Autorizzazione all'uso dei cookies

LO SGUARDO DI ERODOTO SULLA “LEGGE DELLA MODERAZIONE ”…

Lezione N.: 
16

 Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2006               22-23-24  febbraio  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULLA “LEGGE DELLA MODERAZIONE ”…

     Ne Le Storie di Erodoto troviamo in diciassette capitoli la parola Tyche che significa “destino”. La parola “destino” è una delle parole-chiave più significative della Storia del Pensiero Umano: dove ci conduce – sulla scia di Erodoto – la parola “destino”?

     Noi ci siamo già resi conto del fatto che l’opera di Erodoto è il primo grande contenitore delle parole-chiave e delle idee significative che formano il catalogo degli albori della Storia del Pensiero Umano. L’opera di Erodoto allude alle parole e ai concetti più antichi della Storia della Cultura, che – a detta degli antropologi – sono: paura-bisogno, ritmo-ciclo, rete-rito, cerimonia-racconto.

     Il testo de Le Storie di Erodoto allude pure alle parole-chiave e alle idee significative delle prime grandi civiltà di quella che chiamiamo l’Età assiale della storia che è poi anche l’epoca in cui vive Erodoto, un’epoca di cui è il primo significativo testimone. Infatti l’opera di Erodoto allude alle parole-chiave della civiltà indiana come: desiderio, dolore, illusione, vanità. L’opera di Erodoto allude alle parole-chiave della civiltà cinese come: rettitudine, benevolenza, decoro, simpatia, modestia.

     E allora dove ci conduce – sulla scia di Erodoto – la parola “destino”? La parola “destino” allude a un’altra grande civiltà asiatica, quella che chiamiamo genericamente: la civiltà mesopotamica. La parola “destino”, nell’Età assiale della storia, ci porta in quella parte del territorio mesopotamico, tra i fiumi Tigri ed Eufrate, che viene chiamata la terra di Akkad, dove fiorisce la civiltà del popolo dei Sumeri.

     Ne Le Storie di Erodoto la parola Tyche, il “destino”, contiene i significati che sono stati elaborati dalla cultura mesopotamica dei Sumeri. Leggiamo una delle diciassette citazioni per renderci conto del fatto che, quando si parla del “destino”, si parla di una forza che incombe inesorabilmente con la sua potenza sfavorevole, ostile, svantaggiosa.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie IV  79

Ma poiché era destino che egli finisse male, fu questo il motivo che lo portò alla rovina. Gli venne il desiderio di essere iniziato ai misteri di Dioniso; sennonché mentre stava per incominciare la sua iniziazione avvenne un presagio gravissimo.

     Per capire di chi e di che cosa sta parlando Erodoto è necessario leggere un certo numero di capitoli del IV libro e questo (avete l’indicazione) potete certamente farlo per conto vostro. Noi adesso dobbiamo puntare la nostra attenzione sull’idea che, in origine, la parola “destino”, contiene. Anche la parola “destino” è molto coinvolgente ed evocativa. Di sicuro ciascuno di noi ha da dire, da comunicare, da esprimere la sua opinione su questa “parola”, e su questa parola, è necessario “riflettere”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole avvicinereste alla parola “destino” ?  

La patria, la religione, il lavoro, la famiglia, lo studio, la legge, la persona, la natura.

Scegliete una sola di queste parole e scrivetela

     Sappiamo che le parole sono dei “veicoli” straordinari e se il “destino” (se vogliamo giocare con le parole) ci ha portati qui (è il “destino” che ci ha fatto incontrare?), chissà dove ci porta adesso la parola “destino”? La parola “destino” ci porta dentro ad una straordinaria opera letteraria dell’Età assiale della storia. Il termine “destino” è infatti la parola-chiave di un “poema epico”, che rappresenta uno dei più antichi pezzi di scrittura che noi possediamo: L’epopea di Gilgamesh. L’epopea di Gilgamesh è un poema epico concepito nel III millennio a.C. e via via scritto su migliaia di tavolette d’argilla scoperte dagli archeologi alla metà del 1800 in Mesopotamia, in quella che era la terra dei Sumeri, alla confluenza dei fiumi Tigri ed Eufrate. Per avere un’idea più chiara della situazione geografica è utile consultare l’atlante e dare un’occhiata a questi luoghi.

     Che cosa racconta L’epopea di Gilgamesh? Molti di voi, che sono in viaggio da tempo su questi Percorsi, conoscono bene le forme e i contenuti di questo apparato letterario di cui risente anche il testo de Le Storie di Erodoto, e quindi, per un certo numero di studenti, questa parte dell’itinerario può servire da ripasso, ma è anche vero che ci sono molti nuovi viaggiatori che non conoscono ancora le forme e i contenuti de L’epopea di Gilgamesh ed è loro diritto acquisirli. D’altra parte è la prima volta per tutti che incontriamo la cultura mesopotamica – e L’epopea di Gilgamesh – filtrata attraverso l’opera di Erodoto, il quale, essendo nato e avendo viaggiato in Persia è influenzato da questa cultura, e questa influenza ricade sulla sua scrittura. Che cosa racconta L’epopea di Gilgamesh? L’epopea di Gilgamesh racconta la storia di un “personaggio” che possiamo considerare il primo eroe della letteratura. Chi è Gilgamesh, qual è la sua storia e soprattutto, che significato ha, nella Storia del Pensiero Umano, questo racconto mitico? Possiamo dire che la storia di Gilgamesh è una metafora eloquente della vita di ogni persona, e, quindi, questa storia ci appartiene. Gilgamesh è il re della città di Uruk, ed è un re molto ingiusto e gli abitanti della città, dopo averlo scelto (erano rimasti infatuati), chiedono agli dèi di essere liberati da lui. Gli dèi ascoltano la preghiera dei cittadini di Uruk e decidono di creare Enkidù. Chi è Enkidù? Intanto è la prima “spalla” della Storia della Letteratura, è il primo personaggio che completa il protagonista e con il quale forma una coppia indissolubile, e questo modello letterario diventerà fondamentale soprattutto nel genere del romanzo. Enkidù è il gemello di Gilgamesh, è il suo doppio che rappresenta la parte naturale e selvaggia dell’essere umano. Quando Gilgamesh ed Enkidù s’incontrano lottano furiosamente tra loro per una giornata intera senza che nessuno dei due prevalga. Mentre si trovano abbracciati nella lotta, un po’ stanchi, si guardano negli occhi, scoprono di assomigliarsi e non si riconoscono più come nemici. Diventano compagni inseparabili e vogliono fare ciò che, in seguito, tutti gli eroi vorranno fare: sconfiggere il male, liberare il mondo dal male. Gilgamesh ed Enkidù compiono insieme delle imprese straordinarie, ma anche degli atti trasgressivi nei confronti degli dèi che – in quanto gestori del potere – sono in complicità col male. E così Enkidù, per punizione, secondo il volere degli dèi, si ammala e dopo una straziante agonia, amorevolmente assistito da Gilgamesh, muore. Ma gli dèi, facendo morire Enkidù, vogliono soprattutto punire Gilgamesh. Gilgamesh soffre molto per questa perdita e sebbene sia disposto a tutto per ridare la vita all’amico, si rende conto che il male, che ha il suo tragico epilogo nella morte, è più potente. Gilgamesh cerca allora di conquistare il fiore dell’immortalità per riportare in vita il suo compagno (per ridare vita all’amicizia) ma non gli è possibile e capisce che il “destino” di ogni persona è quello di “non essere immortale” e comprende che questo limite esistenziale, la morte, è drammaticamente importante perché è l’elemento, la componente, il fattore che dà valore alla vita! Gilgamesh spera anche che ci sia un “al di là” ma riflette sul fatto che il nostro “destino” ce lo giochiamo in questa vita.

     Ecco dove troviamo, espressa per iscritto in modo rilevante, la parola “destino”, o meglio, l’idea del “destino”. L’epopea di Gilgamesh è veramente un poema affascinante e ora possiamo leggere il repertorio degli episodi più significativi.

LEGERE MULTUM….

Repertorio degli episodi de L’epopea di Gilgamesh

C’era una volta Gilgamesh. Egli proclamò al mondo le sue imprese.

A lui erano note tutte le cose, conobbe i paesi del mondo.

Era saggio, vide misteri, conobbe cose segrete.

Fece un lungo viaggio e lo consumò la fatica.

Dopo essersi riposato scrisse la sua storia incidendola su una tavola di pietra.

Gli dèi crearono Gilgamesh e gli diedero un corpo perfetto: il Sole gli diede la bellezza, la Tempesta gli diede il coraggio.

Egli era per due terzi un dio e per un terzo era un uomo.

Gilgamesh se ne andò per il mondo: era superiore a tutti gli uomini per bellezza e forza, in amore e in guerra.

Un giorno arrivò alla città di Uruk e ne diventò re.

Era un re violento, arrogante e praticava l’ingiustizia.

I suoi sudditi invocarono l’aiuto degli dèi contro di lui.

Gli Dei ascoltarono le preghiere degli abitanti di Uruk e crearono Enkidù: l’antagonista, la parte naturale e selvaggia di Gilgamesh, il suo doppio che viveva insieme agli animali.

La dea Aruru prima concepì nella sua mente l’immagine di Enkidù poi immerse le mani nell’acqua, prese un pezzetto di argilla e modellò il suo corpo.

In lui c’era il valore del dio della guerra, i suoi lunghi capelli ondeggiavano come quelli della dèa del grano, il suo corpo era coperto di pelo arruffato, come quello del dio del bestiame.

Enkidù ignorava l’esistenza degli altri uomini, ignorava la coltivazione della terra. Una sera, al tramonto, un cacciatore incontrò Enkidù: lo vide mentre distruggeva le trappole e liberava la selvaggina.

Il cacciatore terrorizzato da quell’incontro corse da suo padre che lo inviò in città a informare Gilgamesh.

Il re ascoltò il racconto del cacciatore e nella notte sognò Enkidù e provò per lui un’attrazione simile a quella che procura l’amore per una donna.

Il mattino seguente Gilgamesh inviò una donna, una prostituta del tempio di Ištar, la dèa della guerra e dell’amore, a sedurre Enkidù e a condurlo a Uruk.

La donna sedusse Enkidù che si accoppiò con lei e perse l’innocenza: la saggezza entrò in lui e i pensieri di Uomo entrarono nel suo cuore, gli animali non lo riconobbero più, era stato civilizzato e si avviò con la donna verso la città di Uruk per sfidare Gilgamesh.

Davanti alla porta principale della città Enkidù e Gilgamesh s’incontrarono e incominciarono a battersi fino al tramonto in uno spettacolare incontro di lotta terminato alla pari.

Stremati dalla fatica si guardarono negli occhi e nacque tra loro una grande amicizia e divennero inseparabili.

Enkidù parlò a Gilgamesh della misteriosa Foresta dei Cedri.

Essi partirono per conquistare la Foresta chiamata il Paese del Vivente.

Questo posto misterioso era sorvegliato dal gigante Humbaba che sputava fuoco. Enkidù e Gilgamesh uccisero Humbaba.

Gilgamesh trionfò bello e potente, così lo vide la dèa Ištar, che desiderò il suo amore e cominciò a corteggiarlo, ma Gilgamesh rifiutò l’amore della dèa.

Egli la accusò di aver trasformato i suoi precedenti mariti: uno in uccello a cui aveva spezzato le ali, uno in lupo a cui aveva spezzato i denti, uno in talpa a cui aveva cavato gli occhi.

Ištar, dea dell’amore e della guerra, si adirò molto e chiese a suo padre Anù di creare il Toro del Cielo per distruggere Gilgamesh ed Enkidù.

Ma Enkidù con un’impresa acrobatica uccise il Toro del Cielo e di conseguenza attirò su di sé il castigo degli dèi che egli vide in sogno riuniti a concilio.

Gli dèi decisero di far ammalare mortalmente Enkidù, ed gli allora maledisse i suoi civilizzatori: il cacciatore e la donna, e dopo una lunga agonia, assistito amorevolmente da Gilgamesh, morì.

Gilgamesh rimase solo, pianse e si disperò: la fine di questo rapporto di amicizia fu per lui insopportabile, l’esperienza della morte vanifica tutto, è la più grande sconfitta. Gilgamesh decise di mettersi a cercare la Fonte della Vita Eterna.

Lui sapeva che il custode della Fonte era un suo antenato, il superstite del Diluvio, a cui gli dèi avevano concesso di vivere alla Bocca dei Due Fiumi, egli veniva chiamato il Lontano e il suo nome era Utnapištim.

Dopo lunghe peregrinazioni per lande selvagge, lottando contro i leoni e uccidendoli, Gilgamesh arrivò alla casa di Siduri, una bella donna che viveva in mezzo alle sue vigne; il suo nome originale era Sobit, che significa l’Ostessa.

Ella offrì a Gilgamesh il vino e una vita gioiosa piena di divertimenti, ma lui non volle trattenersi.

Siduri istruì Gilgamesh su come attraversare l’Oceano.

Lo indirizzò dal barcaiolo Ursanabi, il Traghettatore, che fece approdare Gilgamesh al Giardino degli alberi dai frutti preziosi chiamato Dilmun.

Nel Dilmun Gilgamesh incontrò l’antenato Utnapištim che gli raccontò la storia del Diluvio.

Alla Fonte dell’Eterna Giovinezza Gilgamesh ricevette gli abiti che non mostrano segni d’invecchiamento e sperimentò l’ironica situazione di possedere beni materiali che sopravvivono al corpo.

Gilgamesh, dopo una lunga attesa, vide spuntare dal fondo marino la pianta con il Fiore dell’Eterna Giovinezza, ma il Serpente, subdolo e veloce, sgusciò dalla propria pelle e si mangiò la pianta dell’immortalità che avrebbe dovuto restituire la vita a Enkidù.

Gilgamesh pianse, si disperò e capì che cercare la vita eterna è come voler catturare il vento, capì che il destino dell’Uomo è quello di avere una vita che non duri in eterno.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ci sono tante scene significative nel repertorio de L’epopea di Gilgamesh.

Quale scena che vi ha colpito di più ? Quale scena, secondo voi, è più coinvolgente ?

Potete rispondere scrivendo (bastano quattro righe) o disegnando

     A questo punto noi ci domandiamo: perché Erodoto nella sua opera non menziona Gilgamesch? Probabilmente Erodoto non ha mai sentito nominare questo mitico personaggio in modo esplicito. E dobbiamo dire che L’epopea di Gilgamesch è un poema rituale, è un racconto cerimoniale e questo testo ha un valore liturgico, e noi sappiamo che le parole della liturgia sono patrimonio delle classi sacerdotali che le tengono celate sotto un velo di mistero. Ma il problema è un altro: L’epopea di Gilgamesch, scritta su tavolette di argilla, era conservata – ed è lì che gli archeologi l’hanno trovata alla metà dell’800 – nella famosa biblioteca di Assurbanipal o Sardanapalo nella città di Ninive. Assurbanipal o Sardanapalo (669-627 circa a.C.) è il re degli Assiri (i feroci Assiri?) i quali dopo aver sconfitto i Babilonesi hanno fondato un vasto impero. Vent’anni dopo però gli Assiri vengono vinti e assoggettati dal popolo dei Medi (più feroci degli Assiri?), i quali, al comando del loro re, Ciàssare, nel 606 circa a.C., distruggono Ninive e radono al suolo la famosa biblioteca di Assurbanipal e, migliaia e migliaia di tavolette d’argilla (i libri dell’epoca), rimangono sepolti per secoli, fino ai giorni nostri. Questi fatti avvengono circa centocinquant’anni prima di Erodoto e lui (e i suoi contemporanei) non sa nulla delle opere che erano contenute nella biblioteca di Assurbanipal.

     Erodoto ne Le Storie cita più volte – anche se in modo frammentario – questi personaggi: Assurbanipal, che lui chiama Sardanapalo, Ciàssare (lo cita in cinque capitoli del libro I), cita inoltre l’assedio di Ninive e racconta le guerre tra questi popoli – e se leggete l’opera di Erodoto potete rendervene conto.

     Gli unici che – in questo periodo – riescono a conoscere alcuni aspetti della storia di Gilgamesch sono gli scrivani ebrei in esilio a Babilonia (587-539 a.C.) i quali, essendo a servizio della classe sacerdotale babilonese, vengono a contatto con i temi della liturgia mesopotamica e li trasmettono – dopo averli assimilati – nel libro della Genesi; però anche loro non citano mai esplicitamente il personaggio di Gilgamesch (questi temi dell’Antico Testamento, prossimamente, li dovremo ristudiare).     

     Il repertorio de L’epopea di Gilgamesh rivela un’idea che da allora ci accompagna: l’idea del “destino”. Ne L’epopea di Gilgamesh, il “destino” è un principio che sovrasta gli individui, una forza che l’essere umano non può governare, e neppure gli dèi possono opporsi al destino, e questo concetto, ricorre ne Le Storie di Erodoto. La parola “destino” nella lingua dei Sumeri si dice: “me”. Come è nata l’idea del “me”, l’idea del “destino ingovernabile”? Quando i nostri antenati hanno cominciato a pensare che tutto dipendesse da questa forza misteriosa che ci sovrasta? Questa idea è nata – come regolarmente accade, ci dicono gli antropologi – dall’incontro tra la natura e la cultura. Abbiamo constatato sulla carta geografica che la Mesopotamia è (lo dice la parola stessa) una terra “tra due fiumi”, il Tigri e l’Eufrate, e ogni tanto questi due fiumi, con periodicità irregolare, si gonfiano d’acqua perché a nord, dove ci sono le loro sorgenti – nei monti dell’Armenia  (lì c’è anche il famoso monte Ararat) – piove più del solito e, di conseguenza, senza preavviso, grandi ondate di piena si scaricano, centinaia di chilometri più a sud, sulla pianura abitata dai Sumeri, spazzando via città e villaggi. Periodicamente, quindi, inaspettato, si verifica questo fenomeno catastrofico che è stato chiamato: il “diluvio”. La storia del “diluvio” (che tutti noi conosciamo attraverso la letteratura dell’Antico Testamento) la troviamo raccontata per la prima volta ne L’epopea di Gilgamesh, e, come abbiamo già accennato, gli scrivani ebrei – in esilio a Babilonia – hanno utilizzato ampiamente i racconti della cultura mesopotamica per comporre il libro della Genesi.

     Inoltre dobbiamo fare un’ulteriore riflessione di carattere filologico tenendo conto che, per la cultura dei Sumeri, il fenomeno del “diluvio” – e di conseguenza l’idea del “destino” – risulta direttamente collegato al fiume, ai fiumi. In greco, nel greco ionico di Erodoto, la parola “fiume” si dice “potamos” e se la analizziamo – sostiene una corrente filologica – troviamo nella parola “potamos” due elementi: il termine “póton” che significa “bevanda, ciò che viene bevuto”, e il termine “mos o me” che conserva l’eco della cultura mesopotamica, e noi sappiamo che la parola “me” definisce il destino. Quindi l’espressione greca arcaica póton me, il fiume significherebbe letteralmente: “l’oggetto, lo strumento, con cui beve il destino”. Giocare con le parole è divertente, stimola l’ingegno e soprattutto è un utile esercizio in funzione della didattica della lettura e della scrittura.  

     Il “diluvio” – l’alluvione disastrosa che periodicamente si abbatte sul territorio dei Sumeri – travolge tutto, persone, animali, cose, e questa catastrofe inaspettata viene attribuita al “me”, al “destino”, un principio che sovrasta gli individui, una forza che l’essere umano non può governare, e alla quale neppure gli dèi possono opporsi. Coloro i quali sopravvivono a queste catastrofi, i “Salvati dalle acque”, quelli che il “destino” ha risparmiato, sono considerati dei privilegiati (dei predestinati) e sono chiamati a ricominciate da capo la Storia. Gilgamesh nel dilmun (nel giardino dell’Eden) incontra il suo antenato Utnapištim, il cui nome significa “salvato dalle acque”, ed è la stessa figura di Noé.

     I Sumeri calcolano il tempo da un “diluvio all’altro” e pensano, quindi, che la loro Storia sia governata dal “destino”. Il “destino governa la Storia”, ma, se ragioniamo possiamo dire che anche la Natura e la Storia stessa influenzano e, di conseguenza, condizionano il “destino”. Se il “destino” subisce dei condizionamenti, anche il “nostro destino personale” è soggetto a subire dei condizionamenti?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Secondo voi, quale di queste cose può aver condizionato più delle altre il vostro “destino” personale: i vostri genitori, il vostro luogo di nascita, la volontà di Dio, la scuola che avete frequentato, le vostre scelte personali, le amicizie che avete avuto, l’amore per una persona, le regole dello Stato, un avvenimento storico ?  

Leggete, riflettete, scegliete (possibilmente) una sola risposta e scrivetela…

     È vero che i condizionamenti che riguardano il nostro destino ci fanno pensare al passato, ma l’idea del destino non è fondamentalmente legata al passato. La parola “destino” è legata all’idea di “futuro”. Erodoto, ne Le Storie, allude molte volte all’idea di “futuro”. Cos’è il futuro? Il “futuro” è una cosa verso la quale noi tutti siamo diretti, e quindi, volendo allargare il concetto, il futuro è esattamente la nostra vita, è il nostro destino (la nostra destinazione).

     Attenzione, dobbiamo ancora una volta giocare con le parole: sarà anche casuale ma in greco, nel greco ionico di Erodoto, la parola “futuro” (che traduce anche la parola “avvenire” e la parola “domani”) si dice: “méllon”. Ormai siamo tutti in grado di individuare – come ci suggeriscono i filologi – il termine “me” di derivazione mesopotamica accompagnato dal termine “yllon” che significa: “nella direzione”. Probabilmente, nel greco ionico di Erodoto, il significato arcaico della parola futuro, méllon, corrisponde all’espressione: “nella direzione del destino”. È naturale, dunque, che ognuno di noi guardi alla propria vita nella maniera migliore possibile e speri in un “destino” favorevole, benigno, benevolo. Spesso la gente – ancora oggi – si rivolge a qualcuno che possa predire il futuro. Quello che si dovrebbe fare – e che si capisce anche leggendo Le Storie di Erodoto – è che bisognerebbe imparare non a “predire” il futuro ma a “prevenire” il futuro, o meglio, a costruirlo. Predire il futuro è troppo facile – c’insegna Erodoto – perché si può imbrogliare con le parole (l’Oracolo lo fa): bisogna pretendere di più, bisogna pretendere di meglio, che la predizione del futuro. Oggi si accetta ancora l’esistenza dei “futurologi” ed Erodoto allude spesso al fatto di non appartenere e di non voler appartenere a questa categoria. Erodoto allude e – tra le righe della sua opera – lo sentiamo affermare: «Io non prevedo il futuro, non ho mai avuto né l’ambizione di farlo né le possibilità, io ho cercato di prevenire il futuro, di imparare dagli errori del passato per cercare di evitare che questi errori siano ripetuti in futuro, e come ho cercato di fare questo? Scrivendo il mio libro, i miei racconti, cercando di raccontare agli altri quello che deve e può essere evitato. E tutti noi possiamo farlo, attraverso l’educazione, attraverso l’apprendimento». Le cose più importanti – ci fa sapere Erodoto – per assicurare a noi stessi e ai nostri eredi un futuro, un futuro migliore, sono l’educazione e l’apprendimento. Tutti noi abbiamo un’idea del futuro – e del “destino” – che è particolarmente affascinante, perché immaginiamo un mondo che, nonostante quello che vediamo e leggiamo ogni giorno, è senza dubbio migliore. Il pensiero di Erodoto, che emerge leggendo Le Storie, non è quello di un ottimista ma è quello di una persona che coltiva l’interesse per la vita. Erodoto pensa che sia possibile un futuro migliore, capisce che tutti gli esseri umani – indipendentemente dalla loro nazionalità – lo abbiano sempre desiderato un futuro migliore ed è convinto che l’Umanità nel suo complesso sia riuscita gradualmente a costruire un futuro migliore. Erodoto non è un ottimista ma è anche consapevole del fatto che la vita in passato – per lui prima dell’Età assiale della storia – è stata certamente peggiore: gli esseri umani hanno ottenuto buoni risultati nella loro evoluzione, e noi non possiamo dire altrimenti. Gli esseri umani hanno inventato oggetti meravigliosi (deinòs), hanno vissuto spingendosi sempre avanti e hanno migliorato le condizioni di vita su questo pianeta anche per le generazioni che sono venute dopo, e che hanno continuato su questa strada. E quando gli individui hanno scelto strade sbagliate – allude Erodoto scrivendo Le Storie – altri individui li hanno combattuti. Erodoto non sa come sarà il futuro (non prevede che cosa riserverà il destino), Erodoto prevede (nel senso di “annuncia”) il passato, e cerca di prevenire il futuro, sa che ci sono molte cose che possono essere fatte, proprio perché in passato gli esseri umani ne hanno fatte altre, spesso più complicate e difficili di quelle che oggi dobbiamo affrontare. Erodoto,  nella direzione del futuro, manda il suo libro…

     E sulla scia di questa riflessione incontriamo un romanzo che s’intitola Fahrenheit 451 scritto nel 1953 da Ray Bradbury. Questo scrittore è nato nel 1920 nell’Illinois, nel 1934 si è trasferito con la famiglia a Los Angeles (suo padre era un elettricista che andava in cerca di lavoro), e nel 1939, fonda una piccola rivista di fantascienza sulla quale comincia a pubblicare i suoi racconti e quelli di altri scrittori. Questa piccola rivista attira l’interesse di molti lettori. Nel 1950 Ray Bradbury pubblica il suo primo volume di racconti intitolato Cronache marziane il quale ha un largo successo di pubblico. A partire dagli anni sessanta Bradbury lavora come sceneggiatore cinematografico senza però mai abbandonare la letteratura e numerose sono le sue opere ma il suo romanzo più significativo (per il tema di grande attualità che tratta) è appunto Fahrenheit 451. Che cosa significa questo titolo?

     Daniel Gabriel Fahrenheit è un fisico tedesco (nato a Danzica nel 1686 e morto a L’Aia nel 1736) che ha costruito il primo termometro a mercurio e ha messo a punto una scala per misurare la temperatura che ha preso il suo nome: la scala Fahrenheit. Fahrenheit 451 è la temperatura che fa incenerire i libri. Il romanzo Fahrenheit 451 racconta che in una indeterminata e supertecnologica civiltà del futuro, un regime totalitario, che vuole garantire la “felicità” dei sudditi, vieta severamente di detenere e di leggere libri e chiunque sia trovato in possesso di un libro viene arrestato e i libri e la sua casa vengono bruciati da Vigili del Fuoco incaricati, anziché a spegnere, ad appiccare incendi. Il protagonista Montag è, dapprima, uno zelante esecutore, ma quando incontra una ragazza considerata “pazza”, la quale turba profondamente le sue convinzioni, a poco a poco comincia a nutrire dubbi sul suo lavoro di annientatore di libri. Lo scenario che presenta questo romanzo di fantascienza è singolare perché non ci sono né alieni né astronavi, né marchingegni né armi mirabolanti e gli incendiari usano semplicemente del cherosene. Lo scenario disegnato da Fahrenheit 451 presenta un mondo oppressivo che dovrebbe garantire il benessere universale e invece produce una persecuzione dell’intelligenza che potrebbe minacciarci davvero e che, in un certo senso, già ci perseguita, e, questo mondo dispotico – descritto da Bradbury – produce il fenomeno della morte della cultura, un fenomeno che, per molti versi, possiamo riconoscere nella società in cui viviamo. Alla morte della cultura corrisponde nel romanzo il trionfo della distruzione: quando la cultura scompare prevale la rovina prima delle menti e poi dei corpi. Ancora oggi l’aspetto più importante di questo libro è la denuncia per la possibile morte della cultura e quindi la denuncia del pericolo che corre la Civiltà. Fahrenheit 451 termina con una flebile speranza e quindi questo romanzo non può essere considerato pessimista: Bradbury dipinge un futuro di censure e controlli terribili ma rende protagonisti soprattutto coloro i quali si oppongono alla censura e al controllo, difatti questo racconto intende prevenire il futuro cercando di “accendere” l’amore per i libri, o meglio per il “pensiero” contenuto nei libri.

     Uno degli scopi della letteratura – come già ci fa capire Erodoto – è proprio quello di provare non ad immaginare il futuro ma a costruirlo in maniera migliore, e i libri sono indispensabili per questo programma di sviluppo intellettuale. Leggiamo alcune pagine che ci presentano la prima parte dell’incontro e della conversazione tra Montag – che, come distruttore di libri, è ormai entrato in crisi – e il vecchio professor Faber, uno che ha conosciuto l’era dei libri (per questo Montag lo va a cercare) e che, sebbene spaventato e sfiduciato, sta costruendo qualcosa.

LEGERE MULTUM….

Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (1953)

«Chi è?»

«Montag.»

«Che cosa volete?»

«Entrare.»

«Non ho fatto nulla!»

«Ma se sono solo, accidenti!»

«Lo giurate?»

«Ma sì, ve lo giuro!»

... continua la lettura ...

     Si consiglia, se volete, di continuare la lettura, questo testo è facilmente reperibile.

     Vi ricordate il re Creso? Ricordate la sua ambizione di possedere tutte le ricchezze del mondo: tonnellate d’oro e d’argento racchiuse in miriadi di forzieri? Ricordate la sua cieca fiducia nell’Oracolo di Apollo? Ricordate la sua ribellione contro il destino che lo condanna a pagare per la colpa di un antenato che lui neanche sapeva di avere? La scorsa settimana abbiamo incontrato Creso punito e umiliato, ma il destino ce lo fa incontrare ancora. Creso lo vediamo rispuntare nel Libro I de Le Storie.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Creso lo vediamo rispuntare nel Libro I de Le Storie, di cui si consiglia la lettura dal capitolo 201 al capitolo 216 (l’ultimo del Libro I)… 

     Questa volta Erodoto ci presenta Creso in compagnia del re Ciro che lo ha sconfitto, lo ha punito, lo ha umiliato ma lo ha anche riabilitato. Creso è al fianco di Ciro il quale, alla testa dell’esercito persiano, muove all’attacco “del grande e valoroso popolo dei Massageti – scrive Erodoto – situato a oriente, verso il levar del sole, al di là del fiume Arasse”. Il popolo tribale dei Massageti – durante l’Età assiale della storia – è dislocato lungo (quello che oggi si chiama) il fiume Amu Darja (o Amudarja), nel cuore dell’Asia centrale. Questo fiume – lo potete cercare sull’atlante – è lungo 2600 km, nasce dai monti del Pamir e segna un tratto del confine tra l’Afaganistan e il Tagikistan e sfocia con un ampio delta nel lago d’Aral, nell’antichità questo imponente corso d’acqua viene chiamato Oxus (Arasse lo chiama Erodoto) ed è navigabile per molti tratti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Andate a navigare anche voi sull’Amu Darja (Amudarja), nell’antico territorio dei Massageti, buon viaggio…

     Siamo nel VI secolo a.C. e i Persiani, sul piede di guerra, conquistano il mondo. Hanno già sottomesso gli Ioni e gli Eoli, conquistato Mileto, Alicarnasso e innumerevoli colonie greche dell’Asia settentrionale. Hanno sconfitto i Medi e i Babilonesi e ora Ciro muove all’attacco di uno Stato tribale situato su quelli che allora sono considerati i limiti del mondo. Ma questo smodato desiderio di diventare il padrone del mondo, che già ha causato la caduta di Creso, provocherà anche la disfatta di Ciro. Il destino – ci ricorda Erodoto – castiga l’avidità insaziabile dell’uomo e di conseguenza la forza distruttrice del destino (l’ondata catastrofica del “me”) si abbatte proprio quando l’individuo non modera la sua sete di potere. Ciro è deciso a sottomettere i Massageti e si dirige verso nord, verso il cuore dell’Asia. La spedizione non sorprende nessuno, e a questo proposito possiamo leggere due frammenti tratti dai capitoli 190 e 204 del libro I de Le Storie, e voi potete poi leggerli integralmente per conto vostro.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie I  190-204

Tutti sapevano bene già da prima che Ciro non sarebbe rimasto tranquillo, ma lo vedevano dar l’assalto ugualmente ad ogni popolo Molte e rilevanti ragioni lo spingevano e lo incitavano, prima di tutto la nascita e il credere di essere più che uomo (credeva di essere come un dio), in secondo luogo la fortuna avuta nelle guerre: infatti dovunque Ciro si volgesse a guerreggiare, era impossibile per quel popolo scampare. …

     I Massageti – ci racconta Erodoto – vivono nelle grandi steppe pianeggianti dell’Asia centrale e anche sulle isole del fiume Amu Darja, dove d’estate scavano e mangiano radici d’ogni genere, mentre i frutti che trovano sugli alberi li mettono da parte per la stagione invernale. Apprendiamo da Erodoto che i Massageti fanno uso di droghe e sono i primi sniffatori documentati, leggiamo questo fatto curioso:

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie I  202

Inoltre avrebbero scoperto altri alberi i cui frutti hanno questa proprietà: i Massageti, dopo essersi riuniti in gruppi in uno stesso luogo ed aver acceso il fuoco, sedutisi in circolo li gettano sul fuoco e aspirando mentre il frutto brucia si inebriano con l’odore allo stesso modo che i Greci col vino, e gettando sul fuoco più frutti si inebriano di più, finché si alzano per danzare e cantare.

     Erodoto ci racconta che al vertice dello Stato tribale dei Massageti c’è una regina che si chiama Tomiri. Tomiri e Ciro sono i protagonisti di un cruento dramma nel quale anche Creso ha la sua parte, ed Erodoto naturalmente (sulla scia di Sofocle ed Euripide) non si lascia sfuggire l’occasione di mettere in scena – con la sua prosa elegiaca – la tragedia. Ciro esordisce con l’inganno: finge di voler sposare Tomiri. Ma la regina intuisce le vere intenzioni del re di Persia, sospettando che egli desideri non lei, ma il suo regno. Ciro, visto che il piano non funziona, decide un attacco armato contro i Massageti e raggiunge il fiume Amu Darja alla testa dei suoi eserciti.

     Erodoto, nel suo racconto, mette in evidenza che da Susa, la capitale persiana, alle rive dell’Amu Darja, la strada è lunga e difficile, anzi non esiste neppure una strada vera e propria: bisogna scavalcare valichi montuosi, attraversare il rovente deserto del Karakum e percorrere steppe aride senza fine. Un’impresa che a noi ricorda la spedizione (1812) di Napoleone contro Mosca. Sia i Persiani (di cui ci racconta Erodoto) sia i Francesi (di cui ci racconta Leone Tolstòj in Guerra e pace) sono guidati dalla stessa passione di dominare, conquistare, possedere, ma non hanno fatto i conti con il “destino” che punisce chi coltiva desideri smodati.

     Perché i Persiani, nonostante la loro forza, vengono sconfitti in questa guerra contro i Massageti e lo stesso Ciro perde la vita (dovrebbe essere l’anno 529 a.C.) nella terribile battaglia finale? Inoltre Erodoto, da storico corretto, ci fa sapere che ci sono altre versioni sulla morte di Ciro, noi conoscano la versione di Senofonte e quella di Ctesia. Ciro – ci racconta Erodoto – viene sconfitto per non avere rispettato la legge della moderazione: non volere mai troppo, non desiderare mai tutto. Nel greco ionico di Erodoto la parola “moderazione” si traduce “métron”. E “nómos métrou”, in greco è la “legge della moderazione” che il “destino” vuole sia osservata.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola “moderazione” ha molti significati…

Quale di queste parole: autocontrollo, prudenza, freno, equilibrio, misura, discrezione, voi mettereste per prima accanto alla parola “moderazione” ? Scrivetela …

     Ma Ciro, il Re dei Re, si getta nell’impresa accecato dalla brama di conquista che toglie ogni facoltà di giudizio e annienta la ragione, e il “destino” lo punisce. D’altra parte – afferma Erodoto – se il mondo fosse governato solo dalla ragione, non esisterebbe la tragedia e di conseguenza neppure la storia. La spedizione di Ciro si svolge in modo drammatico: in montagna i soldati esausti precipitano dalle rocce, molti di loro muoiono di sete nel deserto, alcuni reparti si perdono nelle steppe. A quel tempo non esistono mappe, bussole, binocoli, segnali stradali, bisogna per forza informarsi presso le tribù incontrate lungo il cammino, interrogare, reclutare guide e, forse, consultare gli oracoli. Tra mille difficoltà il grande esercito persiano avanza infaticabile e talvolta (secondo l’usanza persiana) sospinto con la frusta. L’unico a godere di tutti i confort in questo viaggio infernale è Ciro, leggiamo che cosa scrive Erodoto:

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie I  188

Il Gran Re (Ciro) partì ben provvisto di viveri e di bestiame della sua patria, e portò con sé perfino l’acqua del fiume Coaspe che scorre presso Susa, perché il re beve solo da questo e da nessun altro fiume. Dovunque egli vada, moltissimi carri a quattro ruote tirati da muli lo seguono, portando in vasi d’argento l’acqua del Coaspe bollita

     A Erodoto questo dato dell’acqua bollita pare interessante e ci fa capire che lo considera come una trasgressione della “legge sulla moderazione”, è infatti un’esagerazione pretendere “acqua bollita”, in una situazione come quella, e per giunta conservata in recipienti d’argento (l’argento mantiene il fresco) in previsione del deserto da attraversare. Da una parte Erodoto ci mostra i carri carichi d’acqua a disposizione del Gran Re, dall’altra i soldati che muoiono di sete. I soldati muoiono mentre i carri con l’acqua bollita del re proseguono senza fermarsi. A questo punto Erodoto ci fa sapere che, in quel corteo, di re ce ne sono due: il grande Ciro che comanda e il piccolo Creso detronizzato, appena sfuggito alla morte sul rogo alla quale il re dei Persiani l’aveva condannato. Quali sono adesso i loro rapporti? Secondo Erodoto sono rapporti cordiali, ma come fa a saperlo?

     Ciro e Creso – ci racconta Erodoto, che probabilmente ha raccolto delle informazioni in proposito (questi avvenimenti sono successi circa cinquant’anni prima che lui nascesse) – viaggiano sullo stesso carro con le ruote, i mozzi e il timone ricoperti d’oro, e forse tutto quell’oro fa venire a Creso qualche nostalgia dei suoi tempi migliori. Che cosa si dicono Ciro e Creso? E come fanno a capirsi visto che non parlano la stessa lingua? Usano un’interprete? E poi che cosa possono dirsi? Il viaggio si protrae per mesi e mesi e prima o poi si resta a corto di argomenti, soprattutto se si tratta di due persone chiuse e introverse, come ci racconta Erodoto. Che cosa succede ogni volta che Ciro ha voglia di bere? I servi – che devono essere davvero gente fidata – portano una brocca d’argento e che cosa fa Ciro: se la beve da solo, oppure ne offre un po’ anche a Creso? Erodoto non dice niente al riguardo, eppure si tratta di un dettaglio cruciale: nel deserto, senz’acqua non si sopravvive. Forse i due non viaggiano insieme, forse anche Creso ha la sua riserva personale d’acqua, un’acqua qualsiasi e non necessariamente (di marca) proveniente dal fiume Coaspe. Ma di tutto questo siamo destinati a non sapere niente, poiché Creso riappare sulle pagine di Erodoto solo quando l’esercito persiano raggiunge il grande fiume Amu Darja. Ciro, non essendo riuscito a possedere la regina Tomiri, le ha dichiarato guerra e comincia le operazioni facendo gettare sul fiume ponti di barche per traghettare il potente esercito. Ma mentre è occupato in questi lavori, Tomiri gli invia un araldo con un messaggio che contiene parole sagge per invitarlo a riflettere su quello che sta facendo, leggiamole:

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie I  206

Mente Ciro era occupato in queste operazioni Tomini mandò un messo a dirgli: «O re dei Medi, cessa il lavoro cui ti stai dedicando con tanto zelo, poiché tu non puoi sapere se questa impresa si compirà per tuo vantaggio; desisti invece, regna sui tuoi sudditi e sopporta di vederci comandare sui nostri. Ma certo tu non vorrai seguire questi consigli e tutto vorrai piuttosto che startene tranquillo. Suvvia dunque, se tanto desideri misurarti con i Massageti, abbandona il faticoso lavoro che stai facendo di gettar ponti sul fiume e, quando i miei soldati si siano ritirati dal fiume di tre giorni di marcia, entra nel nostro paese. Se poi preferisci accogliere noi nel tuo, fa’ lo stesso tu».

     Udito ciò, Ciro convoca il consiglio degli anziani e li interpella sul da farsi. Tutti concordano nell’invitarlo a retrocedere e ad accogliere Tomiri con il suo esercito sulla riva persiana del fiume per trattare la pace. Tutti gli anziani consigliano a Ciro questa soluzione, una sola voce è contraria: quella di Creso. Creso abborda la questione in tono filosofico tirando in ballo il “destino” che si sta dimostrando favorevole nei confronti di Ciro: quando il “destino” è favorevole lo chiamiamo “fortuna”, ma in greco le due parole coincidono nell’unico termine: Tyche. Creso avverte Ciro che la “fortuna”, il “destino favorevole”, in questo momento è dalla sua parte ma, in un prossimo futuro, potrebbe abbandonarlo e in questo caso le cose si metterebbero male. Gli consiglia quindi di passare subito sull’altra riva del fiume e lì – avendo sentito che i Massageti non conoscono la ricchezza dei Persiani e le comodità della vita –suggerisce di preparare un grande banchetto con pecore arrosto e con abbondanti crateri di vino puro e con tanti cibi d’ogni sorta. Dopo aver mangiato e bevuto – secondo Creso – i Massageti si addormenteranno ubriachi e i Persiani potranno catturarli. Ciro accetta il piano di Creso. Tomiri si ritira dal fiume e gli eserciti persiani entrano nei territori massageti.

     Erodoto ci fa sapere che Ciro – dopo tutti questi discorsi sul “destino” – non è più tanto sicuro di sé, per giunta ha fatto un brutto sogno che lo rende ansioso per la vita di suo figlio Cambise per cui il giorno dopo lo rispedisce in Persia facendolo accompagnare da Creso. Ciro segue i consigli di Creso, e noi ci domandiamo: sarà tutta una manovra di Creso per vendicarsi della sconfitta e delle umiliazioni patite? Su questo punto Erodoto non si pronuncia. Sta di fatto che Ciro lascia come esca sulla riva la parte meno valida del suo esercito da usare come carne da macello e che, nello scontro con l’avanguardia massageta, viene puntualmente massacrata. Ma leggiamo le parole di Erodoto.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie I  211

I Massageti sterminata la retroguardia persiana e vedendo il banchetto imbandito si misero a banchettare e, riempitisi di cibo e di vino, s’addormentarono. Allora i Persiani, avanzatisi, molti ne uccisero e ancora molti di più li presero vivi, e fra gli altri anche il figlio della regina Tomiri, comandante dei Massageti, che aveva nome Spargapise

     Informata di ciò che è accaduto al suo esercito e a suo figlio, Tomiri invia a Ciro un altro messaggio, leggiamolo:

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie I  212

Rendimi il figlio e vattene da questa terra impunito, pur avendo tu oltraggiato la terza parte dell’esercito dei Massageti. Ma se non farai questo, giuro per il Sole signore dei Massageti che certo, anche se tu sei insaziabile di sangue, io ti sazierò.

     Sono parole dure e minacciose, di cui però Ciro non tiene conto. Inebriato dalla vittoria, si rallegra di aver raggirato Tomiri e di essersi vendicato di colei che ha rifiutato le sue offerte. In quel momento la regina non sa ancora quale disgrazia l’abbia colpita, e cioè che suo figlio Spargapise, appena si rende conto di essere caduto prigioniero del nemico, si uccide. Scorrendo questi capitoli del Libro I – che siete invitati a leggere per intero – ci rendiamo conto di come il genere letterario della tragedia entri in gioco ne Le Storie di Erodoto proprio in concomitanza con il tema del “destino”. Erodoto “allude” e ci pone ancora una volta di fronte alla domanda: che cos’è la Storia? La Storia è anche “tragedia”? Chissà quante altre definizioni che riguardano la Storia (sempre accompagnate da un punto interrogativo) incontreremo strada facendo: definizioni su cui riflettere per far crescere il catalogo dei nostri pensieri.

     La fiera regina Tomini – la quale assomiglia ai personaggi femminili di Sofocle e di Euripide – raduna le forze del suo popolo e si scontra con i Persiani. Erodoto scrive: “Questa battaglia io ritengo sia stata la più violenta di quelle combattute dai Barbari (per Barbari intende i non-greci)” (I, 214).

     Dapprima i due eserciti si scagliano l’uno contro l’altro, e dopo avere esaurite le frecce, passano alle lance e poi ai pugnali e al corpo a corpo. All’inizio le forze sono pari, poi, gradualmente, prevalgono i Massageti. I Persiani vengono uccisi quasi tutti e tra i caduti c’è anche Ciro. Nel capitolo 214 del libro I de Le Storie di Erodoto assistiamo alla madre di tutte le scene tragiche: il campo di battaglia è coperto dai cadaveri di entrambi gli eserciti e in mezzo al campo, con un otre vuoto tra le mani, si aggira la regina Tomiri. Passa da un corpo all’altro e raccoglie il sangue che sgorga dalle ferite ancora aperte dei caduti finché l’otre non è colmo. Anche Tomini gronda essa stessa di sangue umano. Fa caldo: la regina si passa le mani sporche sul viso, trasformando il suo volto in una maschera insanguinata: siamo nel pieno della tragedia, nel mezzo del rituale dionisiaco. Tomiri si guarda intorno alla ricerca del corpo di Ciro, finalmente lo trova e noi lasciamo che sia Erodoto a riferirci, attraverso il testo de Le Storie, la battuta finale di questa tragedia.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie I  214

Come (Tomiri) ebbe trovato il corpo di Ciro disse: «Sebbene io sia in vita e ti abbia vinto in battaglia tu mi hai rovinata catturando mio figlio con l’inganno, ora io ti sazierò, come ti avevo promesso». E oltraggiando il cadavere introdusse la sua testa nell’otre colmo di sangue. 

     Noi non sappiamo se queste scene appartengono alla “storia” o alla “leggenda”, a Erodoto interessa ribadire un concetto: chi non rispetta la legge della moderazione, in greco “nómos métrou”, il “destino” lo punisce.

     Attenzione quindi a rispettare la legge della moderazione. C’è solo una cosa su cui non dobbiamo moderarci, c’è una cosa che dobbiamo fare senza moderazione, sapete qual è? Venire a Scuola! Chi viene sempre a Scuola, tutte le settimane, con autocontrollo, con prudenza, con equilibrio, con discrezione e con misura – allude Erodoto – è premiato dal “destino”. Questo è uno di quei casi in cui l’eccezione conferma la regola, quindi non moderatevi: la totalità degli italiani, in fatto di Scuola, si modera (sebbene circa 22 milioni di cittadini – tanto è il numero dei semi-analfabeti cronici – ne avrebbero urgente bisogno). Voi sapete – anche Erodoto lo sa – che la saggezza sta nel riconoscere di “sapere di non sapere”, quindi: non moderatevi e correte a Scuola, la Scuola è qui

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 24, 2006