, è stata attratta dalla definizione del punto, dello spazio, del luogo da cui è iniziato il Percorso che stiamo per intraprendere.

     La scorsa settimana, nel corso del tradizionale, ripetitivo ma necessario, rituale della partenza di questo viaggio in compagnia di Erodoto, abbiamo sviluppato una riflessione sul piano della memoria delle origini. Perché abbiamo coltivato questa riflessione sul piano della memoria delle origini? Il testo de Le Storie di Erodoto (al quale, con circospezione, ci stiamo riavvicinando) è certamente importante per il suo contenuto in cui lo scrittore fa la relazione dei viaggi che ha compiuto attraverso l’Asia, l’Europa, l’Africa (l’anno scorso lo abbiamo seguito nelle sue peregrinazioni…); ma, oltre al contenuto, il testo de Le Storie di Erodoto è ancora più importante per le sue forme – culturali, intellettuali, allegoriche – e lo scorso anno ci siamo occupati principalmente del tema delle forme nell’opera di Erodoto (è il tema principale…): chi vuole, chi è in grado di farlo, può scaricare e leggersi i testi delle 22 Lezioni dello scorso anno sul nostro sito all’indirizzo www.inantibagno.it .

     Che cosa significa: occuparsi del tema delle forme nell’opera di Erodoto? Significa puntare l’attenzione (studiare) sul modo, sui modi, con cui lo scrittore ha creato il testo della sua opera per ricavarne dei dati (parole-chiave, idee-cardine) utili in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Ora noi non possiamo ripetere né riassumere tutti gli elementi che sono emersi nel Percorso precedente sul tema delle forme erodotee, possiamo però dire che il tema delle forme riguarda innanzitutto la questione allusiva, oggi molto studiata dagli esperti, cioè quello che Erodoto non dice esplicitamente. Nel testo dell’opera di Erodoto si possono cogliere tra le righe, si possono leggere sotto traccia molte significative allusioni. Queste allusioni (il termine allusione ikonos-ìkonos, greco, è una delle parole proprie del vocabolario di Erodoto), questi riferimenti, queste indicazioni  che troviamo sotto traccia nel testo dell’opera di Erodoto si configurano fondamentalmente in forma di parabole, di apologhi, di narrazioni allegoriche. Questi racconti non hanno una valenza storica, hanno un significato morale.

     Negli ultimi tempi (negli ultimi cento anni) gli studiosi si sono dedicati soprattutto allo studio delle forme (all’analisi del significato delle parole-chiave e all’interpretazione delle idee-cardine) presenti nell’opera di Erodoto, e la Scuola, se vuole perseguire l’obiettivo di formare delle teste ben fatte, se vuole perseguire l’obiettivo di insegnare a leggere, a scrivere e a investire in intelligenza, si deve occupare di questo tema e deve invitare le cittadine e i cittadini ad occuparsene. Lo studio delle forme nell’opera di Erodoto è certamente quello più utile in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché gli studiosi hanno rinvenuto nel testo de Le Storie di Erodoto i tratti, gli stampi, i modelli della Storia più antica della Cultura.

     Noi sappiamo che la conoscenza dei modelli (sotto forma di parole-chiave e di idee cardine) della Storia della Cultura è propedeutica all’azione del leggere e dello scrivere (sa leggere e scrivere chi conosce i repertori della Storia della Cultura) e, a sua volta, l’azione del leggere e dello scrivere favorisce il viaggio interminabile nei territori della Storia del Pensiero Umano. 

     Erodoto, inconsapevolmente, raccoglie nella sua opera gli elementi più antichi dell’antropologia culturale (l’osservazione e lo studio degli usi e dei costumi dei popoli che incontra nei suoi viaggi) e, per questo motivo, viene considerato il primo “antropologo” della storia della Cultura. Il testo dell’opera di Erodoto permette, quindi, di fare una significativa riflessione sul piano della memoria delle origini; e la questione della memoria delle origini riguarda tutti, personalmente e collettivamente, perché investe il problema della nostra identità umana, un problema che non si può affrontare a colpi di sparate ideologiche per imporre una cultura piuttosto che un’altra ma lo si dovrebbe trattare studiando le radici, culturali e intellettuali, comuni dell’Umanità.

     La riflessione sul piano della memoria delle origini – da cui abbiamo preso il passo – ci fa capire che l’opera di Erodoto (lo abbiamo studiato negli itinerari dello scorso anno) è come se fosse una scatola che contiene una serie di oggetti culturali importanti, che ci danno la possibilità di ricostruire il nostro patrimonio intellettuale originario, che ci danno la possibilità di dare alcune risposte, seppur parziali, alle grandi domande esistenziali che continuiamo a porci: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? L’opera di Erodoto è come un contenitore nel quale possiamo trovare i reperti, le prove, le testimonianze della nostra storia più antica di esseri pensanti. Sul testo de Le Storie di Erodoto noi possiamo esercitarci, scavando tra le parole, indagando tra le righe, a scoprire gli elementi fondamentali della nostra archeologia intellettuale (come la chiamano gli studiosi). Ne Le Storie di Erodoto emerge, come in filigrana, un catalogo di prodotti culturali che, sotto forma di parole-chiave e di idee-cardine, rappresenta lo schema intellettuale più antico della Storia del Pensiero Umano.

     Il contenuto di questo schema originario, fatto di parole e di idee, si è sedimentato nella nostra mente e contiene il patrimonio culturale della nostra infanzia intellettuale: la nostra infanzia intellettuale risale a 2500 anni fa. Tutti abbiamo un’età mentale di 2500 anni: ne dobbiamo essere consapevoli (coscienza, autocoscienza, ragione, ci suggerisce il giovane Hegel che rincontreremo a primavera), e la consapevolezza di questo fatto, confortata dallo studio (studium et cura), è il primo requisito perché si possa diventare delle lettrici/dei lettori e delle scrivane/degli scrivani. Noi abbiamo il diritto e il dovere di conoscere la nostra Storia intellettuale, noi abbiamo il dovere di coltivare questa esigenza e abbiamo il diritto di soddisfarla.

     Ne Le Storie di Erodoto emerge lo schema intellettuale più antico della Storia del Pensiero Umano. Questo schema intellettuale – abbiamo detto la scorsa settimana – costituisce anche l’oggetto che determina il punto di partenza del nostro viaggio; e la preparazione della partenza di un viaggio, specialmente se metaforico, è sempre una fase complessa e delicata e, come potete constatare, questa fase, in cui bisogna prendere il passo, non si è ancora esaurita.

     Il nostro punto di partenza lo abbiamo individuato nei pressi della fonte Thoùria (impetuosa): è qui, nella polis di Turi (presso l’antica Sibari, sulla costa ionica della Calabria, nella Mega Ellas, nella Magna Grecia), che probabilmente Erodoto ha passato l’ultima parte della sua vita e dove, molto probabilmente, ha scritto Le Storie.

     Per questa ragione abbiamo metaforicamente posto, accanto alla fonte Thoùria, l’albero genealogico lessicale, e i rami più bassi di quest’albero formano il piano della memoria delle origini: sono i quattro rami più antichi che s’identificano con le parole degli albori, con le parole-chiave più antiche della Storia del Pensiero Umano. Queste parole-chiave – paura-bisogno, ritmo-ciclo, rete-rito, cerimonia-racconto – la scorsa settimana le abbiamo imparate a memoria. Questo piano, il piano della memoria delle origini, rappresenta il punto da cui abbiamo cominciato a prendere il passo.

     E ora, mentre a bordo della nave Sidonia stiamo comodamente navigando verso est, (anche per vincere la noia della navigazione) abbiamo il tempo per dedicarci ad una ulteriore riflessione sulla forma dell’albero genealogico lessicale il quale si è presentato ai nostri occhi come una pianta assai frondosa e ramificata non certo costituita dai soli quattro rami più bassi. E allora andiamo con ordine e osserviamo anche il secondo piano dell’albero genealogico lessicale: quali sono i rami che spiccano a questo livello? A quali parole-chiave corrispondono i rami posti al secondo piano?

     Mentre ci allontaniamo dalla costa l’albero genealogico lessicale ci appare, visto dal mare, in tutta la sua imponenza collocato sull’altura dove sgorga la fonte Thoùria e questa visione ci dà la possibilità di proseguire la riflessione che stiamo facendo. La figura di Erodoto è stata per gli studiosi (per gli antropologi in particolare, nell’ultimo secolo) un punto di riferimento fondamentale per sviluppare il concetto e tracciare una mappa di quella che è stata chiamata l’Età assiale della storia. Il testo de Le Storie di Erodoto allude, dicono gli studiosi, oltre che al piano della memoria delle origini anche a quello dell’Età assiale della storia, quindi impariamo a mettere in ordine, nella nostra mente, i piani della nostra Storia culturale, e a distinguere i paesaggi intellettuali della Storia del Pensiero. Per queste significative allusioni, che riguardano l’archeologia del sapere, oggi (dall’inizio del ‘900) Erodoto viene considerato il padre della Storia, in una prospettiva diversa da come era considerato padre della Storia in passato (da Cicerone).

     Il testo de Le Storie di Erodoto allude oltre che al piano della memoria delle origini anche a quello dell’Età assiale della Storia:  di che cosa si parla quando si parla di Età assiale della Storia? Secondo gli studiosi, soprattutto di antropologia culturale, l’opera di Erodoto documenta un momento nella Storia della Cultura che costituisce una specie di spartiacque, di linea divisoria, tra l’età del mito (gli albori) e l’età della ragione. Il testo de Le Storie di Erodoto allude al momento in cui la civiltà umana sta passando dalla tradizione mitica (meta mitoi) alla cultura della ragione (eu logoi): dalla narrazione dei miti alla riflessione sui racconti mitici. Nella scrittura e nel racconto di Erodoto – come abbiamo studiato lo scorso anno – troviamo, per la prima volta, una riflessione sulle grandi civiltà della Storia. Erodoto viaggia, osserva, ascolta, presume, racconta e allude alle prime grandi civiltà della storia, come quella egizia sviluppatasi nella valle del Nilo e quella sumerica sviluppatasi alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate. Inoltre, ne Le Storie di Erodoto, troviamo un riferimento alla civiltà indiana sviluppatasi nella valle dell’Indo e anche – ci dicono gli antichisti – un’eco della civiltà cinese sviluppatasi nella valle del Fiume Giallo e poi, nel testo di Erodoto,  si coglie il richiamo della cultura di Zaratustra sviluppatisi sull’altopiano persiano e della cultura del profetismo ebraico sviluppatasi a ridosso della penisola del Sinai. Erodoto, con le sue allusioni, ci invita a riflettere sul fatto che queste civiltà rimangono per più millenni, nella mappa delle terre abitate, come prodigiose manifestazioni delle capacità dell’homo sapiens.

     Erodoto, con le sue allusioni, ci fa capire che queste civiltà, sumerica, egizia, indiana, cinese, persiana, cananea (di cui negli itinerari dello scorso anno abbiamo messo in evidenza i caratteri principali…), portano l’homo sapiens fuori dall’età della pietra, fuori dalla preistoria. In seno a queste civiltà prendono forma le parole degli albori (che abbiamo imparato a memoria), e su questo piano della memoria delle origini si sedimentano altre parole-chiave che vanno ad accrescere la struttura dell’albero genealogico lessicale e danno il via allo sviluppo della Storia del Pensiero Umano. La conoscenza di queste ulteriori parole delle origini ci permette di imparare a leggere la storia dell’infanzia della nostra mente e, quindi, di imparare a scrivere la nostra autobiografia. Il testo de Le Storie di Erodoto allude a questa partenza, a questa spinta iniziale.

     Le Storie di Erodoto sono soprattutto importanti perché, tra le righe, conservano la traccia, l’impronta, di questa prima rivoluzione culturale (il passaggio dagli albori all’Età assiale della storia) che determina un risveglio, una rinascita, un primordiale rinascimento che l’Umanità ha conosciuto appena varcato il primo millennio a.C. e che tocca il suo culmine attorno al VI secolo a.C., circa 2500 anni fa. Il testo de Le Storie di Erodoto allude (con un moderato ottimismo) a questo risveglio, a questa rinascita, a questo primordiale rinascimento.  Con una contemporaneità che rimane un vero e proprio mistero storico, emergono, attorno al VI secolo a.C (2500 anni fa), indipendenti l’uno dall’altro, alcuni grandi personaggi il cui pensiero domina ancora oggi la coscienza dell’essere umano. In Cina, Confucio (un personaggio che tutti abbiamo sentito nominare) realizza una significativa riforma morale e politica. In India, vengono composte le Upanishad (i Trattati filosofici) e l’Illuminato di Benares, il Buddha (un personaggio che tutti abbiamo sentito nominare) promulga la sua dottrina della liberazione (dal dolore). In Persia, Zaratustra (un personaggio che tutti abbiamo sentito nominare) propone l’idea che esista un cammino, da realizzare nella storia, che conduce verso il raggiungimento della pienezza umana. Fra gli Ebrei prende forma con Isaia (un personaggio che tutti abbiamo sentito nominare) la coscienza profetica, cioè l’idea che bisogna progettare il futuro. In Grecia – ma lo scorso anno ce ne siamo occupati solo marginalmente – Talete (i fisici di Mileto), Parmenide, Eraclito e Pitagora (personaggi che tutti abbiamo sentito nominare e che presto incontreremo in questo viaggio), pongono le premesse della filosofia occidentale. Nel loro insieme, e distribuiti l’uno accanto all’altro come fossero le vette di una catena montuosa, questi sapienti hanno alimentato fino ad oggi l’intera civiltà umana. Ecco perché il secolo VI a.C. è stato chiamato l’Età assiale della storia: questo momento (che corrisponde a circa 2500 anni fa) è infatti l’asse attorno a cui hanno ruotato e ruotano le parole-chiave e le idee-cardine su cui si fondano le basi della Storia del Pensiero Umano.

     Il testo de Le Storie di Erodoto allude, dicono gli studiosi, all’Età assiale della storia, ed è un’allusione di prima mano perché anche Erodoto vive a ridosso di quest’età. Volendo giocare con la parola asse possiamo dire che anche il testo de Le Storie di Erodoto costituisce un’asse (forse un’asse d’equilibrio?) su cui si allineano le parole-chiave e le idee-cardine sulle quali si fondano le basi della Storia del Pensiero Umano. Il fatto singolare è che, pur nella loro diversità – ed essendo le reciproche influenze molto limitate –, i messaggi e i pensieri dell’Età assiale rivelano un patrimonio comune nel quale si legge anche la struttura culturale più antica data dal catalogo delle parole degli albori che ormai conosciamo a memoria. Quella che è stata chiamata l’Età assiale della storia è un momento che segna il trapasso dal mito, dal linguaggio immaginativo, al linguaggio razionale, costruito cioè con parole-chiave e idee-cardine di valore universale. Questo trapasso non è completo ma è decisivo, e rompe in modo netto con la cultura precedente, ed è un passaggio improvviso, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze.

     Il testo de Le Storie allude a questo soprassalto della riflessione, come lo chiamano gli studiosi. Il testo de Le Storie di Erodoto allude ad una scoperta importante, forse, dicono gli studiosi, la scoperta più importante avvenuta durante l’Età assiale della storia, quella della dimensione dell’interiorità. C’è una vita esteriore nella quale ci realizziamo, ma la bontà della vita esteriore dipende soprattutto dallo sviluppo della vita interiore. Questa scoperta consiste nel prendere coscienza del fatto che il mondo veramente umano risiede nell’interiorità della persona. Noi sappiamo che questo concetto – l’idea del primato dell’interiorità – raggiunge la sua pienezza in età romantica dal 1790.

      Nell’Età assiale della storia la scoperta dell’interiorità diventa il primo passo di un viaggio che conduce oltre il mondo mutevole, che conduce ad imbastire la prima significativa ricerca culturale che l’Umanità abbia intrapreso: la ricerca del Principio. La ricerca del Principio parte da una domanda che i nostri antenati si pongono in origine: quando, come, dove, da che cosa e soprattutto perché tutto è cominciato? Il Principio viene ipotizzato e viene chiamato in vari modi, ed è ritenuto il fondamento capace di dare un senso al mondo e all’essere umano. L’idea di andare alla ricerca di un Principio è insieme un itinerario dell’intelligenza e della volontà, ma anche del sentimento e del bisogno che ha la persona di liberarsi dalla prigionia del mondo sensibile.

     In merito a questa ricerca i grandi sapienti, vissuti nel periodo dell’Età assiale, sono al centro della Storia del Pensiero e anche Erodoto va considerato uno di questi sapienti, quello che riesce a cogliere – e che ci lascia attraverso la sua opera – il clima dell’Età assiale della storia. Ne Le Storie di Erodoto, tra le righe, possiamo cogliere il clima intellettuale di questo straordinario periodo (che rappresenta l’atto di nascita intellettuale di ciascuno di noi), e possiamo cogliere l’atmosfera culturale dell’inizio della Storia del Pensiero Umano: del momento in cui l’homo sapiens ha cominciato a rincorrere l’idea del Principio, quello che in greco si chiama l’arcή-arché e su questa parola – sulla parola arché, il principio – prossimamente, in compagnia di Erodoto, dobbiamo cominciare a riflettere (e questa riflessione comporta un certo impegno)…

     La realtà nella quale siamo immersi: da dove ha inizio? Quando ha inizio? Come ha inizio? Da che cosa ha inizio? E soprattutto perché ha inizio?E questo inizio: è un fatto provvidenziale, è un fatto casuale, è un fatto necessario? La questione della ricerca del Principio della realtà è complessa e la affronteremo strada facendo.

     Ora continuiamo la nostra riflessione domandandoci: quali parole fondamentali che trovano posto sull’albero genealogico lessicale ci ha lasciato in eredità l’Età assiale della storia? L’Età assiale della Storia (tema che abbiamo affrontato ampiamente lo scorso anno) ci lascia in eredità una serie (una ventina) di importanti parole-chiave che, come ci suggeriscono gli antropologi, trovano nel testo de Le Storie di Erodoto la loro prima collocazione, e a quattro di queste parole lo scrittore dà particolare rilievo, e questo rilievo lo abbiamo colto nello scorso anno scolastico. Queste quattro parole-chiave – insieme ad altre sedici – costituiscono il secondo piano del nostro albero genealogico lessicale.

     Queste quattro parole-chiave che Erodoto mette in evidenza costituiscono le colonne portanti della Storia del Pensiero e sono: la parola destino (di cui ci siamo già occupati viaggiando con Erodoto in Mesopotamia entrando in contatto con il testo dell’Epopea di Gilgamesch), la parola ordine (di cui ci siamo già occupati viaggiando con Erodoto in Egitto entrando in contatto con il testo del papiro Smith), la parola sogno (di cui ci siamo occupati entrando in contatto con il testo del libro della Genesi) e la parola ira (con la quale siamo entrati in contatto osservando il testo dell’Iliade di Omero). La parola destino (me in lingua akkadica, la lingua dei Sumeri) è radicata nel testo dell’Epopea di Gilgamesch; la parola ordine (maat in lingua egizia) è radicata nel testo del papiro Smith; la parola sogno (khalom in ebraico) è radicata nel testo del libro della Genesi); la parola ira (in greco menis) è la prima parola della letteratura omerica, la prima parola della letteratura greca e quindi la prima parola della letteratura occidentale: infatti l’Iliade di Omero inizia proprio con la parola menis-ira

     Il nostro albero genealogico lessicale, quindi, si sviluppa ulteriormente e sopra il piano più antico della memoria delle origini contenente le parole degli albori, troviamo il piano contenente le parole dell’Età assiale della Storia.

 

desiderio    dolore    illusione    vanità    rettitudine    benevolenza    decoro   

simpatia    modestia    caso    necessità    umiltà    giustizia    equilibrio    responsabilità    scelta

destino    ordine    sogno    ira

PIANO DELL’ETÀ ASSIALE DELLA STORIA

 

paura-bisogno    ritmo-ciclo     rete-rito     cerimonia

PIANO DELLA MEMORIA DEGLI ALBORI

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Prendendo spunto da questo schema prova a disegnare, a raffigurare, a rappresentare a modo tuo i primi due piani dell’albero genealogico lessicale…

     A questo punto la nave Sidonia, che ci sta trasportando verso est, si è definitivamente allontanata dalla costa calabra. L’albero genealogico lessicale, che si erge accanto alla fonte Thoùria, non è più visibile ad occhio nudo ma, sebbene ci troviamo in mezzo al mare, a bordo di un’imbarcazione, quindi dentro ad un oggetto artificiale, la presenza dell’albero ci accompagna. Anche la nave Simonia, a bordo della quale stiamo viaggiando virtualmente verso est, possiede un bell’albero: è provvista di un bell’albero maestro. Questo oggetto, l’albero maestro, è di legno – è ricavato da un cedro del Libano – e conserva un’origine naturale ma ormai il suo status è culturale, è metaforico, è allegorico.

     La prima idea-cardine contenuta nel punto di partenza del nostro Percorso (che stiamo studiando dalla scorsa settimana) è l’idea dell’albero genealogico lessicale. Un albero genealogico lessicale è uno schema, è un catalogo che mette in ordine, che sistematizza le parole-chiave che definiscono la nostra identità umana. Anche l’albero genealogico lessicale (sebbene ci piaccia raffigurarcelo come un maestoso prodotto della Natura: che specie di albero potrebbe essere secondo voi? Provate ad immaginarlo: un tiglio, un platano, una quercia, un arancio, un ulivo, un melograno, un abete, una palma, un faggio, un leccio, un giuggiolo, un pino, un castagno, un pero, un fico, quanti possiamo citarne ancora?) possiede però uno status culturale.

     A questo punto, lontano dalla terra ferma, in mezzo a questo bel mare calmo che invita alla riflessione, possiamo divertirci a giocare (a studiare in funzione della didattica della lettura e della scrittura) con la prima parola-chiave che incontriamo sul nostro Percorso e che abbiamo nominato in continuazione: la parola albero. La parola “albero” è una parola di grande importanza nella Storia della cultura e, in questi vent’anni di viaggi intellettuali, lo abbiamo potuto constatare molte volte, e con la parola albero potremmo costruire innumerevoli Percorsi di studio. Nella nostra lingua la parola albero definisce tanto l’oggetto naturale (l’albero della foresta, del bosco, dell’orto, del giardino) quanto l’eventuale oggetto metaforico (l’albero della nave, l’albero della cuccagna, l’albero genealogico, l’albero motore). E in greco a che cosa corrisponde questo termine? La lingua di Erodoto come si comporta nei confronti della parola albero? Nell’antica lingua greca, nel greco ionico di Erodoto, i problemi che riguardano la forma delle parole (ed ecco il tema delle forme), ne abbiamo spesso fatto esperienza, hanno un’importanza fondamentale. Erodoto nel testo de Le Storie usa decine di volte la parola albero intesa come oggetto naturale e usa decine di volte la parola albero intesa come elemento culturale e naturalmente utilizza due parole diverse. In greco per definire l’albero della foresta, del bosco, dell’orto, del giardino si usa la parola déndron, mentre per definire l’albero della nave o l’albero in senso metaforico si utilizza la parola istós. Quindi in greco, nel greco di Erodoto, esiste,come spesso succede, un termine che definisce l’albero nella sua forma naturale: dέndron-déndron, e un termine che definisce l’albero nella sua forma metaforica, allegorica: istόs-istós. Erodoto, naturalmente, non ha mai nominato l’albero genealogico lessicale (questo è un termine – e un concetto – che appartiene alla nostra contemporaneità e non sappiamo se Erodoto ne abbia la percezione) ma dobbiamo ritenere che se lo avesse nominato avrebbe usato la forma metaforica, la forma allegorica. L’albero genealogico lessicale, in greco – nel greco di Erodoto – se dovessimo definirlo dovremmo denominarlo con il temine istós, con lo stesso termine con cui definiamo l’albero di una nave. Se vogliamo continuare a giocare con le parole e a riflettere sulle idee, possiamo pensare che: la nave senza l’albero maestro (istós) non veleggia così come l’intelligenza senza l’albero genealogico lessicale (istόs-istós) non naviga, non marcia. 

     Non solo, Erodoto c’invita a riflettere ulteriormente sulle parole: se istós è l’albero della nave, così istion è la vela, è la tela. Questi due elementi – l’albero e la vela – in greco, nel greco di Erodoto, sono legati anche nel lessico: istós/istion. Ma non solo: la radice lessicale contenuta nel termine istós (l’albero della nave) e nel termine istion (la vela, la tela) entra anche nella parola istoria-istoria che, nella lingua di Erodoto (come ben sappiamo), significa ricerca, indagine, ed entra anche nel verbo istorέo-istoréo che significa chiedere, interrogare e soprattutto significa raccontare. Credo sia facile, a questo punto, per ciascuno di noi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – trovare le coincidenze e le corrispondenze che ci permettono di porre la parola albero, e le metafore che rappresenta, in stretto rapporto con la parola storia .

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Gli alberi (tanto naturali, quanto metaforici) fanno parte della nostra vita e la storia di ciascuno di noi è legata agli alberi: a quali alberi, a quale albero in particolare?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Chi legge il testo de Le Storie di Erodoto incontra (abbiamo detto) decine di volte la parola albero intesa come oggetto naturale, ma quasi sempre Erodoto trascende la condizione vegetale dell’albero per portarlo su un piano di condizione umana. Erodoto, di fronte agli alberi, coltiva spesso un sentimento che non abbiamo nessuna difficoltà a riconoscere e a condividere: «Davanti a un albero sento una grande emozione – sembra dire Erodoto – come qualcosa che respira, come qualcosa che parla e in un certo senso anche l’albero è umano». Naturalmente riconosciamo nel pensiero di Erodoto, espresso con le parole che abbiamo detto, l’intento di puntualizzare la dimensione metaforica, allegorica dell’albero: l’albero è umano nel senso che sono gli umani a umanizzarlo e renderlo un simbolo.

     Noi sappiamo, ed anche Erodoto ne è consapevole, che l’albero è presente in tutte le culture e in tutti i miti di fondazione delle civiltà. Il suo significato riconduce al paradiso perduto, alla conoscenza (non a caso parliamo di albero genealogico lessicale), alla salvezza (pensate a Cristo immolato sull’albero della croce; c’è una cantata musicata da J. S. Bach (1685-1750) che s’intitola: O albero glorioso), il significato dell’albero riconduce alla vita stessa (pensate a come, oggi, l’albero sia un indice della nostra sopravvivenza legata alla difesa delle foreste che regolano il clima del pianeta). «In un certo senso anche l’albero è umano» pensa Erodoto, e l’albero s’identifica con la nostra identità personale: “Ciascuno è il proprio albero” (meravigliosa intuizione delle Metamorfosi di Ovidio) che segue il trascorrere del tempo e porta i segni di quanto accade. Disegnare un albero è un’esperienza esistenziale quanto mai significativa: delineare radici, tronco e foglie è un po’ come fare un ritratto della propria anima. Nel disegnare un albero la persona riversa anche sul foglio l’espressione della propria personalità e ogni dettaglio è rivelatore del nostro essere e del nostro essere nel mondo (direbbe Erodoto).

     Le radici dell’albero, nella storia dei miti di fondazione delle civiltà, sono collegate alla figura femminile (l’anello forte) e indicano l’energia vitale. Il tronco dell’albero associato alla struttura dell’Io (uno dei temi per eccellenza del romanticismo titanico e galante), è la figura della mediazione tra l’istinto (la natura) e la ragione (il simbolo): è il tronco che, tagliato, diventa qualcosa d’altro, perde i connotati naturali (l’istinto) per assumere caratteristiche culturali (la ragione). La chioma dell’albero, che con i rami e le fronde subisce visibili mutamenti stagionali, rappresenta, nella storia dei miti di fondazione delle civiltà, la vita di relazione e congiunge al cielo e al sogno. L’albero nel suo insieme, la cui figura è presente in tutte le culture, per la sua posizione eretta è l’oggetto naturale che ha (che sembra avere) più analogie con gli esseri umani che, la posizione eretta, se le sono conquistata forse coltivando un diretto rapporto con gli alberi (dall’homo arboricolus al Barone rampante di Italo Calvino).

     Erodoto – mentre scrive, 2500 anni fa – è consapevole del valore simbolico che hanno gli alberi, ed è consapevole, in generale, del valore simbolico delle cose: sappiamo che (lo abbiamo studiato lo scorso anno) l’uso delle forme allegoriche è il procedimento più interessante nella scrittura di Erodoto, è il connotato più attraente dello stile di Erodoto come scrittore.

     E ora, per continuare la nostra riflessione, indirizziamo l’attenzione su un brano che abbiamo già incontrato nel Percorso 2005-2006: il capitolo 31 del libro VII de Le Storie di Erodoto. In questo breve capitolo lo scrittore ci racconta che Serse, il re dei Persiani, sta procedendo alla testa del suo enorme esercito verso la città di Sardi: si è mosso con l’intenzione di invadere la Grecia (di sottomettere l’Europa) per diventare il padrone del mondo e, ad un tratto, lungo la strada, ci racconta Erodoto, il Grande Re vede un platano e rimane affascinato dalla bellezza di quest’albero e dà ordine di rivestirlo d’oro. Noi, di fronte a questo gesto, possiamo essere indotti a pensare: ma che animo gentile ha questo Serse che si lascia sedurre dalla bellezza degli alberi! In realtà Erodoto (ed è per questo motivo che abbiamo già citato, lo scorso anno, questo brano), con il capitolo 31 del libro VII, vuole introdurre il fatto che Serse comincia a mostrare i suoi artigli. Erodoto utilizza l’episodio del platano rivestito d’oro come una metafora che funge da introduzione al racconto delle nefandezze di Serse: una serie di atti di crudeltà che non gioveranno alla sua impresa (il Fato, il destino, secondo Erodoto, punisce i crudeli, castiga i prepotenti ed esalta gli umili).

     Questo racconto, sicuramente allegorico, fa da prologo alla disfatta di Serse (egli, nonostante la sua potenza, proprio in ragione della sua arroganza, sarà sconfitto, sarà umiliato dai Greci) e l’utilizzo simbolico di un albero come il platano non è casuale da parte di Erodoto: perché?  Noi sappiamo (quasi tutti), dalla rete dei racconti mitici su cui si basa la cultura della tragedia greca, che il platano è l’albero di Elena, il platano è uno dei simboli che richiamano il personaggio di Elena di Sparta: chi non conosce la moglie di Menelao che s’innamora e fugge con Paride, il figlio del potente re di Troia, Priamo. Erodoto, ne Le Storie, si occupa del mito di Elena (e anche noi, l’anno scorso, ce ne siamo occupati). Erodoto chiama Paride con il nome di Alessandro e ci mette al corrente del fatto che la storia principale che narra il mito di Elena racconta che la regina, fuggita da Sparta, non è mai arrivata a Troia con Alessandro (o Paride, che dir si voglia), ma Alessandro (o Paride, che dir si voglia) è tornato da solo a Troia con un ritratto di Elena (con un “simulacro”, con un ritratto confezionato dalle ricamatrici di Sidone) e, quindi, quella terribile guerra, tra gli Achei e i Troiani (che fa da sfondo all’Iliade di Omero), è stata combattuta per un simulacro, per un’immagine.

     Il racconto principale del mito di Elena, scrive Erodoto, mette in evidenza che gli Achei avevano bisogno di un pretesto, e la fuga amorosa di Elena risulta un “bel pretesto” per dare inizio ad una guerra scatenata per motivi economici. Omero, scrive Erodoto, ha mentito (ha tenuto nascosto il racconto principale del mito di Elena) per motivi poetici, per poter narrare soprattutto le gesta degli eroi. Omero (la tradizione poetica che definiamo col nome di Omero) mette al centro della sua opera il tema dell’ira (menis) di Achille, un tema molto più avvincente per il pubblico di allora.

     Ma perché il platano è l’albero di Elena? Perché il platano è un albero che biancheggia, il colore del platano tende al bianco, tende alla luminosità e il mito di Elena è circonfuso dal biancore: Elena, il personaggio di Elena che è una figura letteraria, viene poeticamente definita la bianca,  la luminosa, e questi attributi di Elena, lo abbiamo studiato nel Percorso del 2003 sulla Tragedia, hanno dei risvolti sul piano della Storia del Pensiero Umano. Il mytos di Elena (la rete dei racconti su Elena) inizia nel biancore: Elena è splendente, Elena è l’immagine e il simbolo della luce e la comparsa della luce caratterizza i racconti sulle Origini.

     Per capire questo concetto mitico ci avvaliamo dell’aiuto di un grande poeta, Publio Ovidio Nasone (43 a.C - 17 d.C. circa), che ci accompagna spesso nei nostri itinerari, il quale di alberi se ne intende: quanti personaggi delle sue Metamorfosi (un’opera che ha compiuto 2000 anni) si trasformano in alberi! Di Ovidio, questa sera, utilizziamo un’opera giovanile intitolata Le Eroidi (le Eroine). Le Eroidi è un’opera poetica, in versi, ed è formata da una serie di lettere, quindici: sono lettere fantastiche, scritte da donne famose, da eroine, che si rivolgono ai loro amanti per comunicare quanto hanno sofferto, quanto hanno dovuto pagare per amore.

     Ovidio vive a Roma al tempo di Augusto (2000 anni fa), scrive in latino utilizzando, come è solito fare, i racconti mitici della cultura greca e con la sua arte poetica riesce a dare corpo a questi personaggi immaginari e fa diventare le sue eroine come se fossero delle figure vere, ricche di sentimenti umani. Ovidio inserisce nel testo delle lettere i suoi commenti, le sue riflessioni di carattere culturale che rappresentano la parte più significativa di quest’opera: sono riflessioni intellettuali sulla natura del mito, utili per capire i modelli e i simboli epici. In questo epistolario troviamo naturalmente una lettera di Elena a Paride e anche la risposta di Paride a Elena, ma ciò che a noi interessa sono le significative riflessioni dell’autore perché con esse Ovidio codifica la natura simbolica di Elena nella Storia della Cultura. Leggiamo un frammento da:

LEGERE MULTUM….

Ovidio, Le Eroidi  (14 circa a.C.)

Nel biancore Elena finisce, e nel biancore ha inizio.

La schiuma delle onde da cui nacque Afrodite si rapprese nel guscio bianco

di un uovo di cigno, gettato in un luogo paludoso.

La mobile immensità marina si era ristretta in uno specchio d’acqua ferma, incorniciato di canne.

Allo schiudersi di quell’uovo nella palude si mostra Elena.

E, acquattati nello stesso guscio erano i Dioscuri, Castore e Polluce.

Così Elena, sebbene unica, è sin dall’inizio legata alla gemellità e alla scissione.

L’unica è la figura stessa del Doppio. Quando si parlerà di Elena, non si saprà mai

se si tratta del suo corpo o del suo simulacro.

     Ovidio riporta una tradizione mitica secondo la quale Elena nasce da un uovo: è figlia di Leda e di Zeus che, come ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi, si è trasformato in cigno per conquistare la fanciulla, e nello stesso uovo da cui nasce Elena ci sono anche due gemelli: Castore e Polluce. Non è difficile fare l’esegesi dei simboli che contornano Elena. Elena nasce dall’uovo e nell’uovo ci sono due elementi, uno chiaro e uno scuro, che rappresentano il dualismo originario tra la luce e le tenebre. Elena nasce dal bianco dell’uovo, e l’uovo è uno dei simboli più appropriati per definire le origini. Se l’uovo, con il suo biancore, porta in sé il concetto delle origini, l’origine porta in sé il bianco, il biancore, lo splendore, la luce e difatti nei racconti sulle origini di tutte le culture il ruolo della luce risulta fondamentale.

     Elena con il suo biancore viene equiparata ad una divinità e gli alberi sono i primi santuari della storia della Cultura: ora succede che il platano sia stato considerato l’albero dotato di maggior biancore e quindi il platano diventa l’albero di Elena e per questo motivo, nell’area mediterranea, veniva venerato. La “venerazione” del platano, in quanto albero di Elena, assume, nella cultura contadina mediterranea, nella cultura orfica (con Orfeo avremo a che fare la prossima settimana per diverse settimane) un carattere di ammonimento proprio in relazione al personaggio dell’Elena omerica che viene etichettata e utilizzata come modello negativo soprattutto in quanto sposa traditrice: un esempio di donna ambigua, subdola, infida, da non imitarsi ma da punire.

     La tradizione mitica racconta (ed Erodoto ne è certamente a conoscenza) che ad un platano è stata impiccata Elena, e in ogni villaggio dell’area mediterranea si piantava un platano perché sotto quest’albero si svolgesse una cerimonia (un rito orfico) collegata al rito del matrimonio; le amiche della sposa (all’alba della prima notte di nozze) celebravano la liturgia dell’addio al celibato: la sposa era rappresentata con un fantoccio, con una bambola, che veniva appesa all’albero. Questo rito orfico rievocava l’impiccagione di Elena la quale, con la sua infedeltà, secondo la tradizione mitica, non solo si era comportata male nei confronti del marito ma aveva anche rovinato la reputazione di tutte le spose e, quindi, aveva subìto la giusta punizione. Questa celebrazione era, più che altro, un rito funebre che conteneva un carattere di ammonimento e di minaccia: “se non sarai fedele, se farai come Elena” – cantano le amiche della sposa sotto il platano agghindato a festa dove pende il fantoccio, la bambola che la rappresenta – farai la sua fine, anche tu verrai impiccata (c’è una legittimazione del delitto d’onore).

     Ma dobbiamo ricordare che la trafila non parte da Elena: la trafila parte dalla paura del tradimento (dalla paura che si mescoli il sangue in modo non autorizzato, dal timore che gli accoppiamenti non riconosciuti, fuori dal recinto rituale, portino disordine nella comunità) e questa paura si manifesta nei Racconti delle origini (compare sempre una donna traditrice) che, nell’area mediterranea, nascono in concomitanza e si mescolano ai culti orfici: Elena è uno dei personaggi (la forma più sofisticata) che dai racconti rituali orali entra nella letteratura, nel filone della sapienza poetica orfica. Quindi il platano diventa l’elemento di congiunzione tra i racconti rituali del culto orfico e la letteratura epica.

     Ma torniamo a Serse e al capitolo 31 del libro VII de Le Storie di Erodoto. Serse,  il re dei re, è disinformato: non conosce il rapporto che lega l’albero del platano e il personaggio mitico di Elena di Sparta, ma sente di dover venerare questo meraviglioso (deinòs) albero, e, dopo averlo fatto adornare d’oro, lo affida alla custodia di uno degli Immortali, cioè a uno dei soldati (erano diecimila) della sua guardia scelta: si chiamavano Immortali perché il loro numero doveva rimanere sempre costante, sempre di diecimila.

     Erodoto allude al fatto che Serse prova ammirazione per questo platano perché s’identifica con questo meraviglioso oggetto (“Ciascuno è il proprio albero” leggeremo nelle Metamorfosi di Ovidio). Serse s’identifica nella grandezza, nella maestosità, nella bellezza di quest’albero e vede in questo oggetto l’immagine di se stesso, agghindato d’oro e venerato come una divinità. Se Serse avesse saputo – allude Erodoto, ridacchiando sotto i baffi – che il platano è l’albero di Elena sarebbe stato più cauto, lo avrebbe ammirato e venerato senza identificarsi troppo. Per Serse – sottolinea Erodoto – non è conveniente identificarsi con l’albero di Elena, ma Serse ignora questo particolare; e difatti Serse non ha ancora finito di estasiarsi sulla magnificenza del platano nella quale vede esaltata la sua potenza personale che per lui cominciano i guai. Un messaggero, racconta Erodoto nel libro VII de Le Storie, porta la notizia che una terribile tempesta ha distrutto i ponti gettati per ordine del Re sull’Ellesponto per far passare il suo enorme esercito dall’Asia all’Europa. Serse si sente un grande stratega ma – allude Erodoto sarcastico – non sa interpretare la realtà che consiste in un intreccio tra natura e cultura. Serse – allude Erodoto ironicamente – identificandosi in un platano, nell’albero di Elena, dimostra la sua fragilità psicologica e la sua insipienza culturale: il platano si venera, si ammira, si disegna con doveroso rispetto.

     E ora, dopo aver preparato il terreno in funzione della didattica della lettura e della scrittura,  leggiamo il capitolo 31 del libro VII de Le Storie di Erodoto in modo da osservare il testo da vicino: in modo da osservare il particolare lessicale presente nel testo greco su cui si appoggia il ragionamento che abbiamo fatto.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie VII  31

Quando, lasciata la Frigia, si penetra nella Lidia, la strada si divide in due: una, a sinistra, che porta verso la Caria, l’altra, a destra, che va a Sardi. E chi prende questa via deve assolutamente attraversare il fiume Meandro e passare accanto alla città di Callatebo, nella quale sono i pasticceri che traggono il miele dal tamarisco e dal grano. Serse, avviandosi per questa, trovò un platano (déndron platanon), cui fece dono, per la sua bellezza, di ornamenti d’oro; poi, affidato l’albero (istós) alla sorveglianza di uno degli Immortali, al secondo giorno arrivò alla capitale della Lidia.

     Erodoto, nel testo greco, per definire l’albero del platano usa, per primo, il termine déndron che indica l’albero come oggetto naturale, come realtà vegetale e poi lo scrittore, per registrare la trasformazione del platano in elemento culturale, utilizza il termine metaforico, istòs, con il quale designa l’albero come simbolo, come allegoria. La riflessione che abbiamo fatto sulle parole déndron e istòs che, nel greco di Erodoto, definiscono l’albero nei suoi due aspetti, naturale e simbolico, non è fine a se stessa ma introduce una questione che, sebbene complicata, dobbiamo affrontare. La riflessione che abbiamo fatto deve servire anche per chiarire meglio la direzione che, nel nostro viaggio, stiamo prendendo.

     Nel Percorso dell’anno 2005-2006 abbiamo messo in evidenza, studiando il testo de Le Storie di Erodoto, le parole-chiave degli albori (quattro coppie di parole – paura-bisogno, ritmo-ciclo, rete-rito, cerimonia-racconto – che abbiamo imparato a memoria) e che troviamo al primo piano dell’albero genealogico lessicale, e poi abbiamo messo in evidenza le parole-chiave delle grandi civiltà dell’Età assiale della storia (una ventina di parole, quattro delle quali – destino, ordine, sogno e ira – risultano essere più importanti e le conosciamo a memoria) che troviamo al secondo piano dell’albero genealogico lessicale. Nel Percorso di quest’anno 2006-2007 abbiamo in programma (come sappiamo) di mettere in evidenza le parole-chiave e le idee significative della cultura greca (ionica, attica e del primo ellenismo) che emergono dal testo de Le Storie di Erodoto, ed è per questo motivo che stiamo navigando, sulla nave Simonia, verso est, verso la Grecia. Ci stiamo dirigendo verso la Grecia (stiamo ora attraversando il golfo di Taranto) sulla scia determinata da una questione culturale che dobbiamo affrontare subito, proprio ora, approfittando del fatto che stiamo navigando tranquillamente.

     La civiltà greca, nell’Età assiale della Storia (2500 anni fa) si caratterizza per una domanda che risulta fondamentale nella Storia del Pensiero Umano: questa domanda – alla quale allude spesso Erodoto nel testo de Le Storie – dà alla civiltà greca quell’importanza, sul piano culturale e intellettuale, che le viene riconosciuta. La lingua è lo specchio del pensiero, ci dicono gli studiosi, e quando Erodoto, nel testo de Le Storie, che viene considerato il primo grande contenitore degli oggetti culturali (parole, idee) prodotti dall’Età assiale della storia, usa le parole in modo da differenziare il loro significato naturale da quello simbolico, noi capiamo che questa operazione rivela una significativa questione relativa alla Storia del Pensiero.

     La presenza nell’opera di Erodoto, osservano gli studiosi, di parole-chiave dalla doppia valenza – naturale e simbolica (noi abbiamo preso come esempio la parola albero) – rivela l’esistenza di una domanda significativa (che continuiamo a porci tutt’oggi): come si concilia la realtà umana (la concezione che abbiamo di noi stessi) con la realtà naturale (con la fisica, con la chimica)? La realtà, in generale, pensano i Greci nell’Età assiale della storia, è costituita da elementi materiali (da particelle fisiche, diremmo oggi, in un campo di forza) privi di mente e di significato, e allora: la realtà naturale (priva di pensiero e di senso) come entra in relazione con la realtà umana che contiene invece la coscienza, l’intenzionalità, il linguaggio, la razionalità, il libero arbitrio, la società, la moralità, le opere d’arte, la creatività e un gran numero di altre cose? Come dare una descrizione unificata, consistente e coerente della realtà? Come dare una descrizione in grado di mostrare che tutti gli elementi – tanto naturali (materiali) quanto simbolici (virtuali) – sono aspetti di una sola e identica realtà, di un kosmos-kosmos (parola che, in greco, significa ordine e significa mondo)?

     Questa questione, e le domande che pone (viviamo davvero in un kosmos, in un mondo unico e ordinato? si domandano i Greci), include, prima di tutto, un significativo ragionamento sul rapporto tra ciò che è naturale (che dovrebbe essere la realtà concreta) e ciò che è simbolico (che dovrebbe essere una realtà virtuale, una non-realtà): i Greci – Erodoto ne è testimone con la sua opera – formulano il problema in modo paradossale, giocando con le contraddizioni (con le aporie).

     Se riflettiamo, sulla scia di Erodoto, constatiamo che la realtà del denaro (come oggetto simbolico di scambio), della proprietà, del matrimonio, del governo, della scuola, delle feste, quella che chiamiamo la realtà sociale e istituzionale – che Erodoto rappresenta con le parole koinós (realtà sociale) e paideìa (realtà istituzionale) – esiste soltanto perché noi pensiamo (noi crediamo) che queste cose esistano. Se smettessimo di credere che questi pezzetti di metallo (che sono inerti, senza mente e significato, ma realtà concreta in quanto materia) sono denaro (sono un simbolo dinamico ed efficace di scambio ma, in quanto simbolo, sono una non-realtà, un sostituto della realtà) essi smetterebbero di svolgere la funzione di denaro e dunque non sarebbero più denaro. Ma la realtà sociale e istituzionale (di cui il denaro fa parte da prima di Erodoto) ha un’esistenza oggettiva: che questo pezzetto di metallo sia denaro non è solo la mia opinione personale, è un fatto oggettivo. E allora, il paradosso sta nel fatto che la realtà sociale e istituzionale, la quale è una realtà simbolica e che, quindi, risulta senza consistenza materiale (risulta una non-realtà) e che inoltre si rivela anche soggettiva nel senso che esiste soltanto perché il soggetto crede che esista, ebbene la realtà sociale e istituzionale (che possiede le caratteristiche della non-realtà e della soggettività) assuma una consistenza oggettiva tale da farci pensare che la realtà naturale, la realtà materiale (il pezzetto di metallo) non sia più la realtà concreta. Paradossalmente il simbolo, che è una realtà virtuale, assume i connotati della realtà concreta rispetto alla realtà naturale che è l’effettiva realtà. Ecco il paradosso che la cultura greca trasforma in questione intellettuale da affrontare: come mai la realtà naturale, la realtà materiale (la fisica, la chimica…) perde la sua valenza di realtà vera e invece la realtà virtuale, la realtà simbolica (la società, le istituzioni) assumono un ruolo oggettivo nonostante siano una non-realtà? Come si spiega il fatto che la realtà sociale e istituzionale che è una realtà simbolica, virtuale, che è una non-realtà, di carattere soggettivo, si presenti come un fatto oggettivo e determini un offuscamento della realtà vera, determini un oscuramento della realtà naturale, della realtà materiale?

     Questa questione (è una questione complicata! ma stiamo comodamente navigando e il corpo può rilassarsi ma la mente no, deve cimentarsi), con gli interrogativi che l’accompagnano, introduce, nella Storia della Cultura, (in modo complesso, ma questo non ci deve indurre a rinunciare ad investire in intelligenza), il tema del Principio della realtà e il problema della ricerca del Principio della realtà. Per i Greci – durante l’Età assiale della storia – la questione della ricerca del Principio viene affrontata facendo uno sforzo teso a superare i miti, teso a cercare delle risposte non fuori dalla realtà, ma nella realtà stessa. L’idea di andare alla ricerca di un Principio della realtà nella realtà stessa è insieme un itinerario dell’intelligenza, della volontà, e anche del sentimento e del bisogno che la persona sente di liberarsi dalla prigionia del mondo sensibile: di qui nasce la tendenza a creare forme simboliche, metaforiche, allegoriche sul piano del linguaggio e a metterle in evidenza distinte dalle forme concrete.

     Per i Greci – durante l’Età assiale della storia – la questione della ricerca del Principio della realtà è strettamente collegata al tema del linguaggio (logos). Perché Le Storie di Erodoto – affermano gli studiosi: i linguisti, gli antropologi, gli antichisti – sono da considerarsi un’opera di straordinaria importanza? Le Storie di Erodoto sono da considerarsi un’opera di straordinaria importanza perché costituiscono il terreno (per studiare) per capire il ruolo essenziale del linguaggio nella questione della ricerca del Principio della realtà. I fatti, ipotizzati sotto forma di tesi nella ricerca del Principio della realtà, esistono soltanto nella misura in cui vengono rappresentati come esistenti, e per rappresentarli come esistenti – allude Erodoto – c’è bisogno del linguaggio. E allora, per i Greci, c’è una cosa che può unificare la realtà: questa cosa è il linguaggio proprio perché il linguaggio ha il potere (ha la funzione) di definire ciò che è naturale e ciò che è culturale. Erodoto ricorda spesso ironicamente, nei suoi racconti allegorici, che si può avere il linguaggio senza avere le monete d’oro, il potere politico, la proprietà privata, i riti, le cerimonie, ma non si possono avere le monete d’oro, il potere politico, la proprietà privata, i riti, le cerimonie senza il linguaggio. Il linguaggio è l’istituzione umana fondamentale poiché tutte le altre istituzioni presuppongono il linguaggio.

     Perché è necessario studiare Le Storie di Erodoto oggi? Perché l’opera di Erodoto mette in risalto il valore del linguaggio come istituzione fondamentale della società. Anche Erodoto, da intellettuale greco che vive a ridosso dell’Età assiale della storia, partecipa alla ricerca del Principio della realtà e secondo lui il Principio della realtà è il linguaggio stesso (logos) che dà vita alle istituzioni, che anima le istituzioni democratiche, che fonda la polis.

     Naturalmente abbiamo appena aperto la questione che riguarda il tema della ricerca del Principio della realtà, un tema legato alla parola-chiave arché, un tema che affronteremo ampiamente quando, prossimamente, approderemo sulla costa asiatica della Grecia. La questione che riguarda il tema della ricerca del Principio della realtà è legata (come abbiamo detto), nel testo dell’opera di Erodoto, alla presenza di parole-chiave dalla doppia valenza: naturale e simbolica; questa differenziazione frutto di un processo di definizione, che la lingua greca presenta, è una prova del dibattito in corso, al tempo di Erodoto, sul tema del complicato rapporto tra la realtà simbolica (virtuale) che si configura nelle Istituzioni e la realtà materiale (effettiva) che si manifesta nella Natura.

     Mentre la nave sta per terminare l’attraversamento del golfo di Taranto e sta per doppiare il capo che oggi si chiama di Santa Maria di Leuca (consultate poi l’atlante ricordando che leukos, in greco, significa bianco, quindi leuka significa bianca: c’è un riferimento al biancore della costa, ma c’è un riferimento anche a Elena?), il capitano della nave Sidonia, che (come abbiamo anticipato) si chiama Agenore (è un fenicio) di Tiro viene a presentarsi e a salutarci. Viene anche ad illustrarci la rotta e ad esaltare la potenza e la funzionalità dell’albero maestro (istós) della sua nave della quale siamo ospiti graditi. Agenore ci dice che l’albero maestro (istós), di cui va fiero, non ci sarebbe se non ci fosse stato un albero (déndron) sui monti del Libano quindi – s’interroga Agenore – dobbiamo pensare che la realtà dell’albero maestro è data da quell’albero naturale? Ma, aggiunge Agenore, è anche vero che quell’albero della foresta sarebbe rimasto un soggetto naturale qualunque se non fosse diventato un oggetto simbolico, quindi,  continua a interrogarsi Agenore, dobbiamo pensare che la realtà dell’albero naturale è data dall’albero maestro? Dove si colloca il Principio della realtà? Agenore ride – cercando l’altrettanto sorridente sguardo di Erodoto – mentre si pone la domanda conclusiva: che cos’è vero? E poi si risponde: di verosimile c’è il linguaggio con il quale posso imbastire questo ragionamento, con il quale posso unificare la realtà.

     Il capitano Agenore indica, oltre a quella marina, anche la nostra rotta intellettuale, e allora torniamo alla parola-chiave sulla quale, questa sera, abbiamo puntato la nostra attenzione: la parola albero, nella sua doppia valenza: naturale e simbolica. La parola albero, come tutti i termini che hanno una doppia valenza (materiale e metaforica) e che Erodoto utilizza, viene impiegata dallo scrittore soprattutto per descrivere ruoli sociali e istituzionali: non c’è navigazione (non c’è governo) senza l’albero maestro, non c’è festa (non c’è cerimonia) senza l’albero della cuccagna, non c’è conoscenza (non c’è scuola, non c’è storia) senza l’albero genealogico lessicale.

     E ora per concludere questo (faticoso?) itinerario – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – seguiamo l’indicazione di Erodoto sulla doppia valenza della parola-chiave albero.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Nella Storia della Letteratura c’è una lunga lista di alberi significativi che compaiono, nei romanzi, nei racconti, nei poemi, nelle poesie…

Tu ne ricordi qualcuno? 

Scrivi quattro righe in proposito…

    È veramente difficile scegliere tra gli alberi letterari: c’è un albero che attira l’attenzione proprio perché  in realtà questo albero è ridotto a un pezzo di legno. Ed è così che inizia il romanzo (famosissimo, tradotto in tutte le lingue del mondo, anche in latino) che abbiamo sotto mano:

LEGERE MULTUM….

Carlo Collodi,  Le avventure di Pinocchio (1883)

C’era una volta

– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.

– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno

Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.

Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.

Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatine di  mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:

– Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino. Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché

     Vedete – se vogliamo pensare nel greco di Erodoto – questo “pezzo di legno” deriva da un déndron (un albero) ma all’inizio di questo romanzo è ormai un istòs (un legno) pronto perché lo scrittore possa imbastire una metafora, un’allegoria. Le avventure di Pinocchio, il famosissimo romanzo di Carlo Collodi – pseudonimo di Carlo Lorenzini (1826-1890), Collodi è il nome del paese di sua madre – è, nella sua versione originale, pubblicata a puntate sul Giornale dei bambini dal 1880 al 1883, un testo sconosciuto agli Italiani: lo hanno letto in pochissimi. Le avventure di Pinocchio è uno di quei testi (abbiamo incontrato Il Piccolo Principe la scorsa settimana) che, periodicamente, vanno riletti. Cambiano le stagioni della nostra vita, cambiamo noi, e i testi assumono significati diversi, sempre nuovi: le riletture dei classici scandiscono la nostra vita intellettuale.

     Che cosa c’è da dire di Carlo Collodi (di Carlo Lorenzini) e del suo romanzo? Fate voi una piccola ricerca sullo scrittore fiorentino di idee mazziniane che partecipa alle rivolte risorgimentali del 1848-1849, che combatte la Seconda guerra d’Indipendenza, che nel 1856 scrive e pubblica Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno (un testo che costituisce uno dei primi esempi di attenzione letteraria verso quella novità tecnologica che era allora la ferrovia, così cara anche a Leone Tolstoj), che lascia Firenze (nel 1867) solo per un breve e misterioso viaggio in Francia e che, sebbene divenuto impiegato del nuovo Stato Unitario (viene incaricato di partecipare alla redazione del Novo vocabolario della lingua italiana e di tradurre in italiano, dal francese, le Favole di Perrault), non vorrà mai trasferirsi a Roma.

     Ma soprattutto procuratevi il testo de Le avventure di Pinocchio, lo trovate in biblioteca, e leggetevelo o rileggetevelo. Ci si accorge che anche per Collodi, come per Erodoto, la realtà umana ha innanzi tutto una natura sociale e istituzionale la quale, come in Erodoto, si esprime in tre nozioni fondamentali: l’intenzionalità collettiva, l’assegnazione di funzioni sociali e il bisogno di regole. Queste tre nozioni fondamentali scandiscono il testo de Le avventure di Pinocchio.

     Leggiamone ancora due pagine:

LEGERE MULTUM….

Carlo Collodi,  Le avventure di Pinocchio (1883)

 La casa di Geppetto era una stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo che pareva fumo davvero. Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino. – Che nome gli metterò? – disse fra sé e sé. – Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina. Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi.

Fatti gli occhi, figuratevi la sua meraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso, Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male e disse con accento risentito:

– Occhiacci di legno, perché mi guardate?

Nessuno rispose.

Allora, dopo gli occhi gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere e, cresci cresci cresci, diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai.

Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo.

Dopo il naso gli fece la bocca.

La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo.

– Smetti di ridere! – disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro.

– Smetti di ridere, ti ripeto! – urlò con voce minacciosa.

Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua.

Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene e continuò a lavorare. Dopo la bocca gli fece il mento, poi il collo, poi le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.

Appena finite le mani, Geppetto sentì portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.

– Pinocchio! rendimi subito la mia parrucca.

E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la mise in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato.

A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e malinconico come non era stato mai in vita sua e, voltandosi verso Pinocchio, gli disse:

– Birba d’un figliolo, non sei ancora finito di fare e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!

E si asciugò una lacrima.

Restavano sempre da fare le gambe e i piedi. Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio su la punta del naso.

– Me lo merito! – disse allora fra sé. – Dovevo pensarci prima: oramai è tardi.

Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare.

Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro.

Quando le gambe gli si furono sgranchite. Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare.

E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre e, battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso come venti paia di zoccoli da contadini.

– Piglialo! piglialo! – urlava Geppetto; ma la gente che era per via, vedendo questo burattino di legno che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo e rideva rideva rideva da non poterselo figurare.

Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere il quale, sentendo tutto quello schiamazzo e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada con l’animo risoluto di fermarlo e d’impedire il caso di maggiori disgrazie.

Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli per sorpresa framezzo alle gambe, e invece fece fiasco.

Il carabiniere, senza punto smoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere acchiappato dai carabinieri) e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? Perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli.

Allora lo prese per la collottola e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:

– Andiamo subito a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti.

Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno e a far capannello.

Chi ne diceva una, chi un’altra.

– Povero burattino – dicevano alcuni – ha ragione a non voler tornare a casa. Chi lo sa come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto!

E gli altri soggiungevano malignamente:

– Quel Geppetto pare un galantuomo, ma è un vero tiranno coi ragazzi. Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi.

Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimesse in libertà Pinocchio e condusse in prigione quel poveruomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un vitellino e, nell’avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando:

– Sciagurato figliolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino perbene! Ma mi sta il dovere: dovevo pensarci prima.

     Si è fatta notte e la prua della Sidonia, che ci trasporta, fende le onde scivolando verso sud est. Il capitano Agenore c’invita a scendere nelle nostre cabine e ci augura la buonanotte: comincia per la nostra nave, ben stabile con il suo albero maestro, la traversata del mar Ionio verso l’Ellade, seguendola rotta est-sud est. Quando ci sveglieremo e torneremo sul ponte saremo in vista delle isole Ionie (Corfù, Léucade, Cefalonia, Zante o Zacinto) e faremo tappa nella più piccola di queste isole, e quest’isola si chiama Itaca: l’avete sentita nominare? Perché dobbiamo fare tappa a Itaca? Perché Erodoto – che viaggia insieme a noi – deve cominciare a parlarci di un importante argomento che prende il nome di sapienza poetica orfica. Che cos’è la sapienza poetica orfica? Cominceremo a parlarne la prossima settimana, quindi – non lasciatevi fuorviare dal gatto e dalla volpe – correte a Scuola.

     È la Scuola il vero paese dei balocchi, e la Scuola è qui …

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 20, 2006