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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’È LA PRIMA FASE DELLO SVILUPPO DEL CONCETTO DI HUMANITAS ...

Lezione N.: 
14

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale     8-9-10  febbraio 2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’È LA PRIMA FASE DELLO SVILUPPO DEL CONCETTO DI HUMANITAS ...

     In questi cinque mesi di viaggio, strada facendo sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”, abbiamo osservato due grandi paesaggi intellettuali, e stiamo studiando e riflettendo sugli argomenti in essi contenuti.

     Il primo paesaggio – come ormai ben sapete – è un vasto spazio leggendario, antico e misterioso, che le studiose e gli studiosi di filologia hanno chiamato il “mondo di Janus”. Questo spazio è costituito da elementi culturali appartenenti ai popoli aborigeni che, più di 2500 anni fa, abitavano la valle del Tevere e da elementi di importazione provenienti dalla cultura orfico-dionisiaca di origine ellenica propagatisi in tutta l’area mediterranea attraverso le migrazioni: il mitico “mondo di Janus” è lo spazio più arcaico in cui avviene l’integrazione tra la cultura latina e la cultura greca. Abbiamo capito che non è un’impresa facile definire il “mondo di Janus” perché il potere costituito – nella fattispecie il Senato romano – ha sempre cercato di stendere un velo sugli aspetti più reconditi di questa cultura aborigena, perché? Che cosa ci suggeriscono le studiose e gli studiosi in proposito? Intanto ci suggeriscono – e tutte e tutti voi avete una certa esperienza sul funzionamento delle metafore arcaiche –, ci suggeriscono che i racconti mitici contengono sempre temi che emergono da conflitti sociali in corso. Il tema che emerge con più evidenza dallo spazio mitico del “mondo di Janus” è quello della “condizione femminile” e questo mondo si caratterizza, prima di tutto, per tre parole significative: la porta, le chiave e il bastone. Questi tre termini hanno una doppia valenza: possono rappresentare la chiusura, la violenza e la negazione della libertà così come l’apertura, la tutela e l’autodeterminazione, e noi scegliamo di collocare queste tre parole-chiave nell’elenco dei termini positivi.

     Il secondo paesaggio intellettuale con cui abbiamo preso contatto, e che stiamo ancora studiando, riguarda il primo importante fenomeno con cui ha inizio la Letteratura latina: il teatro. E, a questo proposito, abbiamo incontrato tre importanti personaggi, tre famosi autori di teatro: Tito Maccio Plauto, Cecilio Stazio e Publio Terenzio Afro. E abbiamo affermato, in modo metaforico, che l’opera di questi tre personaggi – Plauto, Stazio e Terenzio – porta la “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” a venir fuori dall’acquitrino del “mitico mondo di Janus” e a collocarsi su un territorio più elevato da dove la “cultura ianuaria [aborigena]” può essere osservata e interpretata, e questo esercizio va dato in gestione ai Percorsi di Alfabetizzazione.

     Percorrendo gli itinerari precedenti abbiamo capito che il teatro a Roma, tra il III e il II secolo a.C., da avvenimento popolare, rappresentato sulle piazze in mezzo al frastuono, si trasforma in un fenomeno elitario, in un evento di nicchia perché i testi teatrali [anche sulla scia del teatro ateniese di Menandro] diventano più impegnati, ricchi di allusioni mitiche in chiave satirica emergenti dal “mondo di Janus”, del quale si denunciano – con metafore comiche, con giochi di parole, con l’invenzione di uno straordinario linguaggio allegorico – situazioni di prevaricazione soprattutto nei confronti della componente femminile della società. Quindi il teatro di Plauto, di Stazio, di Terenzio – nonostante loro affermino di voler solo far divertire il pubblico – assume una valenza di carattere politico e diventa un fenomeno tenuto d’occhio dalla censura.

     Sappiamo che Terenzio vuole decisamente costruire un teatro che favorisca la riflessione e, quindi, con le sue opere, ad un’azione teatrale movimentata – come è quella di Plauto – ne subentra una più statica: la commedia, che si era già trasformata con Cecilio Stazio, con Terenzio cambia forma e diventa un genere più pensoso, più malinconico dove l’ironia è di natura drammatica piuttosto che di natura comica. Questa trasformazione fa sì che il teatro, da semplice spettacolo popolare, diventa un intrattenimento d’elite con meno doppi sensi, con pochissime espressioni scurrili, e il meccanismo dell’allusione nei confronti dei temi politici e sociali più scottanti viene, quindi, ad intrecciarsi con la stessa struttura narrativa e, a questo proposito, nel corso degli ultimi itinerari, abbiamo fatto degli esempi.

     Il tema pungente [come la pianta del biancospino] della “questione femminile” – tema che emerge, in principio, dal mitico “mondo di Janus” – nelle opere di Terenzio diventa ancor più acuto. Per esempio sappiamo che, in quasi tutte le commedie di Terenzio [e lo abbiamo già detto nelle scorse settimane], lo stupro, che nella società romana del tempo è quasi considerato come se fosse uno strumento di seduzione secondo lo stampo mitico ereditato dal “mondo di Janus” [sono un dio e vado a caccia di ninfe] – e che dobbiamo annoverare nel catalogo delle parole-chiave dell’Ellenismo di stampo imperiale, e questo merito va a chi, come Terenzio, ha il coraggio di mettere in evidenza questa brutale situazione – viene raccontato con un’ironia di natura drammatica che, pur stimolando il sorriso, lo fa apparire come un gesto da condannare che inficia anche l’eventuale successiva azione di pacificazione riparatrice tra l’uomo e la donna coinvolti [da quanto dura la prassi del “matrimonio riparatore”?].

     Sappiamo che Terenzio, a Roma, entra presto a far parte del ceto intellettuale della città diventando amico di Gaio Lelio e di Scipione l’Emiliano che sono i fondatori del primo importante Circolo culturale romano nel quale siamo state accolte e siamo stati accolti anche noi, la scorsa settimana, insieme a due intellettuali greci, lo storico Polibio di Megalopoli e il filosofo stoico Panezio di Rodi, i quali, come abbiamo studiato, hanno contribuito notevolmente con le loro lezioni a dare forma a quel fenomeno culturale che è stato chiamato la “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. Il programma del Circolo degli Scipioni si propone di modificare la mentalità romana, troppo pratica e materialistica, attraverso la cultura greca e attraverso i valori di quelle civiltà che hanno prodotto quel grande movimento intellettuale che è l’Ellenismo.

     Nel Senato romano, nel II secolo a.C., ci sono tre importanti raggruppamenti politici: il “partito agrario” contro-ellenista, il partito dei “mercanti spregiudicati [simplices mercatores]” che bada soprattutto agli affari, e il movimento dei “mercanti illuminati” filo-ellenisti. Se per i “mercanti spregiudicati [simplices mercatores]” la parola d’ordine è “lucrum [profitto]”, se per il partito agrario [che guarda a Catone il Censore] la parola-chiave è “fidelitas [fedeltà]” ai valori della “cultura ianuaria”, per i “mercanti illuminati” che si riuniscono nel Circolo degli Scipioni il termine di riferimento diventa la parola-chiave “humanitas”.

     Questo è un avvenimento importante nella Storia del Pensiero Umano, un avvenimento che caratterizza positivamente il corso della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. Se qualcuno ci domanda; che cosa avete osservato di positivo nel territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”? Noi possiamo rispondere che, prima di tutto, di positivo, abbiamo osservato il momento in cui la parola-chiave “humanitas” comincia a prendere forma come concetto che caratterizzerà, e che ancora caratterizza, la Storia della Cultura universale.

     Terenzio, dai membri più autorevoli del Circolo degli Scipioni, viene invitato a far emergere nelle sue commedie il concetto significativo dell’humanitas che è legato – come sappiamo – ad un valore che la cultura greca chiama “paideia ”, un termine che possiamo tradurre con le parole “educazione, istruzione, formazione intellettuale” perché è soprattutto l’educazione, l’istruzione, la formazione intellettuale che rende gli individui degli “esseri umani”. Questa parola-chiave, “humanitas”, inizialmente serve per mitigare il concetto di “imperium” [come dire: dovremmo comandare con indulgenza e con magnanimità, ma il condizionale è d’obbligo] poi, gradualmente questo termine acquisterà una sua autonomia fino a diventare uno dei termini trainanti di tutta la cultura dell’età di mezzo, dell’età moderna, dell’età contemporanea, e, a suo tempo, studieremo questa trafila.

     La scorsa settimana abbiamo osservato il concetto di “humanitas” all’atto della sua origine e questo momento originario lo dobbiamo avere ben chiaro nella nostra mente [se vogliamo avere una testa ben fatta e non semplicemente ben piena]: sappiamo che la messa a fuoco del concetto di “humanitas” è avvenuta con la collaborazione dell’opera di Terenzio; difatti abbiamo studiato che il concetto di “humanitas”, dal punto di vista letterario, si sintetizza per la prima volta in modo esplicito in un celebre verso della commedia di Terenzio intitolata Il punitore di se stesso. In questa commedia Terenzio fa dire ad uno dei personaggi questa battuta: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto [Io sono un essere umano, e nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo]». Questo verso di letteratura teatrale è diventato famoso e segna un’epoca.

     Eppure, se non si riflette, questa affermazione passa inosservata e, difatti, anche la censura del tempo non se n’è accorta. Questa frase contrasta pienamente con la prassi su cui si regge il concetto di “imperium” per cui è il più forte che stabilisce, a suo vantaggio, ciò che è “umano” e ciò che non lo è. Il verso di Terenzio dichiara che la dimensione dell’umanità appartiene a tutti e di questa realtà nessuno se ne può disinteressare. Abbiamo già ricordato, ma lo ripetiamo, che questa affermazione, tanto per fare un esempio, ha colpito profondamente, nel IV secolo, Agostino di Tagaste o di Ippona [Sant’Agostino, lo incontreremo a suo tempo] che fa diventare questa affermazione l’emblema di un particolare atteggiamento interiore: questo atteggiamento – ci siamo chieste, ci siamo chiesti – costituisce uno dei punti di passaggio che porta nel territorio dell’età di mezzo? Noi sappiamo che tra l’Ellenismo e il Medioevo non c’è una linea di confine ma c’è una ampia fascia che va [che andrà nel prossimo viaggio] attraversata con cautela. Del teatro di Terenzio ne parleremo ancora quando [nel prossimo viaggio] incontreremo Agostino e dovremo avere in mente questi dati, provenienti dal territorio dell’Ellenismo di stampo imperiale, che stiamo acquisendo ora. Il verso di Terenzio tratto dal testo della commedia Il punitore di se stesso – che è stato oggetto di riflessione nei secoli – ha lasciato il segno nella Storia del Pensiero Umano e questo segno lo dobbiamo cogliere.

     La scorsa settimana abbiamo studiato [come senz’altro ricorderete] che il concetto di “humanitas”, a Roma, è stato messo a punto con il contributo di due intellettuali greci: lo storico Polibio di Megalopoli e il filosofo stoico Panezio di Rodi che, ospiti degli Scipioni, hanno contribuito a modificare la mentalità romana in senso [se così si può dire] umanistico. Con Panezio, poi, l’esperienza delle Scuole filosofiche ellenistiche – il pensiero dell’epicureismo, dello stoicismo e dello scetticismo – s’insedia a Roma e ne vedremo i risultati strada facendo. Ora dobbiamo tornare a Terenzio.

     Sappiamo che i personaggi delle commedie di Terenzio vengono presentati secondo le regole della verosimiglianza psicologica e vengono spesso analizzati nel loro carattere con umana partecipazione: Terenzio tende a conferire delicatezza, sensibilità morale e i tratti di grande lealtà a certi suoi personaggi. La tolleranza, la comprensione reciproca, l’approfondimento dei rapporti umani, che certi personaggi di Terenzio rivelano, non solo aderiscono al modello greco di Menandro, ma corrispondono soprattutto a quella misura di “humanitas” elaborata – soprattutto con il contributo di Polibio e di Panezio –  nell’ambiente ellenizzante del Circolo degli Scipioni. Ma a Roma, nella primavera del 165 a.C., succede qualcosa su cui noi dobbiamo puntare la nostra attenzione perché, ciò che avviene, porta ad un’epocale trasformazione nel modo in cui il genere letterario del teatro viene proposto.

     Ma prima di occuparci di questo tema – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – leggiamo ancora qualche pagina del romanzo che ci ha accompagnate e accompagnati in queste ultime settimane e che s’intitola Quer pasticciaccio brutto de via Merulana scritto da Carlo Emilio Gadda. Anche Gadda – e abbiamo messo in evidenza le sue caratteristiche di scrittore –, con una forte dose di ironia, presenta il personaggio principale del suo romanzo, il dottor Ciccio Ingravallo, secondo le regole della verosimiglianza psicologica. Abbiamo incontrato il commissario Ingravallo, con i suoi difetti e con le sue virtù, mentre sta conducendo [come sappiamo] un’indagine su una rapina a mano armata che si è verificata in via Merulana 219 proprio nell’appartamento in faccia a quello dei Balducci che lui frequenta; ebbene, mentre conduce la sua indagine don Ciccio si sforza di trovare intorno a sé anche un po’ di “humanitas”, nella fascistissima Roma del 1927, ma non è facile perché in primo piano emergono tanti piccoli egoismi che sfociano nella comicità perché appartengono ad una serie di personaggi esemplari, di figure senza tempo, come quelle figure che rendono il teatro un genere letterario sempre attuale. Infatti il testo del Pasticciaccio di Gadda è stato più volte portato sulla scena teatrale e anche sul set cinematografico. Il primo febbraio è uscito il libro e il dvd. dal titolo Gadda e Pasolini, autobiografia di una nazione curato da Fabrizio Gifuni e da Giuseppe Bertolucci, il dvd contiene la recitazione del monologo L’ingegner Gadda va alla guerra: sollecitate le Biblioteche che frequentate all’acquisto di questo sussidio e utilizzatelo.

     Leggiamo alcune pagine dal Pasticciaccio [ammesso che io sia capace di farlo] continuando a prestare attenzione al linguaggio di Gadda che è il prodotto di una raffinata contaminazione lessicale: un linguaggio simile, ma molto più ricco di invenzioni e di giochi lessicali, a quello creato dagli scrittori di teatro della Letteratura latina degli albori.

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Ingravallo domandò di nuovo alla vedova Menegazzi, alla signora Zabalà, se lei, riflettendoci bene, avesse magari qualche idea, qualche sospetto, sul conto di qualcheduno. Non poteva fornire un indizio? Gente di casa, no? Pratici delle sue abitudini e della casa dovevano di certo essere, a giudicare dalla disinvoltura. Domandò ancora se fossero rimaste delle tracce o impronte, o altro dell’assassino. (Quel termine della collettività fabulante gli si era ormai annidato nei timpani: gli forzò la lingua a un errore.) No, nessuna traccia.

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     Il commendator Angeloni, er sor Filippo, così come lo descrive Gadda in modo spassoso e cinico, è davvero una figura emblematica, e dev’essere proprio un buongustaio, e, fra un po’, seguiremo l’interrogatorio a cui il commissario Ingravallo lo sottopone, visto che quella linguacciuta della Pettacchioni, la portinaia – alla quale er sor Filippo non deve essere molto simpatico, probabilmente, più per il ruolo che ha che per la persona che è – lo ha incastrato in questa faccenda dei giovani commessi. Ora, però, dobbiamo tornare a Terenzio.

     Abbiamo già ripetuto più di una volta che, a Roma, in una sera di primavera dell’anno 165 a.C. viene rappresentata per la prima volta la commedia di Terenzio intitolata Hècyra [La suocera]. Terenzio, nel prologo, dichiara di aver preso spunto, per scrivere il testo di quest’opera, da una omonima commedia dello scrittore greco Apollodoro di Caristo, ma, in proposito, un’opera simile non ci è pervenuta e, quindi, non è stato possibile fare alcun riscontro. Ad un certo punto della prima rappresentazione di questa commedia gli spettatori, in piazza, cominciano a sbraitare, a fare tumulto e la recita viene interrotta – per motivi di ordine pubblico – e sostituita con uno spettacolo di saltimbanchi. Da questo momento le rappresentazioni teatrali non si tengono più in piazza ma in luoghi più raccolti: la storia della letteratura teatrale continua ma più in sordina. Qual è la ragione del totale fallimento della commedia di Terenzio in piazza, mentre quando viene rappresentata, qualche tempo dopo, nel Circolo degli Scipioni, di fronte ad un pubblico colto, dalla compagnia di Lucio Ambivio Turpione [la più importante compagnia teatrale del momento], riscuote un meritato successo? La gente, sul piazza, ad un certo punto comincia a fare confusione perché si annoia: la gente in piazza vuole divertirsi, preferisce i saltimbanchi piuttosto che il teatro di Terenzio.

     Che tipo di commedia è Hècyra [La suocera] di Terenzio? Il testo di quest’opera costituisce un momento di rottura nella storia della letteratura teatrale latina – in Grecia questa operazione era già avvenuta con la nuova commedia ateniese di Menandro ma quest’opera di Terenzio va anche oltre – e, difatti, l’Hècyra [La suocera] di Terenzio non ha più la fisionomia di una “commedia” ma è un dramma di carattere sentimentale privo di comicità, in cui l’autore cerca anche la purezza del linguaggio e l’eleganza formale mentre tratta temi squisitamente sociali. La trama vuole provocare la riflessione di chi partecipa alla rappresentazione e genera un clima pensieroso e malinconico ben lontano dall’ilarità della commedia comica.

     Questo dramma è incentrato sulla figura di una suocera ideale, Sostrata, il cui figlio Panfilo ha sposato Filumena e il giorno stesso delle nozze è dovuto partire per affari urgenti, quindi, la consumazione del matrimonio viene rimandata; in realtà gli “affari urgenti” sono una scusa perché lui, da tempo, ha una relazione con la cortigiana Bacchide con la quale s’incontra segretamente.

     Qui troviamo una stoccata ironica contro la mentalità che i mercanti spregiudicati stanno infondendo nella società, la convinzione che prima di tutto vengono gli affari, o i finti affari, e quasi sempre anche il matrimonio, l’amore, il sesso si presentano come situazioni che vengono vissute come se fossero “affari”: è un affare trovare una buona sposa illibata e fedele, così come è un affare trovare una bella cortigiana a buon prezzo.

     Al ritorno dal finto viaggio Panfilo non trova la moglie che si è rifugiata a casa dei suoi genitori perché avrebbe subito i maltrattamenti della suocera Sostrata, almeno così pensano tutti proprio perché la suocera non smentisce, ma si saprà poi, che questo suo comportamento – secondo il luogo comune per cui le suocere odiano sempre le nuore – è servito per giustificare l’abbandono del tetto coniugale da parte della sposa che si è venuta a trovare in una situazione critica. In realtà Filumena – che non ha subito nessuna vessazione da parte di Sostrata perché in realtà la suocera le vuole bene e si espone per lei – sta per partorire un bimbo: il frutto di un atto di violenza, di uno stupro, che lei ha subito prima del matrimonio da uno sconosciuto, un uomo mascherato, e questo drammatico episodio, senza testimoni, lei lo ha tenuto nascosto perché se no il suo fidanzamento sarebbe saltato: una volta disonorata una fanciulla non la vuole più nessuno. Quanti reati [la vita delle donne a Roma è regolata da una ferrea legislazione] – allude Terenzio con triste ironia – ricadono su una donna che subisce violenza, la quale, invece di essere considerata una vittima, finisce per diventare colpevole?

     Adesso non possiamo raccontare per filo e per segno la trama del dramma, che è piuttosto complessa, ma ci basta dire che alla fine si scopre che ad usarle violenza è stato proprio Panfilo che, insieme a quei buontemponi dei suoi amici, per passare il tempo va a caccia di ninfe come gli dèi nel “mondo di Janus” e la bramosia lo ha reso così cieco da non essersi neppure accorto subito – quando se ne accorgerà anche lui dovrà stare zitto – di aver usato violenza alla sua fidanzata dalla quale pretenderebbe l’illibatezza. Il finale prevede – con la nascita di un bambino di cui anche il padre è certo, e con tutta una serie di finte giustificazioni – la riconciliazione della coppia per l’interessamento di Sostrata, che ha sempre amato Filumena come una figlia, e anche della cortigiana Bacchide [altra categoria di donne che possono sembrare libere ma che, in realtà, sono anch’esse vittime] che, probabilmente, continuerà a “consolare” Panfilo.

     È un “lieto fine” molto amaro che mette in risalto i temi scottanti sui quali questo dramma propone una riflessione, soprattutto emerge chiaramente la questione della “sottomissione delle spose” e ancor più si denuncia la mancanza di educazione sentimentale, la carenza di “humanitas” nei rapporti interpersonali, e questo deficit non potrà far altro – allude Terenzio – che rendere più brutta, più violenta, più prevaricatrice, più corrotta, la società nel suo insieme.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali persone, quali istituzioni, quali libri, quali esperienze hanno favorito la vostra educazione sentimentale, in particolare, la vostra capacità di voler bene?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Leggiamo soltanto un frammento, una sorta di apologo, tratto dalla commedia Hècyra [La suocera] di Terenzio: basta questo breve brano per capire come la capacità satirica di questo autore sia penetrante. Terenzio, infatti, in questo monologo utilizza con disinvoltura e con grande perizia formale le parole-cardine del mitico “mondo di Janus” – la chiave, la porta, il bastone – in modo da far sorridere il pubblico, in modo da ottenere un effetto comico che serve per esaltare il “saggio” discorso della suocera alla nuora perché accetti, con rassegnazione, la sua situazione perché una donna virtuosa sa sacrificare la propria libertà in nome della solidità della famiglia e delle Istituzioni [il richiamo al personaggio di Vesta è palese]. La suocera, mentre invita la nuora a stare attenta a non cadere nel ridicolo, dà l’impressione di essere una donna “saggia” – e qui il pubblico mentre sorride apprezza il supposto invito alla responsabilità –; in realtà Terenzio la fa parlare da donna “eversiva” che sta facendo emergere la non risolvibile questione della “sottomissione delle spose”.

     Leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Publio Terenzio Afro, Hècyra [La suocera]Atto V  Scena prima

SOSTRATA  (stringendo le mani di Filumena)   Mia cara, ascolta ciò che ha da dirti tua suocera che ti vuole bene come una figlia e ti parla per esperienza di donna.

Se un giorno tuo marito volesse farti un dono e ti mettesse in mano la chiave di casa dicendo Prendila e fanne buon uso, tu – dammi retta – non l’accettare perché stai pur certa che avrà già fatto cambiare dal fabbro la serratura della porta.

Con la chiave di casa potresti essere tentata di uscire, senza dir nulla, anche per un giretto di breve durata, o per far visita a un’amica d’infanzia, o per bere un sorso d’acqua alla fonte dove giocavi da bambina, o per cogliere una ciocca di biancospino sulla siepe in fondo alla strada dove correvi da fanciulla sognando un domani felice.

Ma al ritorno la tua gaiezza si tramuterebbe in angoscia perché infileresti invano la chiave, essa non girerebbe nella toppa, e tuo marito ti troverebbe ad armeggiare davanti alla porta chiusa e ti dirà Scusami, mia cara, mi sono dimenticato di dirti che la serratura era rotta ed è stato necessario cambiarla.

Tu arrossirai con la chiave in mano. Lui sorriderà, aprendo la porta benevolo con la nuova chiave, ma tu avrai messo il sigillo alla tua pena.   

     Il fatto è che la gente in piazza – se non una esigua minoranza appartenente al ceto riflessivo – non se ne rende neppure conto delle questioni poste da Terenzio: la gente in piazza vuole stare allegra e contesta questo tipo di teatro piuttosto cervellotico.

     E allora che cosa succede, quali ripercussioni ha questa situazione? Succede che interviene il Senato, l’autorità costituita, e il Senato decreta che il teatro – questo tipo di teatro – non si tenga più, per motivi di ordine pubblico, sulle piazze: le piazze verranno appaltate ed entra in vigore la “tassa sull’occupazione del luogo pubblico” e così del luogo pubblico se ne appropriano subito i mercanti spregiudicati che hanno da proporre un prodotto d’importazione dall’Asia Minore: cominciano a portare in piazza lo spettacolo “delle lotte tra animali e delle cacce agli animali” e poi lo spettacolo “dei gladiatori” che, da questo momento, diventa il più grande affare economico nel campo dell’intrattenimento, un affare che si estende a tutto il bacino del Mediterraneo.

     Il teatro – che nel corso dei decenni ha avuto un’evoluzione tanto nella forma quanto nei contenuti – viene accolto in luoghi più idonei, e il Circolo degli Scipioni mette subito a disposizione le sue strutture. Il teatro diventa lo spettacolo del pubblico colto, del pubblico impegnato, del ceto riflessivo, e questo fatto ha dei risvolti negativi perché riduce il suo orizzonte, però, per contro, succede che la censura comincia ad occuparsi meno di ciò che il teatro propone perché questo genere ha assunto un carattere quasi privato più che pubblico, e questo fatto ha delle ripercussioni: quali?

     Prima di occuparci delle ripercussioni nel campo del teatro torniamo sulla scena dell’indagine per la rapina a mano armata che si è verificata in via Merulana 219, riprendiamo il filo che sta cercando di tessere il commissario Ingravallo alle prese con un personaggio emblematico – er sor Filippo, il commendator Angeloni der Ministero dell’Economia Nazzionale – che, forse, l’unica colpa che ha è quella di essere un buongustaio.

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Er sor Filippo, il commendator Angeloni, doveva essere un buongustaio: a giudicare almeno dai pacchetti, dai tartufettiPacchetti che per solito li inoltrava lui a se stesso, con gran riguardo e con ogni venerazione, tenendoli orizzontali e in sul davanti, come gli desse il latte: di quelli dei salumai di lusso, pieni di galantina o di paté, con il cordino celeste. E qualche volta, del resto, glie li mandavano anche a casa ar ducentodicinnove su in cima; glie li porgevano, come si dice a Firenze. (Carciofini all’olio, vitel tonnato.) «Er sor Filippo, qui,» ripeté la sora Manuela. «Mbè, a voi quarche vorta v’è venuto, ma sì un maschietto co li pacchi, co la parannanza bianca. Nun l’ho mai visto in faccia: sicché, propio com’era nun me n’aricordo. Ma, suppergiù, mo che ce penso, quello de stammattina poteva esse er vostro. Una sera, che je corsi appresso, strillò da le scale che saliva su da voi, che v’aveva da portà er presciutto».

... continua la lettura ...

     I testi che abbiamo letto di questo romanzo corrispondono circa ad una trentina di pagine. Continuate a leggerlo per conto vostro il Pasticciaccio de via Merulana, prima di tutto per misurarvi con le, spesso formidabili, invenzioni del linguaggio gaddiano – che ricordano il linguaggio del teatro romano degli albori – e poi per i colpi di scena che movimentano il dipanarsi della trama e soprattutto per la descrizione dei personaggi emblematici che lo scrittore, con grande ironia e anche con un po’ di cinismo, mette in scena: la storia ad un certo punto si complica, le indagini s’ingarbugliano perché dopo il furto c’è il delitto: sapete già chi è la vittima? Leggete, anche se del “pasticciaccio” non se ne viene a capo, ma le allusioni si capiscono benissimo e fan venire in mente molti “pasticciacci” che, in questi ultimi vent’anni, si sono verificati sotto i nostri occhi, spesso attoniti.

     Abbiamo detto che, dal 165 a.C., a Roma, il teatro diventa uno spettacolo per un pubblico d’elite, colto, impegnato intellettualmente, appartenente al ceto riflessivo, e questo fatto ha dei risvolti negativi perché riduce il suo orizzonte, però, per contro, succede che la censura comincia ad occuparsi meno di ciò che il teatro propone perché questo genere ha assunto un carattere quasi privato più che pubblico. Il fatto che la censura, dal 165 a.C., a Roma, abbassi la guardia nei confronti degli autori di teatro ha delle ripercussioni, quali?

     La ripercussione più importante è che certi autori di teatro, probabilmente, cominciano a scrivere con maggior libertà. Perché diciamo “probabilmente”? Perché non siamo in possesso di materiali con i quali si possa confermare pienamente questa ipotesi: le studiose e gli studiosi di filologia ci suggeriscono che possediamo, in proposito, un solo riferimento letterario. E il fatto che sia uno solo rende questo riferimento ancora più interessante. Ma prendiamo il passo e procediamo con ordine, in modo interlocutorio.

     Che cosa non permetteva di fare la censura? Non permetteva di costruire trame che fossero ambientate a Roma: quello che succedeva in scena – spesso di poco edificante – doveva avvenire in Grecia, a Roma tutto andava bene, i corrotti erano i Greci. Poi la censura non permetteva – e questo tema lo abbiamo studiato – che si tirasse in ballo il “mitico mondo di Janus” perché si prestava a ricordare questioni sociali – in particolare la “questione femminile” – e queste spinose questioni si davano per non esistenti a Roma. A questo proposito abbiamo potuto constatare come Plauto aveva eluso la censura con allusioni e con giochi di parole mentre Terenzio introduce nella narrazione elementi di riflessione con grande abilità formale ma senza però formulare esplicite denunce.

     La censura era soprattutto molto severa con chi avesse fatto esplicito riferimento – e nessuno si permetteva di farlo – al nome di Vesta [conosciamo bene questa figura, ne abbiamo studiato il carattere, e sappiamo che, in origine, ci aveva provato Livio Andronico a citarla ma aveva dovuto recedere], il nome di Vesta avrebbe immediatamente fatto pensare alla doppia valenza delle tre parole-cardine delle origini: porta, chiave e bastone, e si sapeva che nella mente di ogni donna questi tre termini avevano [e hanno ancora oggi...] una doppia valenza perché rappresentavano da una parte la sottomissione [dalla porta si entra, la chiave chiude e il bastone punisce] e dall’altra la volontà di liberarsi [dalla porta si esce, la chiave apre e il bastone sostiene il passo], di scrollarsi di dosso un giogo legislativo che le umiliava stabilendo che cosa avrebbero dovuto fare momento per momento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale occasione vi siete dovute o dovuti sottomettere?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     L’abbassamento della guardia da parte della censura fa sì che, in parte, questi divieti decadano e allora che cosa succede? Succede che le opere teatrali cominciano ad essere ambientate a Roma – nasce e si sviluppa una “commedia di ambiente romano” – e succede che gli autori cominciano a mettere in scena testi in cui ci sono espliciti elementi che rimandano alle metafore, alle allegorie, ai racconti mitici del “mondo di Janus”. Peccato che in proposito abbiamo solo un certo numero di indizi – possediamo dei nomi di autori, dei titoli di opere e un determinato numero di frammenti – che però non sono sufficienti per capire pienamente il fenomeno del teatro dopo Terenzio. Tuttavia, per fare il punto della situazione, prendiamo atto del materiale di cui siamo in possesso prima di occuparci di quello che – dal punto di vista filologico e della didattica della lettura e della scrittura – è il reperto più significativo.

     Nel corso del II secolo a.C., dopo il 165 a.C., fino a tutto il I secolo a.C., a Roma si sviluppa un nuovo modo di fare teatro. Abbiamo detto che il teatro diventa un genere di spettacolo non più di massa ma che coinvolge, in zone riservate, un segmento minoritario – la parte più riflessiva – della cittadinanza, per cui il controllo della censura diventa più blando e nasce una nuova forma di rappresentazione che prende il nome di “commedia di ambiente romano [la togata]”  che mette in scena con vivacità aspetti della vita quotidiana del popolo, del mondo del lavoro e delle usanze della vita di provincia. La figura dello schiavo, che era stata così importante nelle commedie di Plauto, di Stazio e di Terenzio, quasi scompare e i personaggi femminili diventano spesso protagonisti di un’azione scenica che porta in primo piano le “questioni femminili [ce ne sono diverse in ballo]”. Attraverso i pochi frammenti che ci sono rimasti delle “commedie di ambiente romano [le togate]” s’intuisce, per esempio, che le madri – alle quali viene richiesta o, per meglio dire, imposta, per legge, una dedizione assoluta – sono portate a constatare che la maternità non è un fatto naturale come impongono le convenzioni, ma ci sono momenti durissimi, sentimenti di inadeguatezza, pulsioni oscure [questo tema è ancor oggi di grande attualità].

     I maggiori scrittori di questo tipo di commedia sono Titinio, Lucio Afranio e Tito Quinzio Atta: chi sono costoro? Conosciamoli, anche se di loro non si sa un granché.

     Della vita di Titinio non si conosce quasi nulla, si sa che è un contemporaneo di Terenzio e di lui rimangono i titoli di 15 commedie e circa 180 frammenti dei loro testi che rivelano una vena comica di tipo realistico sullo stile di Plauto e una buona analisi dei personaggi, soprattutto femminili, sullo stile di Terenzio.

     La “commedia di ambiente romano [la togata]” raggiunge la sua massima espressione con Lucio Afranio, che è vissuto nella seconda metà del II secolo a.C.. Afranio è un ammiratore di Terenzio, del greco Menandro e dell’antico tragediografo Euripide, e si rivolge con le sue opere a un pubblico più raffinato e più colto. Di Afranio ci rimangono i titoli di 43 commedie e circa 400 frammenti nei quali emerge uno stile elegante e linguisticamente ingegnoso. Le opere di Afranio trattano di vari temi che sono, però, soprattutto legati ai rapporti di parentela e ai problemi della vita familiare, una delle commedie di Afranio s’intitola Divortium: la legislazione romana prevedeva il divorzio che in pratica consisteva in una forma di ripudio dei mariti nei confronti delle mogli e questo fatto forniva molti spunti di riflessione.

     Anche di Tito Quinzio Atta, l’ultimo autore di “commedie di ambiente romano [le togate]” morto a Roma nel 77 a.C. [siamo già nel I secolo], non si conosce quasi nulla. Restano i titoli di 12 opere e pochi frammenti, insufficienti per valutare in modo attendibile la sua produzione. Possiamo dire che ricorre spesso anche nei suoi testi il tema familiare, almeno a giudicare dai titoli delle sue opere che ricalcano quelle di Afranio. Si sa che gran parte del successo di pubblico che hanno avuto le commedie di Tito Quinzio Atta è dovuto al famoso attore Quinto Gallo Ròscio. Questo è un personaggio che merita di essere ricordato: Ròscio è uno dei più grandi attori della Storia del teatro. Ròscio è un liberto, nativo dell’agro Solonio, nel territorio di Lanuvio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se prendete una guida del Lazio e seguite l’itinerario della via Appia in quella che si chiama la pianura Pontina incontrate la cittadina di Lanuvio dove trovate le testimonianze dell’antica Lanuvium fondata, secondo la leggenda, dal greco Diomede: fate un’escursione a Lanuvio, buon viaggio...

     Ròscio, per l’eccellenza dell’arte drammatica, soprattutto nelle parti comiche, ha acquistato una tale fama che il suo nome è diventato tipico per indicare un artista consumato. Ròscio è stato stimato ed è stato amico di importanti personaggi del suo tempo, tra i quali, in primo luogo, Cicerone, che ha preso da lui lezioni di declamazione e lo ha difeso in una causa di risarcimento di danni contro Fannio Cherea con un’orazione, Pro Ròscio Comoedo, di cui è rimasta buona parte: dal testo dell’orazione di Cicerone [76 circa a.C.] noi possiamo conoscere interessanti particolari sull’attività attoriale di Ròscio, ed è proprio Cicerone a metterci al corrente del fatto che: «Ròscio con la sua vivacità, naturalezza e caratterizzazione dei tipi ha contribuito notevolmente al successo di alcuni autori, come Quinzio Atta». Ròscio ha insegnato anche recitazione, e sull’arte della recitazione ha scritto un trattato, dove mette la recitazione alla pari con l’eloquenza per la sua efficacia espressiva. Cicerone, con i dati che ci ha fornito, ci mette nella condizione di dedurre che Ròscio sia morto, probabilmente, nel 62 a.C..

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In questi ultimi anni sono scomparse delle grandi attrici e dei grandi attori: volete ricordarne qualcuna, qualcuno ?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Incontriamo ancora una volta Cicerone sul nostro Percorso – il quale si dimostra un buon informatore – e, difatti, questo ulteriore incontro non è casuale: Cicerone, ancora una volta, ha da dirci qualcosa di interessante, di molto interessante in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Che cosa deve comunicarci Cicerone e attraverso quale oggetto ce lo deve comunicare? Cicerone entra in corrispondenza con noi di nuovo attraverso l’opera intitolata De officiis [I doveri] che abbiamo già citato la scorsa settimana per dire che nei primi due libri di quest’opera Cicerone riassume quello che Panezio di Rodi aveva scritto nella sua opera intitolata Del dovere, ricordate questo particolare?

     Cicerone scrive il De officiis [I doveri] nel 44 a.C. [è un anno caldo, è l’anno della morte violenta di Cesare e dell’inizio della fine della Repubblica] ed è il suo ultimo trattato filosofico-morale perché Cicerone muore l’anno dopo, nel 43 a.C. a Formia, in circostanze drammatiche, ma ne parleremo strada facendo, e questo trattato è stato redatto da Cicerone in uno stato di estrema afflizione esistenziale. Il De officiis è un’opera esemplare che ha esercitato un influsso fondamentale sull’etica del Medioevo, dell’umanesimo e dell’epoca moderna e contemporanea. Cicerone parte nella sua riflessione dalla considerazione che ogni domanda sul dovere mira innanzitutto al sommo bene e quindi alla sua realizzazione nella vita, e presenta le sue riflessioni in forma di ammonimento al figlio che studia ad Atene. In questo trattato Cicerone discute di ciò che è morale e di ciò che è utile, e della loro opposizione, dichiarando di attenersi al pensiero degli stoici, di Panezio di Rodi, ma di voler dar voce anche al proprio giudizio: difatti Cicerone non è propriamente uno stoico ma bensì è un eclettico e, strada facendo, studieremo che cosa significa. A proposito del rapporto tra il dovere e l’utile Cicerone scrive: «Caro Marco [suo figlio] se tu vorrai dedicarti alla politica per difendere i tuoi interessi, in nome dell’utile tuo, ad un certo punto tu penserai di non aver più alcun dovere da rispettare e penserai di poter violare ogni legge». La natura stessa – secondo Cicerone – ci ha affidato un ruolo in base al quale noi, in quanto persone, dobbiamo fare i conti con il nostro dovere individuale [officium] e con i nostri doveri sociali [officia]: facendo questo realizziamo la vera “humanitas” [e abbiamo studiato la valenza di questo termine e la prima fase dello sviluppo di questo importante concetto-cardine della Storia del Pensiero Umano].

     I doveri che prescrive la nostra Costituzione sono già, in parte, elencati in questo trattato e il tipo di trattatistica morale inaugurato da quest’opera instaura una tradizione che conduce direttamente a Seneca, agli apologeti pagani e cristiani, a Sant’Ambrogio, [che scrive anche lui un “De officiis” in chiave cristiana], a Cassiodoro [umanista ante litteram], fino alla rinascita carolingia, a Tommaso d’Aquino, a Francesco Petrarca, giungendo, attraverso gli scritti della Riforma luterana e degli illuministi inglesi e francesi, alle Costituzioni contemporanee.

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Fate l’inventario dei doveri che riporta  e prescrive il testo della nostra Costituzione...

     Noi, però, stiamo puntando l’attenzione su quest’opera, sul De officiis [I doveri] di Cicerone, a proposito delle significative considerazioni di carattere letterario con le quali lo scrittore riesce a dare un’impronta poetica – siamo nel territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” – a molte pagine del suo trattato. Spesse volte, quando vuole sostenere un ragionamento filosofico, Cicerone fa ricorso alla Letteratura e, nel tempo, questi interventi [come abbiamo già potuto constatare] sono diventati molto utili – in questo caso l’utile è doveroso – perché sono serviti [e molte volte sono risultati determinanti] nel lavoro di ricerca delle studiose e degli studiosi di filologia.

     Che cosa c’è di interessante nel testo del De officiis [I doveri] che stimola la nostra curiosità? Cicerone, nel terzo libro di questo suo ultimo trattato filosofico-morale, arricchisce il discorso esortativo rivolto al figlio Marco con una citazione che riguarda il teatro romano del II secolo: l’argomento di cui ci stiamo occupando, sul quale siamo abbastanza informate ed informati. Abbiamo già capito, sulla scia dell’incontro che abbiamo avuto con il grande attore Ròscio [e molte notizie utili su Ròscio le dobbiamo a Cicerone], che Cicerone è un appassionato di teatro, e, quindi, sa di che cosa parla quando cita un altro importante attore e impresario teatrale il quale, alla metà del II secolo a.C., ha messo in scena le commedie di Terenzio: Lucio Ambivio Turpione [che abbiamo citato più volte]. Di questo personaggio noi non sappiamo praticamente nulla se non che ha, caparbiamente, tenuto testa, finché è stato possibile, con la sua bravura e con quella degli attori della sua compagnia teatrale, alle contestazioni della piazza spesso manovrate da provocatori assoldati dai mercanti spregiudicati che vogliono liberare degli spazi pubblici per gestirli in ragione dei loro interessi commerciali [propter spectaculos].

     Cicerone dà per scontato che chi legge il suo trattato conosca Lucio Ambivio Turpione – anche se è vissuto più di un secolo prima – e, quindi, lo cita soltanto senza dare notizie su di lui ed è un vero peccato perché ciò che, probabilmente, Cicerone sa di questo personaggio, senza il supporto della scrittura, non è stato tramandato ed è caduto nell’oblio ma, per fortuna, non tutto è andato perduto. Cicerone parla di Lucio Ambivio Turpione come attore, come impresario teatrale, come primo autorevole rappresentante del cosiddetto “teatro intellettuale” e anche come raffinato autore, il fatto è che se Cicerone, a questo proposito, non lo avesse citato nel suo trattato a noi sarebbe venuto a mancare il sentiero sotto i piedi.

     Cicerone – mentre nel testo del De officiis [I doveri] espone il tema della “fedeltà al dovere” ammonendo ed esortando, in proposito, suo figlio Marco – racconta la trama di un dramma scritto da Lucio Ambivio Turpione il cui testo, e anche il titolo che Cicerone non cita, è andato perduto. Cicerone fa questa citazione per spiegare che, quando si richiede ad una persona di fare il suo dovere, bisogna pensare che non sempre le buone azioni doverose vanno a buon fine perché ci sono altri, non ligi al dovere, che propendono per realizzare ad ogni costo il loro interesse personale facendo saltare il contratto sociale e, quindi, con severità, devono intervenire le Leggi. In particolar modo ci colpisce il fatto che la protagonista [una vecchia nutrice] di questo dramma si chiami Vesta e noi capiamo che a Roma c’è anche chi ha il coraggio di sfidare la censura sebbene da una posizione molto defilata perché oramai il teatro è diventato uno spettacolo per un numero limitato di persone, rispetto alle masse che riempiono le piazze per dilettarsi con gli “spettacoli [de spectaculis]”.

     Ora non ci resta che concludere l’itinerario di questa sera leggendo questo brano e prendendo atto che nel testo di questa pagina emergono molti temi interessanti che danno forma ad un paesaggio intellettuale che, la prossima settimana, osserveremo da vicino.

LEGERE MULTUM….

Marco Tullio Cicerone, De officiis [I doveri]

E allora, mio caro Marco, perché tu capisca quanto il senso del dovere sia già inscritto nella nostra tradizione ti ricordo l’evocativo dramma di Lucio Ambivio Turpione, l’esponente più autorevole di quel teatro intellettuale di cui c’è sempre stato molto bisogno in una società che voglia riflettere. In quest’opera l’ambiente è quello di una vasta proprietà terriera, c’è una grande casa padronale con attorno le più modeste abitazioni degli schiavi che lavorano nei poderi della fattoria. I padroni sono due sagge e buone persone che hanno due figli gemelli ormai grandi i quali non sono, però, buoni e tolleranti come i loro genitori: sono prepotenti e crudeli soprattutto con i loro servitori. Lo sono un po’ meno con la loro vecchia nutrice dalla quale sono stati allevati che è la protagonista del dramma e che si chiama Vesta e che non si dà pace che questi due giovani, che hanno succhiato il suo latte da neonati e sono stati due bambini dolci e giudiziosi, siano diventati così malvagi, capaci di distruggere qualsiasi sentimento umano. I due fratelli più crescono e più si odiano vicendevolmente e cominciano, benché i loro genitori siano ancora vivi e capaci nel governo della casa, a contendersi l’eredità e vorrebbero anche impossessarsi del patrimonio di famiglia che è contenuto in un forziere sotto forma di gioielli preziosi e di monete d’oro accumulate con la fruttuosa vendita del grano negli anni.  I due figli diventano talmente aggressivi che i genitori, impauriti, affidano segretamente, perché la conservi, la chiave del robusto forziere alla vecchia nutrice Vesta perché è l’unica alla quale i due portano ancora un po’ di rispetto, e lei fa il suo dovere e, per sicurezza, cuce la chiave nell’orlo della sua tunica.

I due ingrati figli, refrattari ai doveri e dediti ai bagordi e alla violenza, aggrediscono i genitori costringendoli, per salvare la vita, a rifugiarsi lontano dalla masseria, nella foresta, ai margini della loro grande proprietà ospiti di accoglienti pastori.

I due fratelli, divenuti padroni, cercano invano la chiave del forziere e si accusano l’un l’altro di averla rubata e nascosta, e litigano, e in una di queste violente liti, mentre la nutrice cerca di dividerli, di farli ragionare, uno dei due uccide l’altro. Gli schiavi, allora, si ribellano e uccidono anche il fratello superstite che li aveva sempre tiranneggiati e vorrebbero loro, rimasti senza guida, impossessarsi della ricchezza del forziere ma la vecchia Vesta nega di sapere dove sia la chiave e poi parte per raggiungere i padroni, per metterli al corrente della tragedia avvenuta e per invitarli a tornare al loro posto: li raggiunge dopo aver camminato per diversi giorni, sempre seguita a debita distanza da una lupa alla quale l’autore ha affidato la narrazione dell’apologo. La lupa, fiutando l’odore dell’onestà di Vesta, non l’assale perché chi onora i doveri semina il Bene che dà armonia a tutta la Natura.

Giunta esausta, la vecchia Vesta, accolta con ammirazione dai padroni, li mette al corrente del dramma, li conforta pure, e riconsegna loro la chiave che lei ha custodito e, infine, compiuta la sua missione, raggiunge la riva del fiume che scorre lì vicino e lascia che il suo corpo, vecchio e stanco, si abbandoni nelle sue acque gelide e profonde. 

Il senso del dovere, o Marco, che è fortemente radicato nelle nostre umane lettere, deve radicarsi anche nei nostri cuori. Nella fattoria del dramma non c’è posto per i sentimenti umani, nemmeno per i più elementari perché la sopraffazione del più prepotente sui più deboli diventa l’unico legame sociale, così come succede in una stalla mal governata dove sarà sempre l’animale più ingordo a prevalere, sarà sempre il maiale più vorace a vincere.

     Quante considerazioni ci sono da fare su questo breve testo che ha anche una forte valenza poetica! Quanti temi emergono: la nutrice Vesta, i gemelli nemici, la chiave, la lupa benevola, persino il maiale della fattoria degli animali!

     Noi dobbiamo puntare l’attenzione su alcuni temi, prima di tutto su due che sono direttamente collegati alla didattica della lettura e della scrittura: qual è il significato di questa affermazione? Per rispondere, la prossima settimana, bisogna fare l’esegesi di questo brano, bisogna seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente. Perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona [Cicerone ci scrive un trattato esemplare in proposito], per questo la Scuola è qui.

     Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme, il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 10, 2012