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LO SGUARDO DI HEGEL SULLE PAROLE: CRITICA, ASSOLUTO, DIALETTICA …

Lezione N.: 
25

Prof. Giuseppe Nibbi                   Lo sguardo di Hegel  2006         3-4-5  maggio  2006

LO SGUARDO DI HEGEL

SULLE PAROLE: CRITICA, ASSOLUTO, DIALETTICA …

     Noi sappiamo che, all’inizio dell’estate dell’anno 1793, il professor Fortunius, Schelling, Hölderlin e Hegel lasciano l’Istituto Stift di Tubinga. Il collegio Stift di Tubinga è un’istituzione granducale destinata soprattutto alla formazione del clero protestante, è una scuola severa in cui l’atmosfera ufficiale (la facciata) è quella dell’ortodossia (conservatorismo, tradizionalismo, censura), ma per merito di un certo numero di professori “illuminati” non mancano di farsi sentire le influenze della filosofia più recente da Rousseau a Kant, da Schiller a Fichte fino alla riscoperta del pensiero di Spinoza, e naturalmente si fanno sentire gli echi (spesso assordanti) della Rivoluzione francese che solleva (come abbiamo già potuto constatare) entusiasmo e partecipazione fra gli studenti. All’inizio dell’estate dell’anno 1793, Schelling, Hölderlin e Hegel lasciano l’Istituto Stift di Tubinga e, come prima scelta di vita – tutti contro la volontà dei loro genitori –decidono di non abbracciare la carriera ecclesiastica. Il professor Fortunius parte per Riga e, tanto i suoi studenti quanto noi, lo perdiamo per sempre di vista. Hölderlin (ha ancora qualche esame da dare allo Stift e lo darà da alunno esterno), nel 1795, approda, come precettore, a Francoforte: sappiamo che cosa lo aspetta, e noi – sulla scia di Hegel – lo incontreremo ancora. Schelling torna nella sua città natale a Leonberg e comincia, seguendo a distanza le lezioni di Fichte, il suo itinerario di pensatore: anche lui,  sulla scia di Hegel, lo incontreremo ancora.

     A questo punto dobbiamo metterci anche noi sulla scia di Hegel. Hegel viene assunto come precettore a Berna, in una famiglia dell’aristocrazia del luogo: la famiglia Steiger e, nell’ottobre del 1793,  parte per la Svizzera. Hegel non ha ancora scoperto la sua vocazione filosofica, si considera, per usare le sue parole, uno “storico pensante”, cioè un ricercatore mosso da interessi sociali e politici. Hegel a Berna, nelle pause del suo lavoro, continua a studiare e qui comincia quella che viene chiamata la fase di preparazione del “giovane Hegel”, una fase in cui, attraverso molte forme culturali, vengono a strutturarsi le forme intellettuali di quello che sarà il pensiero di Hegel. Il “giovane Hegel”, a Berna, comincia a mettere insieme un catalogo di parole-chiave e di idee significative che serviranno come base, come tasselli culturali, alla formulazione del suo pensiero. Il “giovane Hegel” a Berna comincia a studiare le opere di Kant e comincia a scrivere: che cosa scrive, che cosa pensa, che cosa gli viene in mente?

     Ma prima di tutto cerchiamo di conoscerlo meglio: chi è Hegel? Georg Hegel è nato il 27 agosto 1770 a Stoccarda, la capitale del Granducato del Württemberg…è il primo dei tre figli di un funzionario dell’amministrazione granducale. Georg frequenta il ginnasio e si forma una cultura (le “forme intellettuali”) di tipo sostanzialmente umanistico e, corrispondente all’atmosfera dell’Illuminismo, acquisisce una buona conoscenza delle lingue e del mondo classico, della letteratura dell’Antico e del Nuovo Testamento, legge molti autori moderni (letterati, storici, filosofi): ci si può rendere conto in modo abbastanza approfondito della formazione culturale di Hegel perché, dal 1785, ha tenuto un “diario” in cui racconta soprattutto i suoi progressi di studente (le letture, le scoperte culturali, le riflessioni intellettuali) oltre che i fatti legati alla sua vita da adolescente a Stoccarda.

     Il nostro viaggio sulla scia di Hegel comincia quindi da Stoccarda, e non possiamo fare a meno di visitare questa città, famosa per le sue industrie (Mercedes, Porsche, Kodak, Bosch), ma che ha saputo mantenere l’aspetto di un affascinante città-giardino in armonia con le boscose colline circostanti. Sullo stemma di Stoccarda vediamo raffigurata una cavalla nera (rampante) che ricorda le origini dell’abitato sorto intorno ad un allevamento (Stutengarten) di cavalli voluto nel 960 dal duca Luitolfo, figlio dell’imperatore Ottone I. Stoccarda nel 1286 si guadagna il rango di città: una città che diventa gradualmente sempre più importante fino ad essere riconosciuta, nel 1806, come capoluogo di un’importante regione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con la guida della Germania e anche attraverso la rete fate una visita a Stoccarda, buon viaggio…  Tra i monumenti della città qual è quello che per voi risulta più significativo?…

Scrivete quattro righe in proposito…  

     Nel 1788 Hegel si iscrive all’Istituto Stift che era parificato con l’Università di Tubinga e di questo momento della sua vita, trascorso in compagnia di Schelling e di Hölderlin sotto la guida del professor Fortunius, sappiamo quasi tutto. Hegel, dopo la laurea, viene assunto come precettore a Berna, in una famiglia dell’aristocrazia del luogo: la famiglia Steiger e, nell’ottobre del 1793,  parte per la Svizzera. Hegel a Berna – nelle pause del suo lavoro – studia, legge, scrive. Tiene anche un epistolario con Schelling e con Hölderlin e i testi di queste numerose lettere sono poi diventati molto importanti per gli studiosi.

     Il “giovane Hegel” comincia il suo itinerario intellettuale approfondendo lo studio delle opere di Kant. Perché il “giovane Hegel” si dedica allo studio di Kant? Si dedica allo studio di Kant (è stato l’ultimo consiglio che il professor Fortunius ha dato ai suoi studenti) per ripercorrere l’itinerario culturale che ha fatto Fichte del quale, in questo momento, il “giovane Hegel” condivide il pensiero, tranne che sulla questione dell’esistenza della realtà in sé. Fichte nega l’esistenza della realtà in sé, ma Hegel (e anche Schelling) non è convinto.

     Noi sappiamo che Hegel, Schelling e Hölderlin hanno scritto insieme una tesi sull’Idealismo, una tesi che si basa sul pensiero di Fichte che abbiamo illustrato nelle scorse settimane. Hegel, Schelling e Hölderlin condividono le linee generali del pensiero di Fichte – lo hanno ascoltato e conosciuto nella famosa conferenza del gennaio 1793 all’Università di Tubinga (c’eravamo anche noi, protetti dal professor Fortunius) – ma hanno dei dubbi sul tema dell’inconsistenza della realtà: possibile che la realtà, la Natura, il mondo non abbiano una loro consistenza e che questa consistenza (questa essenza) non possa essere conosciuta in modo oggettivo, concreto, effettivo? Che cosa sostiene Fichte? Fichte critica la corrente di pensiero del “realismo” che ammette l’esistenza della realtà al di fuori e indipendentemente dal soggetto che pensa. L’esistenza della realtà passa attraverso il pensiero della persona, attraverso l’interiorità dell’individuo: ed Hegel, Schelling e Hölderlin condividono questo ragionamento. Secondo Fichte non si può concepire l’esistenza della realtà esteriore in quanto tale, ma si deve ammettere che, alla base della realtà, esiste non la realtà ma l’idea che il soggetto ha della realtà. Quindi la via della conoscenza non è quella del realismo ma è quella dell’idealismo; e noi – sotto lo sguardo di Hegel – stiamo attraversando questo territorio di confine che è stato chiamato “territorio dell’Idealismo”. La corrente di pensiero del “realismo”, afferma Fichte, fonda una filosofia dogmatica che Kant ha già contribuito a superare con la sua critica. La realtà, sostiene Fichte, non esiste in quanto tale come dato oggettivo ma è una rappresentazione soggettiva.

     Anche Kant sostiene che noi non conosciamo la realtà in sé ma conosciamo la realtà come ci appare, conosciamo la realtà non com’è, ma come la pensiamo. Noi non conosciamo la realtà, ma conosciamo la realtà come ci appare. Noi non conosciamo il mondo, noi conosciamo i fenomeni del mondo, però Kant, a questo punto della sua riflessione, aggiunge che il mondo, la natura, la realtà in sé non può non esserci. Se il mondo, se la natura, se la realtà in sé non ci fosse, si domanda Kant, da dove verrebbero i fenomeni?

     Questo è un problema, il primo problema, che intriga il “giovane Hegel” e lo stimola a leggere e a studiare il pensiero di Kant direttamente sulle sue opere, difatti lo “studente Hegel” non aveva ancora avuto l’occasione di leggere integralmente i testi delle tre famose Critiche di Kant e soprattutto non aveva mai letto gli scritti degli anni ‘60 (del 1700) in cui Kant si occupa soprattutto di metafisica. L’interesse per il pensiero di Kant era già nato (attraverso le lezioni e le indicazioni bibliografiche del professor Fortunius) nel contesto del fermento di idee, di aspirazioni, di speranze rinnovatrici e anche rivoluzionarie che animava il movimento studentesco  che, sotto traccia, via via prendeva forma nell’Istituto Stift di Tubinga.

     Certamente le opere di Kant in concomitanza con la Rivoluzione francese hanno avuto un ruolo nella formazione del pensiero di una generazione alla quale Hegel appartiene. Che cosa significa questa affermazione? Significa che il problema della rivoluzione politica viene sentito in stretta connessione con quello della rivoluzione filosofica, e la rivoluzione filosofica la si riconosceva nel “criticismo” di Kant: un metodo che Kant stesso aveva definito: rivoluzione copernicana, cioè un radicale cambiamento di prospettiva.

     Il “giovane Hegel” comincia a capire due cose: una di tipo politico e una di tipo più strettamente culturale. Il “giovane Hegel” per prima cosa capisce che non si tratta di trasferire più o meno meccanicamente e in modo acritico i modelli rivoluzionari francesi in Germania, tanto più che, dal 1793, i modelli rivoluzionari francesi hanno prodotto forme tiranniche. Il “giovane Hegel” capisce che è necessario piuttosto domandarsi se gli esiti negativi della Rivoluzione francese non dipendano, in una certa misura, dalla inadeguatezza della filosofia a cui si è ispirata. La filosofia a cui si è ispirata la Rivoluzione francese proclama l’illimitato potere della Ragione: ma è inverosimile (e controproducente) attribuire un potere illimitato alla Ragione, invece di studiare, come ha fatto Kant, i confini entro i quali la Ragione possa svolgere il suo ruolo e questo non già per sminuirne le possibilità ma per fondarle su basi più sicure, su basi più solide. La seconda cosa di cui il “giovane Hegel” si rende conto,  perché non ne era informato, è che, intorno al pensiero di Kant, esiste, da un decennio, un vivace dibattito che mette in gioco molte idee. Non c’è solo Fichte, ma prima e contemporaneamente a Fichte, ci sono altri intellettuali – Jacobi, Reinhold, Schulze, Maimon – che hanno studiato, interpretato e anche criticato i contenuti delle opere di Kant.

     Ora leggiamo un frammento tratto dalla celebre lettera scritta da Hegel a Schelling il 16 aprile 1795.

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel,  Lettere (1793-1800)

Dal sistema kantiano e dal suo più alto perfezionamento prevedo in Germania una rivoluzione che partirà dai princìpi già esistenti, i quali, dopo una generale rielaborazione, richiedono soltanto di essere applicati a tutto l’attuale sapere. Certo sussisterà sempre una filosofia esoterica, e l’idea di Dio come Io assoluto ne farà parte integrante Credo che non ci sia miglior segno dei tempi di questo: che l’umanità è rappresentata come degna di stima in se stessa; una dimostrazione questa che l’aureola che circondava il capo degli oppressori e degli dèi della terra dilegua. I filosofi dimostreranno questa dignità, i popoli impareranno a sentirla e non si contenteranno più di esigere i loro diritti sinora calpestati nella polvere, ma essi stessi li riprenderanno e se ne approprieranno

     Il “giovane Hegel” comincia il suo itinerario intellettuale approfondendo lo studio delle opere di Kant. Hegel, a Berna, legge i saggi che Kant ha scritto negli anni ‘60 (del 1700) e che a Tubinga erano proibiti. Hegel, attraverso la lettura di questi saggi, che hanno come argomento soprattutto i temi della metafisica, della fede, della religione, può conoscere il travaglio del pensiero di Kant e s’immedesima perché gli argomenti che lo interessano in questo momento sono proprio la teologia, la metafisica, la religione.  

     Hegel legge i saggi di Kant intitolati: Unico argomento possibile per dimostrare l’esistenza di Dio (1763), Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764); Notizia sull’indirizzo delle lezioni per il semestre invernale 1765-1766 (1765), Sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica (1766). Queste opere (che noi abbiamo già incontrato a suo tempo, nel 2003) colpiscono molto Hegel e la sua mente viene stimolata a riflettere. In questi saggi detti “metafisici”, Kant fa prima di tutto un’analisi sull’educazione dogmatica che lui stesso ha ricevuto e capisce che il dogmatismo non è un fatto positivo, tanto meno lo è in filosofia dove è necessario prendere le distanze da questo atteggiamento per il semplice motivo che un comportamento dogmatico blocca lo spirito della ricerca.

     Sulle correnti tradizionali (il realismo, l’empirismo, il razionalismo) della Storia del Pensiero Umano, sostiene Kant, è necessario assumere sempre un atteggiamento critico. L’atteggiamento critico è la disposizione culturale che può portare la persona che studia oltre l’oggetto del suo studio, verso ragionamenti e riflessioni ulteriori, verso un progresso intellettuale. Hegel legge ciò che Kant scrive nel saggio Notizia sull’indirizzo delle lezioni per il semestre invernale 1765-1766 e si appassiona.  

     Kant scrive: «La filosofia non è un oggetto che deve essere solo studiato così com’è. La filosofia è un metodo di ricerca, e per insegnare la filosofia, bisogna insegnare a filosofare». Quindi filosofare, per Kant, è invitare a ragionare, a riflettere e ad esprimere il proprio pensiero in modo che da un repertorio nasca sempre una trama intellettuale da sviluppare. Il pensiero di Kant viene chiamato criticismo, proprio perché vuole distinguersi dal dogmatismo, che accetta le dottrine senza interrogarsi sulla loro validità. Per Kant quindi lo strumento fondamentale della filosofia è la critica, e il “giovane Hegel”, in questo momento, recepisce con entusiasmo questo concetto kantiano.

     Che cosa significa “criticare” per Kant? Kant si rifà al significato del verbo greco krìno, che significa giudicare (il termine “giudizio”, in Erodoto, è tradotto dalla parola crisis). Quindi, per Kant, “criticare” vuol dire giudicare nel senso di valutare, soppesare, nel senso di interrogarsi sul fondamento delle conoscenze umane, chiarendone la validità, i limiti e le possibilità. L’esercizio della critica – afferma Kant – non è un atto di scetticismo, non è l’azione dello smontare tutto. La critica è un esercizio che serve per tracciare il limite di un’esperienza, che serve per delimitare bene i confini di un’esperienza in modo da garantire, entro questi limiti, la validità stessa dell’esperienza che stiamo facendo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Accanto alla parola “critica” quale di queste parole scrivereste per prima: l’esame, la valutazione, l’opinione, l’accusa, la disapprovazione. 

Scegliete e scrivete …   

     Il primo tassello nella formazione intellettuale del “giovane Hegel” corrisponde quindi alla parola “critica” mutuata dal vocabolario di Kant. E il “giovane Hegel” utilizzerà lo strumento della “critica” nei confronti di Kant, di Fichte e  di Schelling. Il “giovane Hegel”, studiando il pensiero di Kant, si pone il problema della conoscenza, si domanda: in che modo noi conosciamo il mondo? Hegel impara che la nostra possibilità di conoscere il mondo dipende, secondo il pensiero di Kant, dalle forme a priori. Le forme a priori, sostiene Kant, sono il modo di essere della nostra mente. La nostra mente corrisponde alle forme a priori le quali sono come un “contenitore”, una specie di recipiente ideale nel quale i dati della sensibilità vengono a disporsi e prendono una forma. Le forme a priori diventano delle leggi che danno gli ordini ai dati dell’esperienza e li rendono comprensibili.

     Hegel impara, come sostiene Kant, che le forme a priori non sono come le idee innate. La maggior parte delle correnti filosofiche tradizionali (da Cartesio a Leibniz), afferma Kant, ritengono che si possa conoscere la realtà attraverso le idee innate. Che cosa sono le idee innate? Le idee innate sono nozioni precostituite, presenti da sempre nella nostra mente, le quali si adeguano a un mondo già formato: a un mondo nel quale sono già presenti gli stessi modelli (le stesse idee) che noi abbiamo in mente. Kant smentisce l’esistenza delle idee innate e, contrariamente a quello che è stato pensato fino ad allora, ribadisce che: non esiste un mondo già costruito che il pensiero deve scoprire.

     Le forme a priori, al contrario delle idee innate, non riflettono il mondo, come potrebbe fare uno specchio. Le forme a priori della mente – al contrario delle idee innate – non sono forme rigide. Che cosa significa che le idee innate sono forme rigide? Significa che sono legate strettamente agli oggetti e ad ogni oggetto dovrebbe corrispondere un’idea: ma quante idee ci dovrebbero essere nella nostra mente? In realtà, sostiene Kant, il processo della conoscenza è inverso a quello basato sull’esistenza delle idee innate. Non sono le idee innate che si riflettono sul mondo a produrre la conoscenza degli oggetti, ma sono gli oggetti che, attraverso i sensi, entrano nelle nostre forme a priori e le modificano e, di conseguenza, noi conosciamo. Le forme a priori della mente, sostiene Kant, non sono forme rigide come le idee innate ma sono contenitori flessibili che si adattano ai dati sensibili di volta in volta intuiti, e pertanto non rispecchiano un mondo già costruito. Quindi le forme a priori contribuiscono, adattandosi alle esperienze, a costruire il mondo, contribuiscono a formare il mondo, dandogli un ordine.

     Quindi il mondo è frutto della nostra cooperazione e, nel momento in cui lo conosciamo, noi lo costruiamo, e qui, sostiene Kant, ci troviamo di fronte a un problema fondamentale, quello della responsabilità della conoscenza. Questa scoperta è quella che Kant chiama la rivoluzione copernicana. Come Nicolò Copernico, rovesciando la concezione astronomica di Tolomeo, ha posto il Sole al centro del nostro sistema (al posto della Terra), così Kant, rovesciando le concezioni filosofiche precedenti considera la persona non più come passiva e, al massimo, fedele osservatrice di un mondo già costruito, bensì, afferma Kant, la persona è ordinatrice del mondo e, quindi, costruttrice della realtà. Il “conoscere”, allora, non si presenta più solo come un problema scientifico ma è soprattutto un problema morale: l’essere umano assume la propria dignità quando sente la responsabilità di conoscere. Il “conoscere” è l’azione del “mettere in ordine”, ma è soprattutto l’azione che impegna la persona a “costruire un mondo migliore”.

     Il “giovane Hegel” si sente coinvolto in queste tematiche kantiane (della conoscenza e della morale) che costituiscono il contenuto delle tre famose Critiche di Kant: della Ragion pura (1781), della Ragion pratica (1787) e del Giudizio (1790). I temi che interessano maggiormente al “giovane Hegel”, in questo momento, sono quelli del “modo” in cui noi conosciamo e del “fino a dove” possiamo conoscere. Il “giovane Hegel” vorrebbe capire – e cerca risposte nelle opere di Kant – se possiamo conoscere al di là dell’ambito dell’esperienza, se possiamo conoscere l’essenza della realtà, la sostanza della realtà, il fondamento della realtà.   

     Kant sostiene che l’essere umano conosce solo nell’ambito dell’esperienza. Noi, sostiene Kant,  non conosciamo la realtà in sé ma conosciamo la realtà come ci appare, conosciamo la realtà non com’è, ma come la pensiamo. Noi non conosciamo il mondo, ma conosciamo il mondo come ci appare. Il pensiero e la sensibilità, insieme, ci danno una conoscenza del mondo come esperienza, cioè, sostiene Kant, come fenomeno. Noi non conosciamo il mondo nella sua essenza, noi conosciamo i fenomeni del mondo. Il nostro sapere è “conoscenza di fenomeni” e, in greco, il termine fenome-fènomé significa apparire, e chiamiamo “fenomeno” non ciò che è, ma ciò che appare. Il mondo, all’essere umano, appare.

     E se il mondo è solo un apparire di fenomeni, allora, come facciamo a sapere se la realtà in sé, se l’essenza delle cose esiste davvero? Noi, sostiene Kant, conosciamo solo i fenomeni, solo le apparizioni, solo le manifestazioni della realtà; ma non possiamo comunque escludere, sostiene Kant, l’esistenza della realtà in sé. L’essenza della realtà – anche se noi non la percepiamo – ci deve essere.

     Il mondo, anche se noi lo conosciamo solo nella sua apparenza, ci deve essere nella sua essenza se no da dove arrivano i fenomeni? Il fatto è che noi possiamo conoscere solo la realtà fenomenica; e le forme a-priori identificano solo la realtà che cade sotto il controllo della nostra esperienza. E la realtà in sé, l’essenza delle cose, non può essere conosciuta dal nostro intelletto: può essere solo pensata nella sua possibilità. Il nostro intelletto non può dimostrare che la realtà in sé ci sia: può solo pensare che l’esistenza della realtà in sé sia possibile. Noi, sostiene Kant, conosciamo il mondo solo come appare al nostro pensiero, non per quello che è. La realtà in sé, quindi, è solo “pensabile che ci sia”, ed è soltanto “pensabile che esista”. E Kant  chiama la “realtà in sé”,  la “realtà pensabile che ci sia” col nome di noumeno, dal greco noéo, penso, il pensabile. Il noumeno è la realtà in sé che è pensabile ma inconoscibile e quindi, nei confronti della realtà in sé bisogna comportarsi come se esistesse.

     Questo problema è il lato debole del sistema di Kant e, quando abbiamo studiato Kant, abbiamo detto che ci saremmo trovati ancora di fronte al tema del noumeno che è la realtà in sé, pensabile ma inconoscibile di cui dobbiamo comunque ammettere l’esistenza. Anche il “giovane Hegel” naturalmente deve constatare la debolezza di questa questione in cui Kant cade in una contraddizione: prima afferma che non bisogna creare dogmi e ora ne crea uno; la realtà in sé è pensabile ma non è conoscibile tuttavia bisogna comportarsi come se esistesse. Il noumeno è un dogma al quale Kant c’invita a credere, e Kant stesso è cosciente di questa contraddizione. Il fatto è che se Kant non ammettesse l’esistenza della realtà in sé il suo sistema, così com’è congegnato, s’indebolirebbe. Fichte, anche lui è partito da Kant, ha affrontato il problema rimovendo il noumeno cioè affermando che la realtà in sé non esiste, esiste solo l’Io, ed è l’Io che crea l’immagine della realtà.

     Il “giovane Hegel” dubita tanto dell’abolizione della realtà fatta da Fichte quando della realtà pensabile ma inconoscibile concepita da Kant. Tuttavia il “giovane Hegel” è attratto dal ragionamento che Kant costruisce per dare un senso al tema del noumeno (della realtà in sé, pensabile ma non conoscibile). Kant se ne accorge di essere in contraddizione: come si fa a dichiarare che il noumeno (la realtà in sé) è inconoscibile e contemporaneamente a dire che esiste? Come si fa a dichiarare l’esistenza di qualcosa di inconoscibile? Su questo tema contraddittorio Kant imbastisce una riflessione che interessa molto al “giovane Hegel”.

     Noi possiamo conoscere, sostiene Kant, solo il mondo fenomenico, solo il mondo della nostra esperienza, ma tuttavia noi sentiamo l’esigenza di andare al di là dei fenomeni, di andare oltre l’esperienza ma, per quanto ci possiamo sforzare, questa operazione “metafisica”, non ci è possibile. Noi non possiamo conoscere i concetti che non fanno parte della nostra esperienza empirica: il mondo noumenico, la realtà al di là dell’esperienza, è pensabile ma è inconoscibile, però, afferma Kant (e questa affermazione interessa molto al “giovane Hegel”),– noi continuiamo a domandarci: che cos’è l’anima?  Che cos’è il mondo in sé?  Che cos’è Dio? Questi concetti, i concetti fondamentali della metafisica, fanno parte del mondo noumenico, una realtà pensabile ma non conoscibile. Questi concetti sono pensabili a-priori, ma non conoscibili, perché manca la sintesi, manca l’elemento empirico, manca il dato dell’esperienza sensibile. Per conoscere sono necessarie le forme a-priori date dalla ragione, ma è necessaria anche la sintesi data dell’esperienza sensibile.

     La ragione, sostiene Kant, pretenderebbe di conoscere l’anima, di conoscere il mondo in sé, di conoscere Dio, ma per dare un giudizio e avere la conoscenza, è necessario l’elemento sintetico, è necessaria l’esperienza sensibile di questi oggetti e noi non la possediamo. Questa esigenza del pensiero di andare a conoscere l’Assoluto tuttavia sussiste. Questa esigenza del pensiero di andare a conoscere l’Assoluto è ciò che Kant chiama la ragione propriamente detta, ed è un ulteriore gradino della conoscenza, chiamato da Kant la Dialettica trascendentale. La Dialettica trascendentale è un gradino della conoscenza in cui Kant affronta il problema se la metafisica sia o no una scienza valida, ossia ci possa dare delle conoscenze certe.

     Il tema dell’Assoluto e il tema della Dialettica interessano molto al “giovane Hegel”. Il termine “dialettica” (corrisponde al termine “sofistica”) viene usato da Kant in senso negativo cioè con esso egli intende analizzare e smascherare i ragionamenti impropri della metafisica. La “dialettica trascendentale” è la pretesa da parte della ragione di andare al di là delle proprie possibilità. Il pensiero umano, insiste Kant, in ambito conoscitivo, è limitato all’esperienza, però c’è la tendenza da parte della nostra mente ad andare oltre l’esperienza. La tendenza della nostra mente ad andare oltre l’esperienza è irrefrenabile, ma non appena il pensiero si avventura al di fuori dell’orizzonte dell’esperienza incorre fatalmente in errore, cade nell’illusione. Queste illusioni e questi errori del pensiero hanno però una logica ben precisa: sono tipi di errori che non possono non essere commessi. Lo spingersi oltre, sostiene Kant, è qualcosa di strutturale e di ineliminabile: lo spirito umano non può non cercare di spingersi oltre l’esperienza, per lo spirito umano il trascendere è insito nella sua natura. Questa è un’illusione strutturale della mente, sostiene Kant, ed è un’illusione così forte, che non cessa neppure quando ci rendiamo conto che essa è proprio un’illusione: perché non è possibile infatti, afferma Kant, poter fare esperienza sensibile di oggetti come l’anima, il mondo in sé e Dio. Ma la Ragione propriamente detta continua a pensare di potercela fare, e invece, afferma Kant, il suo slancio è solo un esercizio della dialettica della ragione.

     Questa idea interessa molto al “giovane Hegel”. Il fatto è, sostiene Kant, che se noi ammettiamo, per fede, l’esistenza dell’anima, l’esistenza del mondo in sé e l’esistenza di Dio, dobbiamo rassegnarci razionalmente a non poterli conoscere. Se l’essere umano, per fede, ammette l’esistenza dell’anima, del mondo in sé e di Dio, deve ammettere anche di non poterli conoscere. L’impossibilità di conoscere Dio ne garantisce, sostiene Kant, la possibile esistenza. Perché? Perché Dio nella sua essenza non è concepibile dalla mente umana. La conoscenza di Dio potremmo farla solo con l’esperienza sensibile: e come si presenterebbe Dio all’esperienza sensibile? Per essere conosciuto, Dio dovrebbe presentarsi come fenomeno fisico-naturale, in modo corporeo, nello spazio e nel tempo, e perderebbe i connotati divini, la conoscenza di Dio neutralizzerebbe i valori della fede: perché la fede possa esistere, con i suoi valori, Dio deve rimanere sconosciuto. La stessa incarnazione, ci ricorda Kant, è un mistero della fede che si conclude con un rapido ritorno alla trascendenza: Gesù Cristo in terra è, secondo la dottrina, “vero uomo”, e assume i connotati di “vero Dio” nel momento del suo ritorno al Padre, cioè nel momento del suo ritorno alla trascendenza.  

     La ragione umana, sostiene Kant, non è in grado di conoscere Dio: è in grado di postularne l’Idea. Di Dio, afferma Kant, possiamo solo dire che è un postulato: che cosa significa dire che Dio è un postulato? La ragione è in grado di concepire l’Idea di Dio come un postulato: cioè come un principio valido a-priori, che possiamo pensare, ma che non possiamo conoscere, né possiamo dimostrarne l’esistenza. Dio, non può essere conosciuto con la nostra esperienza, altrimenti non potrebbe esistere in quanto Dio, ma sarebbe solo un fenomeno naturale di questo mondo. In questo mondo Dio può essere postulato, non conosciuto. Possiamo pensare che possa esistere, ma non possiamo dimostrare che esista, come non possiamo dimostrare che non esista. Quindi, per paradosso, è sul fatto di non conoscerlo che possiamo postularne l’esistenza.

     Kant nelle sue opere metafisiche contesta con grande serietà e severità la religione dell’infantilismo dell’Umanità, come la chiama, la religione come visione di Dio, basata sui sentimentalismi e sugli antropomorfismi, Quel chiamare in causa Dio (soprattutto da parte dei potenti) per giustificare nel bene e nel male le proprie azioni è un antropomorfismo infantile.

     Il “giovane Hegel” si sente coinvolto dalla riflessione di Kant. Kant riflette sulla linea della Scolastica (siamo stati anche noi una stagione intera a Parigi, in via del Letame, alla facoltà delle Arti, nel 1247), abbiamo più volte affermato (per bocca di Abelardo, di Averroé, di Tommaso, di Sigieri…l’elenco è lungo!) che Dio è, prima di tutto, un concetto teoretico. Che cosa significa? Avevamo già anticipato allora che Kant avrebbe ripreso questa affascinante questione. Dio è un postulato, cioè un principio pensabile a-priori, ma non conoscibile. Dio può essere compreso solo in modo teoretico cioè sotto forma di Idea. Perché, si chiede Kant, e Hegel con lui, è stato un grande evento la costruzione, da parte del pensiero umano, dell’Idea di Dio? Perché, per svolgere e per cercare di risolvere il teorema di Dio, l’essere umano ha dovuto elaborare, con la ragione, il fenomeno della condizione umana fino a definire: l’Idea del Bene e l’Idea del Male.

     Durante la grande operazione culturale per postulare Dio, l’essere umano si è trovato a dimostrare, con la ragione, l’esistenza del Bene morale e del Male morale. Il Bene morale (prendiamo il Bene che ci piace di più), sostiene Kant, non è un postulato, non è teoretico: è radicato nel mondo dei fenomeni, dell’esperienza sensibile, dell’esperienza umana. Io, con la mia esperienza sensibile e umana riconosco che cos’è il Bene. E la ragione umana sa distinguere il Bene dal Male. Il Bene morale non è solo pensabile a-priori ma è conoscibile con la ragione ed è dimostrabile in sintesi. Il Bene morale, quindi, è sottoposto al giudizio sintetico a-priori: esiste come fenomeno ed è conoscibile e dimostrabile come fenomeno.

     Naturalmente non possiamo conoscere il Bene in sé, il Bene Assoluto, perché l’essere umano conosce solo la realtà fenomenica, il mondo dell’esperienza. Il Bene morale fa parte dell’esperienza e lo riconosciamo con la ragione. Il Bene Assoluto è un’Idea e lo possiamo postulare: lo possiamo pensare a-priori ma non possiamo conoscerlo, e il Bene Assoluto possiamo chiamarlo Dio: esiste Dio? Oppure, quello che chiamiamo Dio, è l’Idea del Bene Assoluto? A questa domanda, afferma Kant, non possiamo e non dobbiamo rispondere con la Ragione perché questa domanda si colloca nel territorio della Fede, nel territorio dell’Ideale.

     Kant, naturalmente, non ci dice che cosa dobbiamo scegliere, e a questa linea di condotta si deve uniformare la Scuola pubblica. Sulla scia di Kant la Scuola pubblica non deve dire che cosa dobbiamo scegliere, ma ci deve tuttavia invitare a scegliere: ciascuno secondo il proprio punto di vista, ciascuno secondo la propria “sensibilità”. Tenendo conto del fatto che la Ragione umana postula l’Idea del Bene, quindi tutti siamo chiamati a spendere bene il Bene.

     Il problema fondamentale, sostiene Kant, non è tanto sapere se Dio c’è o non c’è. La metafisica non può essere una scienza delle cose divine: la disciplina delle cose divine è la Fede. E, allora, che cos’è la metafisica? La metafisica, sostiene Kant, è il territorio dell’esperienza morale, è lo spazio della questione morale. La metafisica trova il suo fondamento solo nell’ambito dell’esperienza morale perché, secondo Kant, “la legge morale è scritta naturalmente nel nostro pensiero”. Scrive Kant in conclusione della Critica della Ragion Pura parlando della Dialettica trascendentale:

LEGERE MULTUM….

Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura (1781)

Non è perché io conosco Dio che c’è la legge morale, ma è la legge morale presente nella mia mente che mi fa postulare Dio. Questo giudizio sintetico a-priori cambia i connotati della metafisica moderna e cambia il nostro modo di pensare

La legge morale è scritta naturalmente nel mio pensiero e io la conosco con la ragione, quindi ho il dovere di rispettarla: per dovere, non per paura delle sanzioni né per narcisismo moralistico È possibile fondare la fede su questo giudizio laico: il rispetto della legge morale, scritta naturalmente nel pensiero, conosciuta con la ragione e rispettata unicamente per dovere, indipendentemente dal castigo e dal premio di Dio, è il presupposto teoretico per postulare Dio

     Queste riflessioni interessano molto al “giovane Hegel”, il quale studiando le opere di Kant ha potuto puntare la sua attenzione su alcune significative parole chiave: prima di tutto la parola “critica” e poi la parola “Assoluto” e la parola “dialettica”. Il “giovane Hegel” sente di dover approfondire un concetto espresso da Kant: il concetto per cui la Ragione propriamente detta continua a pensare, illudendosi, di potercela fare ad avvicinarsi all’Assoluto. Il “giovane Hegel” comincia a riflettere sul fatto che la ragione possiede uno slancio il quale, per quanto illusorio possa essere, risulta comunque un esercizio evidente della dialettica della ragione. La dialettica della ragione, la trama che la nostra mente è in grado di costruire, pensa il “giovane Hegel”, è certamente un fatto reale; e anche quando coltiva l’illusione di poter abbracciare l’Assoluto sembra conservare una logica, una coerenza, una sistematicità. Dobbiamo quindi pensare, riflette il “giovane Hegel”, che ci sia una relazione tra ciò che è razionale e ciò che è reale? E non sarà che la ragione pensa di potercela fare a raggiungere l’Assoluto perché l’Assoluto stesso è Ragione? Studiando Kant il “giovane Hegel” ha avuto un’intuizione che al momento è allo stato latente nella sua testa e quindi non la possiamo ancora mettere in evidenza. Per adesso il “giovane Hegel” ha altri interessi da coltivare, altri studi, altre letture, altre scoperte da fare: quali?

     Il “giovane Hegel”, lo abbiamo detto precedentemente, nel periodo bernese (1793-1796) si rende conto, perché non ne era informato, che, intorno al pensiero di Kant, esiste, da un decennio, un vivace dibattito che mette in gioco molte idee. Non c’è solo Fichte ad occuparsi delle opere di Kant, ma prima e contemporaneamente a Fichte, ci sono altri intellettuali – Jacobi, Reinhold, Schulze, Maimon – che hanno studiato, interpretato e spesso criticato i contenuti delle opere kantiane. Infatti il “giovane Hegel” conosce il pensiero di Kant anche attraverso la lettura di un’opera che ha contribuito molto alla propagazione della “filosofia critica”, quest’opera s’intitola Lettere sulla filosofia kantiana (1786-1787) scritta da Karl Leonhard Reinhold.

     Karl Leonhard Reinhold (1758-1823) è un personaggio curioso: è nato a Vienna ed è un gesuita il quale, dopo l’allontanamento dei gesuiti dalla Germania, diventa frate barnabita, poi segue il pensiero illuminista massonico e si converte al protestantesimo e infine nel 1787 viene nominato professore di filosofia a Jena dove insegna fino al 1794; dopo si trasferisce all’Università di Kiel (il più importante porto tedesco sul mar Baltico: cercatelo sulla guida della Germania) e a Jena, nella cattedra di filosofia, viene sostituito da Fichte. Reinhold è dapprima antikantiano poi però ne studia per bene le opere e diventa il primo importante interprete e il primo divulgatore del sistema di Kant.

     Reinhold vorrebbe risolvere soprattutto il problema nevralgico del pensiero di Kant: il problema del noumeno. Il noumeno, lo sappiamo, è la realtà in sé che è pensabile ma inconoscibile di cui, sostiene Kant, dobbiamo comunque ammettere l’esistenza. Questo problema è il lato debole del sistema di Kant e Reinhold tenta di risolverlo introducendo un elemento, esistente nell’ambito della ragione, che possa unificare la realtà fenomenica, quella che ci appare, con la realtà in sé che è l’essenza della realtà.

     Reinhold è convinto che questo elemento unificante possa essere la “coscienza”. Che cos’è, si domanda Reinhold, la coscienza? La coscienza è la facoltà della rappresentazione: è attraverso la coscienza che l’essere umano si rappresenta le cose, gli oggetti, che a loro volta, sostiene Reinhold, sono delle rappresentazioni; quindi: l’elemento rappresentante e l’elemento rappresentato, la forma e la materia, il soggetto e l’oggetto, sono elementi intrinseci, elementi distinti ma contenuti nella coscienza. In definitiva, sostiene Reinhold, attraverso la facoltà di rappresentazione propria della coscienza possiamo unificare la realtà fenomenica, il mondo che ci appare, con la realtà in sé, con l’essenza della realtà.

     Reinhold crede in questo modo,  con questa che lui chiama “filosofia elementare”, di poter risolvere il problema del noumeno, ma in realtà complica le cose perché viene spontaneo domandarsi: un oggetto esterno alla rappresentazione che fine fa? Nel momento in cui la coscienza non è in grado di rappresentare un oggetto, ebbene: questo oggetto come fa a mantenere la sua consistenza reale? Esiste davvero, c’è realmente una cosa in sé anche quando è esterna alla rappresentazione?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il tema della “rappresentazione” è molto significativo e interessa anche al “giovane Hegel” …

La parola “rappresentazione” rimanda ad altre parole come: il simbolo, l’immagine, la descrizione, la figura, la riproduzione, l’illustrazione, lo spettacolo…

Quale di queste parole (secondo la vostra esperienza) mettereste per prima accanto al termine “rappresentazione”?

Scrivetela …

     Il pensiero di Kant – attraverso l’interpretazione di Reinhold – invece che più semplice e più trasparente (invece che “filosofia elementare”) diventa più complicato e più dogmatico ancora; e questa situazione favorisce l’opposizione scettica al kantismo, e il “giovane Hegel” viene a conoscenza di altre interessanti situazioni culturali: se ne occupa e il suo orizzonte intellettuale si allarga ulteriormente. Il “giovane Hegel” prende coscienza del vivace dibattito in corso sul pensiero di Kant e dell’esistenza di una corrente culturale di ispirazione scettica che critica con determinazione la filosofia di Kant e l’interpretazione che dà Reinhold.

     Proprio sulla linea dello scetticismo il “giovane Hegel” legge con attenzione un’opera pubblicata anonima nel 1792 che s’intitola Enesidemo. Quest’opera ha anche un significativo sottotitolo: ovvero sui fondamenti della filosofia elementare sostenuta a Jena dal prof. Reinhold, con una difesa dello scetticismo contro le pretese della critica della ragione. L’autore di quest’opera è Gottlieb Ernst Schulze (1761-1833) al quale è stato affibbiato l’appellativo di Enesidemo Schulze.

     Il titolo di quest’opera corrisponde al nome di uno dei più importanti filosofi scettici dell’antichità: Enesidemo di Cnosso vissuto nel I secolo a.C, che ha scritto un’opera intitolata Ragioni pirroniane. Per capire il significato di questo titolo – anche il “giovane Hegel” si documenta in proposito – dobbiamo ricordare che la parola “scetticismo” deriva dal termine sképsis che significa “indagine”, infatti gli scettici si propongono di analizzare tutte le dottrine per metterne in evidenza le debolezze e le incongruenze in modo da constatare che nessuna dottrina può essere accettata come assolutamente valida.

     Il fondatore dello scetticismo è Pirrone di Elide vissuto tra il IV e il III secolo a.C, ed ecco perché l’opera di Enesidemo di Cnosso s’intitola Ragioni pirroniane. I concetti fondamentali del pensiero di Pirrone sono stati raccolti e tramandati dal discepolo Timone di Fliunte nei suoi Silli, ovvero, versi scherzosi contro i filosofi dogmatici. Secondo gli scettici le cose non sono vere o false, belle o brutte per natura ma solo per convenzione: infatti è impossibile indagare sulla natura delle cose e, pertanto, le cose risultano vere o false, belle o brutte non perché “siano” tali in realtà, ma perché gli esseri umani “hanno convenuto” che siano tali. Secondo gli scettici è impossibile indagare sulla natura delle cose e di fatto le sensazioni dipendono dal variare del soggetto, dell’oggetto, dell’ambiente, mentre i ragionamenti (le conoscenze derivate dalla ragione) essendo opposti finiscono per distruggersi a vicenda: non rimane allora che “sospendere ogni giudizio”. In greco la “sospensione del giudizio” si traduce epoché. Con la “sospensione del giudizio” cessa ogni possibilità di errore e cessa anche ogni possibile motivo di turbamento. Dalla sospensione, dall’epoché, nasce l’imperturbabilità, in greco atarassia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole: il distacco, l’insensibilità, la calma, la serenità, l’impassibilità mettereste per prima accanto alla parola “imperturbabilità”? 

Scrivetela…

     Dell’opera Ragioni pirroniane di Enesidemo di Cnosso ci sono rimasti solo sette frammenti molto significativi, e possiamo leggerli:

LEGERE MULTUM….

Enesidemo di Cnosso, Ragioni pirroniane (III secolo a.C)

Il bastone nell’acqua appare spezzato alla vista e intero al tatto

Una cosa può sembrare dolce a un sano e amara all’ammalato

Una torre quadrata vista da lontano sembra rotonda

I profumi sono più forti al sole che all’ombra

I grani di sabbia, ruvidi singolarmente, in mucchio sembrano morbidi

Ci turbiamo più per una cometa che per il sole

Nell’incertezza conviene astenersi da ogni giudizio (conviene l epoché)

     Se vogliamo una spiegazione del significato di questi frammenti dobbiamo tornare all’opera intitolata Enesidemo di Gottlieb Ernst Schulze. Schulze nell’introduzione del suo saggio spiega, in modo sintetico ma funzionale, chi sia il personaggio che dà il titolo alla sua opera e quale sia il pensiero di questo intellettuale che lui utilizza per “difendere lo scetticismo contro le pretese della critica della ragione”. Leggiamo questo frammento da:

LEGERE MULTUM….

Gottlieb Ernst Schulze, Enesidemo (1792)

Enesidemo di Cnosso fu autore delle Ragioni pirroniane nelle quali dimostra con dieci argomenti o tropi la soggettività del senso e della ragione.

I dieci tropi (argomenti) di Enesidemo sono stati così formulati.

I diversi animali conoscono in modo diverso.

Gli stessi esseri umani conoscono in modo diverso da persona a persona.

Nello stesso individuo i vari sensi discordano tra loro: “Il bastone nell’acqua appare spezzato alla vista e intero al tatto”.

Per uno stesso senso le impressioni mutano secondo le circostanze: “Una cosa può sembrare dolce a un sano e amara all’ammalato”.

La posizione influisce sul variare delle impressioni: “Una torre quadrata vista da lontano sembra rotonda”.

Il rapporto di una cosa con le altre muta la cosa percepita: “I profumi sono più forti al sole che all’ombra”.

La quantità delle cose percepite muta l’impressione: “I grani di sabbia, ruvidi singolarmente, in mucchio sembrano morbidi”.

La conoscenza muta col mutare del soggetto, dell’oggetto, delle condizioni ambientali.

La familiarità col fatto influisce sulle nostre impressioni: “Ci turbiamo più per una cometa che per il sole”.

L’educazione e la cultura di ciascuno influiscono sulle opinioni.

Di fronte a tali motivi d’incertezza conviene astenersi da ogni giudizio (epoché).

     L’opera Enesidemo viene scritta da Schulze in forma di scambio epistolare tra due personaggi Ermia ed Enesidemo e contiene una serrata critica alla “filosofia elementare” di Reinhold e alla filosofia di Kant. Schulze critica il dogma del noumeno di Kant. Quando Kant sostiene che la realtà in sé è pensabile ma non è conoscibile e aggiunge che è comunque necessario ammettere che esista come causa dei fenomeni si contraddice e crea un presupposto dogmatico che mette in discussione tutto il suo sistema. Kant si contraddice, sostiene Schulze, perché applica la categoria di causa al noumeno affermando che la realtà in sé, pensabile ma non conoscibile, ci deve essere come causa dei fenomeni, ma è lo stesso Kant, sostiene Schulze, ad aver sempre affermato che la categoria di causa è valida solo nell’ambito dell’esperienza non fuori dall’ambito dell’esperienza. E allora come è possibile che la realtà in sé, la realtà che sta al di là dell’esperienza, possa essere la causa dell’esperienza stessa? Se affermiamo questo, sostiene Schulze, significa che non c’è nessuna differenza tra la realtà in sé e i fenomeni, tra l’essenza e l’apparenza. E allora se esiste solo l’essenza, sostiene Schulze, la ragione, come afferma Kant, non è attrezzata per conoscerla, e se esiste solo l’apparenza dei fenomeni esiste solo una conoscenza apparente per cui conviene astenersi da ogni giudizio. Quindi, afferma Enesidemo-Schulze, la forza del saggio (scettico) sta nel mettere allo scoperto tutti i presupposti dogmatici che si annidano nei sistemi di pensiero. Kant, sostiene Schulze, è cosciente di questa contraddizione e ha anche affermato – perché ne è convinto – che la cosa in sé è pensabile ma non è  conoscibile e quindi Kant, anche se non lo vuole ammettere (sostiene Schulze), è un filosofo scettico e tutto il suo sistema filosofico, anche se Kant non lo vuole ammettere, è improntato allo scetticismo.

     Con questi ragionamenti Schulze contribuisce, pur criticando Kant, a metterlo sempre di più al centro del dibattito filosofico in corso e a propagandarne sempre di più il pensiero. Il “giovane Hegel” segue (a Berna c’è una ricca biblioteca dove arrivano tutte le più importanti riviste che gli intellettuali romantici hanno fondato in questi anni) con interesse il confronto culturale in atto: il problema del rapporto (differenza o identità?) tra l’essenza e l’apparenza lo coinvolge molto.

     Su questa strada  il “giovane Hegel” scopre un altro personaggio e un’altra opera significativa che viene spesso citata negli articoli che legge e sui quali segue il dibattito in corso. Quest’opera s’intitola Lettera sulla dottrina di Spinoza a Moses Mendelssohn. Questo saggio è stato scritto nel 1785 da Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) e ha contribuito a rendere ancora più vivace il dibattito al quale hanno partecipato anche Herder, Goethe e Schiller (che noi abbiamo incontrato nel territorio del “romanticismo titanico”). Anche la tesi di Jacobi, contenuta nel suo saggio, prende le mosse dalla Critica della ragion pura di Kant. Secondo Jacobi l’opera di Kant dimostra definitivamente che non è possibile conoscere scientificamente la realtà soprasensibile. Ogni tentativo, sostiene Jacobi, di dimostrare l’esistenza del soprasensibile si conclude con l’identificazione tra Dio e il mondo, tra l’incondizionato e il condizionato e questo, a tutto vantaggio, naturalmente del mondo, del condizionato. In questa operazione, sostiene Jacobi, Dio diventa una sola cosa con la Natura. E ogni filosofia, afferma Jacobi, che voglia essere razionale fino in fondo deve escludere Dio. C’è solo una strada, sostiene Jacobi, per uscire da questo vicolo cieco: riconoscere che tanto l’esistenza del mondo esterno, da cui deriva la sensazione, quanto l’esistenza del mondo soprasensibile sono oggetto di fede.

     Jacobi scrive: «Nel mio cuore c’è luce, ma quando questa luce io voglio portarla nella mia testa essa si spegne». La fede, sostiene Jacobi. è soprattutto l’espressione del sentimento e non può generare certezza. Nel dibattito, sollevato dal saggio di Jacobi, interviene anche Kant affermando che la fede può fondarsi solo su un postulato della ragion pratica, cioè solo sulla legge morale, sul dovere per il dovere, e quindi, come tale, la fede, non può generare vere e proprie certezze ma solo la verosimiglianza. Kant, anche in questo caso, rimane sempre un rigido tutore dei confini che ha tracciato intorno alla ragione, non tanto per sminuirne le possibilità ma per fondarle su basi più sicure.

     Nell’itinerario di questa sera noi stiamo tirando le fila (faticosamente) del vivace dibattito che è stato chiamato dagli studiosi: la polemica intorno alla filosofia di Kant. Il “giovane Hegel”, a Berna, si forma – acquisisce forme culturali e intellettuali (come stiamo facendo noi adesso…) – studiando i termini (le parole-chiave) e le questioni (le idee significative) sollevate da questa feconda discussione che passa attraverso le opere di Reinhold, di Schulze e di Jacobi. Il saggio di Jacobi – di cui stiamo parlando – interessa al “giovane Hegel” soprattutto per un’idea e per una parola-chiave di cui vorrebbe approfondire il significato. Ogni tentativo, sostiene Jacobi nel suo saggio, di dimostrare con la ragione l’esistenza di Dio si conclude con l’identificazione tra Dio e il mondo. Nel tentativo di dimostrare l’esistenza di Dio, la ragione, che deve rimanere nell’ambito dei suoi confini, finisce per far diventare Dio una sola cosa con la Natura, con il mondo. Quindi l’unica visione, sostiene Jacobi nel suo saggio, che l’essere umano può avere di Dio è “panteista (Dio è in tutto, la Natura s’identifica con Dio)”. Il “giovane Hegel” è attratto dalla parola-chiave “panteismo” e vorrebbe approfondirne il significato.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale evento naturale (la nostra mente ci porta a pensare questo…) si avvicina di più, secondo voi, alla manifestazione divina? 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Ed ecco un altro tassello che si aggiunge alla storia della formazione culturale e intellettuale del “giovane Hegel”, alle parole: critica, Assoluto, dialettica, si aggiunge la parola panteismo. La parola panteismo, come voi capite, tira inevitabilmente in ballo altre questioni e altri personaggi (il “giovane Hegel” se ne occupa). Basta guardare il titolo dell’opera di Jacobi che abbiamo messo al centro della nostra attenzione: Lettera sulla dottrina di Spinoza a Moses Mendelssohn per avere delle indicazioni sulla direzione che dobbiamo prendere. Nel titolo dell’opera di Jacobi sono citati due personaggi. Il “giovane Hegel”, durante la sua carriera di studente, ha sentito nominare spesso il filosofo Spinoza, sa che è un personaggio scomodo e difatti, anche per via delle censure, non ha mai letto la sua opera, e a questo punto è curioso. Il secondo personaggio citato nel titolo dell’opera di Jacobi, a cui è indirizzata l’opera, si chiama Moses Mendelssohn, e noi capiamo dal nome e dal cognome che si tratta di un ebreo: d’altra parte anche Baruch Spinoza è un ebreo.

     Moses Mendelssohn è un rabbino, è uno studioso che si occupa di filosofia ed è uno dei tanti esponenti dell’ebraismo mitteleuropeo che contribuisce allo sviluppo della cultura e allo sviluppo della Storia del Pensiero. A questo punto noi – come il “giovane Hegel” nel 1794 – abbiamo raccolto delle indicazioni sulla direzione che dobbiamo prendere. Di Baruch Spinoza il “giovane Hegel” ricordava quello che, sottovoce, ogni tanto affermava il professor Fortunius il quale dava l’impressione di conoscerne bene il pensiero ma di non poterne parlare se non in modo vago. Il “giovane Hegel” ricordava (forse con un po’ di nostalgia) le parole del professor Fortunius su Spinoza: «Nel mondo antico – diceva Fortunius – Epicuro sosteneva che gli dèi se ne infischiavano degli esseri umani, e più di un millennio dopo troviamo la stessa teoria in bocca a un filosofo ebreo accusato di ateismo, Baruch Spinoza (1632-1677) autore di una delle opere più celebri del mondo moderno, l’Etica;  peccato che quest’opera, aggiungeva Fortunius, sia stata messa all’Indice. In realtà, continuava Fortunius, Spinoza non fa che parlare di Dio, ma in termini tali da vanificarne la figura. Il Dio a cui pensa Spinoza non è oggetto di preghiera e non interviene nei fatti umani, tuttavia – diceva Fortunius, probabilmente per incuriosire i suoi studenti – Dio resta il punto di partenza per riflettere sulla ragione e sulle passioni».

     Poi il professor Fortunius raccontava, sempre sottovoce, il famoso “apologo della tegola”: di che cosa si tratta? Bisogna avere pazienza, il percorso è accidentato ed è necessario procedere con cautela. Il “giovane Hegel” comincia il suo itinerario leggendo la Lettera sulla dottrina di Spinoza a Moses Mendelssohn di Jacobi, ed entra in argomento; poi, avendo stretto amicizia con il bibliotecario della biblioteca di Berna, riesce a farsi dare in lettura l’Etica di Spinosa.

     Il 4 dicembre 1794 il “giovane Hegel” scrive una famosa lettera a Schelling in cui racconta le sue riflessioni di lettore (semiclandestino) dell’Etica di Spinoza. Cogliamo così l’occasione per farci spiegare dal “giovane Hegel” il famoso “apologo della tegola”.

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel,  Lettere (1793-1800)

Se una tegola cade sulla testa ad una persona che passa per la strada: Dio ne sa qualcosa? Ricordi, caro Friedrich, le spiegazioni del professor F. all’Istituto S. ?

Un bibliotecario ha aperto l’armadio proibito e sto leggendo l’Etica di Spinozati domandi perché? Non so ancora rispondere esattamenteIn tutte le lingue esiste la locuzione «se Dio vuole». Talora è un semplice modo di dire, talora, come in arabo, ha il valore di un dogma. Ma ha senso parlare di una volontà di Dio? Spinoza lo nega e fa l’esempio, che ci raccontava il professore, di una tegola che sia caduta in testa a un uomo e lo abbia ammazzato. I credenti ne deducono che la tegola è caduta per volontà di Dio allo scopo di uccidere quell’uomo. Spinoza non ci sta. Il credente e lo scettico concordano sul fatto che la tegola è caduta sul capo dell’uomo perché soffiava il vento e perché l’uomo passava di là. Ma il credente insiste nel pensare a una causa soprannaturale: «Perché il vento soffiò in quel momento? E perché l’uomo passava di là proprio allora?» Il non credente, dal canto suo, cerca di spiegare i fatti come semplici fenomeni: il mare aveva cominciato ad agitarsi sin dal giorno prima, e a sua volta l’uomo era stato invitato da un amico. Ma il credente non desiste perché non c’è mai fine alle domande: «Ma perché il mare era agitato? Perché l’uomo era stato invitato in quel momento?» E così via: il credente non la smette più di domandare le cause delle cause finché l’altro non si rifugia nella volontà di Dio, cioè, dice Spinoza, nel rifugio dell’ignoranza

Secondo Spinoza l’azione umana è determinata dalle passioni o dalla ragione. Quando è governato dalle passioni, l’essere umano è in schiavitù; quando lo è dalla ragione, è libero. Ma nel caso della tegola la libertà di scelta non spetta in ogni caso alla persona. In un certo senso la caduta della tegola svincola la persona dalla responsabilità di decidere della propria vita. In realtà, mi domando, sino a che punto Spinoza non credeva al libero arbitrio dell’uomo? Intimamente era un materialista convinto. Ma era altrettanto dominato da un moralismo basato sulla contrapposizione fra bene e male. La sua soluzione è che per istinto l’uomo non può che tendere al bene, giacché per lui il bene è la conservazione di se stesso, mentre il male è la propria distruzione. Per questo un’azione buona ci provoca letizia, mentre una cattiva ci provoca tristezza. Ma allora come accade che l’uomo compia il male? Il motivo risiede nell’inadeguatezza delle idee che determinano la mente. Quando la mente ha idee adeguate, agisce in maniera conveniente. Ma la mente, in genere, non ha idee adeguate su quel che avviene in realtà: «Se potessimo avere» osserva Spinoza, «una conoscenza adeguata della durata delle cose la mente trascurerebbe necessariamente un bene presente minore per un bene futuro maggiore Noi però non possiamo avere che una conoscenza del tutto inadeguata della durata delle cose» (Etica IV, LXII scolio). Ne consegue che la nostra volontà non può essere libera, perché viene determinata da una conoscenza imperfetta o, per usare il termine scelto da Spinoza, inadeguata. Di per sé, cioè, l’uomo tenderebbe al bene non per un comandamento divino, ma per un sostanziale egoismo, in quanto il bene consiste nel mantenimento della sua essenza. Sennonché egli non può soddisfare questa sua propensione a causa dei limiti della conoscenza. Se infatti l’essere umano potesse avere idee adeguate su quel che lo circonda, non sarebbe più un essere umano, ma qualcos’altro. Spinoza giunge a dire che «un cavallo sarebbe completamente distrutto se venisse mutato in uomo, come se venisse mutato in insetto» (Etica IV, Prefazione), in quanto le idee della sua mente non sarebbero più adeguate alla sua natura. Si potrebbe dire dunque che quella di Spinoza è bensì una negazione del libero arbitrio, ma una negazione per rassegnazione, in quanto l’uomo sarebbe per sua stessa natura incapace di esercitare adeguatamente il libero arbitrio. Spinoza era fondamentalmente convinto di un materialismo universale, ma lo aveva dovuto conciliare con la sua professione di fede ebraica, in un momento in cui nelle sinagoghe erano tutt’altro che teneri nei confronti di chi non obbediva. Perciò, l’interpretazione che Spinoza istintivamente avrebbe dato della tegola assassina sarebbe stata quella materialistica del vento portato dal mare e della coincidenza fortuita dell’invito a pranzo dell’amico. Forse non si è saputo decidere. Ma non per questo mi sento di svalutarlo. Gli va riconosciuto il merito di aver posto con passione il problema del libero arbitrio, uno dei più importanti di tutta la filosofia. E se non lo ha risolto, altri dopo di lui, lo affronteranno e, non so, se con altrettanta passione, forse lo affronteranno con altrettanto insuccesso.

La censura nei confronti del pensiero di Spinoza è ridicola come è assurdo il divieto di rappresentare Nathan il saggio di Lessing, un dramma di eccezionale valore che spero tu abbia letto, visto che il testo circola comunque

Secondo Jacobi Lessing, poco prima di morire (1781), gli avrebbe dichiarato di condividere le posizioni panteistiche di Spinoza e, comunque, di non poter più accettare la concezione ortodossa e tradizionale della divinità come persona e come creatore. La polemica in corso atta a screditare Lessing cadrebbe se il suo ultimo dramma potesse essere rappresentato: è un testo contro i dogmi di tutti i credo, che dovrebbero invece avere un contenuto universalmente umano

     Il “giovane Hegel” legge e studia l’Etica di Spinoza e, al di là del problema dell’ateismo meccanicistico (che risulta per lui di secondaria importanza), scopre nuovi motivi di riflessione. Che cosa scopre il “giovane Hegel” di utile per la sua formazione nell’opera di Spinoza? E poi nel brano della lettera a Schelling che abbiamo letto, il “giovane Hegel” fa entrare in scena un altro personaggio: Gotthold Ephraïm Lessing (1729-1781) il quale era già morto da tredici anni. Di che cosa tratta il dramma Nathan il saggio di Lessing (1779) che ha entusiasmato il “giovane Hegel” e come mai ne è stata vietata la rappresentazione dalla censura? Questo dramma, oggi, è di grandissima attualità e, per fortuna – anche se questi fatti di natura culturale passano inosservati (prima ci sono i grandi “eventi”) – è stato recentemente rimesso in scena (al teatro Palladium della Terza Università di Roma, regia di Piero Maccarinelli, con Remo Girone).

     Bisogna sapere anche che alle radici di questo significativo testo teatrale c’è la cultura italiana. Alle radici del dramma Nathan il saggio di Lessing c’è un’opera della Letteratura italiana che è anche un classico della Storia del Pensiero Umano. Sapete quale? Ma non solo: alle radici del dramma Nathan il saggio di Lessing c’è anche un personaggio che Lessing incontra in Italia, per la precisione a Livorno, che lo impressiona favorevolmente: chi è questo personaggio? Lo scopriremo la prossima settimana insieme al “giovane Hegel” che, a Berna, sulla scia del pensiero di Kant, di Fichte, di Reinhold, di Schulze, di Jacobi, di Lessing e di Spinoza (tanti ne abbiamo incontrati questa sera) sta curando la sua formazione culturale e intellettuale: la formazione culturale e intellettuale del “giovane Hegel” è un procedimento lungo e complesso.

     Quali idee significative e quali parole-chiave maturano nella mente del “giovane Hegel” oltre ai concetti legati alle parole: critica, Assoluto, dialettica? Lo sapremo strada facendo quando il “giovane Hegel” si troverà a riflettere sulle parole panteismo, ragione, morale, religione, identità. L’appuntamento è ad Amsterdam: lì ci conduce lo sguardo del “giovane Hegel la prossima settimana.

     Accorrete, la Scuola è qui…

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 5, 2006