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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’È LA TRASFORMAZIONE DEL TEATRO IN UN RAFFINATO FENOMENO ELITARIO ...

Lezione N.: 
12

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale     25-26-27  gennaio 2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’È LA TRASFORMAZIONE DEL TEATRO IN UN RAFFINATO FENOMENO ELITARIO ...

     Stiamo attraversando il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e sappiamo [ormai lo abbiamo imparato dopo circa tre mesi e mezzo di viaggio, di peregrinazione] che lo spazio leggendario più antico e misterioso di questa ampia area contiene un vasto paesaggio intellettuale che è stato chiamato il “mondo di Janus”. Abbiamo capito anche che questo paesaggio intellettuale, detto anche della “cultura ianuaria”, – rimosso, di solito, dai programmi scolastici – è costituito da elementi autoctoni frutto della cultura dei popoli aborigeni che, nel corso dell’Età assiale, più di 2500 anni fa, abitavano la valle del Tevere e da elementi di importazione che arrivano dalla cultura orfico-dionisiaca di origine ellenica propagatisi in tutta l’area mediterranea attraverso le migrazioni.

     Le migrazioni dei coloni greci verso occidente dal VII a.C. hanno fatto fiorire la civiltà della Magna Grecia [della  Mega Hellas Mega Hellas] nell’Italia meridionale; questa civiltà – che si sviluppa nelle polis elleniche [ioniche o doriche] sulle coste della Sicilia, della Calabria, della Basilicata, della Puglia, della Campania felix – ha condizionato e ha influito sul patrimonio di conoscenze dei popoli italici che risiedono nelle valli della dorsale appenninica centro meridionale e in particolare dei Romani quando cominciano a prendere il sopravvento.

     La cultura e la Letteratura latina, come sappiamo, nascono con un certo ritardo nel III secolo a.C. perché i Romani, nei secoli precedenti, si sono occupati esclusivamente della conquista del territorio, della gestione dell’imperium [sottomettere, distruggere, ricostruire] e, quando la cultura e la Letteratura latina si sviluppano, germogliano nel contesto della “sapienza poetica ellenistica” ormai ben radicata su tutta l’Ecumene [la terra abitata].

     Soggiornando in queste settimane nel mitico “mondo di Janus” – che costituisce lo strato più profondo ed inquietante della cultura Latina, dal quale emerge l’eco di questioni sociali irrisolte, prima fra tutte la “questione femminile” – siamo entrate e siamo entrati in contatto con la Letteratura romana degli albori. La Letteratura romana degli albori nasce, quindi, con il contributo del “sapere poetico” greco attraverso un complesso e dinamico rapporto di amore e odio, e si sviluppa, come sappiamo, per mezzo della contaminazione con le culture diverse dei popoli italici – non c’è un autore latino degli albori che sia romano, provengono tutti [di solito in condizioni di schiavitù] dalle province conquistate e sottomesse – per cui la civiltà latina prende forma da un’attività che si svolge in un laboratorio intellettuale dove i frutti prodotti, soprattutto di natura linguistica e stilistica, maturano in base a processi di integrazione e di contaminazione culturale [la “ contaminatio”].

     La Letteratura latina ha inizio – come sappiamo, su ispirazione del Senato – con il genere letterario del teatro e, difatti, ci sta ancora accompagnando uno dei più geniali autori di teatro della Storia del Pensiero Umano: Tito Maccio Plauto, con il quale abbiamo fatto amicizia. La grandezza di Plauto – vi ricordo che siamo alla metà del III secolo a.C. – è dovuta soprattutto alla sua versatilità linguistica: il latino di Plauto è una lingua esemplare di integrazione culturale e di contaminazione intellettuale che amalgama insieme allegorie provenienti dal mondo mitico delle origini [dal “mondo di Janus”], termini dialettali e popolari [soprattutto provenienti dai vernacoli dei popoli italici], parole inventate di sana pianta [è l’iniziatore della creatività neologistica] e parole greche della tradizione ellenistica utilizzate [facendo finta che non sia così] per descrivere i costumi romani. La lingua di Plauto è un capolavoro: è una delle lingue più versatili e ricche della letteratura latina e ha costituito un modello che – come abbiamo detto – è andato ben oltre la letteratura latina.

     Questa affermazione si collega ad una riflessione che avevamo anticipato qualche settimana fa [all’inizio di dicembre dello scorso anno] e che abbiamo ripreso la scorsa settimana in funzione della didattica della lettura e della scrittura, e ora è di qui che riprendiamo il passo sull’itinerario di questa sera accompagnati da Plauto che poi saluteremo [è in piena stagione teatrale e deve tornare in scena].

     Sappiamo bene che la maggior parte dei più significativi scrittori latini non sono romani ma sono originari delle province conquistate – anche Plauto è un umbro di Sàrsina [un umbro-romagnolo] – e questa situazione sappiamo che ha influito sullo sviluppo dei virtuosi processi di integrazione e di contaminazione culturale che hanno giovato alla formazione della lingua latina e all’evoluzione della Letteratura latina. Non esisterebbe la Letteratura latina, e non sarebbe comparso neppure il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”, se non ci fossero stati – a cominciare dal III secolo a.C. – processi di integrazione fra culture diverse ed esperimenti, per altro ben riusciti, di contaminazione linguistica. Questo fatto dovrebbe costituire oggi un motivo di riflessione.

     Abbiamo già ricordato la scorsa settimana che questo fatto – visto che la nostra lingua nazionale deriva dal latino, visto che ci sono le lingue neolatine che, nei secoli, hanno colonizzato il mondo – ha influito anche [e bisogna esserne consapevoli] sulla conformazione della nostra mente [sulla possibilità di avere una testa ben fatta piuttosto che ben piena], sul nostro modo di parlare e di scrivere: le lingue – ripetiamolo ancora [la Scuola non deve stancarsi di ripeterlo] – sono frutto di inventiva, di investimenti in intelligenza e sono esercitazioni e manifestazioni di creatività e la storia dei loro processi di formazione condiziona il modo di essere delle persone.

     L’incontro con il teatro di Plauto ci ha permesso, quindi, di trattare anche l’importante tema ellenistico dell’invenzione della lingua, della creazione delle parole, dell’ideazione del linguaggio scritto, che è un argomento di interesse  fondamentale per la nostra vita di relazione e per la capacità che ci fornisce di descrivere e di far esistere il mondo [senza il linguaggio il mondo è come se non ci fosse]. Plauto – per quanto riguarda la formazione della lingua attraverso l’integrazione e la contaminazione tra culture diverse – ha dato inizio ad una operazione intellettuale che ha uno sviluppo molto significativo, un’evoluzione che, nei secoli, non si è mai arrestata e che, tuttora, non s’arresta. Il tema della “contaminazione linguistica” – che dal III secolo a.C. appare sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” – si sviluppa attraverso un acceso e vivace dibattito culturale.

     Questo tema – come sappiamo – ci ha portate e ci ha portati ad incontrare, la scorsa settimana, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, un significativo personaggio [apprezzato anche da Plauto che non lo conosceva], uno scrittore che, in Italia, negli anni ‘50 e ‘60, ha animato, senza mai intervenire direttamente se non con le sue opere [vive molto appartato dal 1955], il dibattito sulla lingua intesa non come un “oggetto statico” ma come se fosse un “laboratorio permanente” di integrazione culturale e contaminazione intellettuale. Il personaggio di cui stiamo parlando – la scorsa settimana lo abbiamo appena presentato – si chiama Carlo Emilio Gadda: nato a Milano nel 1893 e morto a Roma nel 1973 [lo stesso anno del suicidio di Guido Morselli]. Carlo Emilio Gadda è uno scrittore che viene considerato uno dei più importanti della Letteratura europea del ‘900 anche perché è stato capace di creare e di dare valore a quel fenomeno che, dai tempi della “sapienza poetica ellenistica”, viene chiamato “contaminatio”: un fenomeno culturale che possiamo capire meglio proprio leggendo i testi delle opere di Gadda ed è per questo motivo che lo incontriamo in questo nostro viaggio.

     Carlo Emilio Gadda è autore di libri – certamente di non facile lettura se non con il metodo del LEGERE MULTUM – che stanno tra il racconto, il saggio, il grottesco, caratterizzati da una inesausta e originale invenzione stilistica con la quale crea un elaborato e composito impasto linguistico, un misto di forme colte e illustri [è un fine umanista], di forme tecniche [Gadda è un ingegnere], di forme dialettali, vernacolari e gergali [è un lombardo che si diverte a giocare soprattutto con i dialetti del sud] e di forme neologistiche [è uno straordinario inventore di parole].

     In finale di itinerario, la scorsa settimana, abbiamo letto l’incipit del più celebre romanzo di Gadda, un’opera che viene considerata tra le più significative della Letteratura del ‘900, che s’intitola Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e già il titolo è tutto un programma a proposito di “contaminazione linguistica. Torneremo tra poco sul testo di questo romanzo esemplare che ci porta in un ambiente dove affiorano certi aspetti inquietanti, simili a quelli che emergono nel “mondo di Janus”, prima però dobbiamo conoscere un po’ meglio Carlo Emilio Gadda, un grande scrittore poco conosciuto.

    Carlo Emilio Gadda è nato a Milano nel 1893 in una famiglia originariamente agiata, fino a quando non si è ridotta in ristrettezze a causa di una serie di investimenti disastrosi fatti da suo padre. Nel 1912 [un secolo fa] Gadda si iscrive ai corsi di ingegneria del Politecnico di Milano. Quando nel 1915 scoppia la prima guerra mondiale viene arruolato come ufficiale degli alpini e partecipa a molte azioni belliche prima di essere fatto prigioniero e deportato in Germania: lì comincia a scrivere un diario. Dopo la dura esperienza della guerra torna a Milano riprende a studiare e nel 1920 si laurea in ingegneria elettrotecnica e come ingegnere lavora in Italia e poi – sono gli anni della dittatura – va a lavorare all’estero soprattutto in Argentina. Dopo la seconda guerra mondiale si trasferisce a Roma ma non vuole continuare a fare l’ingegnere. Siccome ha tante amicizie letterarie su cui può contare e che conoscono le sue competenze, viene assunto con l’incarico di redattore dei programmi culturali della Rai per il Terzo Programma radiofonico: Gadda contribuisce a creare quell’esperienza qualitativa che caratterizza ancora oggi la programmazione di Radio Tre. Nel 1955, mentre comincia ad avere successo come scrittore, Gadda lascia la Rai e comincia a vivere appartato nel suo appartamento romano, che lascia molto raramente, assistito da una governante fino alla sua morte avvenuta nel 1973.

     La prima opera importante di Gadda sono i diari della sua esperienza durante la Grande Guerra pubblicati nel 1955 col titolo Giornale di guerra e di prigionia. Nel 1924 ha scritto il Racconto di ignoto italiano del Novecento, rimasto inedito fino al 1983. Seguono poi il romanzo La Meccanica e le prose intitolate Novella seconda che scrive tra il 1928 e il 1929 ma che vedono la pubblicazione solo nel 1970 e nel 1971. Nel 1931 compare il primo libro [pubblicato in vita] di Gadda che è una raccolta di racconti intitolata La Madonna dei filosofi, seguita nel 1934 dai racconti de Il castello di Udine. Fra il 1938 e il 1941 escono sulla rivista Letteratura alcune parti del romanzo La cognizione del dolore che appare in volume nel 1963 e che oggi viene considerato un classico. Nel 1944 appaiono i racconti de L’Adalgisa e nel 1946, sempre sulla rivista Letteratura, esce una prima redazione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana che viene pubblicato in volume nel 1957. L’elenco degli scritti di Carlo Emilio Gadda potrebbe continuare, ricordiamo ancora un’opera, pubblicata nel 1967, che s’intitola Eros e Priapo – l’abbiamo già citata qualche anno fa – il cui testo, che analizza e satireggia contro i deprecabili costumi fascisti che contrabbandano l’immoralità per “maschia virilità”, è stato portato recentemente a teatro per la sua attualità sul tema del rapporto tra sesso e potere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’elenco delle opere di Carlo Emilio Gadda è lungo, noi ne abbiamo citate solo alcune... Cercate in biblioteca i libri che contengono le opere di Gadda, sfogliateli, leggetene qualche pagina, è probabile che il suo modo di scrivere – di cui abbiamo descritto le caratteristiche – catturi la vostra attenzione...

     E adesso leggiamo ancora qualche pagina tratta dal romanzo di cui la scorsa settimana abbiamo letto l’incipit, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: il titolo è emblematico a proposito di “contaminazione linguistica. Questo romanzo è stato pubblicato nel 1957 ma sappiamo che è stato scritto un decennio prima e oggi viene considerato uno dei capolavori assoluti della Letteratura del Novecento europeo: su questo testo si sono cimentati i più esperti traduttori perché non è facile renderlo in un’altra lingua che non sia quella di Gadda. Questo romanzo, infatti, si avvale di un linguaggio ricchissimo e composito, dove dialetti centro meridionali [quelli dei popoli italici?], italiano letterario [quello dell’area della cultura classica?] e neologismi [parole inventate con intento ironico] si fondono in una miscela esemplare, fortemente espressiva: questo testo è uno dei più significativi della Letteratura europea del XX secolo perché in esso il fenomeno della “contaminazione culturale”, che ha le sue radici negli acquitrini del “mondo di Janus”, emerge in modo rappresentativo.

     Quer pasticciaccio brutto de via Merulana appartiene al genere letterario del “giallo”, e di questo giallo non verremo mai a sapere chi sia il colpevole: come tutti i romanzi di Gadda, infatti, anche il Pasticciaccio è come se fosse incompiuto, coerentemente con la visione che Gadda ha del mondo. Gadda [questo concetto piace anche a Plauto] concepisce la realtà come un ingrovigliatissimo “garbuglio”, tragicamente impossibile da dipanare per arrivare a possederne almeno un bandolo: la verità – sostiene Gadda – ci è negata. Ma se la verità è negata non ci si può comunque – così pensa lo scrittore – sottrarre alla ricerca, all’esercizio dell’intelligenza e dell’ironia, all’illusorio ma suggestivo esorcismo della nostra sostanziale incapacità di conoscere.

     E intelligenza e ironia – sebbene non sembri dal suo aspetto – non mancano al protagonista del romanzo, il dottor Francesco Ingravallo, detto Ciccio, trentacinquenne, molisano di origine, comandato alla squadra mobile di Roma, il quale, nell’Urbe fascistissima del 1927, si trova ad indagare su un delitto che coinvolge le sue amicizie e anche i suoi segreti affetti. Il commissario Ingravallo [nel quale l’autore si rispecchia] – che è un convinto seguace del dubbio programmatico e nutre la sua mente con testi filosofici che coltivano questa idea – indaga muovendosi tra indizi assai labili e improvvise scoperte che complicano sempre di più, anziché semplificare, il quadro delle ricerche. Il commissario Ingravallo indaga nella consapevolezza della inutilità degli sforzi che lui fa per mettere ordine in un contesto insensato, al quale corrisponde drammaticamente l’insensatezza della storia e, soprattutto, la stoltezza del regime sciagurato che gli è toccato in sorte di dover servire e che ostacola sistematicamente il suo lavoro perché chi è coinvolto ha il potere di intralciarlo e lui non ha sufficienti strumenti di contrasto.

     La Scuola consiglia la lettura o la rilettura di quest’opera, complessa, non facile da leggere, che costituisce però un utile esercizio per mettere in movimento le azioni dell’Apprendimento perché, in compagnia del dottor Francesco Ingravallo, ci si misura con l’intelligenza e l’ironia, e ora leggiamone ancora qualche pagina: il commissario è stato invitato a pranzo dai Balducci, noi lo seguiamo in via Merulana e si ha la sensazione come di entrare in una specie di “mondo di Janus”, ammesso che si abbia la percezione del mitico “mondo di Janus”.

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Per il 20 febbraio, domenica, Sant’Eleuterio, i Balducci lo avevano invitato a pranzo: «Alle tredici e mezzo, se le è comodo». Era, disse la signora, «il genetliaco di Remo»: e infatti Remo, all’anagrafe, era stato inscritto come Remo Eleuterio, e poi battezzato per tale a San Martino ai Monti, così da rammentare il natalizio. «Due nomi poco graditi a chelli ‘rrecchie,» pensò don Ciccio, «sia l’uno che l’altro». Per un menefreghista di quel calibro erano addirittura sprecati. L’invito, comme fata vota, gli era stato fatto per telefono due giorni avanti, con una chiamata «dall’esterno» al Collegio Romano, cioè a Santo Stefano del Cacco. Prima, una voce melodiosa, gli aveva parlato la signora: «Sono Liliana Balducci»: era poi subentrato il caprone, il Balducci uomo, a rincalzo.

... continua la lettura ...

 

     Oltre alle nipoti – ma sarebbe meglio dire alle finte nipoti [una linfa da “mondo di Janus”] – compare anche un cugino [un fauno?] e faremo la sua conoscenza attraverso i pensieri indagatori del dottor Ingravallo.

     Plauto sta seguendo con molto interesse l’andamento del nostro itinerario e c’invita a continuare a riflettere sull’evoluzione del genere letterario della commedia che avviene a Roma tra il III e il II secolo a.C.. A Plauto sembra di poter dire che lo scrittore Carlo Emilio Gadda fonde insieme anche i due caratteri della commedia latina dell’età degli albori: che significato ha questa sua affermazione? Quella di Plauto – come abbiamo studiato – è una commedia farsesca dove l’ironia è di natura comica mentre con i suoi successori la commedia si trasforma in un genere più pensoso, più malinconico dove l’ironia è di natura drammatica. Ma chi sono i successori di Plauto che favoriscono l’evoluzione della commedia in modo tale che il teatro cessa, gradualmente, di essere un avvenimento di carattere popolare per diventare un fenomeno elitario destinato ad un pubblico colto? Anche in questo fatto sembra emergere una dipendenza di Roma rispetto all’Ellade: anche in Grecia succede – anzi, è già successo – che il teatro non raccoglie più tutti gli abitanti della polis intorno a quel rituale catartico che è la tragedia o la commedia antica ma diventa un fenomeno minoritario che interessa solo alle persone istruite. Ma chi sono i successori di Plauto? I successori di Plauto sono due personaggi che si chiamano: Cecilio Stazio e Publio Terenzio Afro.

     Cecilio Stazio [230 ca-168 a.C.] è un gallo cisalpino originario dell’Italia settentrionale, forse è nato a Mediolanum, l’odierna Milano intorno al 230 a.C.. Stazio arriva a Roma come schiavo di guerra dopo la battaglia di Casteggio [222 a.C.] dove i Romani sconfiggono definitivamente i Galli Cisalpini dopo averli messi in fuga tre anni prima da Telamone. In questo periodo, tra la prima e la seconda guerra punica [dal 241 al 218 a.C.], i Romani occupano la Sardegna, la Corsica, l’Illiria e sottomettono i Galli Cisalpini.

     Abbiamo citato due località sulle quali possiamo puntare la nostra attenzione: Talamone e Casteggio. Talamone – immagino che tutte e tutti voi lo conosciate – è un pittoresco borgo marinaro sulla costa maremmana, che si trova su un promontorio roccioso all’estremità meridionale del parco dell’Uccellina. Duemilacinquecento anni fa Talamone era situato più a est, sulle pendici di quello che oggi si chiama il poggio di Talamonaccio – dove è venuto alla luce il basamento di un tempio romano della seconda metà del III secolo a.C. – ed era stato un porto etrusco, poi abitato dai Galli Cisalpini e, nel 225 a.C., viene occupato dai Romani dopo la battaglia, nella piana di Campo Regio che arriva fino alle sponde del fiume Osa, dove i consoli Lucio Emilio Papo e Attilio Regolo sconfiggono e mettono in fuga i Galli Cisalpini: la storia di Talamone, nei secoli, è assai intrigante e se consultate una guida della Toscana potete fare un’interessante escursione virtuale per preparare una visita vera e propria, c’è anche Garibaldi che ci aspetta a Talamone e penso sappiate per quale motivo.

     Ma non si può fare a meno, citando Talamone, di invitare a fare un’incursione nella Commedia di Dante: quest’anno non era ancora capitata l’occasione di andare a sfogliare il volume della Divina Commedia che tutte e tutti noi abbiamo in casa nella nostra biblioteca domestica. Dante tira in ballo Talamone nel tredicesimo canto del Purgatorio quando ironizza nei confronti dei Senesi [secondo la tradizione i Galli erano stati il ceppo dei Senesi]. Scrive Dante nel finale del Canto XIII del Purgatorio: «Tu li vedrai tra questa gente vana | che spera in Talamone, e perderàgli | più di speranza che a trovar la Diana; | ma più vi perderanno gli ammiragli.».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggetelo, o rileggetelo, con l’ausilio delle note, il testo di questo canto e così capirete che cosa intende dire ironicamente Dante e quale ruolo ha la località di Talamone

Fate questo utile esercizio di lettura

     Casteggio, invece, è stato un castelliere fondato probabilmente dai Liguri 2500 anni fa, poi è stato abitato dai Galli Cisalpini e in seguito trasformato dai Romani [nel 222 a.C.] in città fortificata col nome di Clastidium per controllare una zona strategica: siamo in Lombardia nella provincia di Pavia, non lontani dal Po e, in proposito, potete consultare una guida della regione Lombardia per visitare questi luoghi a cui è stato dato il nome di Oltrepò pavese.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

È utile sapere che a Casteggio nell’edificio settecentesco della Certosa Cantù, restaurata nel 1999, è stato allestito il Civico Museo Archeologico di Casteggio e dell’Oltrepò pavese che racconta – attraverso i reperti che sono venuti alla luce – la storia di questi luoghi...

Cercate sulla rete il sito di questo Museo, buon viaggio: anche Casteggio come Talamone non è lontano da qui

     Ma torniamo a Stazio che si sente persino fiero di aver messo in moto, con la sua presenza, questa attività di ricerca e di apprendimento.

     Il padrone di Stazio è un tale Cecilio, e Stazio ne prende il nome dopo essere stato affrancato. Cecilio Stazio è stato amico di Ennio: noi non sappiamo ancora chi sia Ennio e che cosa voglia dire essere “amico di Ennio” e questo è un argomento che dipaneremo strada facendo. Di sicuro Stazio ha fatto parte del Collegium scribarum histrionumque, la più importante associazione degli scrittori e degli attori fondata da Livio Andronico [abbiamo già parlato della fondazione di questo Collegium]. Per un quindicennio, tra la morte di Plauto [184 a.C.] e la prima opera di Terenzio [che dopo incontreremo], Stazio è stato il commediografo preferito dal pubblico, ma ormai il pubblico del teatro era formato dalle persone più raffinate perché per il popolo [ignorante e beota] cominciano a comparire e a svilupparsi altre forme di divertimento meno impegnate e meno cervellotiche. Stazio muore, secondo la tradizione, nel 168 a.C., un anno dopo Ennio.

     Di Cecilio Stazio rimangono i titoli di 44 commedie, ne ricordiamo alcuni: Andria [La donna di Andro], Epistathmos [L’inquilino], Gamos [Il matrimonio], Androgynos [L’ermafrodita], Dàrdanus [Il troiano], Epicleros [L’erede], Epistola [La lettera]. Contrariamente a Plauto che titola tutte le sue opere in greco, Stazio comincia a titolare le sue commedie anche in latino.

     C’informa Aulo Gellio che la commedia di maggior successo di Stazio s’intitola Plocium [La collana]: il fatto è che di quest’opera così come di tutte le altre opere teatrali di Stazio, del testo se ne possiede solo qualche frammento. Si capisce però che anche Stazio, come Plauto, si ispira alle opere dell’ateniese Menandro.

     Ci sono rimasti circa 300 frammenti delle commedie di Stazio ed è un materiale insufficiente per dare una seria valutazione dello scrittore. Quando però il poeta Volcacio Sedigito ha compilato, nel 100 a.C., una classifica di merito dei poeti latini [il Canone di Volcacio Sedigito] pone Cecilio Stazio al primo posto e, quindi, c’è da pensare che sia stato un autore di alto livello, la cui produzione stava al passo con quella di Plauto e di Terenzio. Dai frammenti si capisce che nei testi di Stazio resta la vena farsesca e restano le trovate pirotecniche del teatro plautino anche se attenuate ed esposte in modo più garbato. Probabilmente nell’opera di Stazio c’è una attenzione più grande alla coerenza degli intrecci e c’è una maggiore raffinatezza nei particolari.

     Terenzio Varrone c’informa che Cecilo Stazio non esibisce più le sue commedie sulle piazze ma in spazi più ristretti, più intimi: si capisce che il teatro di Stazio viene presentato ad un pubblico colto e in questo – è ancora Varrone ad informarci – ottiene l’aiuto di un prim’attore, che è anche un impresario teatrale e che si cimenta pure come scrittore di drammi, questo personaggio si chiama Lucio Ambivio Turpione che è entrato nella Storia della Letteratura come il primo fautore di un teatro di carattere intellettuale. Lucio Ambivio Turpione lo rincontreremo prossimamente perché è rimasta memoria di una sua opera su cui, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo riflettere.

     Ma a proposito di Cecilio Stazio adesso dobbiamo aprire una ulteriore parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché siamo in possesso di un riferimento interessante che non ci può sfuggire.

     Uno dei frammenti, relativo al testo della commedia di Stazio intitolata Dàrdanus [Il troiano], dice così: «Il bollente Achille, come ognuno sa, si era cibato in gioventù di midolla di leone». Questo frammento è stato utilizzato da uno scrittore francese per fare una riflessione di carattere umoristico: questo scrittore si chiama Alphonse Allais [che abbiamo citato alla fine degli anni ‘80], nato a Honfleur nel 1854 e morto a Parigi nel 1905. Alphonse Allais ha vissuto in un periodo particolarmente creativo delle arti francesi, nel ventennio tra il 1880 e il 1900 [la Belle Epoque], e si è cimentato in un genere difficile: il breve racconto umoristico.

     Alphonse Allais è un “fumiste”, un “burlone arguto e intelligente” [una categoria alla quale appartiene anche il nostro Achille Campanile] che con le sue “fumisteries [i suoi testi ironici e surreali]” è stato capace di descrivere un’epoca in modo molto efficace. Il “breve racconto umoristico” è un genere destinato ad essere legato allo spirito del suo tempo e, quindi, particolarmente deperibile; invece i racconti di Alphonse Allais, invecchiando, hanno acquistato “un aroma fragrante e sottile” e dagli anni ’60 – riscoperti e particolarmente apprezzati dalle studiose e dagli studiosi di linguistica – sono stati raccolti e ripubblicati e costituiscono un interessante materiale di lettura. Nel 1987 un certo numero di racconti di Alphonse Allais sono stati tradotti in italiano e pubblicati con il titolo Un dramma davvero parigino e altri racconti. Molte sono ancora le notizie che potremmo dare sulla vita e sull’opera di Alphonse Allais ma non mancherà l’occasione di incontrarlo altre volte e poi lo trovate in biblioteca.

     E ora leggiamo il racconto che c’interessa.

LEGERE MULTUM….

Alphonse Allais, Un dramma davvero parigino e altri racconti

GERMI

                 Il bollente Achille, come ognuno sa, si era cibato in gioventù di midolla di leone.

                                                                                                                                                         Cecilio Stazio, Dàrdanus

Il bollente Achille, come ognuno sa, si era cibato in gioventù di midolla di leone. Siffatto nutrimento quotidiano gli trasmise un coraggio di cui in seguito avrebbe fornito ampia prova.  Era, quello, il primo passo di una teoria dell’adattamento che non chiedeva che di procedere: e procedé.    L’abituale consumatore di carne di tigre o di pantera diventa in breve il più crudele degli esseri?

Pascetevi frequentemente di maiale stagionato, e ben presto presenterete tutti i segni esteriori della crapula senile.

Un militare che si sia abbandonato alla degustazione di cuori di lepre, diverrà inetto al mestiere delle armi, ma laddove ne mangi anche le zampe (delle lepri, non delle armi), lo si potrebbe utilizzare con profitto nel recapito di dispacci urgenti.

Potrei moltiplicare gli esempi all’infinito, ma occuperebbe spazio, e lo spazio mi è contato, tirannicamente.  Ogni regola tuttavia ha le sue eccezioni.

Tutto questo preambolo per raccontarvi la storia di quei tali, fin allora calmi e tranquilli

Arrivati senza preavviso in casa di un amico rurale costoro si misero a tavola, senza far complimenti, davanti a un’omelette improvvisata (da una domestica di fresca assunzione, notate il particolare) e altre pietanze la cui menzione non farebbe che allungare il racconto (e lo spazio mi è tirannicamente contato).

Quelle brave persone avevano appena consumato la frittata, che la cristalleria dell’ospite e i suoi oggetti mobiliari presero a volare nello spazio, proiettati violentemente, senza ragioni apparenti, dagl’invitati.

Questi ultimi non si fermarono lì Ma il resoconto di tali violenze (ho già detto, mi pare, che ho lo spazio contato, tirannicamente).

Era accaduto semplicemente che la domestica (da poco assunta) aveva fatto la frittata con delle uova provenienti da un pollaio riservato a volatili da combattimento, tutti pluridecorati nei concorsi d’Inghilterra e di Fiandra.

E curioso pensare che in una di quelle uova, in un rosso tranquillo, in un bianco un po’ inquietante, formicolino i germi del litigio, dell’inimicizia, dell’assassinio.

È ben strana, la natura!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quando consumate un alimento vi capita di pensare anche alle particolari virtù che può contenere?...  Quali alimenti sono particolarmente virtuosi per voi?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Nel corso dei secoli la critica letteraria ha discusso a lungo per stabilire chi fosse il più grande tra Plauto, Stazio e Terenzio, che stiamo per incontrare. Si sono formate, a questo proposito, differenti correnti di pensiero ma a noi – che percorriamo le strade dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale – non interessa fare le graduatorie perché da tutti questi personaggi abbiamo ereditato qualcosa di utile e di bello ed è giusto che ne facciamo tesoro.

     Intanto abbiamo capito che il teatro a Roma, tra il III e il II secolo a.C., da avvenimento popolare che viene rappresentato sulle piazze, diventa un fenomeno elitario, un evento di nicchia e questo fatto dipende anche dall’influsso della nuova commedia greca che propone un teatro più raffinato negli intrecci, nella caratterizzazione dei personaggi e nell’uso della lingua. I testi teatrali diventano più impegnati: la contaminazione culturale prevede si faccia sempre più riferimento a investimenti in intelligenza più sofisticati e le allusioni mitiche che assumono una valenza di carattere politico – che già nei testi di Plauto potevano essere comprese attraverso un esercizio filologico [come abbiamo studiato] che solo una minoranza poteva compiere – diventano vere e proprie strutture narrative: che cosa significa? Per capire questa affermazione bisogna incontrare Terenzio, il terzo grande protagonista del teatro degli albori della Letteratura latina. Possiamo affermare, in modo metaforico, che l’opera di questi tre personaggi – Plauto, Stazio e Terenzio – porta la “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” a venir fuori dall’acquitrino del “mitico mondo di Janus” e a collocarsi su un territorio più elevato da dove la cultura ianuaria [aborigena] può essere osservata e interpretata. Chi è Terenzio?

     Su Publio Terenzio Afro [190 -160 ca. a.C.]  abbiamo scarse notizie che possiamo ricavare da una biografia scritta da Svetonio e riportata dal grammatico Elio Donato insieme a un prezioso commento alle sue commedie. Terenzio è originario di Cartagine [anche lui, quindi, come Plauto e Stazio proviene dalle file dei “nemici”] ed è stato condotto a Roma in giovane età come schiavo, con il nome di Afer [Africano], dal senatore Terenzio Lucano che, prima ha provveduto a dargli una buona educazione, e poi lo affranca e così, come era consuetudine, Terenzio assume il nome dell’ex padrone. Per il suo ingegno e per la sua cultura Terenzio entra subito a far parte del ceto intellettuale della città diventando amico soprattutto di Gaio Lelio e di Scipione l’Emiliano, che sono i fondatori del primo Circolo culturale romano [al fenomeno dei Circoli culturali, abbiamo detto, dobbiamo dedicare una riflessione] nel quale si coltivano gli aspetti più innovativi della cultura filo-ellenica: il ceto intellettuale romano – che si forma in seno alla classe mercantile – ama la Grecia e a questa mentalità, come sappiamo, si oppone Catone il Censore [che continua a viaggiare insieme a noi] il paladino della tradizione agraria dell’antica Repubblica. Con questa annotazione siamo ritornate e siamo ritornati al punto da dove eravamo partiti alcuni mesi fa quando [ricordate?] abbiamo detto: “Adesso facciamo qualche passo indietro per studiare le origini della Letteratura latina”.

     Ebbene nel Circolo culturale fondato da Gaio Lelio e da Scipione l’Emiliano [il Circolo degli Scipioni] Terenzio fa emergere, con il suo teatro, un concetto significativo legato ad un valore che la cultura greca chiama “paideia paideia”, un termine che possiamo tradurre con le parole “educazione, istruzione, formazione intellettuale” e che, in latino, viene reso con la parola “humanitas”. Questa parola-chiave, inizialmente, serve per mitigare il concetto di “imperium” [come dire: dovremmo comandare con indulgenza e magnanimità, ma il condizionale è d’obbligo] poi, gradualmente acquisterà una sua autonomia fino a diventare uno dei termini trainanti di tutta la cultura dell’età di mezzo e, a suo tempo, lo studieremo.

     Proprio nel Circolo degli Scipioni Terenzio viene incoraggiato a diventare autore di commedie: la prima, intitolata Andria, fu rappresentata nel 166 a.C.. Catone il Censore ha ragione quando inveisce contro il ceto mercantile che sta cambiando i connotati della Repubblica: il ceto mercantile, infatti, non dà prove di moralità anche perché all’interno della classe mercantile c’è uno scontro tra “mercanti illuminati” e “mercanti spregiudicati” che avrà delle conseguenze molto negative con l’andar del tempo per le Istituzioni romane. Gli Scipioni appartengono alla categoria dei “mercanti illuminati” perché si occupano anche di cultura – sebbene, in quanto a spregiudicatezza non siano da meno degli altri – e vengono spesso attaccati, con pesanti calunnie, dai rappresentanti di altre famiglie mercantili che contendono loro il potere economico. Anche Terenzio rimane coinvolto in questo scontro, che si fa sempre più acuto alla metà del II secolo a.C., e subisce molte calunnie e maldicenze tese a screditarne la figura morale e artistica: si dice in giro che siano Gaio Lelio e Scipione l’Emiliano a suggerirgli, a dettargli, le battute più satiriche che sarebbero indirizzate contro i loro avversari. Forse è per questo motivo che Terenzio, con il pretesto di conoscere meglio gli usi e i costumi della Grecia, parte in viaggio dopo il 160 a.C. verso Atene e non fa più ritorno a Roma. I dettagli sulle circostanze della sua morte per annegamento – raccontati dai suoi biografi – sono poco credibili: si pensa ad un voluto accostamento con la morte per annegamento di Menandro, il suo ispiratore greco.

     I testi delle sei commedie composte da Terenzio ci sono pervenuti integri, purtroppo però le opere di Terenzio non vengano più rappresentate. La prima commedia di Terenzio s’intitola Andria e l’avrebbe letta a Cecilio Stazio nel 166 a.C. e lui, che in questo momento è un’autorità in campo teatrale, lo avrebbe lodato e invitato a continuare a scrivere ma sta di fatto che Stazio, secondo la tradizione, è morto due anni prima, nel 168 a.C., quindi questo avvenimento sa di leggenda. I titoli delle altre commedie di Terenzio sono: Il punitore di se stesso, L’eunuco, Formione, I fratelli e Hècyra [La suocera].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La commedia di Terenzio intitolata Hècyra [La suocera] ha lasciato il segno nella Storia della Letteratura... Qual è il segno più positivo che ha lasciato vostra suocera nella vostra mente?... 

Scrivete quattro righe in proposito...

     Gli intrecci delle commedie terenziane non si discostano da quelli di Plauto, anche le commedie di Terenzio mettono in scena intrighi amorosi, conflitti tra giovani e vecchi, specialmente tra padri e figli, astuzie di schiavi e capricci di cortigiane, equivoci che si risolvono felicemente per capovolgimenti della sorte o per improvvisi riconoscimenti.

     Ma qualcosa è cambiato nello stile teatrale e Terenzio non è Plauto: non ha i suoi ritmi incalzanti, la sua prorompente comicità, il gusto per il fantasioso e per le accentuazioni grottesche e paradossali così care al pubblico della piazza. Terenzio è un autore meno brillante e meno vivace perché vuole curare il buon gusto e la cultura raffinata, ed è in cerca di un equilibrio che non si concilia con la comicità esasperata. Terenzio vuole costruire una simmetria scenica che favorisca maggiormente la riflessione e, quindi, con Terenzio, ad un’azione teatrale movimentata ne subentra una più statica: la commedia, che si era già trasformata con Cecilio Stazio, con Terenzio cambia forma e diventa un genere più pensoso, più malinconico dove l’ironia è di natura drammatica. Questo fa sì che il teatro da semplice spettacolo popolare diventa un intrattenimento d’elite con meno doppi sensi, con pochissime espressioni scurrili, e il meccanismo dell’allusione nei confronti dei temi politici e sociali più scottanti viene ad intrecciarsi con la stessa struttura narrativa: che cosa significa? Il tema spinoso [come la pianta del biancospino che, sotto forma di corona, cinge il capo delle spose romane] della “questione femminile” continua ad essere dominante anche nelle opere di Terenzio ed entra decisamente nella narrazione senza doppi sensi [come quelli di Stazio] o giochi di parole [come quelli di Plauto]: in quasi tutte le commedie di Terenzio, per esempio, lo stupro – che nella società romana del tempo è quasi considerato come se fosse uno strumento di seduzione secondo lo stampo mitico ereditato dal “mondo di Janus” [sono un dio e vado a caccia di ninfe] – viene raccontato con un’ironia di natura drammatica che, pur stimolando il sorriso, lo fa apparire come un gesto da condannare che inficia anche l’eventuale successiva azione di pacificazione riparatrice tra l’uomo e la donna coinvolti.

     Facciamo un esempio leggendo un frammento tratto dalla commedia intitolata L’Eunuco. Cherea è un giovane che s’innamora della bellissima Panfila, che è una schiava che viene tenuta segregata, affidata a Taide e a Pizia – poi si scoprirà invece che Panfila è una libera cittadina – e per poterla avere, prima di altri, Cherea penetra nella casa di Taide travestito da eunuco e la seduce usandole violenza. La vicenda si conclude col matrimonio riparatore dei due, ma Terenzio fa riflettere gli spettatori sul fatto che questa relazione, inficiata dalla violenza, non ha un buon inizio.

LEGERE MULTUM….

Publio Terenzio Afro, L’Eunuco  Atto V  Scena prima

TAIDE  (Uscendo di casa con Pizia) La vuoi smettere, disgraziata, di darmi risposte così evasive? «So non so è andato via ho sentito dire io non c’ero» Vuoi dirmi chiaro e tondo che cosa c’è? La ragazza ha il vestito tutto strappato, ha subito violenza, piange, non parla; l’eunuco è scomparso. Perché? Che cosa è successo? Parli o no?

PIZIA  Povera me! Che cosa vuoi che ti dica? A quanto pare non era un eunuco.

TAIDE  E chi era, allora?

PIZIA  Cherea.

TAIDE  Quale Cherea?

PIZIA  Quel ragazzo, il fratello di Fedria.

TAIDE  Che cosa stai dicendo, assassina?

PIZIA  È la verità, lo so di sicuro. 

TAIDE  Ma noi che cosa c’entriamo? Perché s’è fatto portare a casa nostra?

PIZIA  Non lo soa meno che, forse, non sia innamorato di Panfila.

TAIDE  Ah, povera me, sono rovinata! Che disgrazia, se è vero quel che dici! È per questo che piange la ragazza?

PIZIA  Sì, credo.

TAIDE  Cosa dici, maledetta? È questo che ti avevo raccomandato uscendo di casa?

PIZIA  Che dovevo fare? L’ho affidata a lui, come avevi ordinato tu.

TAIDE  Disgraziata, hai consegnato la pecora al lupo. Che rabbia, essermi fatta infinocchiare così! (Vedendo di lontano sopraggiungere Cherea) Ma chi è quel tale, là in fondo?

PIZIA  Zitta zitta, padrona mia, ti supplico! Siamo salve! È proprio lui, l’abbiamo in pugno!

TAIDE  Dov’è?

PIZIA  Guarda lì a sinistra, lo vedi?

TAIDE  Sì.

PIZIA  Fallo arrestare, subito!

TAIDE  E che cosa ce ne facciamo, sciocca?

PIZIA  Che cosa ce ne facciamo, dici? Ma guardalo, per favore! Non vedi che faccia di bronzo? Non ti sembra? Guarda che espressione strafottente!

     In una sera di primavera del 165 a.C. viene rappresentata per la prima volta la commedia di Terenzio intitolata Hècyra [La suocera]. Ad un certo punto gli spettatori, in piazza, cominciano a sbraitare, a fare tumulto e la recita viene interrotta – per motivi di ordine pubblico – e sostituita con uno spettacolo di saltimbanchi. Da questo momento le rappresentazioni teatrali non si tengono più in piazza ma in luoghi più raccolti. Qual è la ragione del totale fallimento della commedia di Terenzio in piazza, mentre quando viene rappresentata, qualche tempo dopo, nel Circolo degli Scipioni, di fronte ad un pubblico colto, dalla compagnia di Lucio Ambivio Turpione riscuote un meritato successo?

     Sono belle domande alle quali cercheremo di rispondere, però, non lo potremo fare nel prossimo itinerario – d’altra parte la Suocera di Terenzio può attendere perché è una donna paziente e molto comprensiva, alternativa al luogo comune che dipinge le “suocere” come figure dure, rigide e intransigenti –. La prossima settimana, in casa degli Scipioni [dove sono ospiti], ci aspettano due personaggi importanti, due intellettuali greci [uno storico, Polibio di Megalopoli e un filosofo, Panezio di Rodi] che hanno contribuito a cambiare la mentalità romana, una mentalità troppo legata alla praticità materiale, all’imperativo: “dobbiamo immediatamente fare qualcosa [di solito questo qualcosa è stato un atto di distruzione]”, piuttosto che seguire l’ammonimento: “dobbiamo riflettere per fare, al più presto, la cosa più giusta, quella che abbia i risvolti più umani”.

     Ora, per concludere, torniamo da don Ciccio Ingravallo il quale non gradisce la presenza in casa Balducci del cugino della signora Liliana dalla quale lui è un po’ ammaliato. Leggiamo questa pagina, ne leggeremo ancora qualcuna prossimamente.

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

C’era, duole dirlo, in don Ciccio, una certa freddezza, come un’astiosa gelosia verso i giovani, specie i bei giovani, e tanto più i figli dei ricchi. Questo sentimento non valicava per altro i limiti ammissibili d’un fenomeno interno, non avrebbe mai influito sulla sua condotta di commissario di P.S.: lui, no, no, non era «bello»: e nemmeno gli riusciva di consolarsi con quel proverbio che aveva udito a Milano da una ragazza, al dispensario celtico di via delle Oche: «I òmen hin semper bèi».

Sentiva già, in cuore, un disappunto, una voce: una voce poco fa che già sussurrava in cassa, nella cassa non sapeva neanche lui se del cervello o del cuore, ma forse era l’effetto del bianco secco del Gabbioni, ch’è un vino un po’ nervoso, una voce che gli andava bucinando maledettamente: «Chiste è ll’amico», come il tan tan feroce di certi mali di testa, che lo prendevano alle tempie.

... continua la lettura ...

     Anche voi, pure impercettibilmente, accorrete numerose e numerosi perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la “percezione”], e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui e il viaggio continua e se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene, percettibilmente, in questo caso, andare tutti insieme

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 27, 2012