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LO SGUARDO DI ERODOTO SUL CONCETTO DELLA “LAICITÀ DELLA FEDE”…

Lezione N.: 
18

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2006               8-9-10   marzo  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SUL CONCETTO DELLA “LAICITÀ DELLA FEDE”…

     Erodoto, che dall’autunno scorso ci sta accompagnando in questo viaggio, nel II libro de Le Storie dice che i Greci e gli Egiziani sono profondamente diversi, eppure – aggiunge Erodoto – nonostante questa “diversità”, vanno ugualmente d’accordo. Erodoto ci ricorda che a quel tempo l’Egitto è pieno di colonie greche, e i Greci e gli Egiziani convivono senza problemi, anzi, sono proprio gli Egiziani a favorire la colonizzazione dei Greci sul loro territorio costiero perché li considerano degli abili commercianti e pensano che la loro presenza – soprattutto nel delta del Nilo –favorisca la crescita dell’economia. 

     Erodoto – lo sappiamo – si pone in modo interlocutorio nei confronti del tema della “diversità”: non s’indigna di fronte alle “diversità” ma cerca di conoscerle, di capirle e soprattutto di descriverle. Per lui la diversità serve fondamentalmente a sottolineare l’unità del mondo, e a determinarne la vitalità e la ricchezza.

     Erodoto si sente greco ed è orgoglioso di esserlo tuttavia è anche capace di rinfacciare ai Greci, ai propri connazionali, la superbia, la presunzione e il complesso di superiorità di cui – secondo Erodoto – sono vittime. In greco, nel greco ionico di Erodoto, le parole: superbia, presunzione, complesso di superiorità corrispondono al termine yperefanìa. Yperefanos è un individuo superbo, presuntuoso, a cui piace mostrarsi, noi conosciamo meglio – per tradizione legata alla letteratura dei Vangeli – la parola epifanìa e il termine epifános che indica una persona che si mostra con semplicità, che si manifesta perché è suo dovere mostrarsi (epifános è il bambino Gesù, ed Erodoto non ne sa nulla).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è un atto di superbia, di presunzione che ti ha colpito particolarmente? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     Erodoto sa invece che sono stati i Greci a coniare la parola barbaros. La parola barbaros indica la persona che non parla il greco, indica quindi una persona che si esprime in modo stentato e incomprensibile e che, per questo motivo, viene automaticamente classificata come inferiore. Questo modo di fare un po’ tracotante – che Erodoto critica continuamente – i Greci lo hanno trasmesso agli altri europei. Si sente dire a tutt’oggi: “Sono dei barbari! Sono dei Vandali!” (Una delle popolazioni barbariche più additate al pubblico ludibrio), senza tener conto del fatto che i Vandali – per esempio – hanno amministrato la regione dell’Andalusia (a cui hanno dato anche il nome) nel migliore dei modi, con grandi progressi soprattutto nel campo dell’agricoltura, ma tra Erodoto e i Vandali ci sono circa mille anni di distanza (altrimenti Erodoto li avrebbe certamente difesi dalla nostra arroganza).

     Erodoto – a proposito di superbia, yperefanìa – contrappone i Greci agli Egiziani: sembra che si sia recato in Egitto soprattutto per raccogliere materiali in modo da poter confermare la sua filosofia della moderazione, della semplicità, dell’umiltà e del buon senso. Erodoto, per ridimensionare i Greci decide di affrontare una questione fondamentale che riguarda il tema della trascendenza, del mondo ultraterreno: da dove i Greci hanno preso i loro dèi? Da dove provengono gli dèi greci? I Greci rispondono assai risentiti: «Come sarebbe a dire: da dove provengono i nostri dèi?». «Gli dèi sono i nostri dèi!»  «Niente affatto» replica Erodoto, con un tono un po’ blasfemo. «I nostri dèi, di cui meniamo vanto nel mondo, non sono nostri, ma li abbiamo presi dagli Egiziani! E forse a questo proposito – insiste Erodoto – sarebbe conveniente essere più umili».

     L’affermazione che Erodoto fa nel capitolo 58 del II libro de Le Storie a noi non fa molto effetto ma in realtà è assai pesante. Per sua fortuna Erodoto si esprime in un mondo che non conosce ancora la comunicazione di massa e quindi, le sue parole le sentono o le leggono pochissime persone altrimenti avrebbe avuto qualche problema. Leggiamo queste due righe che potrebbero costare care ad Erodoto.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie II  58

gli Egiziani sono quelli che per primi fra gli uomini celebrarono grandi solennità religiose nazionali e cortei sacri e da loro hanno appreso i Greci

     Se questa opinione di Erodoto si fosse ampiamente diffusa, il nostro scrittore avrebbe rischiato la lapidazione o avrebbe corso il pericolo di essere bruciato sul rogo. Ma Erodoto vive in un’epoca pre-mediale in cui le notizie e le opinioni si diffondono molto lentamente. Che cosa c’è di strano in questa affermazione? C’è che i Greci – allude Erodoto – vogliono avere il primato su tutto e non tollerano di essere declassati, vogliono primeggiare e non temono neppure l’invidia del “destino”. Ed Erodoto ritiene utile (proprio perché si sente greco) insistere nella sua opera di ridimensionamento dei suoi connazionali e lo fa portando delle prove: leggiamo due frammenti dai capitoli 43 e 44 del II libro in cui Erodoto parla delle origini del grande eroe greco Eracle.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie II  43  44

del fatto almeno che non gli Egiziani presero il nome dai Greci, ma piuttosto i Greci dagli Egiziani io ho molte prove; e fra le altre questa soprattutto, che i genitori di questo Eracle, Anfitrione e Alcmena, erano entrambi anticamente originari dell’Egitto per gli Egiziani Eracle è una divinità antica; a quanto essi stessi dicono, sono 17.000 anni da quando gli dèi divennero da otto dodici e di questi uno ritengo sia Eracle. Volendo sapere qualcosa di chiaro su questi argomenti da quelli che potevano saperlo, navigai fino a Tiro in Fenicia, poiché sapevo che lì c’era un tempio sacro ad Eracle. E lo vidi, riccamente adorno di molti doni votivi Venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiesi quanto tempo fosse passato da quando sorgeva quel loro tempio. E trovai che neppure essi s’accordavano con i Greci.

     Ciò che colpisce nel discorso di Erodoto è l’aspetto profano: parla delle genealogie degli dèi come di un argomento prettamente umano da misurare in termini assolutamente materiali. Ciò che colpisce nel discorso di Erodoto è la totale assenza di senso del sacro – i templi sono oggetti prodotti dagli esseri umani in funzione degli esseri umani – e colpisce la mancanza del linguaggio pomposo e altisonante che di solito accompagna le liturgie religiose. Erodoto, come teologo, non pensa ad una divinità (o più divinità) che ha creato il mondo, ma concepisce un Mondo vario che ha creato gli dèi e ha costruito i templi per poterseli raffigurare con l’immaginazione. Erodoto non lo dice esplicitamente (non stava bene farlo) ma per lui, e per la corrente di pensiero, “razionalista”, a cui appartiene – gli dèi sono un asserto culturale, sono una realtà intellettuale. Ne Le Storie di Erodoto gli dèi non sono qualcosa di inaccessibile e soprannaturale, per Erodoto – anche se non lo afferma esplicitamente – gli dèi sono “oggetti simbolici”, corrispondono ai templi, alle statue, agli amuleti, ai riti che li rappresentano. 

     Erodoto prima di tutto – come teologo – vuole discutere semplicemente su chi li abbia inventati: sono stati i Greci o gli Egiziani a inventare gli dèi? Erodoto – è stato detto – coltiva un pensiero “laico”, ritiene che solo il pensiero laico possa dare garanzie di libertà alla religione, non viceversa.

     La polemica tra Erodoto e i suoi conterranei non riguarda l’esistenza o meno degli dèi (non si dice, ma si dubita molto sull’esistenza degli dèi): questo non significa che Erodoto non coltivi un sentimento religioso, anzi lo coltiva (c’insegna Rousseau che gli dèi e l’idea di Dio sono cose diverse dal “sentimento religioso”). Erodoto – ci dicono gli antichisti – sembra consapevole che, volendo nutrire un sentimento religioso, è necessario distinguere tra ciò che è “religione” (rituale, superstizione, mito, culto, credenza irrazionale) e ciò che è “fede” (ideale, testimonianza, valore morale).   

     Probabilmente Erodoto non potrebbe neanche immaginare un mondo senza Esseri Supremi, ma questi Esseri Supremi non sono facilmente riconoscibili (e sono soprattutto fondamentalmente diversi dagli esseri umani) e trascendono anche gli dèi della tradizione arcaica. Quindi la polemica tra Erodoto e i suoi conterranei non riguarda l’esistenza o meno degli dèi (simboli creati dagli umani per dare un senso alle forze della natura e per giustificare vizi e virtù) ma la discussione riguarda quale dei due popoli abbia preso dall’altro i nomi e le immagini degli dèi. I Greci affermano che i loro dèi sono parte integrante del loro mondo originario, dal quale derivano, mentre Erodoto cerca di dimostrare che tutto il loro pantheon, o almeno buona parte di esso, proviene dagli Egiziani. E qui, per rafforzare la propria posizione, ricorre – da storico – a un argomento secondo lui incontrovertibile: quello del tempo, dell’anzianità, dell’età. Quale di queste due culture – si chiede Erodoto – è la più antica: la greca o l’egiziana? Leggiamo che cosa risponde nel capitolo 143 del II libro.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie II  143

In precedenza, con Ecateo il logografo che a Tebe esponeva la sua genealogia e ricollegava la sua discendenza paterna ad un dio come sedicesimo antenato, i sacerdoti di Zeus agirono nello stesso modo che con me, che pure non avevo esposto la mia genealogia: fattomi entrare nell’interno di un tempio, mi enumeravano mostrandomeli dei colossi di legno, tanti quanti ho detto, in numero di 345.

     Qual è il significato di questo brano? Ecateo – allude Erodoto – è un greco e i colossi, ognuno dei quali simboleggia una generazione, sono egiziani. «Ebbene, miei cari concittadini Greci, – sembra dire Erodoto – la nostra genealogia conta appena quindici generazioni, quella degli Egiziani trecentoquarantacinque. E allora, chi avrà preso gli dèi dall’altro? Certamente siamo stati noi Greci a prenderli dagli Egiziani perché è un popolo tanto più antico di noi».

     Inoltre Erodoto per dimostrare con maggiore evidenza ai suoi concittadini la differenza temporale che divide i Greci dagli Egiziani, aggiunge: «Se tre generazioni umane equivalgono a cento anni, trecento generazioni umane equivalgono a diecimila anni». Secondo l’opinione dei sacerdoti egiziani – ci fa sapere Erodoto – in tutto questo tempo non è apparso nessun nuovo dio in forme antropomorfiche. Quindi – conclude Erodoto – gli dèi che consideriamo nostri esistevano in Egitto già oltre diecimila anni fa.

     Secondo il ragionamento di Erodoto si dovrebbe riconoscere che, non solo gli dèi, ma l’intera cultura è arrivata in Grecia (potremmo dire in Europa) dall’Egitto (potremmo dire dall’Africa). Da duemilacinquecento anni si discute con grande animazione sulla teoria delle radici non europee della cultura europea.

     Ma invece di perderci in questa diatriba dobbiamo constatare che le riflessioni di Erodoto ci fanno capire che, ai suoi tempi, le diverse culture convivono l’una accanto all’altra anche se sono quanto mai differenziate. Erodoto ci parla di popoli che si sono combattuti, che si combattono e che collaborano magari per ritrovarsi, domani, a farsi la guerra, ma ci racconta soprattutto di civiltà che mantengono tra loro rapporti di scambio e di prestito reciproco, arricchendosi a vicenda: per Erodoto la pluralità culturale del mondo è un tessuto vivo e pulsante dove niente è dato per scontato e dove niente è stabilito una volta per tutte, ma che continuamente si trasforma creando nuove relazioni e nuovi contesti.

     Per Erodoto, quindi, sembra esistere una pluralità culturale anche sul piano della teologia: una disciplina che, nell’epoca dell’Età assiale della storia, emerge, si mette in evidenza e perde la sua dogmatica immobilità. Anche il tema della teologia, per Erodoto, è formato da un complesso di elementi vitali e vibranti dove niente è impartito e niente è stabilito una volta per tutte ma che continuamente si rinnova e dà origine a nuove idee, e crea nuove forme intellettuali.

     Nel costruire il testo della sua opera, Erodoto, quando parla di teologia (degli dèi) utilizza – abbiamo detto – un discorso dall’aspetto profano, dalla prospettiva laica, e certamente il discorso teologico di Erodoto è di grande modernità. Nel modo di raccontare di Erodoto – a differenza dei logografi e dei poeti del suo tempo – emerge una totale assenza di sacralità. Ne Le Storie di Erodoto, manca – se non per ironia – il linguaggio maestoso e solenne che di solito accompagna le liturgie religiose. Perché avviene questo si chiedono gli antichisti? Da che cosa è influenzato culturalmente Erodoto in questo suo modo di pensare in cui emergono alcuni elementi contigui al tema della laicità della fede? Su che cosa si basa il tema della laicità della fede (un tema che oggi ha una grande importanza per stigmatizzare i “fondamentalismi”)?

     Il tema della laicità della fede consiste nell’onorare, nell’amare Dio (gli dèi) superando la “religione”, andando oltre la “religione”: Dio (gli dèi) lo si onora e lo si ama facendo il bene e non celebrando riti superstiziosi. Gli antichisti hanno riflettuto, hanno studiato e sono giunti a formulare delle ipotesi. Nell’epoca di Erodoto, nell’epoca dell’Età assiale della storia, ha inizio – soprattutto in Asia – un grande dibattito sulla differenza tra la religione e la fede, un dibattito che continuerà, e che tuttora continua, nella Storia del Pensiero Umano. È possibile – sostengono gli studiosi – che Erodoto abbia assorbito – nelle sue peregrinazioni asiatiche – le idee di un altro grande apparato culturale dell’Età assiale della storia, di cui si percepisce l’eco tanto in Medio Oriente quanto nel bacino del Mediterraneo. In questo altro grande apparato culturale dell’Età assiale della storia possiamo trovare – portata al più alto livello – la riflessione sul tema della differenza tra la religione (il rituale, la superstizione, il mito, il culto, la credenza irrazionale) e la fede (l’ideale, la testimonianza, il valore morale). È probabile – sostengono gli studiosi – che Erodoto abbia inconsapevolmente assorbito – nei suoi viaggi – le parole-chiave e le idee significative di un pensiero in cui la questione teologica (il rapporto tra la natura umana e la natura divina) si arricchisce di nuove forme intellettuali che portano a far emergere l’argomento della laicità della fede.

     Il pensiero di cui stiamo parlando è un altro caposaldo intellettuale della nostra archeologia del sapere: è il pensiero di Zaratustra. Chi è Zaratustra e in che cosa consiste il suo pensiero? Noi conosciamo la vita di Zaratustra, come del resto di tutti i personaggi dell’Età assiale della storia soprattutto attraverso la leggenda. Ma anche Zaratustra – come tutti gli altri personaggi dell’Età assiale che abbiamo già incontrato strada facendo – è sicuramente un personaggio storico, vissuto tra il VI e il V sec a.C. Secondo le ricerche, fatte dagli studiosi, Zaratustra è nato in una località dell’Iran orientale, l’odierno Afganistan: un territorio che il re Ciro II conquista alla metà del VI sec a.C. integrandolo nell’Impero persiano. L’ambiente di questo territorio è particolarmente ostile, ed è sottoposto alla pressione dei popoli confinanti tanto da occidente quanto da oriente perché è un territorio di passaggio, un territorio strategico (oggi non ha perso queste caratteristiche).

     Anche di Zaratustra non possediamo nulla di scritto (da lui personalmente), ma un discepolo, subito dopo la sua morte, trascrive le sue parole in 17 componimenti poetici, detti Gatha. Zaratustra è quasi certamente un allevatore di bestiame e probabilmente è uno sciamano, è il sacerdote (e quindi il capo) della sua tribù. Il merito di Zaratustra è quello di essere l’autore di un’importante rivoluzione spirituale che ha inizio nel contesto delle credenze mitiche e religiose delle tribù che abitano il grande altopiano iraniano. Le idee di questa rivoluzione spirituale si diffondono nel vasto territorio asiatico, penetrano verso occidente, verso il Medio Oriente e il bacino del Mediterraneo.

     Abbiamo detto che l’altopiano iraniano è un territorio particolarmente ostile, è un ambiente povero economicamente sul quale si scatenano furibonde lotte tribali per la conquista dei pascoli e soprattutto per il possesso dei pozzi dell’acqua. La società dell’altopiano iraniano è formata da pastori-mandriani che sono anche guerrieri e il capo di ogni tribù ha soprattutto la funzione di sacerdote: Zaratustra è uno di questi. I capi tribù sono i sacerdoti di una religione, che – anche per l’influenza dell’ambiente ostile – è improntata ad un cupo pessimismo. Il pessimismo nasce dal considerare la realtà come il terreno di scontro tra le due forze fondamentali, opposte e sempre in lotta tra loro: il bene e il male. La religione delle tribù dell’altopiano iraniano si fonda sul concetto di “dualismo”, e, nel VI sec a.C., questa idea intesa come contrasto tra due principi, come separazione, come divisione, come rivalità, come contrapposizione, come scontro, entra – in quanto concetto filosofico – nella Storia del Pensiero Umano.  

     I due primi elementi in cui si codifica il concetto di “dualismo”, nella Storia del Pensiero, sono la terra e il cielo: la terra si presenta come il terreno dell’ostilità e il cielo come l’ambito della benevolenza. In un secondo momento, nel contesto delle credenze mitiche e religiose delle tribù che abitano l’altopiano iraniano, il contrasto, lo scontro tra l’ostilità terrena e la benevolenza celeste si sposta sul palcoscenico di quel grande teatro cosmico che è il cielo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole – facendo riferimento alla tua esperienza personale – pensi di collocare per prima accanto all’idea di “dualismo”? 

Scrivila…

     Sappiamo che, per tutte le popolazioni dell’Età assiale della storia, il cielo rappresenta – insieme alla terra – l’altro grande elemento di riferimento. Tutte le popolazioni dell’Età assiale della storia trovano nel cielo, e nelle sue manifestazioni, una componente essenziale per elaborare la cultura, il pensiero, la rete dei racconti mitici. Il cielo si presenta come un grande “video” (se possiamo usare questa parola senza profanare il cielo) che di giorno, e soprattutto di notte, “trasmette” (se così si può dire, e per giunta senza interruzioni pubblicitarie…) una straordinaria rappresentazione di fenomeni. I nostri antenati per migliaia di anni hanno vissuto con la consapevolezza di risiedere, di abitare “sotto il cielo”, noi oggi purtroppo il cielo lo vediamo di sfuggita e ormai capita di rado di trovarci a “parlare sotto le stelle”. I nostri antenati per migliaia di anni hanno osservato le straordinarie rappresentazioni dei fenomeni celesti, le hanno codificate, le hanno interpretate, le hanno utilizzate per “raccontare le storie delle origini”: hanno cercato in cielo le risposte ai molti interrogativi che l’esistenza umana presentava loro quotidianamente sulla terra.   

     “I pastori erranti dell’Asia” (per citare Giacomo Leopardi) delle tribù dell’altopiano iraniano, proprio osservando il cielo, hanno pensato che le sorti del mondo sono in mano a due principi, nei quali si è sdoppiato il Dio supremo: Ahura Mazda.

     Ecco che il concetto del “dualismo” arriva ai vertici più alti: si radica in Dio, e questa idea ha una tradizione che troviamo anche nel famoso testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni. Nel Dio supremo, Ahura Mazda, – secondo i pastori-guerrieri delle tribù dell’altopiano iraniano – si agitano due principi, quello del bene chiamato Ormuzd, e quello del male chiamato Ariman: questi due soggetti divini sono in continua lotta tra loro. Lo scontro tra il bene, Ormuzd, e il male, Ariman, si svolge nel cosmo e l’esito delle loro cruente battaglie determina la sorte degli esseri umani. Gli esseri umani non possono fare altro che conquistarsi il favore di queste due figure divine con sacrifici cruenti, e possono cercare di sottrarsi al cupo destino della vita con libagioni sacre per inebriarsi e con fumate rituali alienanti di erbe e di resine per dimenticare (se la vita fa schifo: alcool e hascisc).

     Ebbene Zaratustra si oppone a questa religione cosmica e fatalistica, compiendo un’operazione culturale epocale nella Storia del Pensiero Umano. Zaratustra rifiuta l’idea che la persona debba essere sottomessa in modo passivo al destino. Ogni persona non è padrona del proprio destino ma è comunque responsabile del proprio destino.

     Con il pensiero di Zaratustra entrano in gioco, nella storia della cultura, due grandi concetti fondamentali: l’idea della responsabilità e quella della scelta, e questi due concetti stanno alla base del tema della laicità della fede. Il conflitto tra i due principi, lo scontro tra il bene e il male, non prende le mosse – afferma Zaratustra – nella sfera del trascendente ma è interno all’essere umano. Il conflitto tra il bene e il male – afferma Zaratustra – si svolge nell’interiorità, si colloca nella coscienza della persona, ed è la persona che, per allontanare da sé la “responsabilità della scelta”, proietta il conflitto nell’alto dei cieli, fuori dalla realtà. Il conflitto tra il bene e il male – afferma Zaratustra – non viene proiettato dall’alto all’interiorità della persona, ma bensì si propaga dall’interiorità della persona al mondo. Il bene riuscirà a prevalere sul male a condizione che gli esseri umani si schierino dalla parte del bene e rifiutino i riti, i sacrifici, le bevute e le fumate rituali, ma attuino la scelta etica a favore del bene. Il bene prevale se la persona sente la “responsabilità morale” e sceglie di comportarsi di conseguenza.

     In Dio, in Ahura Mazda, esiste un dualismo? Si domanda Zaratustra. Il Bene e il Male sono due princìpi cosmici che dominano la natura di Dio? Se è così – afferma Zaratustra – l’essere umano è responsabile anche della fisionomia di Dio, della sua natura. Scegliendo di schierarsi dalla parte del Bene, l’essere umano contribuisce a far prevalere il principio del Bene anche in Dio, e il trionfo del Bene in Dio sarà propizio per l’Umanità intera.

    Con il pensiero di Zaratustra si apre uno dei temi fondamentali della teologia – una delle grandi questioni che investono, da sempre, la Storia del Pensiero – e che riguarda un significativo interrogativo esistenziale: perché Dio ha creato gli esseri umani? Che bisogno c’era di fare questa operazione? Oppure se vogliamo formulare la domanda in modo laico ci si può chiedere: ha un senso la presenza degli esseri umani sulla terra? O meglio: possiamo dare un senso alla presenza degli esseri umani sulla terra? Che senso ha la nostra vita di “esseri umani”?

     In principio – secondo tutte le grandi rappresentazioni e tutti i grandi racconti delle origini – Dio, l’immagine del Bene supremo, si è trovato da solo insieme al Male, per la semplice ragione che, senza la presenza del Male, il Bene non sarebbe identificabile. Se riconosciamo in Dio il Bene supremo dobbiamo pensare che, per affermare l’esistenza di questo Bene, dobbiamo ammettere la presenza contemporanea del Male (questo è uno dei grandi temi di dibattito della Scolastica medioevale). In principio il Bene, presente in Dio, e il Male, contiguo alla presenza di Dio, convivono, coabitano, coesistono in un universo vuoto, deserto, spopolato. Queste due Entità si osservano, si studiano, poi entrano in azione.

     I grandi racconti delle origini narrano che Dio – sotto il controllo del Male (sotto stretta sorveglianza delle “Tenebre-Satan” nel testo del libro della Genesi) – ha creato. Ahura Mazda – il Dio di Zaratustra, così come il Dio della Genesi – ha portato a termine la creazione ma contemporaneamente ha dato il via alla creazione. E perché Dio ha creato, che bisogno aveva di creare, non bastava a se stesso? E, in particolare, perché ha creato gli esseri umani? Ahura Mazda – secondo il pensiero di Zaratustra – ha creato gli esseri umani per non essere solo nella lotta contro il Male. E la lotta contro il Male si combatte sulla terra e si ripercuote nei cieli. La motivazione, l’input alla creazione (se vogliamo riprendere uno dei pensieri teologici della Scolastica medioevale) è che la divinità decide di creare il mondo e l’essere umano (“a sua immagine e somiglianza”) per intraprendere una lotta contro il Male il quale convive in origine con la divinità stessa. Senza l’antitesi costituita dal Male la tesi della bontà divina non potrebbe essere formulata.

     Per la prima volta, con il pensiero di Zaratustra, la storia viene vista come una crescita verso un fine di solidarietà, verso un fine animato da un Dio-buono che crea gli esseri umani perché siano “solidali con lui” nella lotta contro il Male, contro l’ingiustizia, contro la disonestà, e siano “solidali con lui” nel trasformare la terra in un “giardino fertile e rigoglioso” (per usare una metafora poetica che ricorre nella letteratura dell’Età assiale della storia).

     Per la prima volta, con il pensiero di Zaratustra, la storia viene vista in funzione di una grande resurrezione, finalizzata a una grande rivoluzione cosmica dell’Umanità. Leggiamo un frammento tratto dai Gatha, l’opera in 17 componimenti poetici, scritti da un discepolo, quello che viene chiamato Lo scrivano di Zaratustra, che riporta il suo pensiero. In questo frammento – simile nel linguaggio (per noi famigliare) alla letteratura dell’Antico Testamento – si può cogliere la consapevolezza della “bontà della creazione” in tutti i suoi risvolti tanto naturali quanto psicologici e si può comprendere quale compito sia stato affidato agli esseri umani (o che gli esseri umani si sono dati): quello di “creare la gioia futura”, di costruire il Bene, estirpando il dolore, debellando il Male. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Lo scrivano di Zaratustra, Gatha  (Quarto componimento 1-9)

Quale artista ha creato la luce dalle tenebre? Chi ha fatto l’aurora, il mezzogiorno e la notte? Alla nascita del mondo, chi ha fatto le acque e le piante? Chi ha messo in moto le nubi e i venti? Chi ha messo l’amore nel cuore di una madre e di un padre quando gli nasce un figlio?

O Ahura Mazda, tu che fai la crescita del mondo, accordaci i beni del mondo.

Dacci la forza di creare la gioia futura degli esseri umani e se il nostro simile ha fame fa che sappiamo dividere il sorso di latte; se il nostro simile ha sete fa che sappiamo dividere il sorso dell’acqua; se il nostro simile ha paura fa che sappiamo dividere la fiammella del coraggio; che se il nostro simile piange fa che sappiamo bere metà delle sue lacrime; che se il nostro simile ride fa che sappiamo gustare la sua gioia.

Colui che Dio preferisce è il buon lavoratore della terra delle donne e degli uomini.

     Il linguaggio, che emerge da questo significativo frammento, guarda al cielo ma è saldamente ancorato alla terra, e poi queste espressioni non suonano nuove nelle nostre orecchie.

     Dobbiamo aprire due parentesi, dobbiamo fare due riflessioni in funzione della didattica della lettura e della scrittura: Erodoto c’invita a non lasciarci sfuggire le coincidenze e le corrispondenze. Nella la prima parentesi dobbiamo constatare che il linguaggio, le parole-chiave e le idee significative del pensiero di Zaratustra sono in linea con un altro grande paesaggio intellettuale della Età assiale della storia, il quale apre uno scenario di enormi dimensioni (sul quale torneremo con un prossimo Percorso), a questo apparato culturale è stato dato il nome di profetismo ebraico. Noi sappiamo, per tradizione, che tra i testi della letteratura dell’Antico Testamento (la Bibbia) ci sono i libri dei Profeti: una quindicina di libri costituiscono il catalogo dei cosiddetti “profeti maggiori” (in ebraico “nebiyim”): Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia. 

     Ricordiamo che la letteratura dell’Antico Testamento (la Bibbia) si divide in tre grandi sezioni: i libri della torah (la legge), i libri dei nebiyim (i profeti) e i ketubim (i libri sapienziali e poetici). Dobbiamo inoltre ricordare che l’immagine, la figura, l’icona di Dio assume caratteristiche diverse da una sezione all’altra. Il Dio dei Profeti (El-nebiyim), in molti tratti assomiglia alla figura di Ahura Mazda: è un Dio che non ama i culti religiosi, ma apprezza la bontà del cuore, è un Dio che non vuole lasciarsi strumentalizzare dagli apparati di potere, e le sue scelte sono piuttosto alternative rispetto alle istituzioni tradizionali. Il Libro di Isaia (che tutti abbiamo sentito nominare) è uno dei capisaldi di questa “teologia antagonista” che ha le sue radici nel pensiero di Zaratustra. Il libro di Isaia è un testo straordinario, uno dei testi fondamentali della Storia del Pensiero Umano di cui la Scuola deve consigliare la lettura, anche se si tratta di un esercizio non facile. Il libro di Isaia è un libro complesso, formato da 66 capitoli, divisi in tre parti, scritte in tre momenti diversi, dal VI al III secolo a.C. Il nome Isaia è simbolico e significa: il Signore salva, il Signore invita alla salvezza e questo concetto – che ha le sue radici nel pensiero di Zaratustra – è il filo conduttore di tutto il libro. Tutti – o quasi tutti, lo dicono le statistiche– abbiamo in casa una Bibbia (la grande biblioteca della letteratura dell’Antico Testamento) e questo significa che possiamo dedicarci (per esempio) alla lettura dei  capitoli  9  10  11 del libro di Isaia. Il testo del libro di Isaia, per quanto riguarda la forma, ci dà la possibilità di gustare un linguaggio affascinante, poetico, evocativo, e, per quanto riguarda il contenuto, ci dà la possibilità di riflettere su un concetto fondamentale che emerge costantemente in questo testo: il concetto della “laicità della fede”. Il libro di Isaia – e tutti i libri dei “profeti maggiori” – perfeziona l’idea della “laicità della fede” che ha le sue radici nel pensiero di Zaratustra.  

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leggi i capitoli  9  10  11 del libro di Isaia: quali frasi hanno attirato maggiormente la tua attenzione? 

Scrivine una, quella che ti piace di più …

     Adesso per quanto riguarda il concetto della “laicità della fede” leggiamo un frammento dal capitolo 29:

LEGERE MULTUM….

Libro di Isaia  Capitolo 29

Il Signore ha detto: «Questo popolo si avvicina a me per onorarmi.  Mi onora però soltanto con la bocca, mentre con il cuore è lontano da me. Tutto il suo culto è senza significato, perché consiste solo in rituali religiosi. Perciò continuerò a sorprendere questo popolo in modo del tutto incomprensibile. Così la sapienza dei suoi sapienti sarà messa in difficoltà e la loro intelligenza non servirà a niente».

Guai a quelli che cercano di nascondere al Signore i loro progetti! Tramano nell’ombra, pensano di non essere visti e dicono: «Nessuno sa quel che noi facciamo!» Essi capovolgono i compiti. Confondono il vasaio con l’argilla. Può forse il vaso dire al vasaio: «Non mi hai fatto tu!» O ancora: «Tu non capisci niente»? 

Fra poco la foresta del Libano diventerà un giardino, e il giardino si cambierà in una foresta. Quel giorno i sordi sentiranno leggere le parole di un libro e i ciechi, che prima erano nelle tenebre, apriranno i loro occhi e vedranno. Gli umili e i poveri si rallegreranno e gioiranno ancora una volta per quel che farà il Signore. Sarà la fine per chi opprime e schernisce gli altri.

     E ora sempre per quanto riguarda il concetto della “laicità della fede” leggiamo un frammento, ancora più esplicito, tratto dal capitolo 58:

LEGERE MULTUM….

Libro di Isaia  Capitolo 58

Dice il Signore: «Mi cercano ogni giorno, desiderano conoscere le mie decisioni. Anzi reclamano da me leggi giuste e vogliono che sia vicino a loro. Sembrano una nazione che agisce con giustizia e osserva le leggi. Ma poi mi dicono: “Perché digiunare se non ci guardi? Perché comportarsi bene se non lo noti?”». E io rispondo: «Proprio mentre digiunate vi preoccupate dei vostri affari e maltrattate i vostri lavoratori. Litigate con violenza, urlate e fate anche a pugni. Proprio perché digiunate in questo modo, io non vi ascolto. Per voi digiunare vuol dire piegare la testa come una pianta appassita, vestirsi di sacco e stendersi nella cenere. Pensate che sia fatto di queste esteriorità il digiuno che mi piace? Per digiuno io intendo un’altra cosa: rompere le catene dell’ingiustizia, rimuovere ogni peso che opprime gli esseri umani, rendere la libertà agli oppressi e spezzare ogni legame che li schiaccia. Digiunare significa dividere il pane con chi ha fame, aprire la casa ai poveri senza tetto, dare un vestito a chi non ne ha, non abbandonare il proprio simile. Questa, popolo mio, sarà l’alba di un nuovo giorno in cui i tuoi mali guariranno presto. Se ti comporterai in modo giusto il Signore ti proteggerà con la sua presenza. Quando lo chiamerai ti risponderà, quando chiederai aiuto egli dirà: “Eccomi”.

In funzione della didattica della lettura e della scrittura, Erodoto c’invita ancora a non lasciarci sfuggire le coincidenze e le corrispondenze. Il concetto della “laicità della fede” – che trova eco ne Le Storie di Erodoto – ha le sue radici nel pensiero di Zaratustra, poi si sviluppa nella cultura del profetismo ebraico e, in particolare attraverso il libro di Isaia, entra successivamente nella letteratura dei Vangeli. Tra il frammento tratto dai Gatha – che abbiamo letto prima – e il frammento tratto dal libro di Isaia che abbiamo letto adesso c’è un’affinità tanto di linguaggio quanto di idee. E senza dubbio questi due frammenti fanno riecheggiare nella nostra mente un brano, famoso, del testo del Vangelo secondo Matteo che noi sicuramente non ignoriamo. Questo brano rappresenta un passo ulteriore nella codificazione del concetto della “laicità della fede”: uno dei concetti fondamentali su cui si basa la civiltà occidentale. Il Dio cristiano (e la divinità in generale) può essere “buono” e “misericordioso”, può essere “salvatore” e “giudice giusto” solo se l’essere umano coltiva l’idea della “laicità della fede” e la mette in pratica.

LEGERE MULTUM….

Vangelo secondo Matteo  25, 31-46

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nel suo splendore, insieme con gli angeli, si siederà sul suo trono glorioso. Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dalle capre: metterà i giusti da una parte e i malvagi dall’altra. Allora il Signore dirà ai giusti:

– Venite, voi che siete i benedetti dal Padre mio, entrate nel regno che è stato preparato per voi dalla creazione del mondo. Perché, io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa, ero nudo e mi avete dato i vestiti, era malato e siete venuti a curarmi, ero in prigione e siete venuti a trovarmi. «E i giusti diranno:

– Signore, ma quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti?

«Il Signore risponderà:

– In verità, vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!

«Poi dirà ai malvagi:

– Andate, maledetti, nel fuoco eterno perché, io ho avuto fame e voi non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero forestiero e non mi avete ospitato nella vostra casa, ero nudo e non mi avete dato i vestiti, ero malato e in prigione e voi non siete venuti da me. «E anche quelli diranno:

– Quando ti abbiamo visto affamato, assetato, forestiero, nudo, malato o in prigione e non ti abbiamo aiutato? «Allora il Signore risponderà:

– In verità, vi dico che tutto quel che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me.

«E andranno nella punizione eterna, mentre i giusti andranno nella vita eterna».

     Il concetto della “laicità della fede” – di cui si trova una risonanza ne Le Storie di Erodoto – ha le sue radici nel pensiero di Zatatustra, poi si sviluppa nella cultura del profetismo ebraico e, in particolare attraverso il libro di Isaia, entra successivamente nella letteratura dei Vangeli. Il pensiero di Zaratustra, del profetiamo ebraico, della letteratura dei Vangeli presuppone che l’essere umano, nel suo rapporto con la divinità, abbandoni la “sacralità religiosa” e pratichi la “laicità della fede” con un preciso intento di “solidarietà sociale”, in cui deve emergere la “responsabilità” dell’individuo, in cui si deve affermare la “scelta responsabile” della persona.

     In Erodoto l’eco di questo pensiero si traduce (implicitamente) in due parole: “responsabilità” e “scelta”. Queste due parole, pronunciate nel greco ionico di Erodoto, risultano emblematiche alle nostre orecchie e noi, soltanto a sentirle, capiamo che avranno un’evoluzione culturale notevole nella Storia e del Pensiero. La nostra riflessione, sul cammino di questo Percorso, si deve fermare alla citazione di queste due parole, infatti ci basta riferirle perché si aprano davanti a noi molti paesaggi intellettuali che appartengono ad altri Percorsi che abbiamo già intrapreso in passato e che intraprenderemo ancora in futuro.

     Nel greco ionico di Erodoto la parola “responsabilità” si traduce cresimìa e credo che, in questo momento, la mente di tutti noi vada in una direzione: al “sacramento della cresima” (che tutti, o quasi tutti, a suo tempo, abbiamo ricevuto), e nella lingua greca in cui è scritta la letteratura delle Lettere di Paolo e dei Vangeli, questa parola – cresimìa, la cresima – rappresenta il momento dell’assunzione di responsabilità nei confronti della “laicità della fede”.

     Nel greco ionico di Erodoto la parola “scelta” si traduce èresis e qui, di fronte a questa parola, si apre un grandioso scenario di Storia del Pensiero: che cos’è una “eresia”? Una “eresia” è una scelta per cui si decide di credere ad un’affermazione diversa da quella imposta da un dogma. Una “eresia” è la scelta per cui si decide di mettere in discussione un presupposto ritenuto indiscutibile. La storia su cui si sono costruite le dottrine della Chiesa cristiana (cattolica d’occidente, ortodossa d’oriente) è intessuta da “scelte”, da “eresie”, che hanno contribuito a dare una dinamica creativa efficace al cristianesimo (ci siamo avventurati molte volte su questi territori e ci torneremo).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quali ricordi affiorano nella tua mente in relazione alla parola “cresima”? 

Scrivi quattro righe in proposito… 

     E ora apriamo la seconda parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Dopo che Erodoto ci ha insegnato a non lasciarci sfuggire le coincidenze e le corrispondenze non possiamo non ricordare che esiste una celebre opera che tutti abbiamo sentito nominare e che s’intitola Così parlò Zarathustra, scritta tra il 1883 e il 1885  da Friedrich Nietzsche. Quando incontreremo Nietzsche, nel territorio dei filosofi dell’800, definiremo in modo più preciso il suo pensiero; questa sera ci soffermiamo brevemente su questa sua opera in cui Nietzsche utilizza la maschera di Zarathustra per formulare alcune significative idee che andranno approfondite a suo tempo. Così parlò Zarathustra è un’opera in quattro libri, composta senza un piano prefissato – “come una serie di episodi più o meno slegati” – dove però emergono chiaramente alcune parole-chiave e alcune idee significative del pensiero di questo importante filosofo.

     Tre sono le idee principali che caratterizzano il testo di Così parlò Zarathustra: l’idea della morte di Dio, l’idea che bisogna essere fedeli alla terra, e l’idea dell’uomo superiore (o del Superuomo).

     Nietzsche utilizza la figura di Zarathustra per annunciare la morte di Dio (un tema fondamentale della filosofia contemporanea): Dio è morto nel senso che non è più il protagonista del conflitto tra il bene e il male, perché il protagonista del conflitto tra il bene e il male è l’uomo superiore.

     Il “Superuomo” è l’individuo che sa assumersi la “responsabilità della scelta”, è il simbolo di una umanità più matura (che non ha più bisogno degli dèi). Questa concezione presuppone anche la teoria darwiniana (di cui oggi si parla tanto) della “selezione naturale”: s’impone il più dotato.

     A questo proposito chi è – secondo Nietzsche – il più dotato? Per rispondere a questa domanda (insidiosa, che ha dato addito a molti malintesi) Nietzsche si rifà soprattutto al mito rinascimentale dell’artista poliedrico, “mostro di intelligenza, di ingegnosità e di raffinato gusto estetico” che si pone al centro dell’Universo e lo domina.

     In quest’opera – Così parlò Zarathustra – come è articolato il racconto? Nietzsche in quest’opera narra – con un linguaggio molto provocatorio – che dopo dieci anni di preparazione passati in solitudine, in montagna, Zarathustra sente il bisogno di entrare in contatto con gli esseri umani col proposito di donare loro “il miele della sua sapienza”. Zarathustra scende in città e trova una gran folla adunata sulla piazza del mercato per assistere ad uno spettacolo di funamboli, lì comincia a predicare alla folla. «Io v’insegno il Superuomo». «L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto per superarlo?  Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancora oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia. Ecco, io vi insegno il superuomo! Il Superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il Superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene!  Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile».

     Ma la folla si mette a ridere ascoltando le sue parole e lo abbandona per seguire il funambolo che ora si libra sul cavo teso tra due torri. Zarathustra, se vuole che qualcuno lo ascolti, non deve cercare tra la gente che si raduna nella piazza del mercato: i suoi discepoli saranno pochi, perché pochi saranno capaci di intendere il suo messaggio. Ad essi Zarathustra predicherà contro la debolezza d’animo dei mediocri, contro la metafisica che insegna l’astrazione, contro l’ascetismo che persuade alla morte, contro l’organizzazione che soffoca gli spiriti. La vita – dice Zarathustra – ha in sé il suo scopo: questa è l’essenza del suo insegnamento. L’essere umano deve liberarsi, vincendo se stesso, dall’istinto deleterio dell’obbedienza e deve affermare la propria volontà. Zarathustra predica contro il clero, contro i regnanti e i loro ministri, contro i ricchi approfittatori, contro i proletari, contro i predicatori di uguaglianza, contro i dotti, contro i poeti che insegnano i miti, contro la cultura del suo tempo, contro le Università, contro i mezzi d’informazione. La requisitoria di Zarathustra non risparmia nessuno.

     Infine egli detta le “nuove tavole” dei valori che capovolgono quelli antichi, fondati sul principio del bene e del male. Quali sono – secondo Zarathustra (secondo Nietzsche) – le “nuove tavole” dei valori su cui fondare la convivenza umana? Ora non abbiamo tempo per analizzare quest’opera in tutti i suoi aspetti (anche perché entreremmo in un altro Percorso, entreremmo nel grande territorio di confine tra l’800 e il ‘900): andate voi a leggere questo testo ora che avete qualche chiave in più…

     Al contrario di ciò che suona il sottotitolo, “Un libro per tutti e per nessuno”, in realtà Così parlò Zarathustra è il libro per uno solo, per Nietzsche. Così parlò Zarathustra è prima di tutto un’autobiografia “poetica”. Solo chi è già un superuomo, cioè una “persona responsabile”, è in grado di accogliere la sua predicazione. La tragedia di Zarathustra sta proprio in questo: nell’impossibilità di trovare allievi che siano all’altezza del suo insegnamento.

     Bisogna riconoscere in quest’opera – come in tutte le opere di Nietzsche – una forte e sincera tensione etica, un desiderio di superamento dei limiti dell’umano, un’ansia mistica e visionaria insieme, molto coinvolgente.

     Le fonti dell’opera di Nietzsche si possono trovare nei libri dei Profeti, nella poesia di Goethe e di Schiller, nella prosa di Lutero, nel pensiero della cultura libertina francese del Seicento e del Settecento. Così parlò Zarathustra vuol essere anche una parodia (blasfema) del Vangelo, di cui riprende tante immagini, tante sentenze ed anche singole parole per deformarle, capovolgerle, ridicolizzarle e contrapporre al vangelo ultraterreno un vangelo terrestre. Così parlò Zarathustra è, in primo luogo, una raccolta di pagine liriche affascinanti e sublimi, in cui “i moti dell’anima si riconoscono nei moti del cosmo”.

     L’opera di Nietzsche ha ispirato un famoso poema sinfonico composto dal musicista Richard Strauss.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

L’opera di Nietzsche ha ispirato un famoso poema sinfonico composto dal musicista Richard Strauss… Avete ascoltato il poema sinfonico Così parlò Zarathustra di Richard Strauss?

Se ne consiglia l’ascolto…

     E già che ci siamo, lasciamoci  provocare e leggiamo due pagine da:

LEGERE MULTUM….

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra  (1883-1885 )

Giunto a trent’anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine, né per dieci anni se ne stancò. Alla fine si trasformò il suo cuore, – e un mattino egli si alzò insieme all’aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò: «Astro possente! Che sarebbe la tua felicità, se non avessi coloro ai quali tu risplendi! Per dieci anni sei venuto quassù, alla mia caverna: sazio della tua luce e di questo cammino saresti divenuto, senza di me, la mia aquila, il mio serpente. Noi però ti abbiamo atteso ogni mattino e liberato del tuo superfluo; di ciò ti abbiamo benedetto. Ecco! La mia saggezza mi ha saturato fino al disgusto; come l’ape che troppo miele ha raccolto, ho bisogno di mani che si protendano. Vorrei spartire i miei doni, finché i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza. Perciò devo scendere giù in basso: come tu fai la sera, quando vai dietro al mare e porti la luce al mondo intero, o ricchissimo fra gli astri! Anch’io devo, al pari di te, tramontare, come dicono gli esseri umani, ai quali voglio discendere.

 

Benedicimi, occhio pacato, scevro d’invidia anche alla vista di una felicità troppo grande!

Benedici il calice, traboccante a far scorrere acqua d’oro che ovunque porti il riflesso splendente della tua dolcezza!

Ecco! Il calice vuol tornare vuoto, Zarathustra vuol tornare uomo».

– Così cominciò il tramonto di Zarathustra.

 

È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti.

E anche l’anima mia è una zampillante fontana.

E notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche l’anima mia è il canto di un amante.

Qualcosa di insaziato, insaziabile è in me; e vuol farsi sentire. Un desiderio d’amore è in me; anch’esso parla il linguaggio dell’amore.

Luce io sono: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, che io sia recinto di luce. Ah, fossi oscuro e notturno! Come vorrei succhiare alle mammelle della luce!

E allora vorrei benedire anche voi, piccole stelle scintillanti e lucciole lassù! – ed essere beato dei vostri doni di luce.

Ma io vivo nella luce mia propria, io ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono.

Io non conosco la felicità di colui che prende; e spesso ho sognato che nel rubare, più che nel prendere, dovesse essere beatitudine.

Questa è la mia povertà, che la mia mano mai si riposi dal donare; questa la mia invidia, che io veda occhi in attesa e le notti rischiarate del desiderio.

Oh, infelicità di tutti coloro che donano! Oh, eclisse del mio sole! Oh, brama di bramare! Oh, famelicità nella sazietà!

Essi prendono da me: ma riesco io a toccare la loro anima? Un abisso è tra dare e prendere; e l’abisso più stretto è anche il più difficile da superare.

Una fame cresce dalla mia bellezza: io vorrei far male a coloro per i quali risplendo, vorrei derubare coloro che hanno accolto i miei doni: – tanta è la mia fame di cattiveria.

Ritrarre la mano, quando già le si protende una mano; esitare come la cascata che precipitando esita ancora: – tanta è la mia fame di cattiveria.

Questa è la vendetta che la mia abbondanza sogna; questa perfidia sgorga dalla mia solitudine.

La mia felicità nel donare si estinse nel donare, la mia virtù divenne stanca di se stessa, del suo sovrabbondare!

Il pericolo di colui che sempre dona è di perdere il pudore; chi sempre distribuisce, la sua mano e il suo cuore si incalliscono a forza di donare.

Il mio occhio non trabocca più per la vergogna di coloro che chiedono; la mia mano divenne troppo dura per il tremito di mani ricolme.

Dov’è ormai la lacrima del mio occhio e il pudore del mio cuore? Oh, solitudine di tutti coloro che donano! Oh, taciturnità di tutti coloro che risplendono!

Molti soli si aggirano nello spazio deserto: a tutto quanto è oscuro essi parlano con la loro luce, – per me tacciono.

Oh, questa è l’inimicizia della luce contro ciò che riluce, senza pietà essa corre le sue orbite.

Ingiusto nell’intimo del cuore verso ciò che riluce: freddo verso i soli, – così corre ciascun sole.

Simili a una tempesta volano i soli le loro orbite, questo è il loro andare. Essi seguono la loro volontà inesorabile, questa è la loro freddezza.

Oh, voi, voi oscuri, voi notturni, vi create calore da ciò che luce! Oh, voi solamente bevete latte e ristoro dalle mammelle della luce!

Ahimè, ghiaccio è intorno a me, la mia mano si brucia al gelo! Ahimè, sete è in me, assetata della vostra sete!

È notte; dover essere luce! E sete di notturno! E solitudine!

È notte: ecco, il mio desiderio erompe da me come una sorgente – il mio desiderio è di parlare.

È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti.

E anche l’anima mia è una zampillante fontana.

È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti.

E anche l’anima mia è il canto di un amante.

Così cantò Zarathustra.

Quando per la prima volta venni dagli uomini commisi la sciocchezza degli eremiti, la grande sciocchezza: mi misi sul mercato.

E quando parlai a tutti, non parlai a nessuno. A sera, erano miei compagni funamboli e cadaveri; e io stesso ero quasi un cadavere.

Ma il mattino seguente giunse a me una nuova verità: fu allora che imparai a dire: “Che mi importano il mercato e la gente e il rumore della gente e gli orecchi della gente!”.

Voi, uomini superiori, imparate questo da me: sul mercato nessuno crede a uomini superiori. E, se volete parlare lì, sia pure! Ma la gente dirà ammiccando: “Noi siamo tutti eguali”.

“Voi uomini superiori, – così ammicca la gente – non vi sono uomini superiori, noi siamo tutti eguali, l’uomo è uomo; davanti a Dio – siamo tutti eguali!”.

Davanti a Dio! – Ma questo Dio è morto. Davanti alla gente, però, noi non vogliamo essere eguali. Uomini superiori, fuggite il mercato!

Davanti a Dio! – Ma questo Dio è morto! Uomini superiori, questo Dio era il vostro più grave pericolo.

Da quando egli giace nella tomba, voi siete veramente risorti. Solo ora verrà il grande meriggio, solo ora l’uomo superiore diverrà – padrone!

Avete capito queste parole, fratelli? Voi siete spaventati: il vostro cuore ha le vertigini? Vi si spalanca, qui, l’abisso? Ringhia, qui, contro di voi il cane dell’inferno?

Ebbene! Coraggio! Uomini superiori! Solo ora il monte partorirà il futuro degli uomini. Dio è morto: ora noi vogliamo, – che viva il superuomo.

 

I più preoccupati si chiedono oggi: “come può sopravvivere l’uomo?”. Zarathustra invece chiede, primo e unico: “come può essere superato l’uomo?”.

Il superuomo mi sta a cuore, egli è la mia prima e unica cosa, – e non l’uomo: non il prossimo, non il miserrimo, non il più sofferente, non il migliore. –

Oggi, infatti, la piccola gente è diventata padrona: costoro predicano, tutti, rassegnazione e modestia e senno e diligenza e riguardo e il lungo eccetera eccetera delle piccole virtù.

Superate, ve ne prego, uomini superiori, le piccole virtù, le piccole assennatezze, i riguardi minuscoli, il brulichio delle formiche, il benessere miserabile, la “felicità del maggior numero” – !

E piuttosto di rassegnarvi, disperate. E, in verità, io vi amo, uomini superiori, perché oggi non sapete vivere! Così infatti, voi vivete – nel modo migliore!

 

Avete coraggio, fratelli? Avete cuore? Non coraggio davanti a testimoni, bensì il coraggio dei solitari e delle aquile, cui non fa da spettatore nemmeno più un dio?

Le anime fredde, le bestie da soma, i ciechi, gli ebbri io non li chiamo coraggiosi. Ha cuore, chi conosce la paura, ma soggioga la paura, chi guarda nel baratro, ma con orgoglio.

Chi guarda nel baratro, ma con occhi d’aquila, chi con artigli d’aquila aggranfia il baratro: questi ha coraggio.

 

Dovete amare la pace come mezzo per nuove guerre. E la pace breve più della lunga.

A voi io non consiglio il lavoro, bensì la battaglia. A voi io non consiglio la pace, bensì la vittoria. Sia il vostro lavoro una battaglia, sia la vostra pace una vittoria!

Solo chi ha la freccia e l’arco è capace di assidersi silenzioso: tutti gli altri sono chiacchieroni litigiosi. Sia la vostra pace una vittoria!

Voi dite che la buona causa santifica persino la guerra? Io vi dico: è la buona guerra che santifica ogni causa.

La guerra e il coraggio hanno fatto grandi cose, più che non l’amore del prossimo. Non la vostra compassione, bensì il vostro coraggio ha finora salvato le persone in pericolo.

Che cosa è buono? domandate. Essere coraggiosi è buono. Lasciate che le fanciulle dicano: “esser buono vuol dire essere carino e insieme commovente”.

 

Dovete avere solo nemici da poter odiare, non nemici da disprezzare. Bisogna che siate superbi del vostro nemico: allora i successi del vostro nemico saranno anche i vostri successi.

Ribellione – questa è la nobiltà nello schiavo. Obbedienza sia la vostra nobiltà! Un obbedire sia perfino il vostro comandare!

Per un buon guerriero “tu devi” suona più gradevole di “io voglio”. E tutto quanto vi è caro, voi dovete in primo luogo farvelo comandare.

Perciò vivete la vostra vita di obbedienza e di guerra! Che importa vivere a lungo! Qual guerriero vuol essere risparmiato!

Io non vi risparmio, io vi amo dal profondo, fratelli nella guerra! –

Così parlò Zarathustra.

     Nietzsche è un grande provocatore e la sua scrittura impertinente, impudente, penetra nel nostro intimo dove la lotta tra la moralità e l’immoralità, lo scontro tra l’aspirazione alla pace e la nostra indole violenta è sempre in corso. Così parlò Zarathustra – abbiamo detto – è un’autobiografia che ci coinvolge tutti. Nietzsche ci fa riflettere e, a suo tempo, lo rincontreremo. “Dovete amare la pace come mezzo per nuove guerre”, scrive Nietzsche facendo parlare il suo Zarathustra e lasciandoci un po’ allibiti, ma purtroppo quando mai la guerra non è stata il mezzo “più efficace” per risolvere le situazioni internazionali? Erodoto ci parla di popoli che si combattono e che si sono combattuti, che fanno la pace per poi potersi continuare a combattere: il tema della guerra – Erodoto ne è testimone – è un motivo dominante nella Storia.

     Le Storie di Erodoto raccontano molte guerre e quindi la parola “responsabilità”, cresimìa, e la parola “scelta”, èresis vengono usate da Erodoto in questo contesto.

     Le Storie di Erodoto parlano anche della guerra che Dario, il re dei Persiani, scatena contro la famosa città di Babilonia che si è ribellata. L’impero persiano è formato da tante nazioni diverse e ce n’è sempre una che si ribella e combatte per l’indipendenza. Dario ha poco più che vent’anni, e da poco è diventato il re di quello che allora è l’impero più potente del mondo. Tutte le insurrezioni e le rivolte vengono soffocate dai Persiani senza pietà e con facilità, ma la rivolta di Babilonia, capitale dell’impero babilonese – che è stato annesso all’impero persiano dal re Ciro diciannove anni prima, nel 538 a.C., – si presenta come un pericolo più grave del solito, come una minaccia capace di compromettere le sorti del regno persiano. Babilonia vuole dunque proclamare la propria indipendenza. Non c’è da stupirsi: questa città è situata all’incrocio tra Oriente e Occidente e tra Nord e Sud, ed è considerata – durante l’Età assiale della storia – la maggiore e più dinamica città del pianeta. Babilonia è il centro culturale e scientifico del mondo, è celebre soprattutto per le sue scuole di matematica, di astronomia, di geometria e di architettura. Dovrà passare un secolo prima che la polis greca di Atene erediti il suo ruolo di capitale del mondo. I Babilonesi, approfittando del fatto che la corte persiana è in preda ad un grande disordine (governanti usurpatori, congiure di palazzo), si preparano a combattere i Persiani e a dichiarare la propria indipendenza. A questo punto, i dignitari persiani mettono subito ordine nello Stato e nominano un nuovo re che possa contrastare il pericolo babilonese, questo re si chiama Dario.

     Erodoto ci racconta che i Babilonesi preparano il loro ammutinamento con grande responsabilità (cresimìa), ma il fatto è che – come spesso succede – quello che Erodoto scrive è sconcertante. La scelta (èresis) che i Babilonesi fanno per prepararsi a resistere è sorprendente: basta leggere alcune righe:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie III  150

I Babilonesi si ribellarono, dopo essersi assai ben preparati; infatti durante tutto il tempo si erano preparati all’assedio. E certo lo fecero di nascosto.                                      

… Quando poi si ribellarono apertamente, agirono così: escluse le madri ciascuno si sceglieva una sola donna della propria casa, quella che voleva, e tutte le altre, radunatele, le strangolarono… perché non consumassero le loro vettovaglie.

     Di fronte a questa affermazione noi – insieme agli studiosi – ci domandiamo: ma Erodoto si rende conto di quello che scrive? Ha riflettuto su queste parole? All’epoca, siamo nel VI secolo a.C, Babilonia conta come minimo dai duecento ai trecentomila abitanti. Se facciamo il conto (gli antichisti lo hanno fatto) tra mogli, figlie, sorelle, nonne, cugine e fidanzate, vengono strangolate varie decine di migliaia di donne.

    Erodoto non ci dice chi abbia deciso questa “scelta responsabile”: se un’assemblea popolare o il consiglio della città oppure il Comitato militare di difesa. Erodoto non dice se ci siano state discussioni, proteste o pareri contrari, né dice chi abbia deciso la morte per strangolamento. Chissà se qualcuno – qui si scatena l’ironia e anche quel po’ di comicità che emerge sempre dalle tragedie – ha proposto un altro modo di uccidere le donne: trafiggerle con le lance, squartarle con le spade, bruciarle sul rogo, annegarle nell’Eufrate che attraversa la città? Ma le domande non finiscono qui e molti scrittori contemporanei, che hanno letto e interpretato questo brano di Erodoto, hanno riflettuto con preoccupata ironia. Che cosa vedono – si sono chiesti molti scrittori leggendo questo brano di Erodoto – le donne rimaste a casa, sulle facce degli uomini rientrati dalla riunione che ha deciso la loro sorte, che si sono assunti questa responsabilità? Vedono perplessità? Vedono vergogna? Vedono dolore? Vedono follia? Vedono “responsabilità”? Le bambine piccole, naturalmente, non intuiscono niente: ma le adolescenti, le ragazze, non avvertono istintivamente qualcosa di strano? E gli uomini rispettano tutti scrupolosamente, responsabilmente, la congiura del silenzio? Possibile che in nessuno si risvegli la voce della coscienza, possibile che dal loro intimo non affiori la “responsabilità morale”?

     E poi che cosa succede? Gli uomini radunano le donne e le strangolano. C’è un punto di riunione dove la gente deve presentarsi e dove ha luogo la selezione? Le donne destinate a vivere vanno da una parte: e le altre? Vengono consegnate alle guardie che via via le strozzano, oppure devono farlo personalmente i padri e i mariti sotto gli occhi di giudici incaricati di sorvegliare le esecuzioni? La cosa si svolge in silenzio o si odono i lamenti degli uomini che invocano la grazia per le figlie e le sorelle?

     E che ne è stato, dopo, di quelle decine di migliaia di corpi? Bisogna dar loro una degna sepoltura, per giunta i Babilonesi – come tutti popoli dell’epoca – credono che i morti non sepolti tornino a turbare il sonno dei vivi, e certamente per gli uomini di Babilonia le notti saranno diventate un incubo: si saranno svegliati, avranno fatto brutti sogni, non saranno riusciti a prendere sonno, si saranno sentiti afferrare per la gola dai demoni (come in un romanzo di Dostoevskij).

     E tutta questa orribile carneficina per che cosa? “Perché non consumassero – scrive Erodoto – le loro vettovaglie.” I Babilonesi si preparano a un lungo assedio perché conoscono il valore di Babilonia, è ricca e fiorente, con i suoi famosi giardini pensili e i suoi templi dorati, sanno che Darlo non sarebbe indietreggiato e che avrebbe cercato ogni mezzo per vincerli.

     Il re persiano, appena informato della rivolta, passa subito all’attacco ed Erodoto ci mette al corrente:

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie III  151

(Dario) raccolte tutte le sue forze marciò contro di loro e, spintosi contro Babilonia, la assediò. Ma essi non si preoccupavano affatto dell’assedio. Salendo sui baluardi delle mura i Babilonesi danzavano e si facevano beffe di Darlo e del suo esercito, e uno di essi disse queste parole: “Perché, Persiani, ve ne state lì accampati e non vi allontanate? Perché allora ci prenderete, quando le mule partoriranno. (Le mule, come si sa, sono sterili).

     Erodoto ci racconta che i Babilonesi si fanno beffe di Dario e del suo esercito: “Ci prenderete – proclamano con sicurezza – quando le mule partoriranno”, cioè mai. Davanti a Babilonia sta schierato l’esercito più grande del mondo, si è accampato intorno alla città, circondata da possenti mura in mattoni di fango, alte vari metri e talmente larghe che sulla loro cima può passare un carro tirato da quattro cavalli affiancati. Nelle mura si aprono otto grandi porte e il complesso è circondato da un profondo fossato. Davanti a queste poderose mura l’esercito di Darlo si è fermato e i Babilonesi si sentono al sicuro: nessuno può fare nulla contro di loro.

     È comprensibile quindi che i Babilonesi, in piedi sui baluardi, “si facessero beffe di Dario e del suo esercito”, scrive Erodoto. Negli assedi delle antiche città la distanza tra i contendenti è così piccola che gli assediati e gli assedianti possono parlarsi. Gli assediati lanciano insulti e sfidano gli assedianti. Erodoto ci racconta nel III libro de Le Storie al capitolo 152 (di cui si consiglia la lettura) che, accostandosi alle mura, Dario può ascoltare le ingiurie e le invettive nei suoi confronti e scrive che: “Essendo trascorso un anno e sette mesi, ormai sia Dario che tutto l'esercito si affliggevano, non essendo in grado di vincere i Babilonesi. Ma qualche tempo dopo, le cose cambiano. Le cose cambiano quando entra in scena un personaggio. Erodoto scrive: “Allora nel ventesimo mese (di assedio) a Zopiro – questo è il nome del personaggio che Erodoto fa entrare in scena nel III libro de le sue Storie – accadde il seguente prodigio: una delle sue mule adibite al trasporto di viveri partorì”. I Babilonesi, per deridere i Persiani, ripetevano: “ci prenderete quando le mule partoriranno”, cioè mai. Ma un bel giorno una delle mule di Zopiro partorisce, e questo è un segno. Chi è Zopiro? Ora non c’è tempo per farci raccontare da Erodoto la storia di Zopiro, ormai è tardi. Zopiro è certamente uno dei “personaggi da romanzo” che incontriamo ne Le Storie di Erodoto. Ora noi possiamo solo domandarci: quale responsabilità (cresimìa) si assume questo personaggio nella guerra tra Dario e i Babilonesi?

     Lo sapremo la prossima settimana se ci assumiamo la responsabilità (cresimìa) di partecipare, se facciamo la scelta (èresis) di percorrere l’itinerario che verrà: la Scuola è qui…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 10, 2006