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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’È IL PAESAGGIO INTELLETTUALE DEI MITI PARALLELI ALLA STORIA ...

Lezione N.: 
15

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale     15-16-17  febbraio 2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’È IL PAESAGGIO INTELLETTUALE DEI MITI PARALLELI ALLA STORIA ...

     Siamo a metà strada del nostro Percorso e ci stiamo muovendo su un impervio sentiero che ci dà la possibilità di attraversare il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. Questo sentiero, ricco di saliscendi – e oggetto sensibile al pendolo della Storia per cui ci capita di andare avanti e indietro cronologicamente nel trattare i temi di studio –, continua a costeggiare due grandi paesaggi intellettuali dei quali stiamo studiando i complessi argomenti in essi contenuti.

     Il primo paesaggio che continuiamo a costeggiare in questo viaggio – come ormai ben sapete – è un vasto spazio leggendario, antico e misterioso, che le studiose e gli studiosi di filologia hanno chiamato il “mondo di Janus”. Questo spazio, come sapete, contiene elementi culturali aborigeni, della più antica tradizione latina [il dio Janus, il dio Saturno, la ninfa Carna, la dèa Vesta], che si sono integrati con elementi di importazione provenienti dalla cultura orfico-dionisiaca di origine ellenica propagatisi, dal VI secolo a.C., in tutta l’area mediterranea attraverso le migrazioni: il mitico “mondo di Janus” è lo spazio più arcaico in cui avviene – in un dialettico e complesso rapporto di amore e odio, di attrazione e repulsione – l’integrazione tra la cultura latina e la cultura greca e per questo motivo è un paesaggio intellettuale provvisto di una notevole pregnanza culturale.

     Abbiamo capito nel corso dei nostri itinerari – questa sera stiamo per percorrere il quindicesimo – che non è un’impresa facile definire il “mondo di Janus” perché il potere costituito, il Senato romano, ha sempre cercato [nella sua lungimiranza] di stendere un velo sugli aspetti più reconditi di questa cultura aborigena chiamata “ianuaria”. Noi sappiamo che le “mitiche narrazioni” – a cominciare da quelle dell’Età assiale: della cultura sumera, egizia, assiro-babilonese, vedica [indiana], taoista [cinese], zarathustriana, a quelle della cultura beritica dell’Antico Testamento e della tradizione greca orfico-dionisiaca – contengono sempre questioni che emergono da conflitti sociali in corso che, di solito, il potere costituito vuole rimuovere. Il tema che emerge con più evidenza dallo spazio mitico del “mondo di Janus” è quello che riguarda la questione della “condizione femminile”, una questione che si pone “da principio” e che nel “mondo di Janus” si caratterizza, prima di tutto, per tre parole significative: la porta, le chiave e il bastone.

     Mi direte: “ma sono quattro mesi che stiamo girando intorno a queste parole! Secondo voi sono state decodificate, elaborate, metabolizzate queste parole – con i loro significati reconditi – nella società in cui viviamo? Dovremmo domandarci perché la riflessione culturale su questi termini-cardine – da cui dipendono le dinamiche fondamentali della vita di relazione – continui ad essere rimossa! E, se non ora, quando ci dovremmo riflettere? Se non ora, quando? Questi tre termini – la porta, le chiave e il bastone – bisogna analizzarli bene perché sono fortemente ambigui e hanno una doppia valenza: possono rappresentare la chiusura, la violenza e la negazione della libertà così come possono raffigurare l’apertura, la tutela e l’autodeterminazione; e si fa presto a rigirare la frittata e a far passare per “regina della casa” una reclusa che elargisce servizi di prima qualità al posto dello Stato senza alcuna retribuzione e con la pretesa che debba anche “voler bene” a tutti quelli che le stanno intorno! È una tragedia questa o è una commedia?

     Difatti il secondo paesaggio intellettuale che abbiamo osservato, direttamente collegato al primo, riguarda l’importante fenomeno con cui ha inizio la Letteratura latina: il teatro. E, a questo proposito, abbiamo incontrato tre importanti personaggi, tre famosi autori di teatro: Tito Maccio Plauto, Cecilio Stazio e Publio Terenzio Afro. Con l’opera di questi tre personaggi – Plauto, Stazio e Terenzio – la “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” è come se cominciasse a venir fuori dall’acquitrino del “mitico mondo di Janus” e a collocarsi su un territorio più elevato in modo che la “cultura ianuaria [aborigena, latina degli albori]” possa essere osservata e interpretata nel bene e nel male.

     Per prendere il passo sull’itinerario di questa sera dobbiamo ricordare che nel corso del II secolo a.C., dopo il 165 a.C. [dopo Plauto, Stazio e Terenzio] e poi fino a tutto il I secolo a.C., a Roma si sviluppa un nuovo modo di fare teatro. Sappiamo che il teatro diventa un genere di spettacolo non più di massa ma che coinvolge, in zone riservate, un segmento minoritario, la parte più riflessiva della popolazione, per cui il controllo della censura diventa più blando e nasce una nuova forma di rappresentazione che prende il nome di “commedia di ambiente romano [la togata]” nella quale i personaggi femminili diventano spesso protagonisti di un’azione scenica che porta in primo piano le “questioni di genere [ce ne sono diverse in ballo]” e sappiamo che il teatro, dal tempo della tragedia greca, dal VI secolo a.C. [la Letteratura teatrale latina nasce nel III secolo a.C. in integrazione con quella greca, e lo abbiamo studiato] fa sempre emergere ciò che cova sotto traccia nella società.

     Attraverso i pochi frammenti che ci sono rimasti delle “commedie di ambiente romano [le togate]” s’intuisce, per esempio, che le madri – alle quali viene richiesta o, per meglio dire, imposta, per legge, una dedizione assoluta – sono portate a constatare che la maternità non è un fatto naturale come impongono le convenzioni, ma ci sono momenti durissimi, sentimenti di inadeguatezza, pulsioni oscure [questo tema è ancor oggi di grande attualità: genitori si diventa]. E così l’essere fratelli, sorelle o l’essere figli non comporta un automatico volersi bene: l’humanitas – la più significativa parola-chiave che, per ora, abbiamo incontrato e di cui abbiamo studiato la prima fase del suo sviluppo – non si acquisisce se non con la “paideia paideia”, termine greco che significa: “istruzione, formazione culturale, educazione”.

     I maggiori scrittori delle “commedie di ambiente romano [le togate]” sono Titinio, Lucio Afranio e Tito Quinzio Atta e noi li abbiamo incontrati la scorsa settimana [ricordate?] insieme al grande attore Ròscio e ad un altro personaggio con il quale adesso prendiamo il passo per avanzare sul nostro sentiero, in modo da percorrere l’itinerario di questa sera. Stiamo parlando – come sicuramente ricordate – di Lucio Ambivio Turpione: un attore, un impresario teatrale, il fondatore del cosiddetto “teatro intellettuale” e anche autore di testi teatrali che purtroppo non ci sono pervenuti.

     A questo proposito sapete che è stato Cicerone, ancora una volta, a dirci qualcosa di interessante, di molto interessante in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Cicerone – come senz’altro ricordate – è entrato in corrispondenza con noi attraverso l’opera intitolata De officiis [I doveri]. Sapete che Cicerone scrive il De officiis [I doveri] nel 44 a.C. [è un anno caldo, è l’anno della morte violenta di Cesare e dell’inizio della fine della Repubblica] ed è il suo ultimo trattato filosofico-morale perché Cicerone muore l’anno dopo, nel 43 a.C. a Formia, in circostanze drammatiche, ma ne parleremo strada facendo; questo trattato è stato redatto da Cicerone in uno stato di estrema afflizione esistenziale, uno stato che, però, lo ha motivato positivamente nella scrittura.

     Il De officiis [I doveri] – ed è bene ricordarlo anche se ne abbiamo già studiato le caratteristiche la scorsa settimana – è un’opera esemplare che ha esercitato un influsso fondamentale sull’etica del Medioevo, dell’Umanesimo e dell’epoca moderna e contemporanea, e potremmo consideralo una sorta di “prefazione” ai testi delle odierne Costituzioni democratiche. La natura stessa – secondo Cicerone – ci ha affidato un ruolo in base al quale noi, in quanto persone, dobbiamo fare i conti con il nostro dovere individuale [officium] e con i nostri doveri sociali [officia]: facendo questo realizziamo la vera “humanitas” [e abbiamo studiato la valenza di questo termine e la prima fase dello sviluppo di questo importante concetto-cardine della Storia del Pensiero Umano].

     Noi, però, abbiamo puntato l’attenzione su quest’opera di Cicerone a proposito delle significative considerazioni di carattere letterario con le quali lo scrittore riesce a dare un’impronta poetica – siamo nel territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” – a molte pagine del suo trattato. Spesse volte, quando vuole sostenere un ragionamento filosofico, Cicerone fa ricorso alla Letteratura e, nel tempo, questi interventi [come abbiamo già potuto constatare] sono diventati molto utili perché sono serviti [e molte volte sono risultati determinanti] nel lavoro di ricerca delle studiose e degli studiosi di filologia.

     Sappiamo già che cosa c’è di interessante nel testo del De officiis [I doveri] che ha attirato la nostra attenzione! Cicerone, in questo trattato filosofico-morale, arricchisce il discorso esortativo rivolto al figlio Marco con una citazione che riguarda il teatro romano del II secolo: un argomento sul quale siamo ben informate e ben informati. Cicerone – come sappiamo – è un appassionato di teatro, secondo lui [e la pensa come Aristotele] il teatro è un’arte che possiede un valore educativo e catartico. Sappiamo che Cicerone, nel testo del De officiis [I doveri], fa riferimento a Lucio Ambivio Turpione e ne parla come attore, come impresario teatrale, come primo autorevole rappresentante del cosiddetto “teatro intellettuale” e anche come raffinato autore, e – abbiamo detto la scorsa settimana – che se Cicerone, a questo proposito, non lo avesse citato nel suo trattato a noi sarebbe venuto a mancare il sentiero sotto i piedi e invece ora la pista è segnata.

     Cicerone, come sappiamo – mentre nel testo del De officiis [I doveri] espone il tema della “fedeltà al dovere” esortando, in proposito, suo figlio Marco – racconta la trama di un dramma scritto da Lucio Ambivio Turpione il cui testo, e anche il titolo che Cicerone non cita, è andato perduto. Cicerone fa questa citazione per spiegare che, quando si richiede ad una persona di fare il proprio dovere, bisogna pensare che non sempre le buone azioni doverose vanno a buon fine perché ci sono altri, non ligi al dovere, che propendono per realizzare ad ogni costo il loro interesse personale facendo saltare il contratto sociale e, quindi, con severità, devono intervenire le Leggi.

     La pagina del De officiis [I doveri] di cui stiamo parlando l’abbiamo già letta otto giorni fa in finale di itinerario, e ora la rileggiamo, ma prima dobbiamo mettere in evidenza gli aspetti allegorici che contiene. Questa pagina funziona come se fosse una bussola che ci orienta verso la didattica della lettura e della scrittura.

     Cicerone riassume nel testo del De officiis [I doveri] la trama di un dramma scritto da Lucio Ambivio Turpione e in questo compendio ci colpisce il fatto che la protagonista [che è una vecchia nutrice] si chiami Vesta: questo nome è particolarmente evocativo e non poteva essere pronunciato sui palcoscenici perché ufficialmente il Senato ne voleva garantire la sacralità ma, in realtà, non lo si poteva citare questo nome perché, inevitabilmente, sollevava i molti temi scottanti contenuti nella “questione femminile” che, a Roma, si dava per non esistente. Leggendo il riassunto [e tra poco lo rileggeremo] della trama del dramma, che Cicerone scrive in modo poetico – Cicerone si è anche cimentato come poeta epico –, possiamo prendere atto del carattere che aveva il teatro di Lucio Ambivio Turpione: in questo dramma l’autore ha inserito una serie di allegorie provocatorie che, certamente, ne rendevano il testo particolarmente trasgressivo, anche se, come sappiamo, non era neppure più necessario sfidare la censura perché ormai il teatro era diventato uno spettacolo per un numero limitato di persone, rispetto alle masse che riempivano le piazze per dilettarsi con gli “spettacoli [de spectaculis]”.

     Lucio Ambivio Turpione dà il nome di Vesta alla nutrice perché questa dèa, come sappiamo, è il modello ideale che tutte le donne romane devono seguire. Però l’autore fa fare una brutta fine al suo personaggio, ricordate? La Vesta del dramma si lascia morire, portar via dalla corrente del fiume – non ha più le caratteristiche di una ninfa – si toglie la vita perché, forse, si sente responsabile, si sente in colpa nonostante abbia fatto il proprio dovere fino in fondo! Quale danno – allude l’autore, e con lui anche Cicerone allude – siamo riusciti a fare alle donne con l’addestramento al sacrificio: quello di istigarle al suicidio? La vecchia nutrice Vesta si sente in colpa per aver allevato dei mostri: i ragazzi che ha nutrito sono violenti, arroganti, distruttori. Ma non devono essere così i valorosi combattenti romani, conquistatori del mondo?

     I due ragazzi allevati da Vesta sono gemelli: e la mente corre ai mitici fondatori della città, e al fatto che la città nasce da un fratricidio. Questo mito non lo abbiamo ancora incontrato e dobbiamo sapere che è successivo al “mondo di Janus” e questa narrazione fa parte dei cosiddetti “miti paralleli”: un tema di vasta portata che dobbiamo ancora affrontare. Anche la lupa, alla quale l’autore affida la narrazione degli eventi, è una figura successiva al “mondo di Janus” appartenente ai cosiddetti “miti paralleli”. Peccato che il testo di questo dramma è andato perduto perché sarebbe stato interessante conoscere il punto di vista della lupa. Possiamo fare un’ipotesi e possiamo pensare che forse la lupa si sarà domandata: ma la nutrice chi la deve fare, la devo fare io, figura del “mito parallelo” o la deve fare Vesta, la dèa del mitico “mondo di Janus”? E i Romani sono figli di Vesta o sono figli della lupa? E che cosa succede se queste due figure si sovrappongono?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dove ricordate di aver visto l’immagine della lupa che allatta i gemelli?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Lucio Ambivio Turpione è stato probabilmente un efficace autore di teatro: un provocatore, nel senso che stimola a riflettere e se ha ispirato Cicerone significa che l’analisi che stiamo facendo è fondata.

     Ora rileggiamolo il brano del De officiis [I doveri] dove Cicerone – in modo allusivo –riassume la trama del dramma perduto di Lucio Ambivio Turpione e noi ci possiamo esercitare a riconoscere le metafore, in esso contenute, che abbiamo messo in evidenza.

LEGERE MULTUM….

Marco Tullio Cicerone, De officiis [I doveri]

E allora, mio caro Marco, perché tu capisca quanto il senso del dovere sia già inscritto nella nostra tradizione ti ricordo l’evocativo dramma di Lucio Ambivio Turpione, l’esponente più autorevole di quel teatro intellettuale di cui c’è sempre stato molto bisogno in una società che voglia riflettere. In quest’opera l’ambiente è quello di una vasta proprietà terriera, c’è una grande casa padronale con attorno le più modeste abitazioni degli schiavi che lavorano nei poderi della fattoria. I padroni sono due sagge e buone persone che hanno due figli gemelli ormai grandi i quali non sono, però, buoni e tolleranti come i loro genitori: sono prepotenti e crudeli soprattutto con i loro servitori. Lo sono un po’ meno con la loro vecchia nutrice dalla quale sono stati allevati che è la protagonista del dramma e che si chiama Vesta e che non si dà pace che questi due giovani, che hanno succhiato il suo latte da neonati e sono stati due bambini dolci e giudiziosi, siano diventati così malvagi, capaci di distruggere qualsiasi sentimento umano.

I due fratelli più crescono e più si odiano vicendevolmente e cominciano, benché i loro genitori siano ancora vivi e capaci nel governo della casa, a contendersi l’eredità e vorrebbero anche impossessarsi del patrimonio di famiglia che è contenuto in un forziere sotto forma di gioielli preziosi e di monete d’oro accumulate con la fruttuosa vendita del grano negli anni.  I due figli diventano talmente aggressivi che i genitori, impauriti, affidano segretamente, perché la conservi, la chiave del robusto forziere alla vecchia nutrice Vesta perché è l’unica alla quale i due portano ancora un po’ di rispetto, e lei fa il suo dovere e, per sicurezza, cuce la chiave nell’orlo della sua tunica.     I due ingrati figli, refrattari ai doveri e dediti ai bagordi e alla violenza, aggrediscono i genitori costringendoli, per salvare la vita, a rifugiarsi lontano dalla masseria, nella foresta, ai margini della loro grande proprietà ospiti di accoglienti pastori.

I due fratelli, divenuti padroni, cercano invano la chiave del forziere e si accusano l’un l’altro di averla rubata e nascosta, e litigano, e in una di queste violente liti, mentre la nutrice cerca di dividerli, di farli ragionare, uno dei due uccide l’altro. Gli schiavi, allora, si ribellano e uccidono anche il fratello superstite che li aveva sempre tiranneggiati e vorrebbero loro, rimasti senza guida, impossessarsi della ricchezza del forziere ma la vecchia Vesta nega di sapere dove sia la chiave e poi parte per raggiungere i padroni, per metterli al corrente della tragedia avvenuta e per invitarli a tornare al loro posto: li raggiunge dopo aver camminato per diversi giorni, sempre seguita a debita distanza da una lupa alla quale l’autore ha affidato la narrazione dell’apologo. La lupa, fiutando l’odore dell’onestà di Vesta, non l’assale perché chi onora i doveri semina il Bene che dà armonia a tutta la Natura.

Giunta esausta, la vecchia Vesta, accolta con ammirazione dai padroni, li mette al corrente del dramma, li conforta pure, e riconsegna loro la chiave che lei ha custodito e, infine, compiuta la sua missione, raggiunge la riva del fiume che scorre lì vicino e lascia che il suo corpo, vecchio e stanco, si abbandoni nelle sue acque gelide e profonde. 

Il senso del dovere, o Marco, che è fortemente radicato nelle nostre umane lettere, deve radicarsi anche nei nostri cuori. Nella fattoria del dramma non c’è posto per i sentimenti umani, nemmeno per i più elementari perché la sopraffazione del più prepotente sui più deboli diventa l’unico legame sociale, così come succede in una stalla mal governata dove sarà sempre l’animale più ingordo a prevalere, sarà sempre il maiale più vorace a vincere.

     Ci sarebbero ancora molte interessanti considerazioni da fare su questo brano come quella che riguarda l’allegoria che si trova nel finale e che, per ora, lasciamo in sospeso: la metafora del maiale vorace. Una metafora che – secondo la natura del nostro Percorso – rimanda alla didattica della lettura e della scrittura. Adesso possiamo solo domandarci: a chi sta pensando Cicerone [il più deciso oppositore del Triumvirato, in quanto istituzione fittizia, cioè accordo privato tra potenti], chi è il “maiale più vorace”? È Antonio o è Ottaviano? Lepido è fuori gioco e, quindi, è difficile che Cicerone stia pensando a lui: ma questa è un’altra storia nella quale c’imbatteremo strada facendo.

     Adesso dobbiamo occuparci del primo dei due più importanti argomenti di carattere filologico che riguardano questo brano. La citazione che Cicerone fa del dramma di  Lucio Ambivio Turpione prevede che in questo frammento sia contenuta una “ipotesi di sviluppo letterario”. Che cosa significa, e che cosa s’intende per “ipotesi di sviluppo letterario”? Se il testo del dramma di Lucio Ambivio Turpione, di cui Cicerone ha riassunto la trama, è andato perduto può essere possibile che qualche autrice o qualche autore lo abbia riscritto? Non risulta che quest’opera sia stata riscritta per far rivivere proprio quella originale che è andata perduta, però alcuni elementi dedotti dal riassunto di Cicerone sono stati utilizzati e sono diventati segmenti fondamentali per dare forma a racconti che fanno pensare si possa avvalorare un’“ipotesi di sviluppo letterario”. Possiamo fare un esempio in proposito? Possiamo fare un significativo esempio in proposito, non sappiamo però se l’autore, o meglio, la scrittrice, che stiamo per incontrare, fosse al corrente del compendio fatto da Cicerone. C’è da dire che la scrittrice, alla quale stiamo alludendo, ha frequentato il Liceo e l’Università e perciò ha avuto la possibilità di farsi una “cultura classica” e, di conseguenza, è molto probabile che abbia letto il De officiis [I doveri] di Cicerone e sia stata attratta dalle numerose citazioni letterarie che inserisce nel testo.

     Stiamo parlando di una scrittrice che conosciamo bene e le cui opere sono in via di ripubblicazione da qualche anno: Irène Némirovsky. La scrittrice Irène Némirovsky la conosciamo bene, l’abbiamo incontrata recentemente e questo perché ha assunto una posizione di primo piano sulla scena culturale europea. Per conoscere ancora meglio Irène Némirovsky dobbiamo dire che sono uscite una serie di biografie su di lei che ne ripercorrono l’esistenza ed è necessario segnalare la traduzione in italiano e la pubblicazione della biografia che era la più attesa, quella che, da oltre un ventennio, stava scrivendo la figlia minore di Irène Némirovsky, Élisabeth Gille, e che s’intitola Mirador. Irène Némirovsky, mia madre. Si tratta di un’opera molto particolare: non è una classica biografia ma bensì un originalissimo auto-ritratto della madre “sognato” dalla figlia. Per Élizabeth Gille, anche se ha lavorato nel mondo dell’editoria, non deve essere stato facile scrivere questo libro perché non è facile confrontarsi con il modello materno. Poi non è stato facile scrivere questo libro perché il rapporto filiale di Élisabeth con sua madre si è interrotto a soli cinque anni quando Irène viene arrestata, per essere deportata nel campo di concentramento di Auschwitz dal quale non tornerà mai più. All’età di quarantacinque anni Élisabeth decide di affrontare la sfida, di uscire dal trauma e di “ripensare” sua madre mettendo in scena tanto se stessa quanto lei. Per il suo personaggio ritaglia un piccolo ruolo scrivendo pochi brevi testi che inframmezzano con dolorosa tenerezza la tumultuosa vicenda dì Irène, ripercorsa in tutte le tappe decisive, a cominciare dall’infanzia, prima a Kiev – dove Irène Némirovsky è nata nel 1903 – e poi a San Pietroburgo.

     La vita di Irène Némirovsky è segnata dai successi finanziari del padre, il commerciante ebreo Léon Némirovsky e dall’odiosa figura di una madre avida di soldi e di avventure erotiche e arida di sentimenti, ed è anche segnata dal rapporto piuttosto problematico con la comunità ebraica d’appartenenza. Élisabeth racconta che Irène cresce imbevuta di cultura russa ma anche soprattutto di cultura francese e già da bambina si reca spesso in Francia, quindi le sembrerà di essere nuovamente a casa quando, dopo la tempesta rivoluzionaria del 1917, l’intera famiglia Némirovsky vi andrà ad abitare dopo essere scappata dalla Russia attraverso la Finlandia. In Francia Irène Némirovsky diventa, dal 1929, con l’uscita della sua prima opera, una famosa scrittrice e ogni suo romanzo o racconto che viene pubblicato ottiene un successo clamoroso.

     Ma lo scenario circostante sta cambiando rapidamente e anche nella civilissima Francia monta un antisemitismo feroce e alla Némirovsky non basterà la fama di scrittrice per evitare l’orrore dei campi di sterminio. Dovranno passare cinquant’anni perché quella scrittura, e quella vita, vengano amorevolmente risarcite da una figlia che Irène non ha mai visto crescere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quindi in biblioteca potete richiedere il libro intitolato “Mirador. Irène Némirovsky, mia madre” di Élisabeth Gille e leggerlo…

     Ma perché abbiamo incontrato Irène Némirovsky? Abbiamo incontrato Irène Némirovsky perché nel 1931 ha scritto un breve romanzo intitolato Come le mosche d’autunno. E perché c’interessa quest’opera? Perché nel testo di questo racconto ci sono una serie di elementi che coincidono con l’“ipotesi di sviluppo letterario” fatta da Cicerone quando ha scritto il riassunto del dramma di Lucio Ambivio Turpione che poi è andato perduto.

     La protagonista del romanzo intitolato Come le mosche d’autunno è una vecchia nutrice che si chiama Tat’jana Ivanovna, la quale, all’inizio della narrazione, traccia il segno della croce sopra la slitta che porta via, nella notte gelata, i due fratelli che lei ha allevato, Jurij e Kirill, che partono per la guerra. Poi sarà lei a rimanere di guardia alla grande tenuta dei Karin, i signori da cui è a servizio da cinquantun anni, quando questa famiglia è costretta a fuggire a causa della Rivoluzione, ed è ancora lei ad accogliere Jurij quando tornerà dal fronte sfinito e braccato e ad assistere alla sua morte violenta. Poi, senza perdersi d’animo, con una forza incredibile sebbene sia anziana, cammina tre mesi per raggiungere i padroni, che si sono rifugiati ad Odessa, per consegnare loro i diamanti che ha nascosto cuciti nell’orlo della gonna. Grazie a queste pietre preziose i Karin possono pagarsi il viaggio fino a Marsiglia e proseguire poi per Parigi. Nel piccolo appartamento buio dove vanno a vivere, la vecchia nutrice, che è stata testimone del loro splendore, che li ha curati e amati per due generazioni con generosità e senso del dovere, vede i Karin girare a vuoto, “come fanno le mosche in autunno quando, finita la gran luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate”. Sembra che nessuno di loro voglia ricordare ciò che è stato, solo lei ricorda: quel mondo, che è andato a fuoco sotto i suoi occhi, le manca, le mancano gli inverni sarmatici, il fiume ghiacciato, la grande tenuta feudale, la casa. La vecchia nutrice Tat’jana Ivanovna decide di comportarsi allo stesso modo della nutrice Vesta nel dramma di Lucio Ambivio Turione.

     Ma la cosa migliore da fare – indipendentemente dalle coincidenze tra il dramma di Lucio Ambivio Turpione riassunto da Cicerone nel De officiis [I doveri] e il racconto di Irène Némirovsky – è leggere il testo di questo romanzo sulla scia della didattica della lettura e della scrittura.

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno

Scrollò la testa e disse, come una volta: «Dunque addio, Juročka  …  Mi raccomando, abbi cura della tua salute, caro».

Come vola il tempo Da ragazzino, ogni qualvolta, in autunno, partiva per il liceo di Mosca, andava a salutarla, in quella stessa stanza. Da allora erano passati dieci, dodici anni

Guardò la sua divisa da ufficiale con una sorta di stupore, di malinconica fierezza. «Ah, Juročka, tesoro mio, sembra solo ieri…».

Tacque, facendo con la mano un gesto sconsolato. Era a servizio dai Karin da cinquantun anni. Era stata la balia di Nikolaj Aleksandrovič, il padre di Jurij, e dopo di lui aveva tirato su i suoi fratelli e le sue sorelle, poi i suoi figli Si ricordava ancora di Aleksandr Kirillovič, ucciso durante la guerra di Turchia nel 1877, trentanove anni prima E adesso toccava ai ragazzi, a Kirill e Jurij, partire anche loro per la guerra

Sospirò, tracciò sulla fronte di Jurij il segno della croce. «Va’, Dio ti proteggerà, caro»

«Ma sì, njanjuška…» disse lui, con un sorriso beffardo e rassegnato. Aveva una faccia da contadino, piena e sana. Non somigliava agli altri membri della famiglia. Prese fra le sue le mani della vecchia, minute, dure come corteccia, quasi nere, e fece per portarle alle labbra.

Lei arrossì, le ritrasse di scatto. «Sei matto? Non sono mica una bella ragazza! Adesso va’, Juročka, scendi Giù stanno ancora ballando».

«Addio, Tat’jana Ivanovna» disse lui con la sua voce strascicata, dalle inflessioni ironiche e un po’ indolenti. «Addio. Ti porterò uno scialle di seta da Berlino, se mai riuscirò ad arrivarci - ma ne dubito -, e nell’attesa ti spedirò da Mosca una pezza di stoffa come regalo per l’anno nuovo».

Lei si sforzò di sorridere, stringendo di più le labbra, rimaste sottili come un tempo ma serrate e rientranti, come risucchiate dalle vecchie mascelle. Era una donna di settant’anni, dall’aspetto fragile, di bassa statura, con un’aria vivace e sorridente; a volte lo sguardo era ancora acuto, a volte stanco e trasognato. Scosse la testa. «Prometti tante cose tu, e tuo fratello ne promette altrettante. Ma laggiù vi scorderete di noi. Dio voglia soltanto che tutto si concluda in fretta, e che voi ritorniate entrambi. Che dici, finirà presto questa maledizione?».

«Certo. Presto e male».

«Non si scherza su queste cose!» replicò lei con foga. «Tutto è nelle mani di Dio».

Si allontanò, si mise in ginocchio davanti alla valigia aperta.

«Puoi dire a Platoška e a Pëtr di salire a prendere i bagagli quando vogliono. È tutto pronto. Le pellicce e i plaid sono già dabbasso. Quando partite? È mezzanotte».

«Ci basta essere a Mosca domani mattina. Il treno parte alle undici».

Lei sospirò, scuotendo il capo nel suo solito modo.

«Ah, Gesù, che Natale triste».

Al piano di sotto qualcuno suonava al pianoforte un valzer rapido e leggero; si sentivano i passi dei ballerini sui vecchi pavimenti in legno e il tintinnio degli speroni. Jurij fece un cenno con la mano. «Addio, njanjuška, scendo».

«Va’, anima mia».

Rimase sola. Si mise a piegare gli indumenti bofonchiando: «Gli stivali Il vecchio nécessaire in guerra può ancora servire Ho dimenticato qualcosa? Le pellicce sono giù…».

Allo stesso modo, trentanove anni prima, quando era partito Aleksandr Kirillovič, aveva messo in valigia le uniformi, se lo ricordava bene, mio Dio Era ancora al mondo la vecchia cameriera, Agafìja E lei era giovane, allora Chiuse gli occhi, emise un profondo sospiro, si rialzò a fatica.

«Vorrei proprio sapere dove sono quelle canaglie di Platoška e Pet’ka» borbottò. «Dio mi perdoni. Oggi sono tutti ubriachi». Raccolse lo scialle che le era caduto a terra, si coprì i capelli e la bocca e scese le scale. L’appartamento dei ragazzi si trovava nella parte antica della casa. Era una bella dimora, dalla nobile architettura, con un grande frontone greco ornato di colonne; il parco si estendeva fino al vicino comune di Sucharevo. In cinquantun anni Tat’jana Ivanovna non se n’era mai allontanata. Di quella casa, dove tante generazioni si erano avvicendate, lei era la sola a conoscere tutti i ripostigli, le cantine, le buie stanze abbandonate del pianterreno che un tempo erano state locali di rappresentanza.

Attraversò rapidamente il salone. Kirill la vide e la chiamò ridendo: «Allora, Tat’jana Ivanovna? Se ne vanno, i tuoi tesorucci?».

Lei aggrottò la fronte, ma rispose con un sorriso: «Va’ là, va’ là, Kirilluška, che a te un po’ di vita dura non ti farà certo male…».

Al pari di sua sorella Loulou, Kirill aveva la bellezza, gli occhi scintillanti, l’aria crudele e felice dei Karin di un tempo.

Loulou stava ballando il valzer tra le braccia di suo cugino Černysev, un liceale di quindici anni. Lei ne aveva compiuti sedici il giorno prima. Con quelle guance rosee, accese per la danza, le trecce brune, folte, raccolte intorno alla testa minuta in una sorta di corona scura, era davvero incantevole.

«Il tempo, il tempo,» pensava Tat’jana Ivanovna «ah, mio Dio, non ti rendi conto di come passa in fretta, finché un bel giorno ti accorgi che i bambini ti superano di tutta la testa Anche Lulička è una ragazza grande ormai Mio Dio, sembra ieri che dicevo a suo padre: Non piangere, Kolin’ka, tutto passa, tesoro mio. E adesso è un vecchio…».

Proprio in quell’istante Nikolaj Aleksandrovič le si parò dinanzi insieme a Elena Vassilievna. Non appena lui la vide, trasalì e mormorò: «È già ora, Tat’januška? I cavalli sono pronti?».

«Sì, è ora, Nikolaj Aleksandrovič. Faccio caricare le valigie sulla slitta».

Lui abbassò la testa, si morse leggermente le labbra pallide e sottili.

«Di già, mio Dio? Allora cosa ci vuoi fare? Va’, va’…».

Si girò verso la moglie, accennò un sorriso, e con la sua solita voce strascicata e calma disse: «Non è così, Nelly? Suvvia, mia cara, credo che sia proprio arrivato il momento».

Si guardarono senza dir nulla. Con un gesto nervoso lei si gettò la sciarpa di pizzo nero intorno al collo lungo e flessuoso, l’unica bellezza della sua gioventù rimasta intatta, insieme agli occhi verdi, scintillanti come l’acqua.

«Vengo con te, Tat’jana».

«Ma perché?» disse la vecchia alzando le spalle. «Prenderete solo freddo».

«Non fa niente» mormorò lei con insofferenza.

Tat’jana Ivanovna la seguì in silenzio. Attraversarono la piccola galleria deserta. Un tempo, quando Elena Vassilievna si chiamava contessa Eleckaja e nelle notti d’estate veniva a raggiungere Nikolaj Karin nel padiglione in fondo al parco, era da quella porticina che i due entravano nella casa addormentata Ed era lì che lei, al mattino, incontrava talvolta la balia La vedeva ancora ritirarsi al suo passaggio e farsi il segno della croce. Tutto ciò ora sembrava remoto, lontano, come un sogno bizzarro. Dopo la morte di Eleckij, lei aveva sposato Karin All’inizio l’ostilità di Tat’jana Ivanovna l’aveva spesso infastidita e addolorata Era giovane, allora. Adesso era diverso. Le accadeva di spiare, con una sorta di ironico, mesto piacere, gli sguardi della vecchia, i suoi moti di ritrosia, di pudore, come se lei fosse ancora la peccatrice adultera che corre agli appuntamenti sotto i vecchi tigli Della sua giovinezza le restava questo, almeno.

A voce alta le chiese: «Non hai dimenticato niente?».

«Ma no, Elena Vassilievna».

«Sta nevicando forte. Fai mettere altre coperte nella slitta».

«Non vi preoccupate».

Spinsero la porta della terrazza che si aprì a fatica, cigolando nella neve alta. La notte gelida era pervasa da un sentore di abeti ghiacciati e di fumo lontano. Tat’jana Ivanovna si legò lo scialle sotto il mento e corse fino alla slitta. Era ancora bella diritta e svelta come ai tempi in cui girava per il parco, al crepuscolo, in cerca di Kirill e Jurij bambini. Elena Vassilievna chiuse un attimo gli occhi e rivide i suoi due figli maggiori, i loro volti, i loro giochi. Kirill era il suo prediletto. Era così bello, così felice Per lui trepidava più che per Jurij. Amava appassionatamente tutti i suoi figli.Ma Kirill Ah, era brutto pensare cose del genere

«Mio Dio, proteggili, salvali, concedici di invecchiare circondati da tutti i nostri ragazzi Ascoltami, Signore! Tutto è nelle mani di Dio» mormorava intanto Tat’jana Ivanovna.

La vecchia salì i gradini della terrazza scrollandosi di dosso i fiocchi di neve rimasti impigliati nelle maglie dello scialle. Le due donne rientrarono nel salone. Il pianoforte taceva. I giovani parlavano fra loro a mezza voce, in piedi al centro della stanza.

«È ora, figli miei» disse Elena Vassilievna.

Kirill fece un cenno con la mano.

«Va bene, mamma, veniamo subito Un ultimo bicchiere, signori».

Bevvero alla salute dell’imperatore, della famiglia imperiale, degli alleati, e alla distruzione della Germania. Dopo ogni brindisi gettavano a terra le coppe, e i lacchè raccoglievano in silenzio i frantumi. Gli altri domestici aspettavano nella galleria.

Quando i due ufficiali passarono davanti a loro, ripeterono tutti insieme, come una lugubre lezione imparata a memoria: «Allora addio, Kirill Nikolaevič Addio, Jurij Nikolaevič». Solo uno, il vecchio cuoco Antip, che era sempre triste e ubriaco, chinò il testone grigio sulla spalla e aggiunse meccanicamente, con voce forte e roca: «Che Dio vi conservi in buona salute».

«I tempi sono cambiati» borbottò Tat’jana Ivanovna. «Una volta, quando i barin, i padroni, partivano I tempi, sono cambiati e gli uomini pure».

Seguì Kirill e Jurij sulla terrazza. La neve cadeva fitta. I lacchè sollevarono le lanterne accese, illuminando le statue all’ingresso del viale, due Bellone scintillanti di ghiaccio e di brina, e il vecchio parco immobile nel gelo. Tat’jana Ivanovna tracciò un’ultima volta il segno della croce in direzione della slitta e della strada; i due giovani la chiamarono, e ridendo le porsero le guance ardenti, schiaffeggiate dal vento della notte.

«Coraggio, vecchia mia, addio, conservati in buona salute, torneremo, non aver paura…».

Il cocchiere afferrò le redini, emise una specie di grido, di strano fischio acuto, e i cavalli si avviarono. Uno dei lacchè posò a terra la lanterna e sbadigliò. «Voi rimanete qui, nonnina?».

La vecchia non rispose, e i lacchè rientrarono. Lei vide spegnersi a una a una le luci della terrazza e del vestibolo. In casa, Nikolaj Aleksandrovič e i suoi ospiti erano tornati a sedersi intorno al tavolo della cena. Nikolaj Aleksandrovič prese distrattamente una bottiglia di champagne dalle mani di un lacchè.

«Perché non bevete?» mormorò a fatica. «Bisogna bere». Riempì con cautela i bicchieri che gli ospiti tendevano verso di lui; gli tremavano leggermente le dita. Un uomo massiccio, con i baffi tinti, il generale Sedov, gli si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: «Non state in pena, mio caro. Ho parlato a Sua Altezza. Veglierà su di loro, potete contarci».

Nikolaj Aleksandrovič alzò impercettibilmente le spalle. Anche lui era andato a San Pietroburgo. Aveva ottenuto lettere e udienze. Aveva parlato con il granduca. Come se questi potesse impedire le pallottole, la dissenteria «Quando i figli sono cresciuti, non resta che incrociare le braccia e lasciar fare alla vita Invece ci si agita ancora, si corre, illudendosi di poter Figuriamoci Sto diventando vecchio,» pensò all’improvviso «vecchio e pusillanime. La guerra? Dio mio, a vent’anni io stesso non avrei sognato sorte più bella!».

A voce alta disse: «Grazie, Michail Michailovič Che volete? Faranno come gli altri. L’essenziale è che Dio ci conceda la vittoria».

Il vecchio generale ripeté con fervore: «Che Dio lo voglia!».

Gli altri, i giovani, che erano stati al fronte, tacevano. Uno di loro aprì soprappensiero il pianoforte e accennò qualche nota.

«Ballate, ragazzi miei» disse Nikolaj Aleksandrovič.

Si rimise a sedere al tavolo del bridge e fece un cenno alla moglie.

«Dovresti andare a riposarti, Nelly. Guarda come sei pallida».

«Anche tu» disse lei sottovoce.

Si strinsero la mano in silenzio. Elena Vassilievna uscì, il vecchio Karin prese le carte e cominciò a giocare, tamburellando di tanto in tanto, con aria assente, sul piattello d’argento del candeliere.

     Continueremo a leggere questo romanzo, capitolo per capitolo, sulla scia della didattica della lettura e della scrittura, indipendentemente dalle coincidenze, pur esistenti e rintracciabili – e ci eserciteremo a individuarle –, tra il testo di questo racconto di Irène Némirovsky e il dramma di Lucio Ambivio Turpione riassunto da Cicerone: non sapremo mai se queste coincidenze sono casuali o ispirate dalla lettura del De officiis [I doveri] di Cicerone [ma in un viaggio di studio è previsto si debba andare a caccia di coincidenze].

     Il brano che abbiamo letto del De officiis [I doveri] di Cicerone rappresenta davvero una miniera di elementi significativi su cui riflettere e, quindi, ce ne serviamo ancora perché adesso dobbiamo occuparci del secondo dei due più importanti argomenti di carattere filologico che emergono da questo brano. Il riassunto, scritto da Cicerone, della trama del dramma, oggi scomparso, di Lucio Ambivio Turpione – che ha come protagonista una vecchia nutrice di nome Vesta ligia al dovere così come lo è la vecchia nutrice Tat’jana Ivanovna nel romanzo-breve di Irène Némirovsky – mette bene in evidenza una serie di metafore che costituiscono un veicolo per mezzo del quale ci troviamo, ora, di fronte ad un paesaggio intellettuale il cui contenuto abbiamo già evocato poco fa.

     Perché le allegorie concepite da Lucio Ambivio Turpione – che richiamano i gemelli litigiosi, la lupa misericordiosa – non le abbiamo incontrate nel mitico “mondo di Janus”? Questi racconti mitici – e noi questi racconti li conosciamo bene perché li abbiamo letti sul libro sussidiario in terza elementare quando abbiamo cominciato a studiare la storia di Roma – noi finora non li abbiamo ancora incontrati perché sono più recenti rispetto ai racconti del “mondo di Janus”. Le studiose e gli studiosi di filologia hanno dato a questi racconti allegorici – dove si narra di Enea, di Ascanio, del re Latino discendente di Janus, di Numitore, di Amulio, della Vestale Rea Silvia, di Romolo e Remo, della lupa misericordiosa, di Faustolo accogliente – il nome di “miti paralleli”. I racconti mitici del “mondo di Janus” rappresentano un apparato che prende forma quando i Romani non hanno ancora maturato la consapevolezza di essere proprio “i Romani” perché la stirpe romana è frutto di una complessa integrazione di popolazioni che vivono nella valle del Tevere: quando, dopo qualche centinaio di anni, i Romani prenderanno coscienza di essere un popolo vorranno dare identità alla loro stirpe ed è in relazione a questa aspirazione che nascono i cosiddetti “miti paralleli”.

     E, in questo momento – attraverso le allegorie evocate da Lucio Ambivio Turpione nel suo dramma scomparso di cui Cicerone ha riassunto la trama – noi ci veniamo a trovare di fronte ad un nuovo, vasto e articolato paesaggio intellettuale che prende proprio il nome di “area dei miti paralleli”. Per avere una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena [obiettivo didattico che ci proponiamo di perseguire] ricapitoliamo e facciamo il punto della situazione; nel territorio che stiamo attraversando della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” abbiamo costeggiato ed osservato i primi due paesaggi intellettuali che s’incontrano all’interno di questo spazio: quello del mitico “mondo di Janus” e quello del teatro romano delle origini, e adesso siamo di fronte a un terzo paesaggio intellettuale che s’incontra strada facendo e che prende il nome di “area dei miti paralleli”. Con questo quadro in mente prendiamo il passo cercando di procedere con ordine.

     Di fronte ad un paesaggio intellettuale che prende il nome di “area dei miti paralleli” le prime domande che sorgono spontanee sono: perché questi miti vengono definiti così? A che cosa sono “paralleli” questi miti? Si può anche rispondere con una battuta a questa domanda ma poi, naturalmente, bisogna imbastire una riflessione. Questi miti vengono definiti “paralleli” nei confronti della “storia”. Che cosa significa? Significa che i Romani, quando prendono coscienza di essere diventati un popolo, vorrebbero far avvicinare il più possibile i racconti mitici sulle origini della loro civiltà alla storia, ma siccome far combaciare mito e storia non è possibile, cercano di collocare nella posizione più idonea rispetto alla storia i racconti mitici che riguardano la fondazione della loro città e della loro stirpe, e di qui nasce il concetto di “mito parallelo”: considerando che le linee parallele generano, nella maggior parte dei casi, oggetti e strumenti funzionali, se è vero che mito e storia non possono combaciare, allora, per lo meno procedano fianco a fianco parallelamente tra loro.

     Tutte le grandi civiltà antiche [ne abbiamo studiato le caratteristiche in questi anni] hanno sempre pensato di poter raccontare le loro origini attraverso il mito, attraverso la leggenda, cercando di dare al mito, e alla leggenda, la maggior veridicità possibile ma non ci sono mai riuscite. I Romani arrivano per ultimi a fare questa operazione, arrivano tardi a darsi delle origini mitiche e questo fatto risulta vantaggioso perché fanno tesoro di tutte le debolezze presenti nella mitologia altrui e, contando anche sulla loro mentalità materialista e molto pratica, governano il tema delle loro origini contando su una Letteratura appena nata, molto giovane, allo stadio verginale. Quindi, con ordine, facciamo il punto della situazione per capire come nascono e come si sviluppano i “miti paralleli”.

     Il primo dato di cui dobbiamo tenere conto è che quella fase mitica iniziale di carattere aborigeno influenzata dalla presenza di ninfe, di fauni, di dei e di dèe di derivazione orfico-dionisiaca – fase che nasconde, come sappiamo, spinose questioni sociali irrisolte, affrontate con l’uso della violenza e rivela pulsioni distruttive e devastatrici –; ebbene, questa fase, racchiusa nel perimetro del “mondo di Janus”, a Roma, nel II secolo a.C. non piace a nessuno e questo fatto trova conferma [e lo abbiamo studiato] nel genere letterario del teatro.

     Il secondo dato di cui dobbiamo tenere conto è che – come in tutte le società basate sull’oralità tipica della cultura agraria [che ha nella veglia un elemento fondamentale per lo sviluppo della narrazione] – nasce e matura anche nel mondo latino delle origini un repertorio di racconti orali che cercano di dare risposte sul tema della fondazione della stirpe: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Ed è così che nascono narrazioni in cui si concretizzano figure che assumono sagome “reali” e contorni “materiali” per cui l’ormai antico dio Janus – per esempio – viene tirato fuori dal suo “mondo arcaico” e diventa un re che aveva fondato una città sul colle che da lui aveva preso il nome di Granicolo.

     Noi la conosciamo a memoria la trafila di queste narrazioni, tramandate oralmente, che originariamente prendono forma nella società rurale latina [a veglia] fino a creare una tradizione che si sovrappone alla cultura aborigena del “mondo di Janus”, e che poi entra nei “carmina [le canzoni in versi saturni]” e, in seguito, diventerà materia per la Letteratura quando qualcuno deciderà di scrivere in proposito. Ve la ricordate la trafila di queste narrazioni mitiche? Noi abbiamo imparato queste narrazioni in terza elementare come se fossero paragrafi di storia anche se filtrava l’idea che si trattava di leggende, e ora possiamo definire in modo più preciso questa situazione: si tratta di mitologia che va parallela alla storia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dove eravate voi in terza elementare, siete in grado di ricordare?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Vogliamo – a grandi linee – rinfrescarci la memoria tornando per un momento scolarette e scolaretti della terza elementare?

     Nelle narrazioni dei “miti paralleli” compare la figura del pius Enea, e questa figura, il profugo che migra dall’area ionica verso il mar Tirreno è realistica così come è realmente penetrata nella società latina – ne è testimone Catone il Censore – la cultura omerica dell’Iliade e dell’Odissea. Si narra [a veglia] che il personaggio di Enea – protagonista dei racconti mitici “paralleli” – è un saggio principe troiano figlio di Anchise e di Venere [qualcosa di divino ci vuole, rende i racconti più efficaci] che, dopo la distruzione di Troia, presa e incendiata dai Greci, è fuggito, insieme al figlio Ascanio e al vecchio padre Anchise – mentre la moglie brucia nell’incendio della città [ma sarebbe risultata ingombrante] –, portando in salvo il fuoco sacro e le immagini degli dèi Penati. Si narra [a veglia] che, dopo un lungo e travagliato viaggio, Enea giunge alla foce del Tevere dove vorrebbe fondare una città che avrebbe dovuto essere l’erede e la continuatrice della civiltà troiana.

     Poi si narra [a veglia] che, in quel tempo, a Laurento, regnava il re Latino – discendente di Janus – che lo accoglie benignamente, cedendogli una parte di territorio per la fondazione di una nuova città e gli dà anche in sposa la figlia Lavinia, ed Enea chiama Lavinio la nuova città. Enea ha anche dovuto uccidere in duello il re dei Rutuli, Turno.

     Poi si racconta [a veglia] che il figlio di Enea, Ascanio o Iulo, fonda la città di Alba Longa e dopo una lunga serie di re albani, il trono passa a Proca, che ha due figli, Numitore e Amulio. Il buon Numitore succede al padre ma viene spodestato dal cattivo fratello Amulio, il quale costringe la figlia di lui, Rea Silvia a farsi sacerdotessa di Vesta – anche la dèa Vesta esce dall’acquitrinoso “mondo di Janus” per trasferirsi in un tempio in città –; Rea Silvia viene costretta a farsi vestale per impedire che i figli di lei, se si fosse sposata, potessero un giorno rivendicare il trono usurpato. Ma Rea Silvia, segretamente amata dal dio Marte [qualche inseminazione divina non può mai mancare nelle narrazioni], partorisce due gemelli i quali, per ordine di Amulio, vengono abbandonati sulle acque del Tevere mentre Rea Silvia, per avere infranto i voti religiosi, viene sepolta viva [la questione femminile passa intatta dal “mondo di Janus all’area dei “miti paralleli”]. Ma le acque del fiume, che andavano decrescendo, ritirandosi lasciano sulla riva la cesta coi due gemelli. Una lupa misericordiosa, che passava di lì, richiamata dai loro vagiti, li allatta e un pastore, Faustolo, li raccoglie, li porta a casa e, insieme a sua moglie, li alleva, chiamandoli coi nomi di Romolo e Remo.

     Cresciuti negli anni e diventati forti e animosi giovani, apprendono per caso il mistero della loro origine: uccidono il cattivo zio usurpatore e ripongono sul trono il vecchio buon Numitore. Quindi [a veglia] si narra che Romolo e Remo decidono di fondare sul colle Palatino, presso il luogo dove erano stati raccolti da Faustolo, una nuova città. Romolo e Remo, per sapere chi dei due debba tracciare con l’aratro il perimetro della città e poi darle il nome, consultano il volo degli uccelli secondo antiche tradizioni aborigene di stampo etrusco. Remo si apposta sul colle Aventino, Romolo sul Palatino. Remo vede per primo sei avvoltoi, Romolo subito dopo ne vede dodici. La Fortuna ha favorito Romolo.

     Lui allora attacca all’aratro una giovenca bianca e un bianco torello come vuole il rito, e traccia sul Palatino un solco quadrato. Questo solco è inviolabile e nessuno può oltrepassarlo. Per entrare e per uscire il solco è interrotto sui quattro lati dove devono sorgere le porte. Remo, per scherno, salta il fosso e Romolo, accecato dall’ira, lo punisce della sua empietà, uccidendolo. Così rimane unico re della città e le impone il proprio nome: Roma. Poi fa un segno sul calendario: che giorno è? Secondo la tradizione è il 21 aprile del 753 a.C..

     Questa trafila narrativa, tramandata oralmente [a veglia], diventa una “tradizione mitica” che ha però delle caratteristiche così veristiche da formare una linea luminosa che comincia ad accompagnare miticamente, in parallelo, la linea oscura della storia. Siccome poi – come abbiamo detto – il fatto che “in principio” alla civiltà latina ci fosse lo scenario del “mondo di Janus” non piaceva a nessuno succede che sarà ben accolto chi, nel II secolo a.C., metterà per iscritto, in poesia, questa trafila narrativa con l’intento di fare della storia. Chi è lo scrittore che, per primo, compie questa operazione? Lo scrittore che compie questa operazione si chiama Quinto Ennio e lo abbiamo già citato più volte strada facendo: la prossima settimana lo incontreremo e studieremo quale ruolo ha avuto nella Letteratura latina delle origini.

     Ora concludiamo l’itinerario di questa sera leggendo il secondo capitolo del romanzo Come le mosche d’autunno di cui abbiamo letto l’incipit.

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno

Tat’jana Ivanovna rimase per alcuni minuti ad ascoltare il rumore dei sonagli che si allontanava. «Come vanno veloci» pensò. Era in piedi in mezzo al viale e si teneva lo scialle stretto sul viso con entrambe le mani. La neve, secca e leggera, le entrava negli occhi come polvere. Si era levata la luna, e le tracce della slitta, scavate profondamente nel suolo ghiacciato, scintillavano di una luce azzurrina. Il vento girò, e subito la neve cominciò a cadere con violenza. Il flebile tintinnio dei sonagli era cessato; gli abeti carichi di ghiaccio scricchiolavano nel silenzio con un gemito sordo, come di sforzo umano.

La balia tornò lentamente verso casa. Pensava a Kirill e a Jurij con una sorta di doloroso stupore. La guerra Immaginava vagamente un campo e dei cavalli al galoppo, e granate che esplodevano come baccelli maturi proprio come su un’illustrazione intravista dove? Su un libro di scuola, forse, che i bambini avevano colorato Quali bambini? Quei due lì, oppure Nikolaj Aleksandrovič e i suoi fratelli?

In certi momenti, quando era stanca, come quella notte, li confondeva nella memoria. Un lungo sogno confuso Non si sarebbe svegliata, come un tempo, alle grida di Kolin’ka, nella vecchia camera?

Cinquantun anni All’epoca aveva anche lei un marito, un figlio Erano morti entrambi. Era passato così tanto tempo che a volte faceva fatica a ricordarne le sembianze Sì, tutto finisce, tutto è nelle mani di Dio.

Rientrata in casa, salì da Andrej, il più piccolo dei ragazzi affidati alle sue cure. Dormiva ancora accanto a lei, nella grande stanza d’angolo che era stata di Nikolaj Aleksandrovič e, dopo di lui, dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Erano tutti morti, o se n’erano andati in posti lontani. La camera sembrava troppo ampia, troppo alta per i pochi mobili che restavano, il letto di Tat’jana Ivanovna e il lettino di Andrej con le tendine bianche e la piccola icona antica appesa tra le sbarre. Un bauletto per i giocattoli, un vecchio banco di scuola in legno, che un tempo era stato bianco, ma che quarant’anni di uso avevano levigato e tinto di un grigio pallido come fosse di lacca Quattro finestre spoglie, un vetusto pavimento di legno rossastro Di giorno, tutto questo era inondato da fiotti di aria e di luce. Ma quando scendeva la notte e si creava uno strano silenzio, Tat’jana Ivanovna diceva: «E ora che ne vengano altri…».

Accese una candela, che illuminò debolmente il soffitto dipinto con angeli dalle grasse facce maligne, protesse la fiamma con un cono di cartone, e si avvicinò ad Andrej. Il bimbo era immerso nel sonno, la testa bionda sprofondata nel guanciale; lei gli toccò la fronte e le manine abbandonate sul lenzuolo, poi gli si sedette accanto, al suo solito posto. Di notte restava così per ore, in uno stato di dormiveglia, a sferruzzare, intorpidita dal calore della stufa, pensando al tempo passato e al giorno in cui Kirill e Jurij si sarebbero sposati e nuovi bambini avrebbero dormito lì. Presto Andrej se ne sarebbe andato. A sei anni i maschietti venivano trasferiti al piano di sotto, dove avrebbero vissuto con i precettori e le governanti. Ma la vecchia camera non era mai rimasta vuota a lungo. Kirill? o Jurij? o forse Loulou? . Guardò la candela che si consumava crepitando nel silenzio con uno sfrigolio forte e monotono e agitò delicatamente la mano, come se dovesse far dondolare una culla. «Ne vedrò ancora qualcuno, se Dio vorrà» mormorò.

Sentì bussare alla porta. Si alzò e chiese sottovoce: «Siete voi, Nikolaj Aleksandrovič?».

«Sì, njanjuška…».

«Fate piano, non svegliate il bambino…».

Quando fu entrato, la balia prese una sedia e la posò con cautela vicino alla stufa.

«Siete stanco? Volete un po’ di tè? Ci vuole un attimo a scaldare l’acqua».

Lui la fermò.

«No. Lascia stare. Non ho bisogno di niente».

Lei raccolse il lavoro a maglia caduto a terra e tornò a sedersi, muovendo svelta i ferri luccicanti.

«Da molto tempo non venivate a trovarci».

Lui non rispose, tese le mani verso la stufa che borbottava.

«Avete freddo, Nikolaj Aleksandrovič?».

Lui si strinse le braccia al petto, con un leggero brivido, e Tat’jana Ivanovna esclamò, come un tempo: «Vi siete di nuovo preso un malanno?».

«Ma no, cara njanjuška».

Lei scosse la testa con aria sconfortata e tacque. Nikolaj Aleksandrovič guardò il letto di Andrej.

«Dorme?».

«Sì. Volete vederlo?».

Si alzò e prese il lume avvicinandosi a Nikolaj Aleksandrovič, che rimase immobile. Allora lei si chinò e gli mise impulsivamente una mano sulla spalla.

«Nikolaj Aleksandrovič Kolin’ka …».

«Lasciami stare» mormorò lui.

La vecchia si scostò in silenzio.

Era meglio non dire niente. Con chi altri quell’uomo avrebbe potuto lasciar scorrere liberamente le lacrime, se non con lei? Neppure con Elena Vassilievna Ma era meglio tacere Indietreggiò pian piano nell’ombra e disse sottovoce: «Aspettate, vado a preparare un po’ di tè, ci scalderà tutti e due…».

Quando tornò, lui sembrava più calmo; stava rigirando con gesto meccanico la maniglia della stufa, il cui intonaco si staccava e cadeva a terra con un lieve fruscio di sabbia.

«Guarda qui, Tat’jana, quante volte ti ho detto di far chiudere questi buchi Guarda, guarda» esclamò indicando uno scarafaggio che correva sul pavimento. «È da qui che escono. Credi forse che sia igienico in una camera dei bambini?».

«Sapete bene che in una casa gli scarafaggi sono un segno di prosperità» disse Tat’jana Ivanovna alzando le spalle. «Grazie a Dio, qui ce ne sono sempre stati, e voi ci siete cresciuto, e altri prima di voi». Gli mise in mano il bicchiere di tè che aveva portato, mescolando con il cucchiaino.

«Bevetelo finché è caldo. C’è abbastanza zucchero?».

Lui non rispose, mandò giù un sorso con aria stanca e assente, poi tutt’a un tratto si alzò.

«Be’, buonanotte, fa’ riparare la stufa, hai capito?».

«Va bene».

«Fammi luce».

Lei prese la candela e andò con lui fino alla porta; scese per prima i tre gradini della soglia, le cui mattonelle rosa, sconnesse e malferme, pencolavano da un lato, come se un peso le trascinasse verso terra.

«Fate attenzione Ve ne andate a dormire, adesso?».

«Dormire Sono triste, Tat’jana, la mia anima è triste…».

«Dio li proteggerà, Nikolaj Aleksandrovič. Si muore nel proprio letto, e Dio protegge i cristiani in mezzo alle pallottole…».

«Lo so, lo so …».

«Bisogna avere fiducia in Dio».

«Lo so» ripeté lui. «Ma non è solo questo …».

«E allora che cosa, barin?».

«Va tutto male, Tat’jana, tu non puoi capire».

Lei scosse il capo e disse: «Ieri anche il mio pronipote, il figlio della mia nipote di Sucharevo, è dovuto partire per questa guerra maledetta. Non ci sono altri uomini in famiglia, perché il fratello maggiore è stato ucciso la scorsa Pentecoste. Rimangono una donna e una bimbetta dell’età del nostro Andrej E i campi chi li coltiva? Ognuno ha la sua dose di disgrazie».

«Sì, sono tempi tristi E voglia Iddio che…».

Si interruppe, poi disse brusco: «Suvvia, buonanotte, Tat’jana».

«Buonanotte, Nikolaj Aleksandrovič».

Aspettò che lui avesse attraversato il salone e rimase immobile ad ascoltare lo scricchiolio del pavimento sotto i suoi passi. Aprì lo sportellino ritagliato nel vetro della finestra, e una ventata d’aria gelida entrò con violenza, sollevandole lo scialle e le ciocche scomposte dei capelli. La vecchia sorrise, chiuse gli occhi. Era nata in campagna, lontano da lì, nel Nord della Russia, e per lei non c’era mai abbastanza vento, mai abbastanza gelo. «Da noi in primavera rompevamo il ghiaccio a piedi nudi, e io lo farei ancora, eccome!» era solita dire.

Chiuse lo sportello e il sibilo del vento si smorzò. Adesso si udivano soltanto il flebile rumore dell’intonaco che si scrostava dalla stufa e dai vecchi muri, simile al sussurro di una clessidra, e il crepitio sordo e profondo degli antichi rivestimenti in legno rosicchiati dai topi

Tat’jana Ivanovna tornò nella sua stanza, pregò a lungo e si svestì. Era tardi. Spense la candela, sospirò, disse varie volte ad alta voce nel silenzio: «Mio Dio, mio Dio» e si addormentò.

     Chi ha fatto per tutta la vita il proprio dovere – dice il proverbio – dorme sonni tranquilli, ma Tat’jana Ivanovna, si addormenta subito perché è stanca e ha anche, come vedremo, tante preoccupazioni e la prossima settimana la rincontreremo ancora la vecchia nutrice che ricorda la dèa Vesta.

     Poi incontreremo anche Quinto Ennio, che è considerato il più importante poeta della Storia della Letteratura latina dell’età arcaica: colui che ha scritto il poema nazionale di Roma repubblicana. Questo poema lo imparavano a memoria gli scolaretti romani durante la lezione di Storia [quasi come abbiamo fatto noi in terza elementare]: abbiamo di fronte un poeta che fa lo storico? Quando i miti diventano paralleli alla storia sono i poeti che muovono la penna. E in che modo Quinto Ennio muove la sua penna?

     Per rispondere a questa domanda bisogna seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente.

     Perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la penna] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui. Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme, e ora siamo nella parte più lontana del territorio che stiamo attraversando rispetto tanto alla partenza quanto all’arrivo e il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 17, 2012