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LO SGUARDO DI HEGEL SU LA RAGIONE, LA MORALE, LA RELIGIONE, L’IDENTITÀ…

Lezione N.: 
26

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sguardo di Hegel  2006        10-11-12  maggio  2006

LO SGUARDO DI HEGEL

SU LA RAGIONE, LA MORALE, LA RELIGIONE, L’IDENTITÀ…

     Il “giovane Hegel”, a Berna, dal 1793, cura la sua formazione culturale e intellettuale sulla scia del pensiero di Kant, di Fichte, di Reinhold, di Schulze, di Jacobi (tutti personaggi che abbiamo incontrato la scorsa settimana) e attraverso la lettura e lo studio delle loro opere si appassiona soprattutto alle idee contenute in alcune significative parole-chiave: critica, Assoluto, dialettica e panteismo.

     La parola panteismo conduce il “giovane Hegel” alla scoperta di altri due personaggi importanti della Storia del Pensiero Umano che risultano utili alla sua formazione: il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677) e lo scrittore poeta Gotthold Ephraïm Lessing (1729-1781). Il “giovane Hegel” legge e studia (semi-clandestinamente, perché era all’Indice) l’opera più importante di Baruch Spinoza intitolata Etica e, in questo trattato, scopre nuovi motivi di riflessione. Che cosa scopre il “giovane Hegel” di utile per la sua formazione nell’opera di Spinoza? Prima di tutto l’incontro con il pensiero di Baruch Spinoza è utile al “giovane Hegel” per uscire dal perimetro della rigida struttura mentale che ha acquisito all’Istituto Stift che forniva attraverso i suoi insegnanti (a parte il professor Fortunius) una ferrea educazione, molto formalista, tradizionalista soprattutto dal punto di vista religioso: lo Stift formava il clero protestante e l’etica protestante – pur combattendo gli egoismi impliciti – era abbastanza legata al concetto dell’utilitarismo, che invece risultava inviso alla generazione romantica. Che cosa impara il “giovane Hegel” dall’opera di Spinoza? Nell’Etica di Spinoza il “giovane Hegel” scopre nuovi motivi di riflessione e questi motivi di riflessione sono validi anche per noi, oggi. «Sento dire – scrive Spinoza nell’Introduzione dell’Etica – che viviamo una vita esclusivamente alla ricerca dell’utile, ma è proprio vero? Viviamo davvero una vita alla ricerca esclusiva dell’utile? Io penso – afferma Spinoza – che, sulla strada della conoscenza, c’è anche la ricerca della felicità, e l’essere umano vive una vita anche alla ricerca della felicità e, non sempre ciò che è utile – sostiene Spinoza – dà la felicità…». Il (bel) problema che pone Spinoza diventa motivo di riflessione per il “giovane Hegel” (e anche per noi).

     Ma prima di tutto è doveroso – insieme al “giovane Hegel” – fare conoscenza con questo personaggio, con Baruch Spinoza. Baruch Spinoza è nato ad Amsterdam nel 1632 e culturalmente si forma studiando il metodo matematico di Cartesio ma soprattutto completa la sua formazione con le idee contenute nei Pensieri di Pascal che legge con grande interesse. Baruch Spinoza forgia il suo pensiero in un crogiuolo dove si trovano, mescolati insieme, lo spirito di geometria e lo spirito di finezza (tanto per citare Pascal), cioè il razionalismo matematico che guarda con occhio attento all’esteriorità e la riflessione  spirituale che tende l’orecchio all’interiorità. Baruch Spinoza giunge a pensare che lo scopo del conoscere non è tanto la comprensione del mondo, bensì consiste nell’avvicinarsi alla felicità.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Baruch Spinoza (1632-1677) sostiene che l’obiettivo della conoscenza è quello di far avvicinare la persona alla felicità…

La conoscenza di che cosa vi ha reso particolarmente felici?

Scrivete quattro righe in proposito...

     Che cos’è la felicità? Per Spinoza la felicità si identifica con la libertà spirituale: più siamo “spiritualmente liberi” e più ci avviciniamo alla felicità; questa idea interessa molto al “giovane Hegel”. Più impariamo a essere spiritualmente liberi e più si configura in noi l’idea della felicità. Quindi l’itinerario conoscitivo che propone Spinoza si pone anche come un itinerario ascetico: un cammino dalla Ragione verso lo Spirito. (questa idea interessa molto al “giovane Hegel”). Baruch Spinoza nasce in una famiglia ebrea sefardita, che viene dalla penisola Iberica e questo dato permette al “giovane Hegel” di conoscere meglio la cultura dell’ebraismo.

     Voi sapete che l’ebraismo europeo si divide in due grandi rami, entrambi rappresentati nelle Sinagoghe europee dal 1500. Spesso i rapporti non sono stati facili tra questi due rami. C’è il ramo degli ebrei sefarditi (a cui appartiene Baruch Spinoza) – la parola “sefardita” viene da Sefarad che è il nome ebraico della Spagna – che erano migrati nell’Europa del nord dalla Penisola Iberica. Gli ebrei sefarditi sono il gruppo più secolarizzato, più laico dell’ebraismo, sono borghesi, commercianti agiati, mondani per cultura e per stile di vita. Gli ebrei sefarditi sono gente piuttosto raffinata che vive in contatto con il mondo dell’arte, della musica e con le correnti più avanzate della scienza moderna. La loro cultura si è formata in quel grande laboratorio di integrazione che è stato l’Al Andalus (la Vandalusia), il territorio del sud della Spagna, governato dagli Arabi ma con l’apporto fattivo degli ebrei e dei cristiani. Una collaborazione che ha reso questa terra, tra il 1000 e il 1500, la regione più ricca e più culturalmente avanzata d’Europa. Si chiama cultura mudejiar il prodotto dell’integrazione tra pensiero mussulmano, ebraico e cristiano che possiamo incontrare visitando le città di Toledo, di Cordova, di Granata (fate una breve visita a queste città sull’atlante e sulla guida della Spagna. A Cordoba (in modo virtuale) è possibile visitare il Museo vivo dell’Al-Andalus all’indirizzo: www.torrecalahorra.com.

     L'altro ramo dell’ebraismo europeo è quello degli aschenaziti: la parola deriva da Ashkenaz, che significa Germania in lingua ebraica. Gli ashkenaziti erano di origine tedesca o polacca ed erano poveri e trasandati, chiusi nel perimetro della religione tradizionale, custodita gelosamente, capaci comunque di creare una cultura originale (musicale, letteraria) incentrata su una lingua altrettanto originale: la lingua yiddish. Il loro stile di vita era tipico della tradizione contadina mitteleuropea.

     La famiglia di Baruch Spinoza appartiene al ramo sefardita. Gli ebrei sefarditi si sono spostati a causa delle persecuzioni dei Re cattolici: prima dalla Spagna nel 1492 verso il Portogallo, e poi dal Portogallo verso l’Europa del Nord, verso l’Olanda, dove c’è il diritto alla libertà religiosa. Baruch studia nella sinagoga sefardita o portoghese di Amsterdam, che è la più antica della città ed è, dal punto di vista architettonico, un piccolo capolavoro rinascimentale. Per curiosità – ed anche in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo dire che dal 1671 al 1752 ad Amsterdam, nel quartiere ebraico, sorgono altre quattro sinagoghe ashkenazite, che oggi dal 1987, sono state riunite secondo un progetto architettonico e formano il Museo storico ebraico. Con una giuda di Amsterdam potete cercare qualche notizia in proposito.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ad Amsterdam ci sono una decina di musei importanti come quello famoso dedicato a Vincent Van Gogh… Ma è consigliabile visitare – anche in modo virtuale, con l’aiuto di un guida della città, l’interessante “museo della Bibbia”, e il “museo storico ebraico” inaugurato nel 1987 e costruito unendo architettonicamente gli edifici delle quattro antiche sinagoghe (1671-1752) della comunità ashkenazita, che si trovano a due passi dalla sinagoga (portoghese) sefardita dove ha studiato Baruch Spinosa…  È anche doverosa una visita al “museo-casa di Anna Frank”… Anna Frank va ricordata anche perché ha scritto dieci minuti al giorno, e questo non ce lo dobbiamo dimenticare…  Avete letto il Diario di Anna Frank?…

     Dal 1639 con impegno, Baruch studia in sinagoga per diventare rabbino: non è attratto dal commercio che è l’attività redditizia a cui si dedica la sua famiglia. Baruch è attratto invece dallo studio delle esegesi della Sacra Scrittura, e più le interpretazioni sono sottili, sono complicate, più è attratto. Sulla scia dello studio delle interpretazioni il suo campo di indagine si estende allo studio della Cabala e poi della filosofia scolastica medioevale. Nella scuola umanistica ebraica della sinagoga di Amsterdam, in quegli anni, vi sono sette classi e lo studio è molto intenso, la disciplina rigida, gli orari pesanti: al “giovane Hegel” – mentre legge l’Etica di Spinoza – viene spesso in mente il clima dell’Istituto Stift. Ma la severità della scuola della sinagoga era tollerata per il fatto che c’erano maestri di grande talento: soprattutto quello che influenza maggiormente Spinoza, e che dobbiamo considerare il suo primo grande maestro, il rabbi Saul Levy Morteira. In classe col rabbi Morteira, Baruch si stacca dalle fantasticherie magiche e dai sogni esoterici e mitici della Cabala, perché il rabbi Morteira è un esegeta che interpreta razionalmente i libri della Letteratura dell’Antico Testamento definendo tutti gli interventi soprannaturali descritti dal testo come allegorici, non reali ma morali perché il fondamento della fede è la morale. Il concetto di Dio, presentato dal rabbi Morteira, non è quello di un Dio magico, mitico e antropomorfico, ma quello di un Dio teoretico, filosofico, intellettuale.

     Il rabbi Morteira è un veneziano di origine, e la sua famiglia veniva dal Portagallo, e oltre a insegnare tutta la filosofia razionalista ebraica, insegna a Baruch anche l’italiano e gli fa studiare le opere di Giordano Bruno. Pensate che noi abbiamo la fortuna di poter incontrare il rabbi Saul Levy Morteira. E dove sta, dove lo possiamo trovare? Lo possiamo trovare alla Galleria degli Uffizi: lo ha immortalato, in uno stupendo ritratto, un certo Rembrandt. Questo il “giovane Hegel” non lo sa (su qualcosa siamo in vantaggio), ed Erodoto (ricordate Erodoto? Continua a viaggiare insieme a noi) che ama le coincidenze e le corrispondenze, sorride e allude

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se visitate la Galleria degli Uffizi non dimenticate di osservare, nella sala XLIV di Rembrandt, il ritratto del Vecchio rabbino che ritrae il rabbi Saul Levy Morteira, il più importante maestro di Spinosa… Potete osservare questo ritratto anche in biblioteca su un fascicolo dedicato a Rembrandt…

Osservando le opere di Rembrandt forse viene voglia di scrivere quattro righe in proposito…

A volte basta una parola per definire un pittore: quale parola vi viene in mente osservando Rembrandt? 

Scrivetela…

     Dopo il 1650, Spinoza ventenne, per capire ancora meglio la cultura, si mette a studiare il latino con un maestro laico, un medico “libertino”, Franciscus Van den Ende, un ex gesuita, un personaggio affascinante. Il giovane Baruch comincia a mettere in difficoltà i rabbini capi della sinagoga con queste sue iniziative di studio: erano molto tradizionalisti, formalisti, conservatori e poco disponibili al confronto delle idee. Dobbiamo constatare che ad Amsterdam, c’è una divergenza tra rabbini “maestri” (come il rabbi Saul Levy Morteira) e rabbini “sacerdoti”, detti “rabbini capi”.

     Dal 1654 al 1656, sempre sotto la giuda di Van den Ende, scopre che, oltre al pensiero dei classici, c’è anche Cartesio, Pascal, Bacone, e Hobbes, e oltre alle opere di Giordano Bruno che lo affascinano, ci sono anche i princìpi delle scienze moderne e soprattutto c’è la matematica. E Spinoza, nel 1656, in Sinagoga, formula le idee che si è fatto, attraverso lo studio, e auspica una riforma della cultura dell’ebraismo in senso moderno, laico, razionalista: che poi è quello che avverrà in Europa. Che cosa sostiene Spinoza? Sostiene che la Legge di Mosè, così come l’avevano codificata i rabbini, con tutti quei cavilli, spesso disumani e innaturali, non poteva venire da Dio. La Legge di Dio si accorda con la legge naturale – pensa Spinoza – e di conseguenza l’ebraismo aveva bisogno di una profonda revisione.

     Queste idee, suscitano un grande scandalo e, con un decreto di scomunica, viene espulso dalla sinagoga e dalla città: non deve avere rapporti con altri ebrei e deve rinunciare anche, come primo nome, al nome di Baruch. Decide di chiamarsi Benedetto-Baruch e di trasferirsi in un villaggio dove, per guadagnarsi da vivere, comincia a fare un lavoro che aveva imparato da ragazzo andando a bottega da un artigiano: dice il proverbio: “impara l’arte e mettila da parte”. Benedetto-Baruch, nella stanza dove viene ospitato, comincia a fare il tornitore, il pulitore di lenti visto che gli occhiali stanno diventando di uso comune, almeno in Olanda.

     Spinoza comincia a frequentare piccole comunità cattoliche, calviniste ed ebraiche del dissenso e raduna, attorno a sé, un gruppetto di studenti-discepoli, con i quali costruisce una specie di sinagoga, di piccola parrocchia laica, per meditare, per studiare, riflettere, ragionare. Nel 1660 si trasferisce in un villaggio vicino a Leida e comincia a scrivere le sue opere. Nel 1670 va ad abitare in un quartiere periferico dell’Aja e lì comincia a scrivere la sua opera più importante che risulta essere una delle opere più significative nella Storia del Pensiero Umano: l’Etica. Il cerchio dei suoi discepoli-studenti si allarga, e tra loro ci sono anche i fratelli de Witt, esponenti del partito democratico, anti-monarchico: a loro sostegno Spinoza scrive il Trattato teologico-politico che viene pubblicato clandestinamente. È un momento di grandi scontri ideologici: quest’opera viene condannata tanto dai cattolici quanto dai calvinisti più reazionari.

     Purtroppo ci sono scontri molto violenti (siamo nel mezzo di una terribile guerra di religione)  e nel 1672 i fratelli de Witt vengono uccisi; anche Spinoza rischia grosso e deve stare nascosto solo per avere scritto che “di fede c’è n’è una sola che s’incarna in modi diversi ma che si realizza unicamente nel rispetto della morale universale che Dio ha posto nel cuore delle persone”. Queste parole interessano molto al “giovane Hegel” il quale capisce che anche Kant si è ispirato al pensiero di Spinoza.

     Dal 1674 l’Etica di Spinoza comincia a circolare manoscritta, e quindi aumenta attorno a lui l’interesse di tante persone, intellettuali e non. Spinoza è un personaggio che cerca di essere coerente con quello che pensa e con quello che scrive: è vissuto in una dignitosa solitudine e povertà, ridistribuendo a chi aveva più bisogno di lui, rinunciando a molti contributi in denaro che i suoi discepoli più ricchi avrebbero voluto elargirgli. Spinoza rifiuta anche la cattedra all’Università di Heidelberg, propostagli dal grande elettore del Palatinato dicendo che, per lui diventerebbe difficile, poi, mantenere una coerenza nella ricerca della libertà spirituale perché un potente protettore, afferma Spinoza:  “Ti chiede sempre in cambio qualcosa e tu, per assecondarlo, finisci per perdere l’autonomia necessaria all’insegnamento”. Queste parole interessano molto al “giovane Hegel”, ma chissà se poi lui sarà coerente fino in fondo quando farà carriera? Possiamo dire che cercherà di esserlo… 

     Spinoza, negli ultimi anni della vita, fu considerato come una specie di “santo laico”. Questa fama Spinoza se l’è guadagnata sul campo, ma bisogna anche tirare fuori dalla leggenda questo personaggio: leggenda che molti intellettuali romantici – Herder, Goethe, Schiller, Lessing (che tra poco incontreremo) – hanno costruito intorno a lui. C’è stata una tradizione passionale poco attendibile che deforma Spinoza il quale è stato un uomo coerente e dignitoso, ma non è vissuto in miseria e neppure nell’oscurità e nell’isolamento:  non è un solitario, né un tipo astratto e, sebbene amasse la contemplazione mistica, non passa la vita isolato dal mondo e non ha un carattere da asceta rigorista e bacchettone, anzi tutt’altro. Spinoza è un personaggio schivo ma non scontroso né asociale, anzi, ha vissuto con intensa partecipazione tutti i dibattiti religiosi e sociali che si sono sviluppati, in Europa e in Olanda, in questo periodo così travagliato. Ha avuto relazioni politiche e scientifiche di alto livello e non disdegnava affatto la compagnia delle persone di buon umore e amanti delle vita. Spinoza non disprezza mai l’utile e il piacere delle cose, anzi fa della ricerca della felicità la base della sua filosofia, quindi non vive affatto – secondo la descrizione del romanticismo più passionale – come una specie di barbone scontroso e asociale. Spinoza vive in modo semplice e frugale, senza superbia, con umorismo per essere libero dagli impedimenti in una società fanatica, intollerante, lacerata da aspri contrasti: e pensate che questa società è la migliore d’Europa in questo momento storico. Per Spinoza dal 1670 sono anni difficili a causa della tubercolosi, ma lui vive la malattia con grande serenità e muore il 21 febbraio 1677, a 45 anni, dopo aver chiesto un brodino e dopo aver fatto una fumatina di tabacco con la pipa. Questa è leggenda?  Se lo chiede anche il “giovane Hegel” al quale però – come del resto anche a noi – piace pensare che sia stata davvero così: calma, serena e rassegnata, la morte di Spinoza.  

     Nel novembre 1677 i suoi amici, i suoi studenti fanno pubblicare tutte le sue opere, che contengono il suo pensiero: ma che cosa ha pensato Baruch Spinoza? Noi ci limitiamo a prendere in considerazione le idee che hanno colpito il “giovane Hegel”.

     Spinoza inizia il suo itinerario intellettuale ragionando sul dualismo che la Storia del Pensiero ha ereditato da Cartesio (1596-1650). Tutta la realtà non è un “unico blocco” di materia – sostiene Cartesio – ma la realtà è composta da due elementi: il pensiero (lo spirito) e la materia. Infatti ogni fenomeno materiale, scrive Cartesio, è causato da un altro fenomeno materiale, e ogni fatto spirituale (di pensiero) dipende da un fatto spirituale. La materia e il pensiero, sostiene Cartesio e Spinoza concorda, sono due elementi indipendenti fra loro. Questi due elementi,il pensiero (lo spirito) da una parte e la materia dall’altra, nel sistema di Cartesio, non comunicano tra loro, sono nettamente separati. Quindi nel sistema di Cartesio, c’è un dualismo irriducibile tra materia e pensiero. E questo, sostiene Spinoza, che cosa comporta? Comporta una scissione nell’essere umano: la persona si trova a essere “spezzata”, divisa. E allora come fa a comunicare, si domanda Spinoza, il pensiero con il corpo? Come fa a comunicare lo spirito con la materia? Spinoza riflette su come si possa risolvere questa separazione: per lui c’è qualcosa che unisce tutto, ed è la “sostanza”: c’è realtà perché c’è sostanza.

     La sostanza, per Spinoza, è ciò che esiste di per sé ed è concepito di per sé. Se “sostanza” è ciò che non ha bisogno d’altro né per esistere né per essere pensato, ebbene, questo significa, sostiene Spinoza, che la “sostanza” è autosufficiente, è “causa sui” (per dirla in latino: l’Etica è un’opera scritta in latino). La “sostanza”, sostiene Spinoza, è il fondamento di tutto ciò che è reale, ed è il fondamento di tutto ciò che è pensabile: quindi, tutto ciò che esiste ed è pensato ha la sua causa nella “sostanza”. Questo ragionamento interessa molto al “giovane Hegel”.

     Di conseguenza, s’intuisce, scrive Spinoza, che il pensiero e la materia sono della stessa “sostanza” e della “sostanza” possiamo intuirne gli “attributi”. La sostanza si rivela come: assoluta, autonoma, infinita, unica, acronica (fuori dal tempo), per cui, scrive Spinoza, che cos’è la sostanza? Se le cose stanno così la sostanza s’identifica con Dio.

     Cartesio aveva ammesso tre sostanze: Dio, il pensiero, il mondo (la natura). Spinoza supera questa tripartizione e pone Dio come unica sostanza. E le diversità e la molteplicità? Nel Tutto, scrive Spinoza, c’è la diversità, c’è la molteplicità perché la molteplicità è formata dagli infiniti attributi di Dio e anche il pensiero e le cose materiali sono attributi di Dio, e ognuno di questi attributi si esprime in molteplici modi attraverso i corpi e le idee. E allora, scrive Spinoza, da questo ragionamento: che cosa s’intuisce? S’intuisce che “Deus sive natura” cioè: Dio si identifica con il mondo, Dio è tutt'uno con la natura: e questa è un affermazione di Giordano Bruno (1548-1600). I singoli esseri, materiali e spirituali, derivano da Dio “more geometrico”: Dio è sostanza che possiede un ordine geometrico. Dio è sostanzialmente l’ordine geometrico dell’Universo e l’ordine geometrico che emana da Dio, scrive Spinoza, è necessario. L’attività divina è necessaria in quanto Dio agisce secondo la propria natura, che è logica (dal temine greco “Logos”) e contiene il presupposto della Necessità. E non c’è nulla che possa impedire a Dio la sua attività necessaria (la sua “dialettica”) quindi, in Dio, necessità e libertà coincidono. In questo sistema le “cose” e le “idee” si corrispondono perfettamente, anzi coincidono, in quanto le cose e le idee sono due attributi della stessa Sostanza divina. Questo ragionamento interessa molto al “giovane Hegel”, il quale comincia a pensare che ogni cosa staccata dal Tutto è frammentaria e quindi incapace di esistere senza il completamento rappresentato dal resto del mondo.

     Di conseguenza partendo da un solo e qualsiasi pezzo della realtà, la persona dovrebbe essere in grado di ricostruire la realtà nel suo complesso, almeno nelle sue grandi linee come uno studioso di anatomia da un solo osso ricostruisce tutto l’animale. Il “giovane Hegel”, leggendo l’Etica di Spinoza, continua a riflettere soprattutto quando compare il concetto del “destino”. Per Spinoza le persone quale destino hanno? Il destino della persona, scrive Spinoza, è quello di avvicinarsi necessariamente alla felicità: l’essere umano pensa di essere destinato alla “felicità” (lo auspica). Alla felicità, secondo Spinoza, ci si avvicina attraverso un itinerario di conoscenza, che è anche un percorso morale e spirituale. Questo percorso conoscitivo è un processo formato da tre gradi.

     Il primo grado è quello della conoscenza sensibile, che avviene attraverso i sensi. I sensi ci forniscono l’immagine sensoriale che è utile, sostiene Spinoza, soprattutto perché ci fa conoscere le passioni e ci fa rendere conto di quanto i risultati delle passioni siano schiavizzanti.

     Il secondo grado di conoscenza è quello razionale. La ragione è utile perché ci fa capire, sostiene Spinoza, che dobbiamo liberarci dalla schiavitù che ci procurano le passioni, e il programma ragionevole che possiamo utilizzare è quello elaborato dagli Stoici e dagli Epicurei per coltivare l’imperturbabilità. L’imperturbabilità ragionevole, sostiene Spinoza, ci permette di lasciare spazio all’intuizione, che è il terzo grado della conoscenza.

     Con la conoscenza intuitiva la persona capisce i legami tra le cose e le idee, intuisce che c’è una sostanza che lega gli oggetti e i pensieri. Intuire la Sostanza in Tutto, scrive Spinoza,  significa cominciare a conoscere Dio in Tutto. Nasce così la necessità di conoscere: una necessità che si trasforma in amore intellettuale per le cose, per le idee e quindi per Dio.

     L’amore intellettuale (il piacere per lo studio) raffigura l’amore per Dio ed è, sostiene Spinoza, uno slancio mistico in cui, amando Dio, la persona impara ad amare anche se stessa, e la mente umana si avvicina alla mente divina e si crea una coincidenza e una corrispondenza. La vera religione, per Spinoza, consiste nel sentire la necessità intellettuale (il piacere per lo studio): questa percezione equivale, sostiene Spinoza, al sentire l’amore di Dio. La vera religione è lo studium (sinonimo di “cura”), è la filosofia, è la “cura, lo studium” per la nostra anima. Attraverso l’esperienza dello studium, pensa Spinoza, arriviamo anche ad “amare il prossimo” che è il comandamento fondamentale per tutte le religioni storiche e per tutte le persone, e Spinoza sostiene la sua tesi citando il libro del Levitico: il versetto 18 del capitolo 19. L’amore per il prossimo è quindi, sostiene Spinoza, una scelta intellettuale. E le virtù, sostiene Spinoza, devono essere costruite dall’intelligenza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Andate a leggere il capitolo 19 del libro del Levitico e scrivetevi il versetto 18…

     Tutte queste idee interessano molto al “giovane Hegel” il quale, in Spinoza, scopre anche la lezione neoplatonica di Plotino (203-269 circa) e dell’opera di Plotino intitolata le Enneadi (Plotino lo rincontreremo tra due settimane).

     Per Spinoza Tutto procede da Dio, come per Plotino: Tutto emana dall'Uno con un processo spontaneo, libero e necessario. Tutto deriva dall’Uno e, con un itinerario intellettuale di ritorno (epistrophe epistrophé), Tutto torna all’Uno. Per Spinosa, Tutto procede da Dio e la persona, attraverso un itinerario di studio fatto di conoscenza sensibile, razionale e intuitiva, giunge ad amare il prossimo che è come tornare a Dio. Spinoza fu accusato di ateismo, perché afferma che “la persona può e deve tendere a essere sostanzialmente come Dio, buono e misericordioso”.

     Quindi mentre per Thomas Hobbes (1588-1679) nell’opera Leviatano l’uomo è homini lupus (lupo per l'uomo), per Spinoza l’essere umano è homini deus, cioè deve tendere “a essere come dio nei confronti del suo prossimo”: un dio necessariamente, ragionevolmente, logicamente buono e misericordioso.

     Il pensiero di Spinoza, attraverso la lettura dell’Etica, contribuisce alla formazione intellettuale del “giovane Hegel”. Questi si rende conto che le parole-chiave e le idee contenute nell’opera di Spinoza (la realtà è un tutt’uno che s’identifica con la Sostanza; se la Sostanza è Dio allora Dio è tutt’uno con la Natura; il mondo si trasforma attraverso una necessità - una dialettica – razionale; l’intuizione è il grado superiore della conoscenza) sono diventate patrimonio della generazione romantica, di Herder, di Goethe, di Schiller e anche di un personaggio che il “giovane Hegel” impara ad apprezzare leggendo Lettera sulla dottrina di Spinoza a Moses Mendelssohn scritta nel 1785 da Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) che abbiamo incontrato la settimana scorsa. Il “giovane Hegel” in una lettera lettera a Schelling, scritta il 4 dicembre 1794, che abbiamo letto la scorsa settimana, cita questo personaggio che si chiama Gotthold Ephraïm Lessing (1729-1781) il quale era già morto da tredici anni. Ma rileggiamo il brano che c’interessa:

LEGERE MULTUM….

Georg Hegel,  Lettere (1793-1800)

La censura nei confronti del pensiero di Spinoza è ridicola come è assurdo il divieto di rappresentare Nathan il saggio di Lessing, un dramma di eccezionale valore che spero tu abbia letto, visto che il testo circola comunque

Secondo Jacobi Lessing, poco prima di morire (1781), gli avrebbe dichiarato di condividere le posizioni panteistiche di Spinoza e, comunque, di non poter più accettare la concezione ortodossa e tradizionale della divinità come persona e come creatore. La polemica in corso atta a screditare Lessing cadrebbe se il suo ultimo dramma potesse essere rappresentato: è un testo contro i dogmi di tutti i credo, che dovrebbero invece avere un contenuto universalmente umano

     Di che cosa tratta il dramma Nathan il saggio di Lessing (1779) che ha entusiasmato il “giovane Hegel” e come mai ne è stata vietata la rappresentazione dalla censura? Questo dramma, oggi, è di grandissima attualità e, per fortuna – anche se questi fatti di natura culturale passano inosservati (prima ci sono i grandi “eventi”…) – è stato recentemente rimesso in scena (al teatro Palladium della Terza Università di Roma, regia di Piero Maccarinelli, con Remo Girone). Bisogna sapere anche (lo abbiamo già anticipato la scorsa settimana) che alle radici di questo significativo testo teatrale c’è la cultura italiana. Alle radici del dramma Nathan il saggio di Lessing c’è un’opera della Letteratura italiana che è anche un classico della Storia del Pensiero Umano e c’è anche un personaggio che Lessing incontra in Italia, per la precisione a Livorno, che lo impressiona favorevolmente.

     Gotthold Ephraïm Lessing (1729-1781) è figlio di un pastore protestante e studia teologia per seguire le orme del padre, ma poi rifiuta la carriera ecclesiastica perché vuole dedicarsi ad altri studi: a Lipsia studia medicina e filologia, poi nel 1748 si stabilisce a Berlino dove si dedica alla letteratura e alla filosofia, infine viene chiamato ad Amburgo dove riceve l’incarico di direttore del Teatro Nazionale. E Lessing si realizza come poeta, come artista e come filosofo proprio attraverso il teatro: come scrittore di tragedie. La preparazione di Lessing in campo teologico è molto profonda, così come la sua erudizione che spazia dalla tradizione classica alle opere inglesi: è soprattutto un grande estimatore del teatro di William Shakespeare.

     Per Lessing lo scopo della tragedia è quello di provocare lo spettatore (di commuoverlo, di farlo ragionare), in modo che, identificandosi con il protagonista, rifletta sulla propria condizione e giunga alla catarsi, alla purificazione morale delle proprie passioni. Perché sia possibile tale immedesimazione, la protagonista o il protagonista di un’opera teatrale (dramma, tragedia, commedia, farsa) non deve rappresentare un tipo ideale, ma deve ritrarre un carattere misto, capace di bene e di male. Il teatro, secondo Lessing, non deve mettere in scena ciò che una determinata persona ha fatto, bensì “ciò che ogni persona con un certo carattere può fare in determinate circostanze” e questa situazione mette sullo stesso piano il soggetto teatrale e lo spettatore. Questa situazione serve a porre l’accento sulla comune umanità che lega gli spettatori con i personaggi. “Se si prova compassione per i re o per le regine – scrive Lessing – è perché sono esseri umani e non perché sono sovrani”, e così in base al principio di identificazione, più le condizioni del protagonista assomigliano a quelle dello spettatore medio, più il suo destino è in grado di commuovere e di far riflettere il pubblico.

     Queste idee di Lessing vengono espresse in un’opera che s’intitola Laocoonte o dei confini tra la poesia e le arti figurative (1766): un testo che il “giovane Hegel” trova molto significativo. Lessing come teologo e come filosofo, lascia un’impronta significativa nella Storia del Pensiero con l’opera intitolata L’educazione del genere umano (1780): uno di quei testi che anticipano il romanticismo

     Quando il “giovane Hegel”, nel 1794, legge quest’opera, prima di tutto capisce meglio certe lezioni del professor Fortunius allo Stift di Tubinga, e poi prende atto che ci si deve occupare di teologia e capisce di dover cominciare a scrivere i propri pensieri nell’ambito di questa disciplina.

     Che cosa pensa Lessing come teologo “illuminista” (come è solito definirsi)? Lessing pensa che le religioni rivelate, le religioni storiche (in particolare l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam) debbano avere una funzione educativa, e debbano rappresentare il primo passo verso una religione razionale che metta al centro, per tutti gli esseri umani, l’Idea del Bene. Il riconoscimento, attraverso un itinerario di studio, da parte di tutte le persone dell’Idea del Bene come punto di unione che trascende le varie diversità, deve garantire il rispetto di princìpi comuni dai quali possano derivare le azioni virtuose di ogni singola persona.

     Vorrei ricordare che Lessing riprende questi concetti (di stampo platonico) dalla Scuola di Toledo dove, un po’ prima dell’anno mille, intellettuali islamici, cristiani ed ebrei, si riuniscono, in territorio islamico, per leggere e per studiare insieme i Dialoghi di Platone e per catalogare princìpi comuni da condividere in modo da costruire una via per superare le divisioni in Europa, in modo da gettare le basi per realizzare l’integrazione nel mondo. Il “giovane Hegel” pensa,  leggendo le opere di Lessing, che queste idee debbano essere motivo di riflessione nella cristianità (per giunta divisa…).

     La fiaba teatrale Nathan il saggio (1779) rappresenta senz’altro l’espressione più esplicita e compiuta del modo di pensare di Lessing. Questa fiaba teatrale, in cui il protagonista è un vecchio ebreo di nome Nathan, è liberamente tratta dalla novella “Del Saladino, di Melchisedech e dei tre anelli” narrata da Giovanni Boccaccio nella Giornata prima, novella III del Decamerone (Il libro delle dieci giornate) scritto tra il 1349 e il 1351.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se non avete mai letto una novella (una delle cento novelle) del Decamerone potete approfittare dell’occasione: potete leggere questa novella in biblioteca, utilizzando anche – la lingua di Boccaccio non è d’immediata comprensione (è necessario con pazienza seguire le note…) – una delle traduzioni delle novelle del Decamerone in lingua corrente (per esempio quella di Piero Chiara), buona lettura …  

      Nella fiaba teatrale Nathan il saggio di Lessing il tema centrale è quello della tolleranza non concepita però come una forma di “indulgente sopportazione” ma considerata in modo fattivo (in modo educativo) sul piano della reciproca comprensione fra culture e religioni diverse, tenendo conto che – sopra tutto e valevole per tutti – c’è l’Idea del Bene che avvalora l’unica identità possibile: quella umana. Il protagonista del dramma di Lessing, il vecchio ebreo Nathan è infatti – in un Medioevo (è ambientata nel Medioevo questa fiaba teatrale) di aspre lotte e di dogmatiche insofferenze – il sostenitore di una spiritualità comune in cui si ritrovino affratellate persone di fedi e di culture diverse. Oltre all’ebreo Nathan, nel dramma di Lessing, emergono altri due personaggi emblematici: il Templare, che è il rappresentante del Cristianesimo, e il Saladino che è il rappresentante dell’Islàm.

     Nathan il saggio è un testo in cui Lessing va al di là del tema della tolleranza per affrontare la questione della fraterna affinità tra ebrei, musulmani e cristiani: non esiste, secondo Lessing, un’identità cristiana, mussulmana, ebraica ma bensì esiste l’identità umana dalla quale scaturiscono culture diverse che possiedono tutte gli stessi valori di base contenuti nell’identità umana. “Bisogna educare – scrive Lessing – all’identità umana in modo da dare linfa alle varie culture che, nella reciproca collaborazione, possano pacificare il mondo…”. Prendiamo atto (con soddisfazione) che questo testo ha radici letterarie italiane e di italiano ha probabilmente anche il volto del protagonista: la figura di Nathan si rifà ad una persona che Lessing ha incontrato in Italia.

     In passato tutti gli studiosi di Lessing hanno sempre collegato la figura di Nathan, la figura del protagonista di questo classico del teatro settecentesco a un caro amico di Lessing: il filosofo Moses Mendelssohn.

     Moses Mendelssohn lo abbiamo già sentito nominare: è l’intellettuale ebreo, famoso nella cultura tedesca dell’epoca, a cui Jacobi scrive nel 1785 la Lettera sulla dottrina di Spinoza a Moses Mendelssohn, e conosciamo l’argomento. Ma dall’epistolario di Lessing è emersa un’altra persona.

     Ora nel ruolo di Nathan dobbiamo invece vedere un livornese, un intellettuale della forte e radicata comunità ebraica di questa città: il rabbino Abraham Isaac Castello, vissuto nella seconda metà del Settecento. Che tra le fonti di Lessing ci fosse una novella del Boccaccio – quella Del Saladino, di Melchisedech e dei tre anelli – si è sempre saputo, ma solo leggendo l’epistolario gli studiosi hanno scoperto che Lessing ha ricevuto degli stimoli culturali importantissimi da un intellettuale livornese incontrato durante il viaggio in Italia (anche Lessing ha fatto il suo “viaggio in Italia”) del 1775. Per essere precisi è stata soprattutto una studiosa italiana ad occuparsi per prima di questo problema: Lea Ritter Santini, che ha scritto un saggio sul Viaggio in Italia di Lessing che è circolato solo tra gli specialisti.

      Lessing rimane molto colpito dallo spirito e dalla cultura del rabbino Abraham Isaac Castello, ed è questa saggezza che deve avergli ispirato la stesura del dramma di cui stiamo parlando sul scia della formazione intellettuale del “giovane Hegel”. Lessing, molto probabilmente, viene a conoscenza della parabola boccaccesca dei tre anelli proprio conversando col rabbino Castello, e nel dramma di Lessing la parabola dei tre anelli la racconta Nathan al Saladino il quale aveva posto al vecchio ebreo una domanda insidiosissima: la più terribile tra le domande che si potevano fare a Gerusalemme e dintorni: «Dimmi quale delle tre fedi è quella vera?». Per trarsi d’impaccio – dal momento che nessuna risposta gli era possibile, perché qualunque fede avesse scelto ci avrebbe rimesso la vita, o rinnegando la propria o dichiarando false le altre – racconta una favola geniale.

LEGERE MULTUM….

Gotthold Ephraïm Lessing, Nathan il saggio (1779)

C’era una volta un signore che aveva un bellissimo anello il cui possesso garantiva l’eredità di tutti i suoi beni e la fortuna del casato. Quell’anello si trasmetteva ogni volta dal padre al più meritevole dei figli. E così andò per molto tempo fin quando un padre si trovò tre figli, tutti egualmente virtuosi. Incapace di sceglierne uno a danno degli altri, quel padre decise di far fare due copie perfettamente uguali dell’anello e di non rivelare a nessuno dei tre quale fosse l’originale e quale la copia.

     Nell’opera teatrale la favola prepara il passaggio a una serie di colpi di scena che faranno scoprire  al  templare cristiano, alla famiglia dell’ebreo e a quella del sultano che i loro legami sono più stretti di quanto mai avessero immaginato. Bisogna dire che questo intreccio nasce dal fatto che a impressionare Lessing in Italia non sono solo le conversazioni con il rabbino Castello ma, anche, il momento storico in cui quegli incontri avvengono.

     Contemporaneamente al viaggio di Lessing in Italia viene emanato il durissimo Editto di papa Pio VI (Giannangelo Braschi papa dal 1775 al 1799) che colpisce gli ebrei dello Stato pontificio. L’Editto sopra gli ebrei è un documento durissimo che impone la ghettizzazione (gli ebrei devono vivere chiusi in un recinto) a Roma e nello Stato della Chiesa, con conseguenze anche in altri Stati italiani dove l’Inquisizione controlla le Istituzioni. L’Editto proibisce inoltre con pene severissime ogni genere di contiguità tra cristiani ed ebrei. L’unico posto dove l’Editto non viene applicato è in Toscana che si presenta come un’isola felice in virtù della cosiddetta Costituzione Livornina sulla libertà religiosa promulgata dal 1591 da Ferdinando I Granduca di Toscana. Questa Costituzione era tanto tollerante e liberale da apparire altrove addirittura sovversiva.

     Lessing visita Livorno nel luglio del 1775 e ha modo di conversare con il rabbino Castello, che definisce, come adesso sappiamo dall’epistolario, più grande di Moses Mendelssohn. Il dramma Nathan il saggio diventa quindi un simbolo della libertà religiosa e si arricchisce anche di questi riscontri. La trama del dramma teatrale racconta che Nathan adotta una bambina che si rivela poi cristiana e la educa da ebrea: si tratta di un reato molto grave che viene punito con la reclusione a Roma e nelle zone di influenza pontificia.

     Lessing, quando torna in Germania, scrive che l’Editto di Pio VI … “È un esempio di radicale intolleranza e profondamente contrario ai principi della carità cristiana. L’intreccio religioso e culturale deve essere segno di libertà, tolleranza, civiltà, esattamente l’opposto del ghetto”.

     Il “giovane Hegel” leggendo il testo di Nathan il saggio si chiede se quest’opera, che sostiene la tolleranza e la convivenza tra diversi, sia anche un documento contro le religioni in quanto tali.

     Il “giovane Hegel” studiando poi il saggio di Lessing intitolato Educazione del genere umano trova una risposta. Scrive Lessing:

LEGERE MULTUM….

Gotthold Ephraïm Lessing, Educazione del genere umano (1780)

L’Antico Testamento è una prima fase in cui si manifesta il principio della verità, una fase iniziale che sarà seguita da altre, in una ricerca che non è mai chiusa e mai univoca. Le religioni appartengono alla varietà della cultura umana e sono un momento della educazione del genere umano: la varietà conduce nella direzione della verità

      In Lessing quindi non c’è il rifiuto radicale della religione come in Voltaire. Lessing non rifiuta la religione ma respinge la dogmatizzazione della religione ed è per questo motivo che entra in conflitto con l’ortodossia nella Germania protestante e le sue opere vengono messe all’Indice e la rappresentazione di Nathan il saggio viene proibita.

    Quindi il fatto che il protagonista sia un ebreo non influisce minimamente sulla proibizione dell’opera: in Germania nel Settecento non esiste l’antisemitismo, nascerà dopo. Lessing quindi non fa nulla di particolarmente coraggioso a scegliere come protagonista della sua fiaba teatrale un ebreo: non siamo a Roma, dove non sarebbe stato ammissibile. Così come non influisce sulla proibizione la presenza nel dramma dei musulmani: sulla figura del buon Saladino, visto come sovrano generoso, c’è una lunga tradizione che ritroviamo già in Dante Alighieri e nel Settecento i musulmani sono i soci più ambiti per gli scambi commerciali e marittimi e con loro si entra in contatto volentieri per fare affari.

     L’uso “interculturale” che Lessing fa dei personaggi è considerato del tutto appropriato, quello che non si considera pertinente è la sua critica al dogmatismo religioso e in una lettera inviata a Moses Mendelssohn poco prima di morire Lessing scrive:

LEGERE MULTUM….

Gotthold Ephraïm Lessing, Epistolario (1781)

L’atteggiamento di Nathan contro tutte le religioni positive (storiche, istituzionalizzate) è stato da sempre anche il mio. In sostanza egli avversa la struttura dogmatica delle religioni, sottolineandone viceversa il contenuto universalmente umano. Le religioni valgono in quanto hanno questo contenuto. Non conosco nessun luogo in Germania dove questo dramma (Nathan il saggio) potrebbe essere rappresentato oggi. Immagino che soltanto nel futuro l’opera sarà accolta, accettata, condivisa.

     Oggi rappresentare Nathan il saggio significa parlare non solo di tolleranza (un termine che anche per Lessing nasconde delle ambiguità), ma di qualcosa che possiamo chiamare “interculturalità”. Infatti: i cristiani, gli ebrei e i musulmani alla fine della favola teatrale di Lessing scoprono non solo di non essere nemici (siamo tutti figli di Abramo) ma di essere parenti (siamo tutti figli della stessa Umanità). Lessing vuole affermare che l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam sono effettivamente imparentati per il fatto che il richiamo della rivelazione (attraverso le Scritture), l’esigenza della salvezza, lo slancio della solidarietà sono valori radicati nell’identità umana valida per tutti, e di conseguenza i motivi di scontro (qualunque essi siano) – secondo Lessing – sono anacronistici, irrazionali e antistorici.

     Il testo della favola teatrale Nathan il saggio fa riflettere oggi più che mai sul concetto di “interculturalità”. Lessing ha il merito di demolire, dal punto di vista teologico, il concetto delle identità religiose. Lessing afferma che esiste una sola identità che appartiene a tutte le persone: l’identità umana, infatti la “rivelazione” si rivolge all’Umanità nel suo insieme (se l’essere umano è a “immagine e somiglianza di Dio”) e la “rivelazione” parla in modo da mettere in risalto i valori dell’identità umana attraverso la molteplicità delle culture. La “rivelazione” – scrive Lessing nell’Educazione del genere umano – esalta il primato dell’identità umana ed esalta contemporaneamente la molteplicità delle culture: quindi le religioni devono fare riferimento ad un’unica identità che accomuna tutti. I valori dell’identità umana evidenziati dalla “rivelazione” – sostiene Lessing – si propagano attraverso molteplici culture e molteplici religioni attraverso lingue diverse, diversi usi e costumi, e diversi modi di vita.

     Particolarmente originale – all’interno della tematica “interculturale” esposta da Lessing – appare il motivo della “modestia” come garanzia della reciproca comprensione. I grandi uomini, sostiene il saggio Nathan, sono come i grandi alberi, che hanno bisogno di spazio intorno a sé, mentre le persone comuni sono come i modesti arbusti che vivono volentieri in gruppo e accettano di buongrado la vicinanza degli altri. Questa tesi – sviluppata nella scena che adesso vogliamo leggere – è l’equilibrata e ragionevole espressione del buon-senso dell’Illuminismo che deve prevalere sulle mitizzazioni e sulle bramosie di grandezza che – secondo Lessing – sono apportatrici solo di sofferenze e di violenza.

LEGERE MULTUM….

Gotthold Ephraïm Lessing, Nathan il saggio (1779)

ATTO II     SCENA V

Nathan va incontro al templare il quale ha salvato la vita a sua figlia.

   NATHAN

Quell’uomo strano quasi mi intimidisce. La sua rude virtù mi fa esitare. Possibile che un uomo possa tanto imbarazzare un altro uomo! – Ah, eccolo. – Per Dio! È un giovane che sembra un uomo fatto. Mi piace quello sguardo buono e fiero, quel passo teso. La scorza sarà amara, il frutto no.

– Perdonate, nobile franco

   TEMPLARE

Cosa volete?

   NATHAN

Vorrei parlare con voi

   TEMPLARE

Posso forse impedirlo? Ma sbrigatevi.

   NATHAN  

Sì però non affrettate il passo, così superbo e sprezzante, davanti a un uomo che avete legato a voi per sempre.

   TEMPLARE

E in che modo? – Ah, capisco. Siete

   NATHAN  

Mi chiamo Nathan; sono il padre della ragazza che generosamente salvaste dalle fiamme; e vengo

   TEMPLARE

A ringraziarmi? Risparmiatevelo

Per quella piccolezza ho già dovuto sopportare troppi ringraziamenti.

– Non mi dovete nulla. Non sapevo che la ragazza fosse vostra figlia e accorrere in aiuto di chiunque sia in pericolo è dovere di ogni templare.

Inoltre in quel momento la vita mi pesava e volentieri approfittai dell’opportunità di metterla in gioco contro un’altra vita; una qualunque – e fosse pure solo la vita di un’ebrea.

   NATHAN  

Ciò che avete detto è, nello stesso tempo, grande e orribile! – Ma si può capire perché. Per fuggire l’ammirazione, la grandezza modesta, si rifugia nell’orrore.

– Ebbene, se la modestia disprezza tanto il tributo dell’ammirazione, quale tributo essa disprezzerà di meno?

– Cavaliere, se qui non foste un forestiero e un prigioniero, nelle mie domande sarei meno sfacciato, ma ordinate: in che cosa posso servirvi?

   TEMPLARE

In nulla.

   NATHAN  

Sono un uomo ricco.

   TEMPLARE

Per me l’ebreo più ricco non fu mai il migliore.

   NATHAN  

È un buon motivo per non sfruttare la cosa migliore che possiede, cioè la sua ricchezza?

   TEMPLARE

Sta bene, non mi opporrò del tutto; per amore del mio mantello. Quando sarà logoro, e non terranno più né toppe né rammendi, verrò a chiedervi in prestito la stoffa o il denaro per un mantello nuovo.

– Non fate quella faccia scura! Per ora non correte rischi: non è ancora a quel punto. Lo vedete, è in buono stato. Solo questo lembo ha una brutta macchia; è strinato. Si è fatta quando attraversai le fiamme con vostra figlia.

   NATHAN  

(Afferrando il lembo del mantello e guardandolo fisso…) È strano che una simile macchia, una crudele bruciatura, parli assai meglio per quest’uomo della sua bocca. Vorrei baciarla, ora – questa macchia. – Scusate! – Non vorrei essere importuno

   TEMPLARE

Cosa? Perché dite questo?

   NATHAN

Ho visto che vi è caduta una lacrima

   TEMPLARE

Poco male. Si è bagnato altre volte. (Questo ebreo incomincia a farmi confondere).

   NATHAN  

Vorreste essere così buono da mandare il mantello a mia figlia?

   TEMPLARE

Perché mai?

   NATHAN  

Perché possa almeno baciare questa macchia: poiché il desiderio di abbracciarvi lei stessa le ginocchia, per ringraziarvi, non potrà essere realizzato.

   TEMPLARE

Ebbene ebreo, Nathan vi chiamate? – Ebbene Nathan avete parole così – così efficaci e penetranti –  che sono confuso – ecco, sarei

   NATHAN  

Mascheratevi pure come volete, io vi riconoscerò

Voi foste troppo buono, voi foste troppo onesto e non avete voluto essere cortese.

– Una fanciulla troppo sentimentale; una messaggera troppo ben disposta; ed il padre lontano

– Vi preoccupaste del suo buon nome, evitaste di metterla alla prova per non vincerla. Anche di questo vi ringrazio –

   TEMPLARE

Devo ammettere che voi conoscete i doveri di un templare.

   NATHAN  

Vi siete comportato onestamente solo perché siete un Templare? È solo per dovere che avete fatto questo gesto di umanità? Solo perché lo impongono le regole dell’Ordine? Io so – indipendentemente dagli ordini e dai doveri – come si comporta un uomo buono, e so che ogni paese ne possiede di uomini buoni.

   TEMPLARE

Però con delle differenze.

   NATHAN  

Certo: di colore, di vesti e di fattezze.

   TEMPLARE

Ma di buoni ce n’è di più o di meno?

   NATHAN  

È una differenza che non va lontano

All’uomo grande occorre ovunque spazio; molti alberi piantati troppo fitti si spezzano i rami vicendevolmente. Di modesti invece, come noi, ce n’è dappertutto. Basta che uno non disprezzi l’altro; basta che il nodo tolleri il vicino; basta che il ramoscello non pretenda di essere l’unico venuto giù dal cielo.

     E a questo punto tiriamo le fila prendendo atto che il “giovane Hegel”, a Berna, dal 1793, cura la sua formazione culturale e intellettuale sulla scia del pensiero di Kant, di Fichte, di Reinhold, di Schulze, di Jacobi (tutti personaggi che abbiamo incontrato la scorsa settimana) e inoltre, dal 1794, si dedica alla lettura e allo studio delle opere di Baruch Spinoza (1632-1677) e di Gotthold Ephraïm Lessing (1729-1781). Mettendo insieme tutti questi tasselli – vale a dire le parole-chiave e le idee-significative contenute in essi – il “giovane Hegel” comincia a scrivere. E che cosa scrive?

     Sappiamo già qual è la disciplina che da principio lo coinvolge maggiormente: la teologia e gli scritti che il “giovane Hegel” produce a Berna dal 1793 al 1796 fanno parte di una raccolta curata nel 1907 (più di centodieci anni dopo) da Herman Nohl che s’intitola Scritti teologici giovanili.

     Ora dobbiamo specificare che questo titolo è piuttosto improprio perché la raccolta di Nohl comprende scritti di varia natura e di varia consistenza e compiutezza che appartengono a tre periodi diversi della vita di Hegel: quello di Berna, quello di Francoforte e quello di Jena.

     Il “giovane Hegel” di Berna è dunque un teologo, cioè un pensatore che ha come oggetto della sua ricerca la religione ma che si è già – attraverso la sua formazione culturale, come abbiamo visto – parzialmente svincolato dal mondo delle tradizioni che aveva respirato a Tubinga. A Berna il “giovane Hegel”, nel momento in cui si accinge a scrivere le sue opere teologiche giovanili, fa delle scelte che corrispondono alle “forme intellettuali” che hanno preso consistenza nella sua mente.

     La prima è la scelta illuministica sulla scia di Kant e di Fichte che lo porta a mettere al centro del suo interesse la “ragione” e la “critica”, poi c’è la scelta politica ispirata ai princìpi della Rivoluzione francese, e infine c’è quella che viene chiamata la scelta antropologica che guarda alle funzioni sociali della religione in cui il “giovane Hegel” prende atto del fatto che nella persona non bisogna tenere conto solo dell’intelletto ma anche della sensibilità e dell’immaginazione. Quindi nell’animo e nella mente del “giovane Hegel” si agitano delle istanze (la scelta illuministica, la scelta politica e la scelta antropologica) non facilmente conciliabili tra loro.

     Il “giovane Hegel” matura – sulla scia di Kant – un’idea puramente morale della religione, pensando all’avvento del Vangelo come a un’epoca in cui gli esseri umani possano adorare Dio in spirito e verità e possano dimostrare con la rettitudine della loro vita e delle loro azioni la validità delle loro credenze (“non ci chiederanno se siamo stati credenti ma se siamo stati credibili…). 

     Del resto, tanto per Kant come per Fichte, per Spinoza come per Lessing questa – fondata sulla morale – era in effetti l’autentica religione praticata e professata da Gesù, del tutto diversa ed opposta rispetto alla divinizzazione della persona del Maestro compiuta dai discepoli e poi imposta dalle Chiese. In questa atmosfera carica di tensioni e di contrasti, ricca di aspirazioni e di speranze, si collocano gli Scritti teologici giovanili di Hegel.

     Nel primo di questi scritti intitolato La religione popolare e il cristianesimo (1794) il “giovane Hegel” affronta il problema di quali caratteristiche debba avere una religione per essere  “popolare”. Per essere “popolare” – sostiene il “giovane Hegel” – una religione non deve configurarsi come un fatto singolo, non può essere considerata come un fatto privato. Il “giovane Hegel” apre una polemica contro la pretesa “illuministica” di promuovere la virtù con mezzi puramente razionali e solo attraverso la ragione individuale. La virtù va coltivata – scrive il “giovane Hegel” – dentro ad un processo collettivo in cui la “religiosità popolare” – con i suoi valori umanistici (la fraternità, la solidarietà, la pietà, l’accoglienza) – si propone come un percorso di educazione, come un itinerario di formazione per la coscienza individuale. È prima di tutto dal movimento collettivo della “religiosità popolare” che si sviluppa la coscienza virtuosa individuale: è attraverso questa immersione collettiva (comunitaria) che nella coscienza di ognuno – scrive il “giovane Hegel” – si consolida la virtù individuale con una presa d’atto della ragione della singola persona. 

     La religione, per essere “popolare” – sostiene il “giovane Hegel” – deve ispirare la fantasia e il cuore, senza però dar luogo a superstizioni e a tale scopo sarebbe opportuno – scrive il “giovane Hegel” – collegare alla religione dei miti. Ed è in quest’ottica che il “giovane Hegel” spinge il suo sguardo al mondo greco, dove la religione ha saputo accogliere in sé il momento celebrativo e festoso della vita del popolo, dove gli dèi s’identificano con le stesse manifestazioni della Natura e sono gli “eventi” stessi nel loro accadere. Questo scritto, intitolato La religione popolare e il cristianesimo, è ampiamente caratterizzato dall’attenzione sul rapporto tra la vita religiosa e quella politica e sociale.

     La figura di Gesù occupa invece un posto centrale nello scritto successivo, del 1795,  intitolato Vita di Gesù. Il testo di questo saggio aderisce al pensiero kantiano e all’etica kantiana.

     I discorsi, le parabole, i precetti, e perfino le preghiere di Gesù vengono tutti trascritti in chiave di ragion pratica, cioè considerando la legge morale come l’unico autentico fondamento e significato della religione e del cristianesimo. La religione e il cristianesimo, nella Vita di Gesù di Hegel, s’identificano con la legge morale, non con il legalismo, vale a dire che: mi comporto in modo tale da fare il bene – e so distinguere tra il bene e il male perché la legge morale è scritta nel mio cuore – perché è mio dovere, non perché ho paura di essere sanzionato dalla legge (questo atteggiamento è immorale). Il “giovane Hegel” sostiene quindi una polemica contro il legalismo farisaico della chiesa luterana, ma non certo per abolire il concetto della legge che, come legge morale non potrà mai “cessare di essere” perché è scritta nel cuore delle persone, bensì per richiamare ogni essere umano all’esigenza di agire non per la lettera, ma per lo spirito della legge, ossia per la pura coscienza del dovere. Gesù ammonisce – sostiene il “giovane Hegel” – che non si deve pensare a forme di aiuto o di conforto, di premio o di felicità diverse dalla “coscienza di aver obbedito unicamente al dovere e di avere compiuto la scelta a favore del dovere e in vista del dovere”: non è infatti possibile servire a due padroni, e il servizio di Dio e della legge morale è inconciliabile con quello dei sensi, e non è sufficiente non cedere alle inclinazioni sensibili, ma – sostiene il “giovane Hegel” – occorre governarle, sottometterle alla pura legge della ragione.

     Il terzo scritto, prodotto dal “giovane Hegel” a Berna, è intitolato La positività della religione cristiana (1795/96) ed è più vasto e più articolato degli altri due. In questo trattato la figura di Gesù viene studiata all’interno di quel processo storico-evolutivo (o meglio – secondo il “giovane Hegel” – involutivo), per cui una pura morale come il cristianesimo ha potuto trasformarsi in religione, ossia in un insieme di credenze imposte con l’autorità e la coercizione. Si tratta quindi di domandarsi – sostiene il “giovane Hegel” – se già nell’insegnamento di Gesù si possano individuare elementi per cui il cristianesimo, sorto in polemica con l’ebraismo, abbia finito con il restaurare nelle istituzioni ecclesiastiche il più completo dominio del legalismo esteriore contro cui Gesù aveva reagito. Un legalismo che, a differenza di quello ebraico, non si limita alle azioni esterne (a controllare la correttezza dei riti prescritti), ma vuole controllare lo stesso mondo interno dei sentimenti. Ora – secondo il “giovane Hegel” – Gesù ha indubbiamente innalzato la religione a pura moralità, ma egli stesso l’ha connessa alla fede in Dio e così non ha potuto impedire che la sua dottrina fosse considerata valida per tale ragione e non soltanto perché conforme alla legge morale, così come non ha potuto evitare di essere considerato un messia, sia pur in un senso più elevato di quello puramente politico.

     Soprattutto dopo la sua morte, il messaggio di Gesù – scrive il “giovane Hegel” – viene collegato al culto della sua persona e inteso come una dottrina da diffondere e, se necessario, da imporre… così facendo la vita della comunità si trasforma in un ordinamento istituzionale e coercitivo e non in un processo collettivo di formazione per imparare il doveroso rispetto della legge morale. Infatti – scrive il “giovane Hegel” – è nel momento in cui l’essere umano sente il dovere di rispettare la legge morale che contribuisce nella comunità a proclamare la resurrezione di Gesù.

     Noi capiamo – dopo aver analizzato (seppur brevemente) i concetti fondamentali contenuti nelle sue prime opere intitolate La religione popolare e il cristianesimo (1794), Vita di Gesù (1795), La positività della religione cristiana (1796) – che il “giovane Hegel” utilizza parole-chiave e idee significative mutuate dal pensiero di Kant, di Fichte, di Spinoza e di Lessing.

     Il “giovane Hegel” nella sua formazione intellettuale usa il concetto del “primato della legge morale” di Kant, si giova del concetto “dell’Io come attività inesauribile del Pensiero” di Fichte, s’ispira al concetto di “panteismo, in cui Dio e la Natura s’identificano” di Spinoza e condivide il concetto del “primato dell’identità umana sull’identità religiosa” di Lessing. Queste “forme intellettuali” costituiscono gli strumenti con i quali il “giovane Hegel” comincia ad elaborare e a sistemare il suo pensiero sulla scia delle parole-chiave: ragione, dialettica e Assoluto.   

     A Berna, dopo aver scritto queste opere, il “giovane Hegel” – pur in comunicazione epistolare con Hölderlin e con Schelling – comincia a sentirsi isolato e così nel gennaio del 1797 lascia la casa degli Steiger e si trasferisce a Francoforte. A Francoforte vive Hölderlin che lo accoglie e gli trova un lavoro da precettore. A Francoforte l’orizzonte di pensiero del “giovane Hegel” si amplia ancora e nuovi temi si presentano alla sua mente.

     Quali nuovi temi e quali nuovi motivi di riflessione – sempre nell’ambito delle parole-chiave: ragione, dialettica e Assoluto – si presentano alla mente del “giovane Hegel” a Francoforte?  È lì ce ci trasferiamo la prossima settimana, ma il “giovane Hegel” comincia a guardare già oltre Francoforte, guarda ad un’altra città che, in questo momento è diventata una delle roccaforti del pensiero filosofico europeo.

     Ma accorrete che, senza fare il passo più lungo della gamba, il viaggio continua. La Scuola è qui…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 12, 2006