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LO SGUARDO DI HEGEL SULL’IDEALISMO ETICO…

Lezione N.: 
23

Prof. Giuseppe Nibbi                   Lo sguardo di Hegel  2006         19-20-21  aprile  2006

LO SGUARDO DI HEGEL

SULL’IDEALISMO ETICO…

     Ben tornati a Scuola!

     Questa sera ci troviamo ancora una volta in posizione di partenza per il secondo e ultimo Percorso di quest’anno scolastico 2005-2006. Siamo appena tornati da un lungo viaggio – 22 itinerari in compagnia di Erodoto in giro per il mondo di 2500 anni fa, nell’epoca dell’Età assiale della storia – e quindi siamo già pronti per ripartire e, di conseguenza, il rito della preparazione della partenza, il rito del prendere il passo sarà brevissimo, o quasi.

     Il punto di partenza di questo secondo percorso didattico che stiamo per intraprendere lo conosciamo già e si trova nel vasto territorio del “romanticismo”. L’ultimo scenario culturale (una possibile – tra le tante – riflessione finale) che noi abbiamo osservato nel testo de Le Storie di Erodoto conteneva l’idea del fascino del mistero, dell’ignoto e dell’incognita e sull’onda di questo concetto siamo nuovamente approdati nel vasto territorio del “romanticismo”. Il fascino del mistero, dell’ignoto e dell’incognita costituisce un tema romantico con cui ci siamo già misurati nel vasto territorio del “romanticismo”: infatti noi abbiamo viaggiato, dall’anno 2004, su due lunghi sentieri e, a questo proposito, per saperne di più, è utile leggere gli articoli dell’ultimo numero (il n. 13) de la rivista L’ANTIbagno, che mettono in evidenza le parole-chiave e le idee significative che abbiamo incontrato nello spazio del cosiddetto “romanticismo galante”.

     In quale zona del vasto territorio del “romanticismo” ci troviamo questa sera? Per rispondere a questa domanda dobbiamo prendere il passo sulla via dell’evolversi di un ragionamento articolato e progressivo che favorisca l’esercizio della ricerca. Infatti la persona si arricchisce, non tanto e non solo nel momento in cui trova le risposte, ma soprattutto durante la trafila della ricerca: non sono le perle che fanno la collana, è il filo che dona la “forma” alla collana. Le perle preziose (i contenuti) sono importanti, ma l’umile filo, pur senza valore, (ciò che dà la forma all’apprendimento) è indispensabile.

     Anche questo secondo Percorso di studio c’invita ad intraprendere una serie (sei) di itinerari in funzione della didattica della lettura e della scrittura con l’obiettivo (è l’obiettivo didattico della Scuola Pubblica degli Adulti) di imparare a investire in intelligenza: che cosa significa? Significa che dobbiamo imparare a conoscere (un catalogo di parole-chiave), a capire (un catalogo di idee significative), dobbiamo imparare ad applicarci (su un repertorio culturale), dobbiamo imparare ad analizzare (a mettere in ordine la trama dei nostri pensieri), dobbiamo imparare a sintetizzare (a fissare, con la scrittura, il pensiero che ci seduce di più), e dobbiamo imparare a valutare (a misurare, a giudicare i risultati del nostro itinerario intellettuale): tanto più ci rendiamo conto di non-sapere e meglio è (la cultura è un lungo viaggio all’interno della nostra ignoranza). Più aumentano le nostre curiosità, i nostri dubbi e l’esigenza di esercitare tanto la logica razionale quanto la logica del sentimento, e meglio è. Conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare: sono le azioni cognitive attraverso le quali si attua l’apprendimento; dobbiamo essere consapevoli di questo fatto e dobbiamo imparare ad agire di conseguenza. Le azioni cognitive ci permettono di investire in intelligenza e, in un investimento in intelligenza, il tasso d’interesse è sempre in crescita. Non si diventa lettrici lettori, scrivane scrivani senza imparare ad investire in intelligenza.

     Dopo questo breve rituale introduttivo – di cui subìte ad ogni partenza la celebrazione, (ma è indispensabile ricordare la natura e gli obiettivi cognitivi del nostro Percorso didattico così come è indispensabile procurarsi il filo, senza il quale non si dà forma alla collana) – ci mettiamo in cammino sulla scia della domanda che ci siamo posti. In quale zona del vasto territorio del “romanticismo” ci troviamo? Dove si trova il punto di partenza del viaggio (del Percorso di studio) che stiamo per intraprendere?

     I primi passi che ci accingiamo a compiere questa sera devono condurci al punto di partenza, al luogo dove inizia il sentiero su cui dobbiamo viaggiare. Il sentiero su cui dobbiamo camminare attraversa una zona particolare del vasto territorio del “romanticismo”, questa zona può essere considerata una “zona di frontiera” che si caratterizza perché ci sono molti “ponti”.

     Noi sappiamo già, sulla scia di Erodoto, che la frontiera è uno sbarramento ma contemporaneamente è anche un punto di collegamento e, difatti, nel greco di Erodoto il termine “frontiera” e il termine “ponte” si traducono con la medesima parola ghéfyra. Il sentiero che dobbiamo raggiungere e su cui dobbiamo metterci in cammino attraversa una zona che si trova al confine tra le due grandi regioni in cui è diviso il territorio del “romanticismo”.

     Nel territorio del “romanticismo” esistono due grandi aree che noi abbiamo attraversato (dall’anno 2004 in avanti): l’area del “romanticismo titanico” e l’area del “romanticismo galante”. Il “romanticismo titanico” e il “romanticismo galante” fanno anche riferimento a due realtà geografiche: la Germania (il romanticismo titanico) e la Francia (il romanticismo galante), ma le aree del “romanticismo titanico” e del “romanticismo galante” vanno al di là del dato geografico: sono due grandi paesaggi intellettuali, sono due vasti territori della mente e la linea di confine tra questi due luoghi culturali (il titanico e il galante) è attraversata da innumerevoli ponti ideali sui quali transitano incessantemente parole, idee, pensieri, riflessioni, opere…

     Che caratteristiche hanno queste due regioni (titanica e galante) per cui si differenziano? Possiamo – mettendo in gioco poche parole e poche idee – distinguere lo spazio titanico dallo spazio galante? Per fare questo – mentre cominciamo a prendere il passo – dobbiamo imbastire un ragionamento.

     Una delle principali parole-chiave che il movimento del romanticismo, nel suo complesso, mette al centro della sua riflessione è la parola “interiorità”. Il romanticismo si distingue come movimento culturale perché sancisce il primato della vita interiore – della coscienza, della spiritualità, dell’anima – rispetto all’esteriorità. Le intellettuali e gli intellettuali romantici (ne abbiamo incontrate/incontrati molti dal 2004 in avanti) pensano che senza coltivare un’intensa vita interiore le azioni esteriori della persona risultino scadenti, risultino insoddisfacenti. La parola “interiorità”, tra il 1700 e il 1800 (dal 1790 al 1840) è al centro di un intenso dibattito culturale e in questo dibattito emerge anche il tema dell’Io, un tema che diventa essenziale nella riflessione filosofica.

     Sulla parola “interiorità”, sul concetto del “primato dell’interiorità” – nel momento in cui riprendiamo il nostro cammino – dobbiamo, quindi, imbastire un ragionamento nell’ambito della Storia del Pensiero Umano e dobbiamo chiederci: quando usiamo il termine “interiorità” diciamo la stessa cosa dappertutto? Valgono, per esempio, gli stessi schemi interpretativi tanto in Germania quanto in Francia? I “romantici” tedeschi e i “romantici” francesi intendono la stessa cosa quando usano la parola “interiorità”? Vale a dire: in questo momento, tra il 1700 e il 1800, c’è un modo solo per definire il concetto di “interiorità”? Quando le intellettuali e gli intellettuali romantici francesi (molti di voi dovrebbero ricordare uno degli esponenti di spicco del “romanticismo galante”: il signor Vivant Denon, che ha inventato il museo del Louvre e anche la signora Elisabeth Vigée-Lebrun) – a Parigi o a Venezia o a Napoli – adoperano la parola “interiorità”, non la utilizzano propriamente nello stesso modo in cui la usano – in questo stesso periodo – le intellettuali e gli intellettuali romantici tedeschi: che cosa significa questo?

     In Germania – nel territorio che è stato definito del “romanticismo titanico” – la parola “interiorità”, si riferisce direttamente ai problemi dello Spirito nel senso mistico del termine (con la “S” maiuscola), e l’interiorità s’identifica con la coscienza individuale intesa come facoltà di valutazione morale del proprio modo di agire, L’interiorità, per il “romanticismo titanico”, s’identifica con la “tragedia interiore”: con uno stato d’animo in cui la persona valuta se si è comportata bene o male. E siccome comportarsi bene non è facile, ebbene, nell’intimo della persona, secondo i “romantici tedeschi”, c’è sempre un forte tormento, un vibrante travaglio interiore.

     Per i “romantici galanti” – in particolar modo per le intellettuali e gli intellettuali francesi – la parola “interiorità” fa riferimento diretto ai problemi dello spirito (ma con la “s” minuscola): avere uno “spirito interiore” (“essere persone di spirito”) significa coltivare delle competenze nel senso della “galanteria”. Nell’interiorità – le intellettuali e gli intellettuali romantici soprattutto francesi – coltivano competenze galanti: il garbo, l’eleganza, la finezza, la distinzione, la gentilezza, la cortesia, la bella maniera, il complimento, la civetteria. Queste competenze devono mettere in grado la persona di emanare “fascino”, e una persona risulta “affascinante” solo se coltiva una profonda vita interiore e se si pone il problema di come il “fascino” possa contribuire a rendere più bella la società, e le romantiche e i romantici “galanti” danno, prima di tutto, una valutazione estetica della realtà, chiedendosi: “C’è del “bello” dentro di me?

     Per il “romanticismo titanico” l’interiorità s’identifica con la “tragedia interiore” in cui la persona, nell’intimo della sua coscienza, si domanda se ha contribuito alla realizzazione del “bene” nella società, e le romantiche e i romantici “titanici” danno, prima di tutto, una valutazione etica della realtà, chiedendosi: “C’è del “bene” dentro di me?”. Quindi, per il “romanticismo titanico tedesco” il concetto di interiorità corrisponde soprattutto a un’idea di carattere etico, morale.

     Invece per il “romanticismo galante francese” il concetto di interiorità corrisponde soprattutto a un’idea di carattere estetico.

     Per il “romanticismo titanico” l’interiorità presuppone prima di tutto una riflessione sull’idea del bene e sul suo significato. Per il “romanticismo galante” l’interiorità ipotizza prima di tutto una riflessione sull’idea del bello e sul suo significato.

     Per il “romanticismo titanico” la parola “interiorità” è legata fondamentalmente alla parola “bene”, ed è la “ricerca del bene” che conduce la persona alla scoperta del bello: è nell’educazione e nella realizzazione del “bene” che si scopre la “bellezza”.

     Per il “romanticismo galante” la parola “interiorità” è legata invece fondamentalmente alla parola “bellezza”, ed è la “ricerca del bello” che conduce la persona alla scoperta del bene: è l’educazione alla “bellezza” che indirizza verso il “bene”-

     Il “romanticismo titanico” e il “romanticismo galante” danno quindi della parola e dell’idea di “interiorità” una diversa interpretazione. Ed è proprio sulla diversa interpretazione della parola e dell’idea di “interiorità” che possiamo distinguere le due aree fondamentali del territorio del “romanticismo”. Ebbene, lo spazio in cui ci dobbiamo muovere, durante gli itinerari del viaggio che abbiamo intrapreso, è collocato ai confini di queste due grandi regioni ed è soprannominato la zona dell’Idealismo,

     Di che cosa parliamo quando parliamo dell’Idealismo? Intanto – per prima cosa – prendiamo in considerazione il termine “idealista” che risulta essere l’espressione più diretta che deriva dalla parola “idealismo”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Forse molte volte ci siamo sentite/sentiti dire: sei un’idealista, sei troppo idealista …

La parola “idealista” significa: visionaria visionario, sognatrice sognatore, utopista, ingenua ingenuo, virtuosa virtuoso, illusa illuso…

Tu, rispetto a queste parole, che tipo di “idealista” ti consideri? 

Scrivi, basta una frase…

     Lo spazio dell’Idealismo è un territorio di frontiera ricco di ponti che collegano le due grandi aree del “romanticismo titanico” e del “romanticismo galante”. In questa significativa area intellettuale – che diventa uno spazio di integrazione e di interscambio intellettuale – il dibattito si concentra sulla parola e sull’idea di “interiorità” in relazione al tema che abbiamo illustrato: la parola “interiorità” è più legata alla parola “bene” o è più legata alla parola “bello”? Le due cose – l’idea del bene e l’idea del bello – sono entrambe importanti, ma “è il bene che fa scaturire il bello” oppure “è il bello che fa scaturire il bene”? Siamo nel difficile? Dare una risposta, senza fare un ragionamento (senza percorrere un itinerario di studio) e senza operare una riflessione, non è facile. Significa che dobbiamo impegnarci a “conoscere parole-chiave” e a “capire idee significative”: per questo motivo la Scuola ci conduce su questi itinerari. Dopo aver identificato lo spazio – che abbiamo denominato il “territorio dell’Idealismo” – su cui dobbiamo viaggiare, il passo successivo consiste nell’individuare il punto, il luogo da cui parte il sentiero che dobbiamo seguire in questo Percorso di studio.

     Questi primi passi ci hanno condotto in una città: ed è proprio da questa città che parte il nostro itinerario intellettuale in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Questa città si chiama Tubinga, ed è una bella città della Germania che abbiamo visitato altre volte. Per essere più precisi questo nuovo Percorso parte dal celebre collegio Stift di Tubinga; e per essere ancora più precisi parte dalla camera numero 9 del celebre collegio Stift di Tubinga. Chi dorme, chi studia, chi vive nella camera numero 9 del celebre collegio Stift di Tubinga? Ci vivono tre studenti convittori che si chiamano: Friedrich Hölderlin, Friedrich Schelling e Georg Hegel.

    Il collegio Stift di Tubinga era un istituto luterano assai rinomato dove molti giovani tedeschi (e non solo tedeschi), dopo la scuola primaria, andavano a completare gli studi, soprattutto gli studi di teologia, ma il collegio Stift era (come si suol dire oggi) un “istituto di eccellenza” che cercava di assumere i migliori insegnanti di tutte le discipline (umanistiche e scientifiche) che proponeva.

     Hölderlin e Hegel frequentano l’Istituto Stift dal 1788 e sono coetanei, sono nati nel 1770 e hanno 23 anni, mentre Schelling frequenta solo da due anni, è nato nel 1775  e ha 18 anni ma si comporta già come un veterano: è il più sveglio e il più birichino (se così si può dire) dei tre.

Dopo avere presentato i primi tre dei cinque protagonisti principali che incontriamo sul luogo della partenza, eccoci dunque pronti per prendere il passo sul sentiero di questo Percorso che possiamo intitolare: “lo sguardo di Hegel”.

    Questo è lo scenario che riguarda il concetto dello spazio: e lo scenario del tempo come si configura? Che data segna il calendario nel momento della nostra partenza? Siamo all’ultima settimana di gennaio dell’anno 1793 e le cronache registrano che a Tubinga il gennaio del 1793, dal punto di vista climatico, è stato abbastanza mite ma, per quanto riguarda il clima politico e culturale, l’inverno del 1793 è stato un inverno caldo. I tre studenti della camera numero 9 del collegio Stift – Friedrich Hölderlin, Friedrich Scelling e Georg Hegel – contribuiscono (nei limiti delle loro possibilità) a surriscaldare il clima dell’inverno 1793: che cosa combinano, insieme, questi tre personaggi? Ne combinano delle belle, ma le loro birichinate (chiamiamole così), viste in prospettiva, risultano molto funzionali alla didattica della lettura e della scrittura e quindi sono (almeno da parte nostra) pienamente giustificate. Abbiamo già detto, quindici giorni fa, che se, questi tre studenti, non ne avessero combinato delle belle – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – noi oggi ci divertiremmo molto meno a studiare.

     Ma entriamo dentro gli avvenimenti con cui comincia questo Percorso e prendiamo decisamente il passo tenendo conto che (anche) su questo sentiero ci sono molti paesaggi intellettuali da osservare e quindi il nostro cammino è soggetto a frequenti rallentamenti.

     Il 31 gennaio del 1793, all’Università di Tubinga, viene invitato a tenere una conferenza un intellettuale (e questo è il quarto protagonista della nostra partenza) che, in questo momento in Germania (e non solo in Germania), è al centro dell’attenzione. Questo personaggio è un insegnante trentunenne, è un precettore che ancora lavora in case private e abita a Zurigo. Questa persona è nata nel 1762 a Rammenau (a nord-est di Dresda) e si chiama Johann Fichte. Johann Fichte, nell’anno precedente (il 1792), si è messo in luce per la pubblicazione di un’opera intitolata Critica di ogni rivelazione. Quest’opera è stata scritta e pubblicata da Fichte sotto il patrocinio di Immanuel Kant (1724-1804), il quale, in questo momento, sulla soglia del settant’anni, dopo la pubblicazione delle sue tre Critichedella Ragion pura (1781), della Ragion pratica (1787) e del Giudizio (1790) – è considerato uno (il grande vecchio) dei più eminenti pensatori europei. La storia della pubblicazione della Critica di ogni rivelazione di Johann Fichte (nel 1792) risulta essere – con il coinvolgimento di Kant – un avvenimento molto curioso nella storia della cultura e dell’editoria, ma prima di parlarne (ne parleremo tra un po’) torniamo, con discrezione, nella camera numero 9 del collegio Stift .

    Quando i tre studenti, Hölderlin, Scelling ed Hegel vengono a sapere che Johann Fichte è stato invitato a Tubinga per tenere una conferenza all’Università entrano in fibrillazione perché conoscono la storia di questo personaggio e hanno già letto la Critica di ogni rivelazione per merito (ed ecco il quinto protagonista della nostra partenza) del loro professore di teologia Tadeus Fortunius, divulgatore, nei suoi corsi (con la dovuta circospezione), delle opere di Kant, soprattutto della Critica del Giudizio pubblicata nel 1790, sul testo della quale – siamo nel 1793 – sta tenendo una serie di lezioni, frequentatissime. Tadeus Fortunius (nato a Riga nel 1727) è stato insegnante di Johann Fichte a Lipsia e a Jena: ne condivide le idee ed è un suo estimatore, e ovviamente è molto orgoglioso di aver contribuito alla sua formazione intellettuale.

     Hölderlin, Scelling ed Hegel vorrebbero andare ad ascoltare la conferenza di Johann Fichte, desidererebbero anche vederlo di persona perché sanno tante cose di lui e della sua vita. Il professor Fortunius – a cui i tre convittori della camera numero 9 sono (nei limiti delle regole formali dettate dal collegio) molto legati – considera Hölderlin, Scelling ed Hegel gli allievi migliori del suo corso; e infatti sono gli alunni più critici, più creativi, più svegli, più curiosi e più studiosi dell’Istituto che conta, tra esterni e convittori, un centinaio di studenti. Il professor Fortunius coinvolge Hölderlin, Scelling ed Hegel nel dibattito intellettuale in corso sul “tema dell’interiorità” (sappiamo di che cosa si tratta) e li informa – durante i pomeriggi di studio nella biblioteca dell’Istituto – sulla vita, sugli studi e sull’opera di Fichte, li affascina e li mette al corrente raccontando gli avvenimenti con un alone di mistero sia per stimolare la loro curiosità sia perché c’era la censura (bisognava essere prudenti…) e “certe novità” – anche le opere di Kant erano considerate una “novità sospetta” – non erano gradite alla direzione dell’Istituto e andavano presentate in un contesto di semi-clandestinità. Che cosa racconta il professor Tadeus Fortunius della vita, degli studi e dell’opera di Fichte? (Molti di voi dovrebbero ricordarsi di Fichte perché lo abbiamo già incontrato nel maggio dell’anno 2004). Il professor Tadeus Fortunius è stimato da Hölderlin, Scelling ed Hegel (e costituisce per loro un modello) perché è un personaggio eclettico. Tadeus Fortunius si presenta come un severo insegnante (come richiede l’ambiente austero nel quale lavora), ha una cattedra di teologia ma insegna anche matematica e, oltre a praticare la lettura (legge la letteratura del “romanticismo”) e la scrittura (scrive in poesia), ama anche la musica (ascolta, nelle sale da concerto della città, le opere di Bach e i melodrammi di Mozart: le Nozze di Figaro è del 1786, il Don Giovanni è del 1787, Il flauto magico è del 1791), inoltre ama il teatro (i drammi di Schiller: I Masnadieri è del 1781, il Don Carlos è del 1787) e poi ama l’arte figurativa, la pittura, e si diletta a disegnare.

     Che cosa racconta il professor Tadeus Fortunius della vita, degli studi e dell’opera di Fichte con il quale è sempre rimasto in contatto epistolare? Fortunius naturalmente ha ricevuto tra i primi – speditogli da Fichte – il testo della Critica di ogni rivelazione ed è tra i primi a conoscere l’equivoco che circola intorno alla pubblicazione di quest’opera: di quale equivoco si tratta? Procediamo con ordine. La prima immagine relativa a Fichte che il professor Tadeus Fortunius – un pomeriggio di settembre dell’anno 1792, nella biblioteca dell’Istituto Stift – presenta a Hölderlin, Scelling ed Hegel è un suo disegno di contenuto campestre, agreste, bucolico. Fortunius ha disegnato l’immagine di un bambino che, lungo un sentiero di campagna, segue e guida un branco di oche (provate a raffigurarvela anche voi, nella mente, questa immagine, penso che in molti di voi, questa icona, questa visione faccia riemergere un ricordo). Il bambino – racconta Fortunius, mostrando il suo disegno a Hölderlin, a Scelling e a Hegel più che mai incuriositi – è Johann Fichte che, nelle campagne intorno alla cittadina di Rammenau (a nord-est di Dresda), porta al pascolo un branco di oche, che tiene a bada con una lunga canna. Per noi, oggi – prosegue Fortunius – questa è un’immagine idilliaca, ma per il bambino Johann Fichte questa situazione corrisponde ad una vita in continua lotta con le difficoltà: la famiglia, in cui nasce, nel 1762, è molto povera, suo padre è un povero bracciante. Johann è il primo di otto fratelli e, dall’età di sei anni, deve contribuire all’economia familiare in qualità di pastorello di oche. Ma qualcosa succede che contribuisce a dare una svolta positiva alla sua vita. Tutti i giorni – racconta Fortunius – Johann, con il suo branco di oche, passa attraverso i terreni di un nobile e ricco cittadino di Rammenau. Un pomeriggio, questo signore, mentre va a passeggio per le sue terre, incontra Johann con il suo branco di oche e si ferma a parlare con lui, e si stupisce del fatto che questo bambino di una decina d’anni, s’intrattenga con lui sostenendo una brillante conversazione sulla bontà della Natura e sulla bellezza del creato. Il signore si rende conto che questo bambino possiede una spiccata intelligenza e una grande curiosità e ambirebbe a conoscere, a capire, e vorrebbe applicarsi, vorrebbe poter studiare. Questo nobile filantropo – racconta Fortunius – diventa un benefattore per Johann, non solo gli insegna a leggere e a scrivere, ma, quando compie dodici anni, nel 1774, lo iscrive e lo mantiene nel collegio di Pforta a Rammenau: la scuola migliore della città. Terminata la prima preparazione, nel 1780, il suo benefattore lo manda a completare gli studi di teologia prima a Lipsia e poi a Jena, ed è «nelle scuole di queste due città – racconta Fortunius – che l’ho incontrato e, come insegnante, ho potuto conoscere il suo valore intellettuale». Purtroppo il suo benefattore muore e gli eredi di questo signore non sono altrettanto generosi, e così Fichte passa un periodo di incertezze e di ristrettezze economiche, ma «io – prosegue Fortunius – l’ho aiutato a mantenersi da solo, l’ho raccomandato come precettore nelle case private dei cittadini più facoltosi di Jena e lì si è fatto onore». Nel 1788 – racconta Fortunius – ha ricevuto una proposta (economicamente più allettante), come precettore, da una ricca famiglia di Zurigo, in Svizzera, e da allora vive, studia e lavora a Zurigo, dove ha conosciuto anche una signorina, Giovanna Rahn, che è diventata sua moglie. 

     Nel 1790 viene pubblicata la Critica del Giudizio di Kant, e Fiche – racconta Fortunius – attraverso quest’opera, che lo affascina subito, scopre il pensiero del grande vecchio di Könisberg. Fichte – prosegue Fortunius – affronta la lettura e lo studio delle altre opere di Kant, rimanendone, come era successo a Schiller, conquistato.

     Fichte scrive: «Da quando ho letto la Critica della ragion pratica, vivo in un mondo nuovo… Anche se prigioniero di una situazione precaria, ho vissuto i giorni più belli della mia vita». E allora Fichte – racconta Fortunius – decide di tornare in Germania e di andare a incontrare Kant. E, difatti – prosegue Fortunius – il 4 luglio 1791, Johann Fichte si presenta a Königsberg, e va a porgere i suoi omaggi a Kant, il quale si sente molto lusingato del fatto che questo giovane si sia partito da Zurigo per venirlo ad onorare. Fichte – racconta Fortunius – è talmente entusiasta di questo incontro che si lascia prendere la mano e chiede il permesso a Kant di poter scrivere una tesi sulle sue opere: Kant, sebbene un po’ preoccupato, gli concede il permesso. Chissà – ci chiediamo noi – se Kant avrà offerto anche a Fichte (ma è molto probabile…) un bicchierino di vino delle Canarie come lo aveva offerto a Nikolaj Karamzin, un altro giovane intellettuale che due anni prima, il 19 giugno del 1789, da Pietroburgo, era andato a rendere omaggio a Kant? Molti di voi ricorderanno questo avvenimento perché anche in quella occasione: c’eravamo anche noi virtualmente lì presenti.

     Fichte – prosegue Fortunius – si rende conto di aver esagerato un po’: perché adesso lui, questa tesi, la deve scrivere davvero, però ce l’ha in testa e, in un mese di lavoro febbrile, compone un saggio e lo intitola Critica di ogni rivelazione. Fichte – racconta Fortunius – spedisce il manoscritto del suo saggio a Kant, il quale lo riceve, e lo legge con grande interesse. Otto giorni dopo che ha ricevuto il manoscritto della Critica di ogni rivelazione, il 26 agosto 1791, Kant – prosegue Fortunius – spedisce una lettera a Fichte, in cui si complimenta con lui e lo invita a pranzo.  Fichte riparte per Königsberg insieme alla moglie e – racconta Fortunius – il 21 settembre 1791 sono a pranzo da Kant. Kant – racconta Fortunius – invita Fichte e la signora Giovanna a rimanere a Königsberg per qualche tempo, loro accettano e Kant gli trova un buon posto da precettore (a 750 € al mese, Fichte a Zurigo ne guadagnava la metà…), e poi – prosegue Fortunius – Kant invia Fichte a Riga dal suo editore.

     Sappiamo che Riga (la capitale della Lettonia e città natale di Fortunius) è una città famosa per l’editoria, per la fabbricazione dei libri (ci sono le materie prime, soprattutto la cellulosa e la pubblicazione dei libri viene a costare meno, inoltre gli editori di Riga sono degli esperti promotori culturali e sanno far circolare i libri).

     Di qui – racconta Fortunius ai tre studenti sempre più attenti perché si stanno rendendo conto di venire a conoscenza di una notizia importante – nasce uno degli equivoci “più curiosi” della storia della cultura: l’editore Artnoch di Riga stampa la Critica di ogni rivelazione, ma Fichte – un po’ per modestia e un po’ per timore della censura – vuole che questo saggio appaia anonimo, senza il suo nome in copertina. E allora – prosegue Fortunius rivelando ai tre studenti quello che è ancora un segreto – succede che il saggio intitolato Critica di ogni rivelazione, che sta circolando anonimo con grande successo per la Germania e per l’Europa, viene ritenuto da tutti scritto da Kant perché i temi e i ragionamenti sono quelli del filosofo di Königsberg. Questo saggio – rivela Fortunius, mentre posa il libro sul tavolo davanti a Hölderlin a Scelling e a Hegel in un pomeriggio di settembre dell’anno 1792, nella biblioteca dell’Istituto Stift – non è di Kant, come tutti pensano, ma è di Johann Fiche.  

     Un mese dopo Kant – il quale da una parte si sente lusingato per aver scoperto un pensatore di valore e dall’altra è un po’ preoccupato che un giovane possa essere considerato al suo livello – interviene pubblicamente per chiarire l’equivoco, dichiarando che la Critica di ogni rivelazione è stata scritta da Johann Fichte, lui ne ha favorito solo la pubblicazione.

     È chiaro che, a questo punto, Fichte (nell’ambito degli istituti che si dedicano alla cultura) diventa uno dei pensatori più in vista in Europa, torna a Zurigo e dall’ottobre del 1792 comincia ad essere invitato a tenere conferenze in tutte le sedi universitarie più importanti della Germania.

     Il 31 gennaio del 1793, all’Università di Tubinga, Johann Fichte è atteso per tenere una conferenza. I tre studenti, Hölderlin, Scelling ed Hegel, quando lo vengono a sapere, entrano in fibrillazione e si mordono le mani dalla rabbia perché non possono andare alla conferenza. Perché non possono andare alla conferenza? Perché si sono beccati due mesi di consegna, due mesi di divieto della libera uscita e la punizione è cominciata solo da una settimana: che cosa hanno combinato? Ve l’ho detto che ne combinano delle belle.

     Intanto dobbiamo ricordarci che siamo nel 1793, che è l’anno in cui a Parigi il Terrore fa funzionare a pieno ritmo la ghigliottina (si era cominciato a gennaio tagliando la testa al re, Luigi XVI e ad ottobre toccherà alla regina, Maria Antonietta): questo aspetto della Rivoluzione – sebbene deprecabile – suscita ancora degli entusiasmi giovanili in Europa. Ai primi di gennaio viene fatta un’ispezione nel collegio Stift: l’ha ordinata il duca Carlo Eugenio (il persecutore di Schiller) perché per l’ultimo dell’anno all’Università di Tubinga ci sono stati dei disordini, ci sono state delle manifestazioni studentesche in favore della Rivoluzione. E poi, notte tempo, nel cortile dell’Università, era stato piantato l’albero della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità – che è il simbolo della Rivoluzione francese – ed era stata diffusa, mediante un volantino, una traduzione del testo della Marsigliese. Tra gli organizzatori di questa impresa rivoluzionaria vengono individuati alcuni studenti del collegio Stift e vengono inquisiti: indovinate chi sono questi studenti? L’ispezione – ordinata dal duca e condotta dal rettore – dà dei risultati concreti: gli ispettori si dirigono subito verso la camera numero 9 nella quale trovano un certo numero di volantini con il testo della Marsigliese e in più i tre compagni di stanza hanno ancora la terra sotto le unghie e uno di loro, Schelling, conosce il francese alla perfezione.  

     Non furono espulsi solo perché erano i migliori studenti dell’Istituto (come precisò nel collegio dei docenti inquisitorio il professor Fortunius) e lo stesso rettore (sempre sollecitato dal professor Fortunius) dovette ammettere che la traduzione della Marsigliese era perfetta e persino l’albero – un giovane platano –, a detta del professore di botanica, era stato piantato alla perfezione perché si radicasse in quel terreno sassoso, ma nonostante queste buone referenze i tre non furono assolti ma furono severamente puniti: arresti domiciliari per due mesi dal 14 gennaio al 14 marzo.

     I tre studenti puniti – alla notizia che Johann Fichte sarebbe giunto a Tubinga e avrebbe tenuto, il 31 gennaio, una conferenza all’Università – in un primo momento cadono in uno stato di prostrazione, poi Schelling, il più giovane e il più trasgressivo, reagisce e comunica ai suoi due compagni che lui ci andrà lo stesso a sentire la conferenza: se la squaglierà saltando il muro di cinta, vada come vada. Schelling cerca di convincere anche Hölderlin e Hegel a seguirlo, ma i due sono restii ad una soluzione di questo tipo, propendono piuttosto per chiedere consiglio al professor Fortunius: potrebbero far domanda al collegio dei docenti per avere una licenza di poche ore, per poter assistere alla conferenza e per poter vedere Fichte, in cambio dell’allungamento della pena di qualche giorno. Ma è il professor Fortunius – il quale sa benissimo che la maggioranza dei docenti dello Stift non amano le novità e diffidano tanto degli illuministi come Kant quanto dei nuovi pensatori romantici – ha già pensato ad una soluzione perché è veramente dispiaciuto che i suoi tre studenti prediletti non facciano questa esperienza: sarà lui – anche per evitare che Schelling faccia delle sciocchezze – a fornire la chiave di una delle porte di servizio del collegio, in modo che i tre ragazzi possano uscire e poi rientrare inosservati rischiando il meno possibile.   

     La sera del 31 gennaio 1793, dopo aver cenato e aver fatto finta di ritirarsi in camera, Hölderlin, Hegel e Schelling, vestiti a festa e intabarrati nei loro mantelli, escono di soppiatto da una delle porticine di servizio sul retro dello Stift, raggiungono rapidamente, per vie traverse, l’Università e s’infilano nell’aula magna confondendosi con la gran folla di studenti e di cittadini che la gremiscono. Quando entra Johann Fichte e tra gli applausi del pubblico attraversa la grande sala, i tre si commuovono nel pensare al pastorello che seguiva le oche nella campagna di Rammenau e si esaltano quando il celebre Johann Fichte, prima di salire sul palco, s’inchina davanti al professor Fortunius e poi lo abbraccia con impeto. Fichte comincia a parlare e la sua conferenza li entusiasma, Hölderlin, Hegel e Schelling rimangono affascinati dalle sue tesi.

     Alla fine, approfittando della calca, si avvicinano al palco dove il professor Fortunius sta parlando con Fichte: lui li vede, fa segno loro di avvicinarsi e li presenta – senza dare tanto nell’occhio – all’illustre conferenziere affermando col sorriso sulle labbra: «Caro Johann avrai presto notizie di questi tre ragazzi…». Hölderlin, Hegel e Schelling non sentono neppure le parole del loro professore e stringono, emozionati, senza saper cosa dire, la mano a Fichte e poi si allontanano velocemente: con grande circospezione rientrano clandestinamente da dove, clandestinamente erano usciti.

     Naturalmente non stanno nella pelle dalla gioia e non riescono a prendere sonno per l’avventura che hanno vissuto, non tanto per aver trasgredito e per averla fatta franca – è stato come se fossero stati accompagnati – ma la loro gioia deriva dalla soddisfazione per la significativa lezione che hanno ascoltato e per quello che ha messo in moto nella loro mente e nei loro pensieri.  

     Il giorno dopo Hölderlin, Hegel e Schelling – pieni di riconoscenza – restituiscono la chiave al professor Fortunius il quale, guardandoli con grande severità, li redarguisce con queste parole: «Miei cari ragazzi, ieri sera vi ho sorpresi in flagranza di reato, e visto che avete deciso di usare la chiave che vi ho dato per disubbidire ancora una volta alle leggi di questo Istituto e non per cogliere l’occasione di rinunciare al peccato rispettando fino in fondo le regole di questo collegio, meritate una severa punizione…». All’udire queste parole i tre studenti rimangono allibiti, e allora il professor Fortunius – cominciando a sorridere sotto i baffi – conclude il suo discorso con queste parole: «Per punizione farete, per la prossima settimana, un compito, una relazione, una tesina molto dettagliata sulla conferenza a cui avete assistito: mettetevi all’opera perché tra quindici giorni i vostri scritti dovranno essere a Zurigo sotto gli occhi di Johann Fichte…». I tre ragazzi si rilassano: più che una punizione, quest’ordine, è, per loro, un premio e si mettono subito al lavoro e dopo pochi giorni consegnano al professor Fortunius le loro opere. Il professor Fortunius, dopo aver letto gli scritti prodotti dai suoi studenti è molto soddisfatto e li spedisce a Fichte.

     Hölderlin ha la vocazione del poeta e naturalmente ha composto un poemetto in versi che s’intitola Essere uno col tutto che diventa una specie di manifesto del “romanticismo” che si sta avvicinando ai confini del territorio dell’Idealismo.

     Leggiamo un frammento di questo poemetto: si capisce subito (anche se non possiamo accedere alla lingua originale) che Hölderlin può essere già considerato un grande poeta.

LEGERE MULTUM….

Friedrich Hölderlin, Essere uno col tutto (1793)

Io non so che cosa sia di me quando, o Natura,

verso la tua bellezza sollevo lo sguardo, e tutta la gioia del cielo m’invade e ardo,

innanzi a te, come arde d’amore l’amante dinanzi all’amata.

Tutto il mio essere tace e si tende,

quando il soave alito della tiepida brezza gioca con l’intimità del mio Io

che contiene l’Idea, che governa l’essenza del mondo.

Essere uno col tutto, questa è la vita che fa assomigliare l’essere umano agli dei.

Essere uno col tutto è il cielo che penetra nell’intimità dei mortali.

Essere uno col tutto è tornare, in un beato oblio di sé, alla consapevolezza dell’Io.

Essere uno col tutto è il vertice delle gioie e dei pensieri, è la sacra vetta del monte,

è la sede dell’eterna quiete, ove il meriggio perde la sua afa e il mare infuriato

assomiglia all’ondeggiare di un campo di spighe e il tuono perde il suo boato.

 

Essere uno con tutto ciò che vive significa avere dentro di sé la Natura.

Con queste parole la virtù si palesa, depone la sua armatura,

lo spirito depone lo scettro di un potere che suscita paura,

e tutti i pensieri si dissolvono innanzi all’immagine del mondo eternamente uno,

come le regole dell’artista che lotta scompaiono innanzi alla sua musa Urania.

Il ferreo fato rinuncia al suo dominio e la morte scompare dalla società dei viventi

e indissolubilità ed eterna giovinezza colma il mondo di soave beatitudine,

riempie l’interiorità di rara bellezza.

Verso l’interiorità, verso l’Io porta la misteriosa e affascinante via.

L’interiorità è pronta a cogliere tutti i simboli e tutti i riflessi del mio spirito.

L’interiorità volge il suo sguardo a scrutare tutti i moti dell’anima mia.

Tutta la realtà è racchiusa nell’intima vita del cuore: essere uno col tutto,

col mio “così sia”.

     Questo poemetto Hölderlin lo introdurrà in una delle sue opere più famose intitolata Iperione o l’eremita della Grecia , pubblicata nel 1797: ne parleremo prossimamente.

     Schelling e Hegel invece scrivono due saggi nei quali – pur condividendo con entusiasmo il sistema che Fichte ha delineato – mettono tuttavia in evidenza come il concetto dell’Io proposto da Fichte susciti in loro dei dubbi.  

     Ora gli studiosi si sono sempre domandati se sia stato il professor Fortunius ad instillare questi dubbi nella mente dei suoi studenti: non abbiamo prove per affermalo, tuttavia possiamo dire che questi dubbi sono stati produttivi perché Schelling e Hegel cominciano proprio da qui a fare la loro strada sulla via della Storia del Pensiero Umano nella quale lasceranno un’impronta.

     Ma quale pensiero ha delineato Fichte nella sua conferenza? Nella conferenza all’Università di Tubinga (come in tutte le conferenze che, in quei mesi ha tenuto in giro per la Germania) Johann Fichte delinea il suo programma filosofico cercando di spiegare, prima di tutto, il concetto di Idealismo. Questa spiegazione interessa anche a noi che – inseguendo lo sguardo di Hegel –abbiamo cominciato ad attraversare uno “spazio di frontiera” a cui è stato attribuito proprio il nome di territorio dell’Idealismo.    

     Johann Fichte inizia la sua conferenza facendo il punto sul dibattito filosofico che,  in questo momento, emerge nei circoli del “romanticismo” (di Weimar, di Jena, di Berlino, di Parigi) e che riguarda il tema dell’interiorità (tema che abbiamo illustrato all’inizio di questo itinerario); inoltre ribadisce che la questione filosofica più significativa che si pone al momento in Europa, in relazione a questo dibattito, è legata al concetto dell’Io. Mentre per Kant – afferma Fichte – vi è qualcosa che l’essere umano non crea (per esempio: la materia amorfa e la realtà divina postulata dal soggetto morale), per gli idealisti invece – sostiene Fichte – l’essere umano, cioè l’Io, crea il mondo esterno, crea Dio e crea se stesso.

     Che cos’è l’Io per gli idealisti? Per gli idealisti – afferma Fichte – l’Io è il pensiero, l’Io è l’attività inesauribile del pensare quando ancora questo pensare non si è realizzato nei vari soggetti e nei vari oggetti particolari. Intorno a questa questione si è sviluppata – dice Fichte – una corrente filosofica che prende il nome di Idealismo e di cui, lui stesso, si sta facendo promotore.

     Il termine “idealismo” – spiega Fichte – nasce in alternativa al termine “realismo”. Il realismo è un modo di pensare per cui si ammette l’esistenza della realtà al di fuori e indipendentemente dal soggetto che pensa. Contrariamente, l’idealismo – prosegue Fichte – non concepisce l’esistenza della realtà esteriore in quanto tale, ma concepisce, alla base della realtà, l’idea che il soggetto ha della realtà. Per il realismo la realtà esteriore (la natura, il mondo) esiste in quanto tale, ed è separata dal soggetto e il soggetto la coglie come oggetto esterno a sé, o meglio, come una molteplicità di oggetti diversi, divisi e distinti tra loro. Per l’idealismo – afferma Fichte – la realtà esterna è un’immagine, è l’immagine di un’unica realtà di cui anche il soggetto fa parte: “Essere uno col tutto” scrive Hölderlin. Quella che chiamiamo la realtà (la natura, il mondo) – sostiene Fichte – corrisponde all’idea della realtà che è presente nell’interiorità del soggetto.

     Nel saggio di commento alle opere di Kant, che s’intitola Critica di ogni rivelazione (1792) e che, anche per un equivoco, lo ha reso celebre, Fichte si dedica soprattutto a costruire una solida teoria della conoscenza. In quale modo noi conosciamo il mondo, come conosciamo la realtà? Nel fare questo ragionamento, Fichte afferma che ci sono due tipi di filosofie, antitetiche fra loro, in opposizione tra loro, e, quindi, se vogliamo riflettere sul problema della conoscenza, prima dobbiamo fare, una distinzione tra queste due filosofie.  

     Da una parte – afferma Fichte – c’è la filosofia dogmatica, che Kant ha già contribuito a superare con la sua critica. La filosofia dogmatica – sostiene Fichte nella sua conferenza – dichiara che il mondo esterno esiste davvero in quanto tale: la realtà è un oggetto, è un oggetto di conoscenza.

     Per questa filosofia, per questo modo di pensare – spiega Fichte – gli oggetti del mondo esterno di cui veniamo a conoscenza possiedono un’esistenza autonoma. Per la filosofia dogmatica – afferma Fichte – il mondo esterno può essere conosciuto nel momento in cui la ragione illumina la realtà. Ma, la stessa filosofia dogmatica afferma che: non tutto può essere illuminato dalla ragione, ci sono delle zone d’ombra. E allora – afferma Fichte – ciò che non può essere illuminato dalla ragione e, quindi, risulta sconosciuto: esiste davvero? Quella che chiamiamo l’oggettività può essere garantita anche alle cose sconosciute? La realtà – si domanda Fichte – esiste davvero in quanto tale, come dato oggettivo, (come “cosa in sé”, diceva Kant), oppure, la realtà è una mia rappresentazione soggettiva?

     Se un oggetto è sconosciuto – perché alla luce della ragione non viene rilevato – posso dire che esiste? Sì, lo posso dire – sostiene Fichte – ma questa affermazione, non è più un ragionamento: è un dogma. E allora – afferma Fichte – se l’oggettività, può essere dichiarata solo per le cose conosciute dalla ragione: allora si può dichiarare solo una oggettività relativa al soggetto, non una oggettività assoluta. Una filosofia – afferma Fichte – che dichiara l’oggettività della realtà finisce per proporre una conoscenza di tipo dogmatico.

     Fichte sostiene che è necessario contrapporre alla filosofia dogmatica un altro tipo di filosofia, che prende di nome di filosofia idealista. La filosofia idealista – afferma Fichte provocando l’entusiasmo dell’uditorio – pone alla sua base il concetto che soltanto il soggetto è dotato di autonomia. Secondo l’idealismo di Fichte, il primo e solo principio universale in grado di fondare la scienza è il soggetto che si esprime nell’Io individuale. Il soggetto, l’Io individuale, è assoluto e lo possiamo chiamare – afferma Fichte – Io puro. Il pensiero dell’Io – sostiene Fichte – dipende proprio dall’Io stesso e quindi prima del pensiero, prima dell’attività del pensiero: c’è l’Io. Il pensiero – afferma Fichte – deriva dall’Io: prima dell’Io-penso c’è l’Io-puro. È dall’Io-puro che scaturisce la scintilla dell’Io penso. Prima della realtà, prima della natura, prima del mondo – sostiene Fichte – io pongo sempre l’idea di me stesso, e, in questo procedimento – “ponendo il mio Io” – creo e determino la natura e il mondo, perché l’unico principio incondizionato della realtà è l’Io puro. La realtà esteriore – afferma Fichte – non esiste in quanto tale, tutto è contenuto nell’Io, tutto è contenuto nell’interiorità. La realtà esteriore appare solo quando l’Io interiore si espande all’esterno. Quindi – sostiene Fichte – l’Io è un principio che non ha bisogno di alcun fondamento esterno perché la conoscenza parte sempre dal soggetto e non dall’oggetto conosciuto. E quindi tutto ciò che non appartiene alla soggettività corrisponde al Non-Io: la realtà esterna è il mondo del Non-Io. E come lo possiamo definire – afferma Fichte – il mondo del Non-Io? Il mondo del Non-Io – sostiene Fichte – è, in definitiva, una creazione stessa dell’Io, attuata per mezzo dell’immaginazione produttiva. Il mondo, la realtà, è il frutto della nostra immaginazione. Qual è la natura dell’Io? La caratteristica fondamentale dell’Io puro è l’attività: l’Io è attivo, per cui il soggetto agisce continuamente per superare i limiti esterni, che corrispondono al Non-Io.

     Questa concezione teoretica – afferma Fichte – porta con sé delle conseguenze sul piano della morale. Per Fichte, il piano della morale – e il pensiero di Kant continua ed essere influente – è molto più importante del piano conoscitivo. Per poter conoscere, per poter “ben immaginare” – afferma Fichte – è necessario agire bene. Nel concetto dell’agire, formulato da Fichte, comincia a comparire un procedimento che viene chiamato, da Fichte stesso, “procedimento dialettico”. Hegel, a questo punto della conferenza, si sente attratto dai concetti che Fichte sta esponendo con passione: il termine “dialettica”, per Hegel, è molto interessante.

     Che cosa significa che nel concetto dell’agire, formulato da Fichte, comincia a comparire un procedimento dialettico? Significa – afferma Fichte – che, il contrasto fra l’Io/il Soggetto e il Non-Io/il Mondo, s’identifica nel contrasto fra la libertà individuale e gli ostacoli che il mondo materiale esterno pone al soggetto. La presenza del Non-Io/del Mondo materiale esterno al soggetto diventa fondamentale affinché l’Io possa continuamente avere un ostacolo da superare e possa continuare ad affermare Se stesso. Se ho un ostacolo da superare – afferma Fichte – sono obbligato ad affermare il mio Io, ed ecco, in embrione, il procedimento dialettico. 

     Ma a questo punto della conferenza Schelling e Hegel cominciano a domandarsi: ma allora se il Mondo esterno è così importante perché l’Io si possa realizzare come si fa poi ad affermare, come fa Fichte, che l’esistenza del Mondo esterno è insignificante? Fichte – che è cosciente di questa contraddizione – ribadisce che l’Io si realizza rimanendo sempre in attività, e mantenendo una tensione costante verso una meta ideale. Nella filosofia morale fìchtiana, infatti, l’azione corrisponde in ogni caso al bene, mentre l’inattività rappresenta una mancanza di tensione etica. Per questa tensione infinita, verso un ideale morale, la filosofia di Fichte è stata definita: idealismo etico. L’obiettivo educativo per la persona è quello del “dover essere se stessa”. Per Fichte il “dover essere” impegna, non solo gli individui, ma anche le nazioni che hanno il compito di salvare l’umanità dalla decadenza morale e civile. Per assolvere a questo compito, i singoli cittadini, devono essere educati dalla Scuola pubblica organizzata dallo Stato alle discipline umanistiche e scientifiche.

     Ma, prima di tutto, l’obiettivo educativo della Scuola pubblica è di natura morale: il cittadino deve essere educato a subordinare i propri interessi a quelli della collettività (comincia a comparire nel pensiero di Fichte il termine “socialismo”).

     Per tutto l’anno 1793 Fichte tiene conferenze in tutte le più importanti città della Germania e ottiene sempre un grande successo. Nel maggio 1794 viene chiamato all’Università di Jena e comincia a tenere i suoi corsi, prima di storia e poi di filosofia. Vi resta fino al 1799 circondato da una crescente ammirazione. Le dispense dei suoi corsi, pubblicate, diventano la sua opera più importante che s’intitola: Fondazione dell’intera dottrina della scienza. Tra il 1796 e il 1797 esce la Fondazione del diritto naturale e, nel 1798, pubblica Il sistema della dottrina morale.

     E proprio nel 1798 succede l’incidente che cambia la vita di Fiche. Fichte pubblica un articolo in cui identifica Dio con l’ordine morale, scrive: “Se Dio esiste – e questo quesito, come insegna Kant, non lo possiamo risolvere con la ragione – dobbiamo pensare che Dio s’identifica con la legge morale, che Dio è tutt’uno con l’ordine morale…”.

     Questa affermazione non piace ad un anonimo cittadino di Jena, il quale lo denuncia per ateismo. Veramente, in questa circostanza, Fichte commette un errore: crede che gli basti poco per difendersi, è sicuro di sé (tra l’altro tutti sapevano che era un credente), è anche sicuro dell’appoggio dei colleghi e degli alunni. Prepara una bella relazione in sua difesa e la legge il giorno dell’audizione. Ma il rettore dell’Università lo assolve perché non ci sono abbastanza prove per condannarlo, ma gli toglie l’insegnamento. Molto amareggiato, Fichte, si trasferisce a Berlino, accolto con calore dal gruppo dei “romantici”, tra i quali primeggia Friedrich Schlegel. Qui riprende a scrivere la sua opera fondamentale: Dottrina della scienza, e ne prepara una prima (1801) e una seconda (1804) rielaborazione, che documentano tutto l’itinerario del suo pensiero. Nel 1804 viene assunto come professore all’Università di Erlangen, una città a nord di Norimberga: potete cercarla sull’atlante…

     L’intensa attività didattica di Fichte si intreccia con quella politica. L’invasione napoleonica e le vittorie napoleoniche gli offrono l’occasione per scrivere una serie di saggi ispirati al senso della nazionalità tedesca: i famosi Discorsi alla nazione tedesca (1808). Infine scrive: Introduzione alla vita beata e L’essenza del dotto nella quale Fichte auspica la nascita di circoli culturali, di centri sociali, che chiama le “comunità dei dotti”: queste associazioni devono animare culturalmente la vita dello Stato.

     La guerra napoleonica (quella che descrive Leone Tolstòj in Guerra e pace) porta con sé anche il flagello di una terribile epidemia di tifo. La moglie di Fichte, Giovanna, è infermiera e si dedica alla cura dei malati e resta contagiata. Fichte la cura con dedizione e Giovanna guarisce, ma la malattia colpisce lui e lui muore, di tifo, il 29 gennaio 1814. Quando Fichte muore, a Berlino, non è più una celebrità, come era stato vent’anni prima a Jena, e la sua morte passa inosservata e le sue opere finiscono nel dimenticatoio, ma non per chi, il 31 gennaio 1793, aveva assistito, all’Università di Tubinga, ad una delle sue famose conferenze sui temi dell’Idealismo.

     Infatti sarà un certo Hegel – zitto zitto – a inserire, nella prima parte del proprio sistema filosofico, le idee e il procedimento del pensiero di Fichte, quasi come se fosse il suo (tanto di Fichte e delle sue opere non si ricordava più nessuno), poi Hegel supererà questa fase portando più avanti la riflessione: ma questa è un’altra storia che dovremo raccontare prossimamente…

     Prima di occuparci dello “sguardo di Hegel” ci dobbiamo occupare di Schelling il quale – anche lui come Hegel – fa i suoi primi passi nella Storia del Pensiero Umano partendo dalle idee di Fiche. Schelling segue, tramite le dispense, l’insegnamento di Fichte a Jena e nel 1795, appena ventenne, pubblica le Lettere filosofiche sul dogmatismo e il realismo, un’opera in cui Schelling espone le tesi di Fichte, ma con delle variazioni fondamentali che portano verso un nuovo sistema.

     Ora, mentre ci avviamo verso la conclusione di questo primo itinerario nel territorio dell’Idealismo, è lecito chiedersi: perché ci si presenta dinanzi il signor Vittorio Alfieri? Vittorio Alfieri è un personaggio che tutti conosciamo (lo abbiamo già incontrato diverse volte nei nostri Percorsi…) ed è contemporaneo di Fichte, di Hölderlin, di Hegel e di Schelling. Il signor Vittorio Alfieri ci si presenta in concomitanza con il tema dell’Io (l’Io-penso, l’Io-puro) che abbiamo visto delinearsi nel pensiero di Fichte.  L’autobiografia di Vittorio Alfieri, intitolata Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da se stesso (pubblicata postuma nel 1806), viene considerata l’opera più complessa e più originale dello scrittore astigiano. L’autobiografia di Vittorio Alfieri è stata definita un dramma scritto sotto forma di romanzo, e questo stile – in cui lo scrittore fonde con grande perizia questi due significativi generi letterari – la rende un modello, ne fa un capolavoro. In quest’opera – ci dicono gli studiosi – lo scrittore mette in scena una grande “drammatizzazione dell’Io”. Nell’autobiografia di Vittorio Alfieri assistiamo ad una riflessione sul tema dell’Io che può essere considerata – anche se il poeta non ha alcuna intenzione di fare della filosofia – una variazione del pensiero dell’Idealismo etico di Fichte.  La riflessione che Alfieri fa sul tema dell’Io consiste in una presa di coscienza da parte dell’Io-penso il quale – con un atto di volontà – decide di trasformarsi in un Io-tessitore per costringere l’Io-dominante (l’Io-puro?) ad entrare nella Storia. L’Io-dominante infatti – nella convinzione di bastare a se stesso – non vorrebbe aprirsi all’autobiografia per paura di svelarsi, di porsi e di esaurirsi nella Storia. Il testo della Vita di Vittorio Alfieri rivela che è proprio l’Io-tessitore, manifestando, drammatizzando, tutto il narcisismo dell’Io-dominante, a dare l’autonomia all’Io-puro.

     Alfieri in quest’opera – una delle opere più importanti della memorialistica di ogni tempo – indugia spesso davanti allo specchio (sembra ripetere: “specchio-specchio delle mie brame…; e sarà imitato da molte autrici e da molti autori: ultimamente, nel Percorso precedente di quest’anno, abbiamo incontrato, davanti allo specchio, il protagonista della Nausea di Sartre) e in questo esercizio del descriversi e dell’osservarsi c’è del narcisismo, ma c’è sempre anche un ragionamento esistenziale che fa riflettere ciascuno di noi: è facile guardarsi allo specchio – o raccontare di noi – e vedere come appariamo, come ci rappresentiamo. Che ci si piaccia o che non ci si piaccia, l’atto del “guardarsi” – sostiene Alfieri – è abbastanza facile, ma non basta chiedersi: “chi siamo?”, l’importante è chiedersi: quale eredità morale, quale eredità culturale siamo capaci di lasciare nella memoria di chi ci conosce?

     Ma chi è Vittorio Alfieri? Vittorio Alfieri è considerato uno dei più importanti autori tragici europei del ‘700. Alfieri è nato ad Asti nel 1749 da famiglia nobile e trascorre una giovinezza “inquieta ed errabonda”, ma possiamo sapere molte cose della vita di Alfieri leggendo la sua autobiografia. Alfieri – “inquieto ed errabondo” – non va in giro per l’Europa a vanvera: viaggia per occuparsi di teatro e di letteratura. Alfieri ha un suo progetto culturale: quello di realizzare, in Italia, un teatro tragico nazionale, come Fichte pensava, in Germania, fosse importante realizzare una letteratura nazionale.

     Il problema che inquieta maggiormente Alfieri è quello delle “libertà civili” (ed è pur sempre un tema di grande attualità…). Le “libertà civili/i diritti dei cittadini” – scrive Alfieri nella Vita – sono praticamente sconosciuti in Italia: si parla di individui obbligati alla sudditanza, e questa condizione è accettata dal popolo per ignoranza. Bisogna dire che, alla metà del ‘700 – in Europa – faceva scandalo affermare che l’individuo non è un suddito con solo obblighi da rispettare, ma è una persona con diritti e doveri che deve saper amministrare la propria libertà e la propria autonomia. Alfieri, animato da questo spirito di libertà, da questa voglia di proclamare la libertà, scrive 19 tragedie, le più significative sono: Saul, Filippo, Mirra, Oreste, Polinìce, Virginia, Don Garzia, Cleopatra, Antigone. Nelle tragedie di Alfieri troviamo sempre un “eroe” in opposizione al “tiranno”. All’eroe spetta il compito di affermare, spesso col suo estremo sacrificio, l’ideale della libertà: che insegnamento c’è? C’è un insegnamento per gli intellettuali: Alfieri sostiene che gli intellettuali devono sottrarsi alle lusinghe del tiranno, soprattutto quando appare benevolo. Gli intellettuali sono depositari degli ideali di libertà che devono difendere, coltivare e proporre continuamente: la libertà non è data, ma è un continuo processo di liberazione, personale e collettivo. I “versi”, che compongono i testi delle tragedie dell’Alfieri, sono pervasi da grandi suggestioni letterarie e in parte, il modello, è quello del Petrarca. Siamo nel “secolo dei lumi”, dove la ragione è signora, ma Alfieri è piuttosto in polemica con il razionalismo dell’epoca, esalta i sentimenti forti, le passioni accese, il gusto della malinconia e il senso dell’inquietudine. Leggere le tragedie alfieriane non è facile, e anche la lettura della Vita è faticosa ma è più accessibile e spesso anche coinvolgente.

     Nel testo della Vita lo scrittore lamenta il fatto che la società in cui vive ha rimosso la nostalgia, un sentimento utile per stimolare la ricerca del senso della vita, infatti nella parola “nostalgia” troviamo il termine greco “nostos-nostos” che significa “viaggio di ritorno”, e il “nostos-nostos” più famoso è il viaggio di Ulisse. Questo concetto alfieriano di denuncia della rimozione della “nostalgia” è di grande contemporaneità: la nostra cultura consumista ha relegato la “nostalgia” tra i valori superflui: la “nostalgia” è considerata d’inciampo al fare, è nemica in una società votata al fare, votata all’allegria forzata. Il problema è che questo “fare” – direbbe Alfieri – non s’indirizza al costruire ma all’apparire, a una virtualità il cui sostegno è l’inconsistenza. Questi temi, che appartengono al pensiero dell’Alfieri, sono presenti anche nel pensiero del professor Fortunius, di Fichte, di Hölderlin, di Hegel e di Schelling.

     Quando si parla di Alfieri non si può fare a meno di parlare di Firenze. C’è un fatto importante nella vita di Alfieri che dobbiamo ricordare e che ci è utile per fare ricerca di repertorio, visto che Firenze ce l’abbiamo sottomano: fare ricerca di repertorio significa costruire delle trame. A Firenze nel 1777, Alfieri incontra la signora Luisa Stolberg contessa d’Albany (1752-1824). La signora Luisa Stolberg è la moglie di Carlo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra. Luisa d’Albany e Vittorio Alfieri condividono per più di 25 anni un grande affetto, non senza difficoltà, fino alla morte dello scrittore nel 1803. Alfieri muore a Firenze: è sepolto in S.Croce.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Hai visitato il suo monumento funebre? Questo monumento è stato commissionato e fatto costruire da Luisa d’Albany nel 1810; Sai chi ha progettato e scolpito questo monumento, ricordi come è fatto? Cogli l’occasione per andare a vederlo o a rivederlo e poi descrivilo con quattro righe di scrittura, oppure prova a disegnarlo, interpretandolo a modo tuo …

La tomba di Alfieri l’ha descritta anche Ugo Foscolo nei Sepolcri: vai a leggere o a rileggere questi famosi versi …

In S. Croce c’è anche, meno appariscente, la tomba di Luisa Stolberg contessa d’Albany: sai in quale cappella si trova? Vai alla ricerca di questa lapide (utilizzando una guida)…

Ma chi era Luisa Stolberg contessa d’Albany? Cerca qualche notizia su di lei: sull’enciclopedia, in biblioteca e sulla rete…

Sono tutte trame utili per investire in intelligenza …

     Leggiamo, ora, per concludere, alcuni frammenti tratti da:

LEGERE MULTUM….

Vittorio Alfieri, Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da se stesso (1806)

EPOCA SECONDA [1758] Così dunque di posta in posta, con una continua palpitazione di cuore pel gran piacere di correre, e per la novità degli oggetti, arrivai finalmente a Torino verso l’una o le due dopo mezzo giorno. Era una giornata stupenda, e l’entrata di quella città per la Porta Nuova, e la piazza di San Carlo fino all’Annunziata presso cui abitava il mio zio, essendo tutto quel tratto veramente grandioso e lietissimo all’occhio, mi aveva rapito, ed era come fuor di me stesso. Non fu poi così lieta la sera; perché ritrovandomi in nuovo albergo, tra visi sconosciuti, senza la madre, senza il maestro, con la faccia dello zio che appena aveva visto una altra volta, e che mi riusciva assai meno accarezzante, e amoroso della madre; tutto questo mi fece ricadere nel dolore, e nel pianto, e nel desiderio vivissimo di tutte quelle cose da me abbandonate il giorno antecedente. Dopo alcuni dì, avvezzatemi poi alla novità, ripigliai e l’allegria e la vivacità in un grado assai maggiore ch’io non avessi mostrata mai; ed anzi in tanta, che allo zio parve assai troppa; e trovandomi essere un diavoletto, che gli metteva a soqquadro la casa, e che per non avere maestro che mi facesse far nulla, io perdeva assolutamente il mio tempo, in vece di aspettare a mettermi in Accademia all’Ottobre come s’era detto, mi v’ingabbiò fin dal dì primo d’Agosto dell’anno 1758. In età di nove anni e mezzo io mi ritrovai dunque ad un tratto traspiantato in mezzo a persone sconosciute, allontanato affatto dai parenti, isolato, ed abbandonato per così dire a me stesso; perché quella specie di educazione pubblica (se chiamarla pur vorremo educazione) in nessuna altra cosa fuorché negli studj, e anche Dio sa come, influiva su l’animo di quei giovinetti. Nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato. E chi ce l’avrebbe dato, se gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria né per pratica? Era quell’Accademia un sontuosissimo edificio diviso in quattro lati, in mezzo di cui un immenso cortile. Due di essi lati erano occupati dagli educandi; i due altri dal Regio Teatro, e dagli Archivj del Re. In faccia a questi per l’appunto era il lato che occupavamo noi, chiamati del Secondo e Terzo Appartamento; in faccia al teatro stavano quei del Primo, di cui parlerò a suo tempo. La galleria superiore del lato nostro, chiamavasi Terzo Appartamento, ed era destinata ai più ragazzi, ed alle scuole inferiori; la galleria del primo piano, chiamata Secondo, era destinata ai più adulti; de’ quali una metà od un terzo studiavano all’Università, altro edificio assai prossimo all’Accademia; gli altri attendevano in casa agli studj militari. Ciascuna galleria conteneva almeno quattro Camerate di undici giovani ciascheduna, cui presiedeva un pretuccio chiamato Assistente, per lo più un villan rivestito, a cui non si dava salario nessuno; e con la tavola sola e l’alloggio si tirava innanzi a studiare anch’egli la Teologia, o la Legge all’Università; ovvero se non erano anch’essi studenti, erano dei vecchi ignorantissimi e rozzissimi preti. Un terzo almeno del lato ch’io dissi destinato al Primo Appartamento, era occupato dai Paggi del Re numero di venti o venticinque, che erano totalmente separati da noi, all’angolo opposto del vasto cortile, ed attigui agli accennati archivj. Noi dunque giovani studenti eramo assai male collocati così: fra un teatro, che non ci toccava di entrarvi se non se cinque o sei sere in tutto il Carnovale; fra i paggi, che atteso il servizio di Corte, le caccie, e le cavalcate, ci pareano godere di una vita tanto più libera e divagata della nostra; e tra i forestieri finalmente che occupavano il Primo Appartamento, quasi ad esclusione dei paesani, essendo una colluvie di tutti i boreali. Inglesi principalmente, Russi, e Tedeschi; e d’altri Stati d’Italia; e questa era più una locanda che una educazione, poiché a niuna regola erano astretti, se non se al ritrovarsi la sera in casa prima della mezza notte. Del resto, andavano, e a Corte, e ai teatri, e nelle buone e nelle cattive compagnie, a loro intero piacimento. E per supplizio maggiore di noi poverini del Secondo e Terzo Appartamento, la distribuzione locale portava che ogni giorno per andare alla nostra Cappella alla Messa, ed alle Scuole di ballo, e di scherma, dovevamo passare per le gallerie del Primo Appartamento, e quindi vederci continuamente in su gli occhi la sfrenata e insultante libertà di quegli altri; durissimo paragone colla severità del nostro sistema, che chiamavamo andantemente galera. Chi fece quella distribuzione era uno stolido, e non conosceva punto il cuore dell’uomo; non si accorgendo della funesta influenza che doveva avere in quei giovani animi quella continua vista di tanti proibiti pomi.

EPOCA TERZA [1767] Io viveva frattanto in tutto e per tutto ignoto a me stesso; non mi credendo vera capacità per nessuna cosa al mondo; non avendo nessunissimo impulso deciso, altro che alla continua malinconia; non ritrovando mai pace né requie, e non sapendo pur mai quello che io mi desiderassi. Obbedendo ciecamente alla natura mia, con tutto ciò io non la conosceva né studiava per niente; e soltanto molti anni dopo mi avvidi, che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch’era in me di avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente da qualche nobile lavoro; e ogni quali volta l’una delle due cose mi mancò, io rimasi incapace dell’altra, e sazio e infastidito e oltre ogni dire angustiato.

Oltre il teatro, era anche uno de’ miei divertimenti in Marsiglia il bagnarmi quasi ogni sera nel mare. Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra posta a man dritta fuori del porto, dove sedendomi su la rena con le spalle addossate a uno scoglio ben alletto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e così fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell’onde, io mi passava un’ora di delizie fantasticando; e quivi avrei composte molte poesie, se io avessi saputo scrivere o in rima o in prosa in una lingua qual che si fosse.

EPOCA QUARTA [1775] Un animo risoluto, ostinatissimo, ed indomito; un cuore ridondante di affetti di ogni specie, tra’ quali predominavano con bizzarra mistura l’amore e tutte le sue furie, ed una profonda ferocissima rabbia ed abborrimento contro ogni qualsivoglia tirannide.

     Questi, a suo dire, sono i tratti dell’animo e del cuore di Vittorio Alfieri il quale, come abbiamo letto, critica severamente l’organizzazione e i metodi (inconsistenti e anacronistici) delle scuole torinesi. Questi tratti – se non così esasperati – li riconosciamo pure nei giovani studenti Hölderlin, Hegel e Schelling i quali – se non altro – hanno avuto la fortuna di frequentare una scuola “di eccellenza” e anche Vittorio Alfieri sarebbe stato contento di avere un insegnante come il professor Fortunius. Tuttavia anche all’Istituto Stift di Tubinga – sebbene non tutti gli insegnati concordino – le regole sono molto severe e vige una ferrea censura. Infatti nella primavera del 1793, nel corso di un’altra ispezione nella camera numero 9 dell’Istituto Stift (sempre lì andavano a parare gli ispettori!), viene rinvenuta, in una valigia sotto il letto di Schelling, una copia del VII tomo del romanzo Le memorie e le avventure di un uomo di qualità (o di nobile condizione) di Antoine-François Prévost. Il rettore – dopo questo ritrovamento – convoca d’urgenza il Consiglio di disciplina. Ma perché? Che cosa c’è di male a tenere in camera questo libro?  Perché questo libro non può essere letto? Che cosa hanno combinato questa volta Hölderlin, Hegel, e soprattutto Schelling (il corpo del reato sta sotto il suo letto), a due mesi dagli esami? Ma che cosa contiene – ci chiediamo – di così “eversivo” il VII tomo del romanzo Le memorie e le avventure di un uomo di qualità (o di nobile condizione) di Antoine-François Prévost.

     Per far luce su questo mistero la prossima settimana siamo ancora a Tubinga, all’Istituto Stift, in compagnia di Hölderlin, Hegel, Schelling e del professor Fortunius il quale, ancora una volta, sebbene non coltivi nessuna vocazione per fare l’attore, è chiamato a recitare la sua parte. Come dire: correte, la Scuola è qui…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 21, 2006