Autorizzazione all'uso dei cookies

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’è L’IDEA CHE UNA NINFA POSSA ESSERE TRASFORMATA IN DÈA PURCHÉ TACCIA LA VIOLENZA SUBITA: È L’ECO DELL’IRRISOLTA “QUESTIONE FEMMINILE” ...

Lezione N.: 
11

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale     18-19-20  gennaio 2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’è L’IDEA CHE UNA NINFA POSSA ESSERE TRASFORMATA IN DÈA PURCHÉ TACCIA LA VIOLENZA SUBITA:

È L’ECO DELL’IRRISOLTA “QUESTIONE FEMMINILE” ...

     Stiamo attraversando il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”.

     Sappiamo che lo spazio leggendario più antico e misterioso di questa ampia area contiene [ormai lo abbiamo imparato] un vasto paesaggio intellettuale che è stato chiamato il “mondo di Janus” e che viene presentato [viene narrato] come un ambiente acquitrinoso e boscoso [popolato da ninfe e da fauni] perché così si presenta, in realtà, la valle del Tevere ai tempi della comparsa di Roma, proprio come se fosse immersa nel mitico “mondo di Janus”; il fatto è che – soprattutto in funzione della didattica della lettura e della scrittura – questo tema significativo non è mai diventato materia di studio nella Scuola [non si comincia mai a studiare la civiltà latina dal mitico “mondo di Janus”, c’è stata una rimozione], e questo tema è rimasto, quasi esclusivamente, argomento di ricerca per specialiste e specialisti di filologia.

     Ebbene, su questo scenario acquitrinoso e boscoso abbiamo visto comparire negli itinerari scorsi – oltre alla figura “bifronte” di Janus [Giano, che dà il nome a questa cultura], il dio aborigeno della porta, della chiave e del bastone – altri due significativi modelli della mitologia romana delle origini importati dall’Ellade: il dio Saturno il quale si presenta come il nume tutelare della terra che, approdato in esilio nel “mondo di Janus”, dopo essere stato scacciato [secondo la leggenda] dall’Olimpo, assume soprattutto i connotati del dio della “distruzione” [il Saturno latino è un dio distruttore] e poi abbiamo visto comparire la dèa Vesta [uno dei personaggi mitici più importanti della Storia del Pensiero Umano e una delle figure mitiche meno citate esplicitamente e più evocate in forma allusiva], la divina nutrice, una figura che ricalca i caratteri della dèa greca Hèstia ma che, nel  “mondo di Janus”, si qualifica perché nasce [come ci racconta Ovidio nei Fasti] dalla metamorfosi non indolore della ninfa Carna, una trasformazione avvenuta in un contesto di ambiguità: la ninfa Carna subisce violenza dal padre Saturno e, in cambio del suo silenzio, diventa la dèa Vesta che si trincera dietro l’autoritarismo perché la violenza subita modifica il carattere e Vesta è “disturbata”. E noi sappiamo che il pensiero mitico nasce come l’eco di un disagio personale e sociale e, spesso, come denuncia in forma allegorica [e quindi è necessario imparare a leggere i racconti mitici in termini filologici] di situazioni di ingiustizia, di manifestazioni violente, di disuguaglianze di genere, di mancanza di pari opportunità, di subdole imposizioni.

     La dèa Vesta raccoglie in sé tutte le caratteristiche “virtuose” che la donna romana deve avere: sposa, madre, nutrice, custode del focolare domestico, ma tuttavia conserva nel suo intimo [facendo affiorare tutte le paure del potere nei confronti della natura femminile] l’essenza, considerata “nefasta”, della ninfa Carna, una figura giocosa che ravviva il desiderio del piacere che non può essere soffocato dal dovere perché il dovere e il piacere sono situazioni autonome l’una dall’altra – pur interagendo tra loro – che vanno vissute ciascuna secondo le proprie regole. Per questo i poteri costituiti – noi abbiamo a che fare con quella solida istituzione che è il Senato della Repubblica romana – pensano che la dèa Vesta non possa e non voglia essere rappresentata, ritengono che non debba salire su un palcoscenico dove, come se fosse un personaggio qualsiasi, potrebbe confessare le sue più intime aspirazioni e dar voce ai temi “scottanti” della condizione femminile.

     «Non c’è nulla di più ambiguo di uno scenario in cui una ninfa viene trasformata in dèa purché taccia la violenza subita», dove troviamo questa citazione? La troviamo nel testo del romanzo di cui abbiamo letto un certo numero di pagine in queste ultime settimane e che s’intitola Un dramma borghese di Guido Morselli, un eccellente scrittore, ironico e colto, di cui, come sappiamo, quest’anno celebreremo, il 15 agosto, i cento anni dalla nascita e il prossimo anno celebreremo, anche, il quarantennale della morte per suicidio avvenuta il 31 luglio 1973.

     Gli Editori – tutti all’unisono – nel respingere la pubblicazione di quest’opera, nei primi anni sessanta, danno a Morselli un consiglio: «Alleggerisca questo bel romanzo, tolga tutte le dotte citazione e i riferimenti mitici che ne appesantiscono il testo»: è logico che poi uno si suicida! Ancora oggi gli Editori continuano a non capire che i testi si “alleggeriscono [tra virgolette]” – si rendono comprensibili – non con la censura ma promuovendo l’alfabetizzazione culturale e funzionale: chissà se lo capiranno mai che, oltre ad occuparsi del mercato, è necessario curare anche l’alfabetologia?

     Guido Morselli – e noi lo ricordiamo con gratitudine [fuori dall’ipocrisia che spesso aleggia sulle celebrazioni] – mette in evidenza i temi che stiamo incontrando sul sentiero che attraversa il mitico “mondo di Janus” come dimostra l’inquietante citazione [che rispecchia ancora, purtroppo, l’attualità] che abbiamo ricordato: non c’è nulla di più ambiguo di uno scenario in cui una ninfa viene trasformata in dèa purché taccia la violenza subita.

     E allora – per prendere il passo su questo itinerario – leggiamo ancora qualche pagina da Un dramma borghese di Guido Morselli facendo attenzione alle allusioni, ai riferimenti culturali e alle citazioni mitiche che servono per dare spessore intellettuale al racconto e che a noi non dovrebbero sfuggire. Con ribrezzo devo dirvi che questo romanzo, quando è stato pubblicato postumo nel 1978, ha subito uno sfoltimento del testo originale con la motivazione ufficiale che doveva essere reso più scorrevole: ogni commento è superfluo. Per fortuna a Varese, già da qualche anno, è stata allestita presso la Biblioteca Civica una “Saletta Morselli” dove si possono anche consultare i microfilm del fondo manoscritti che oggi possono servire per ricostruire integralmente i testi dello scrittore.

     Prima di leggere è necessaria una brevissima introduzione. Sappiamo che il contenuto di questo romanzo s’incentra sul rapporto inquietante tra un uomo e una donna e questa relazione è complicata dal fatto che queste due persone sono padre e figlia. Questo rapporto si ingarbuglia sempre di più perché Mimmina, la figlia – nel cui personaggio si agitano le figure della ninfa Carna [il piacere] e della dèa Vesta [il dovere] – sapendo che il padre la vuole giustamente allontanare da lui, compie un gesto in cui simula il suicidio: su questo fatto lo scrittore riflette e fa riflettere.

LEGERE MULTUM….

Guido Morselli, Un dramma borghese

- Io lo so bene che non dovrei essere sempre così. Tante volte me lo dico: non gli stare sempre addosso, non lo chiamare ogni momento. Ci penso, vedi. Ed è un pensiero che dà una pena! Io mi Come si dice? Aiutami.

- Mi tormento. Ma che ho da saperne?

- Non importa. Sento una tal pena, questo sì. Perché poi penso: per essere diversa io, bisognerebbe che lui fosse diverso. Quando sento quella voce, e dico: è lui

- Lui, chi?

- Tu.

... continua la lettura ...

     Ancora una volta abbiamo potuto constatare come il testo di questo romanzo di Morselli metta in evidenza – con allusioni intellettuali e citazioni mitiche – temi che stiamo incontrando sul sentiero che attraversa il mitico “mondo di Janus” a cominciare dall’inquietante citazione [che rispecchia ancora, purtroppo, l’attualità]: “non c’è nulla di più ambiguo di uno scenario in cui una ninfa viene trasformata in dèa purché taccia la violenza subita”, un citazione che – come sappiamo – rimanda ai Fasti di Ovidio. Morselli utilizza questa citazione dotta, ma alquanto appropriata, per descrivere – in modo molto raffinato – la complicata situazione psicologica in cui il padre viene a trovarsi di fronte al tentativo della figlia di farlo sentire in colpa perché lui non si concede maggiormente, ma se il padre lo facesse, se oltrepassasse il perimetro, la linea del divieto, che delimita i rapporti parentali ecco che l’amore entrerebbe comunque nella sfera della violenza sulla quale, in modo ambiguo, scenderebbe il pesante velo del silenzio.

     Nel percorrere gli ultimi itinerari di questo viaggio abbiamo capito che il Senato romano – che, dal III secolo a.C., svolge una pressante funzione censoria sulla nascente Letteratura latina – vuole condizionare [perché un’azione di rimozione non è possibile] la natura dei miti aborigeni del “mondo di Janus” in funzione delle iniziative “imperialiste” che lo Stato romano persegue. L’iniziativa fondamentale intorno alla quale si è strutturata la mentalità ideologica romana è l’occupazione dello spazio circostante [in latino “latium”] mediante la conquista della terra coltivabile che si presenta come il bene più prezioso in un momento in cui tutti i rapporti economici sono basati sull’agricoltura. Lo spazio circostante che cade sotto l’imperium dello Stato romano – la cui organizzazione è tutta in funzione della conquista, della distruzione e della ricostruzione ex novo [sotto lo sguardo di Saturno] – aumenta gradualmente a dismisura secondo piani ben prestabiliti la cui realizzazione viene delegata all’esercito. I piani prestabiliti prevedono che, oltre all’esercito, tutte le Istituzioni siano funzionali perché l’obiettivo della conquista sia raggiunto: tutti gli uomini che sono cittadini romani svolgono la loro professione ma hanno anche il loro ruolo nell’esercito da quando raggiungono la maturità fino a sessant’anni e anche le donne hanno il loro ruolo in quell’esercito parallelo che è la famiglia. Il ruolo delle donne – un ruolo che viene equiparato a quello dei combattenti – è codificato per legge: sono spose, sono madri, sono nutrici, sono custodi del focolare domestico e sono l’incarnazione della dèa Vesta che è la depositaria di tutte queste buone qualità funzionali alla potenza dello Stato.

     Peccato che la narrazione mitica – e le studiose e gli studiosi di filologia sono d’accordo nel pensare che i racconti aborigeni sulla figura di Vesta siano frutto della riflessione delle donne sulla loro condizione e siano state loro, in origine, a crearli [è la tesi sostenuta da Virginia Wolf in “Una stanza tutta per sé] – preveda che Vesta sia la ninfa Carna trasformata in dèa dopo aver subito violenza e questo fatto, secondo il Senato, non si può e non si deve raccontare. Ma soprattutto questo fatto – e il mondo in cui questa allegoria ha preso forma – non si può e non si deve rappresentare perché si potrebbe pensare che le buone qualità di Vesta – se Vesta potesse davvero raccontare la sua storia e manifestare le proprie esigenze – le siano state imposte d’autorità e d’autorità questa imposizione sia ricaduta su tutte le donne per le quali Vesta ha da essere il modello.

     Naturalmente la censura – istituita per la sicurezza dello Stato – stimola [una cosa proibita diventa più interessante] ancora di più la voglia di trasgressione degli autori, ma sappiamo che chi di ha provato a trasgredire ha dovuto recedere. Difatti nessun testo teatrale che vede la figura di Vesta come protagonista è giunto fino a noi: si sono salvati, in proposito, solo i frammenti di un testo, ma di questo argomento ne parleremo strada facendo perché ci darà anche la possibilità di investire in didattica della lettura e della scrittura nell’ambito della contemporaneità.

     Ora, per andare avanti sul nostro cammino, dobbiamo fare un passo indietro e tornare a riflettere su un tema che abbiamo lasciato in sospeso e che rimanda ad un precedente argomento trattato all’inizio di dicembre dello scorso anno.

     Otto giorni fa abbiamo incontrato [come senz’altro ricorderete] uno dei più importanti autori di teatro della Storia della Letteratura: Tito Maccio Plauto. Abbiamo studiato che Plauto, per aggirare la censura, vuole apparire come un autore non originale e quindi sposta in Grecia la scena delle sue commedie come se la cose scandalose che vengono rappresentate sul palcoscenico potessero avvenire solo là e non a Roma. Per questo Plauto vuole mostrare, prudentemente, che non compone del suo, ma che traduce in latino copioni greci provenienti dalla cosiddetta “commedia nuova”, in particolare quella dell’ateniese Menandro, amico di Epicuro, considerato il più importante autore di teatro del periodo ellenistico che noi abbiamo incontrato ad Atene nel viaggio dell’anno 2009-2010. Sappiamo però che Plauto non traduce alla lettera i testi del teatro greco, per lui “tradurre [vertere, in latino]” significa realizzare un rifacimento, attuare una riedizione estremamente libera e creativa del testo originale facendo emergere il proprio stile. Difatti Plauto utilizza uno stile pieno di coloriture vivaci, bizzarre e fantasiose fino al delirio, uno stile molto diverso da quello ateniese usato da Menandro [il teatro di Menandro è serioso, compassato, austero, la comicità è caustica]. Plauto utilizza gl’intrecci del teatro ateniese e combina liberamente fra loro scene provenienti da commedie diverse, aggiungendo però episodi e personaggi per i quali inventa, con grande fantasia, nomi greci.

     Plauto scrive le sue commedie in versi latini, dunque il suo teatro appartiene al genere della poesia: una poesia sperimentale che ha una sua spiccata originalità e ancora oggi si parla di “lirismo plautino”, e il lirismo, come sapete, prevede la musica e il canto. Difatti, nelle commedie di Plauto [e noi questo argomento lo conosciamo già], è molto frequente che un personaggio, ad un certo punto, si metta a cantare un “canticum” con un accompagnamento musicale di flauti [tibiae], esibendosi in una vera e propria “aria” da operetta, se non proprio da melodramma.

     Noi sappiamo anche che nei testi dei “cantica” Plauto inserisce più facilmente le sue allusioni su temi di carattere politico che, se non fossero ben occultate, cadrebbero sotto la scure della censura e lui dovrebbe chiudere bottega. La censura [tutti sanno che c’è la censura ma fanno finta di non saperlo…] vieta di nominare Vesta se non in chiave religiosa nell’ambito dei culti tradizionali [noi questa situazione la capiamo perfettamente se paragoniamo Vesta a Maria di Nazareth, alla Madonna – queste due figure non sono così distanti l’una dall’altra perché si sono sovrapposte – difatti quando si porta in scena il personaggio di Maria di Nazareth si usano sempre delle precauzioni per non urtare la sensibilità religiosa] e allora Plauto, con grande abilità linguistica, per evocare la dèa Vesta ricorre ad espressioni allusive e noi sappiamo che l’allusione [ìkonos ìkonos, in greco] è una situazione che fa riflettere, che predispone alla ricerca. La scorsa settimana [come ricorderete], per fare un esempio in proposito, abbiamo letto un frammento tratto dal testo della commedia intitolata Curculio, una delle più celebri della produzione plautina: questo frammento si conclude con un famoso “canticum” intitolato “canzone [canticum] dei chiavistelli”. Sapete che “curculio” significa “gorgoglione” che è il nome di un verme del grano, un parassita. Anche qui troviamo un servo scaltro di nome Gorgoglione [le trame delle commedie di Plauto si assomigliano tutte ma l’abilità di questo autore non sta tanto nelle trame riprese dal teatro ateniese ma dal modo in cui vengono messe in scena]: Gorgoglione è un parassita ma sa escogitare tutta una serie di raggiri per procurare al proprio giovane padrone Fedromo i denari necessari per riscattare la bella cortigiana Planesio – di cui è innamorato –; la fanciulla è di proprietà di uno sfruttatore che ha già promesso di venderla ad un soldato sbruffone: i raggiri naturalmente funzionano e servono per giungere al lieto fine.

     Sul testo di questo frammento – e, in particolare, su due parole di questo frammento – dobbiamo continuare a riflettere in chiave filologica anche per capire come si sviluppa il processo di integrazione, imperniato sull’ambiguo rapporto di amore e odio, tra la cultura greca e la cultura latina. Rileggiamo il testo della “canzone [canticum] dei chiavistelli” dal primo atto della commedia di Plauto intitolata Curculio. L’innamorato Fedromo [come sapete] non indirizza la sua “serenata” alla propria bella, ma ai chiavistelli della porta della casa dove la fanciulla è rinchiusa perché si aprano magicamente e lui la possa toccare.

LEGERE MULTUM….

Tito Maccio Plauto, Curculio   Atto I  - Canzone [canticum] dei chiavistelli

FEDROMO (davanti alla porta) Chiavistelli, oh chiaVestelli [pèssuli-vestuli], che piacere salutarvi! Io vi amo e bramo e prego, io vi supplico d’aprirvi: il mio amore secondate,

e in mio onore un ballo fate, sobbalzate, vi scongiuro, fate uscire la fanciulla

che mi succhia tutto il sangue, tanto l’amo sono esangue.

Ma lo vedi come dormono questi biechi chiavistelli!

Sono fermi come mummie e non volan come uccelli!

Del mio bene non v’importa, sconvenienti chiaVestelli [pèssuli-vestuli]! Ma che sento, che succede, che sussurra questa porta?   (A Palinuro) Zitto, zitto, servo sciocco!

PALINURO E chi parla? Muto son, come un allocco.

FEDROMO Sento un piccolo stridore che diventa un bel rumore. (La serratura stride). Finalmente i chiaVestelli [pèssuli-vestuli] preferiscono al dovere la canzone del piacere!

     La serenata che si trova nel primo atto della commedia di Plauto intitolata Curculio ha preso il nome di “canzone [canticum] dei chiavistelli” perché, con una brillante invenzione, tipicamente plautina, l’innamorato Fedromo [come sapete] non indirizza la sua “serenata” alla propria bella, ma ai chiavistelli della porta della casa dove la fanciulla è rinchiusa. Il termine “chiavistelli” viene reso in latino da Plauto con la parola “pèssuli” ed è evidente che questa parola allude alla “chiave” e alla “porta”: due simboli che richiamano – insieme al “bastone” – la figura di Vesta.

     Non solo, Plauto affianca alla parola “pèssuli”, come rafforzativo ritmico, il termine “vestuli”, un vocabolo inventato che richiama il nome della dèa ma che lo scrittore vuol far sembrare derivato dal verbo “vestio” che significa “vestire” e, quindi, l’espressione “pèssuli-vestuli” – se il censore di servizio indaga in proposito –potrebbe essere semplicemente tradotta “i chiavistelli che vestono la porta” mentre l’autore ha l’intenzione di creare un gioco di parole che in italiano potrebbe suonare “chiaVestelli” con il quale si allude al fatto che Vesta – il modello della sposa, della madre, della nutrice, della custode del focolare domestico – ha la chiave della dispensa che sta dentro casa ma non ha la chiave di casa. Questo “canticum” contiene, quindi, un’allusiva connotazione di carattere politico. E, inoltre, il verbo con cui il giovane Fedromo introduce il suo canto è “occentare” che letteralmente significa “cantare contro” e che Plauto prende dal dizionario della magia cambiandone però il senso e, di conseguenza, l’innamorato, mentre canta la “serenata” ai chiavistelli che tengono prigioniera la sua amata perché finalmente si aprano [per magia], tenta anche contemporaneamente di forzare l’ordine sociale che rinchiude le donne proprio per favorirne la compravendita, come dire: liberiamo Vesta dalla soggezione e mettiamola in condizione di dire quello che pensa e di fare ciò che desidera sia meglio per lei!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Secondo voi quali parole Vesta – se potesse farlo – assocerebbe al suo ruolo di sposa, di madre, di nutrice e di custode del focolare domestico?...

Quali altri termini – almeno uno per ciascuna – vi fanno venire in mente le parole: sposa, madre, nutrice e custode?...

Scrivetele, bastano quattro parole...

     Plauto allude ad un interrogativo inquietante che nessuno osa porsi pubblicamente nella società romana: che differenza c’è tra la condizione di una sposa romana e quella di una cortigiana greca? Sono entrambe prigioniere: la sposa romana è sottomessa al dovere, la cortigiana greca è funzionale al piacere, e tanto i doveri quanto i piaceri non possono germinare nella sottomissione ma bensì devono fiorire dall’autonoma presa di coscienza di una persona.

     L’allusione di Plauto alla figura di Vesta – ma tutte le più svariate allusioni plautine di natura politica – è indirizzata a far riflettere sulla privazione dell’autonomia personale [sulla negazione del diritto-dovere all’autonomia] che nella società romana viene esercitata sulle categorie subalterne, in primo luogo sulle donne e sugli schiavi.

     Il colpo di teatro si ha quando, alla fine, l’innamorato ci riesce davvero, ma solo in modo magico [sottolinea ironicamente Plauto], con il “canticum [cantando contro, nel senso che bisognerebbe cambiare le leggi]” a far aprir la porta, ma l’aspetto “tragico” della commedia plautina è che il lieto fine [“in tutte le commedie di Plauto - scrive Cicerone - c’è la provocazione del lieto fine”] non è determinato dall’equità, dall’onestà, dalla correttezza, dalla rettitudine, da scelte autonome [tutte virtù sbandierate e sistematicamente eluse] ma è indotto da intrighi truffaldini e da furberie tipiche di una società malata che non sa tenere nella giusta considerazione né il dovere né il piacere. Quindi Plauto va considerato un saggio autore di teatro nel momento in cui allude al personaggio di Vesta – un personaggio mitico che ha avuto, e ha tuttora, nella Storia della Letteratura e del Pensiero Umano sul piano antropologico, sociale e politico, una grandissima rilevanza – perché le caratteristiche della figura di Vesta rappresentano la manifestazione dei vari aspetti che riguardano un argomento fondamentale della Storia della Cultura: il tema della questione femminile. Il personaggio di Vesta, senza mai essere citato esplicitamente, per evitare grane con la vigile censura romana, aleggia sulla Letteratura latina delle origini e si presenta spesso – pur emergendo da un dettaglio o venendo fuori da un gioco di parole – in tutta la sua tragica complessità.

     Perché adesso dobbiamo ancora tornare a riflettere sulla “canzone [canticum] dei chiavistelli” e sul gioco di parole in essa contenuto che riguarda i termini “pèssuli” e “vestuli”? Perché non abbiamo ancora detto tutto in funzione della riflessione filologica.

     Il termine “pèssuli”, che significa “chiavistelli”, è una parola che potremmo definire “dialettale” perché – anche se ormai, nel III secolo a.C., è entrata nel vocabolario romano – la sua radice viene dal bacino linguistico umbro, lo stesso in cui è cresciuto Plauto e lui fa sistematicamente uso di termini popolari provenienti dai dizionari delle culture dei popoli italici [sconfitti e distrutti dai Romani] e li fonde con il greco della tradizione ellenistica creando una miscela intellettuale, un’integrazione di termini, una contaminazione culturale che dà dei risultati straordinari, e per poter fruire pienamente di questo divertente linguaggio bisognerebbe conoscere non solo il latino ma anche l’evoluzione della lingua latina nel corso dei secoli. Il termine “vestuli” – che allude in modo sonoro al nome della dèa Vesta ma che Plauto dichiara essere una licenza poetica che rimanda al verbo “vestire” – è una parola inventata, è un rafforzativo, è una sorta di intercalare che s’inserisce nel verso cantato come se fosse un “la la la”, un “ieh ieh ieh”, un “zum pa pa”:difatti l’attore che canta pronuncia in modo ritmato queste parole: “pèssuli ve-stu-li”.

     La censura [tutti sanno che c’è la censura ma fanno finta di non saperlo per evitare grane] vieta di nominare Vesta e allora Plauto, con grande abilità linguistica, costruisce l’allusione creando un vero e proprio linguaggio latino che ha positivamente condizionato la storia del Teatro, della Letteratura e del Pensiero Umano e per fare questo ricorre alle parlate dialettali, al glossario popolare, all’invenzione di parole nuove e all’efficacia della lingua greca: questo modo di operare ha fatto scuola nell’ambito della didattica della lettura e della scrittura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Inventate una parola – o più di una – che alluda ad un tema che vi sta a cuore, e scrivetela...

     In funzione della didattica della lettura e della scrittura è doveroso continuare a fare una riflessione sul linguaggio e sullo stile di Plauto perché potrebbe capitare a chiunque di noi di assistere alla rappresentazione di una sua commedia e senza l’ausilio dell’alfabetizzazione culturale e funzionale può risultare un’esperienza ostica.

     Le commedie di Plauto – non sappiamo se per l’uso provocatorio dell’allusione che potrebbe essere un espediente creato più per divertire se stesso, i suoi attori e la minoranza più colta degli spettatori – hanno avuto un notevole successo di pubblico a Roma e per questo motivo la censura lo tiene d’occhio e lui, come sappiamo, prende comunque le sue precauzioni. Plauto anticipa nel prologo delle sue commedie le linee essenziali della vicenda e quasi sempre mette le mani avanti facendo dire al “prologo” che l’autore non ha fatto altro che “vertere barbare”, cioè “tradurre da una lingua straniera, dal greco” e cita anche la fonte e di solito dichiara il nome dello scrittore greco di cui dice di aver tradotto il testo, in realtà è universalmente riconosciuta la grande autonomia di Plauto dalle fonti e, in generale, dagli schemi della commedia greca: il poeta Plauto ha un suo stile completamente originale.

     Lo squilibrio di certe parti del testo delle commedie plautine rispetto ad altre, la mancanza di coerenza e di organicità nell’azione scenica indicano che l’interesse di Plauto non è rivolto all’intreccio. A Plauto le trame interessano relativamente e il più delle volte esso ricalca schemi stereotipati: la rivalità amorosa tra due personaggi, un vecchio e un giovane; il riscatto di una cortigiana in possesso di uno sfruttatore da parte di un innamorato; scambi di persona; equivoci; improvvisa soluzione di situazioni apparentemente inestricabili e altrettante repentine rivelazioni d’identità [l’agnizione] come quando, quasi per miracolo, lo schiavo è riconosciuto uomo libero o la trovatella figlia legittima o la cortigiana donna virtuosa, o quando gemelli che ignoravano la reciproca esistenza si ritrovano, e, quindi, nelle commedie di Plauto il lieto fine di carattere consolatorio è scontato.

     I personaggi sono quelli tipici della commedia greca che continuano ad esistere in quella che, in età moderna, è stata chiamata “commedia dell’arte”: il vecchio libertino; la dama raffinata; il giovane sempre innamorato, scavezzacollo e squattrinato; la cortigiana interessata ma in fondo buona; lo sfruttatore avido; il soldato sbruffone che narra gloriose azioni militari compiute solo con la fantasia; il parassita pigro ma pieno tuttavia di spirito e di iniziativa per procurarsi un pranzo, e poi i cuochi, i mercanti, gli artigiani e anche donne e uomini onesti, pieni di buon senso che fanno da contrasto agli individui corrotti.

     Il personaggio teatrale tipico di Plauto, che emerge su tutti gli altri, è quello dello schiavo, che rappresenta il deus ex machina della commedia plautina [nelle tragedie greche sono gli dèi che scendono in scena dall’alto per salvare la situazione]. Nelle commedie di Plauto il personaggio cardine è il servus briccone e furbo, cinico e smaliziato, spavaldo ed egoista, ma fedele al suo giovane padrone. Lo schiavo [probabilmente anche Plauto è stato schiavo] è il vero protagonista della commedia plautina – e questa è un’altra allusione satirica che “canta contro” un sistema politico che sbandiera la parola “libertà [i Romani si vantavano di esportare libertà]” ma che si presenta e agisce come una dittatura militare –, lo schiavo è quello che ordisce intrighi uno dopo l’altro, che risolve i problemi con spregiudicata fantasia, con coraggio, con inesauribili trovate, ed è una fonte continua di risate che dovrebbero non essere fini a se stesse ma dovrebbero far riflettere il pubblico. L’esempio più brillante di servo furbo e smaliziato è rappresentato da Pseudolus [il mentitore], il personaggio principale dell’omonima commedia, che abbiamo citato – tramite Cicerone – a proposito della datazione delle opere di Plauto.

     Che cosa ci riserva una commedia di Plauto se andassimo oggi a vederne la rappresentazione a teatro? La prima sensazione che si ha è che le commedie di Plauto non contengono satira di costume o ammiccamenti alla vita contemporanea romana e ci si rende subito conto che non contengono l’atteggiamento pensoso e malinconico dell’ateniese Menandro che lui dice di tradurre. Successivamente – e lo vedremo strada facendo – emergerà nel teatro romano, dopo Plauto, anche questo atteggiamento pensoso e malinconico.

     Il mondo teatrale di Plauto è quello della farsa popolaresca, incalzante e aggressiva, corposa e grottesca, fatta di cinismo spregiudicato e di assoluta amoralità, in cui si fanno largo solo gli astuti e gli imbroglioni: quello che conta è raggiungere lo scopo prefissato, il fine giustifica il mezzo. L’autore non si cura minimamente di dare valutazioni etiche o messaggi esistenziali tanto quello che succede sul palcoscenico sta avvenendo in Grecia: è là che sono corrotti e questo fatto deve risaltare in modo evidente! Il ritmo incalzante dell’azione scenica serve anche perché le eventuali allusioni scivolino meglio tra una battuta e l’altra.

     I personaggi più riusciti di Plauto sono quelli moralmente condannabili: risalta la spassosa e cinica malvagità dello sfruttatore Ballione nello Pseudolus [Il mentitore, una tra le commedie più rappresentate] o la vanteria senza limiti del soldato nel Miles gloriosus [Il soldato fanfarone] la commedia di Plauto che ha avuto l’eco maggiore nella produzione comica di ogni epoca.

     Plauto vuol far credere che i testi delle sue commedie non si basino su presupposti culturali o filosofici – la parola greca “filosofia” poi faceva subito drizzare le antenne della censura – né su problemi psicologici di tipo familiare [la famiglia romana non ha problemi: è perfetta perché ognuno rispetta disciplinatamente il proprio ruolo codificato per legge], e lo scrittore dichiara ad alta voce che vuole solo divertire il pubblico. Divertire il pubblico nel III secolo a.C. nell’area latina non era una cosa facile perché vere e proprie strutture teatrali, come quelle della Magna Grecia, non ne esistevano ancora: i palcoscenici venivano montati in una piazza, di solito occupata da un mercato, con il pubblico che stava in piedi e perciò più facilmente soggetto alla distrazione.

     Nei testi di Plauto c’è ogni tanto l’invito scherzoso, che gli attori rivolgono agli spettatori, di seguire la rappresentazione in silenzio, mantenendo l’ordine e l’attenzione, e questo fatto aiuta a capire quale doveva essere l’atmosfera delle rappresentazioni teatrali in area latina. Gli attori – quello nel ruolo dello schiavo, in particolare – dialogano spesso con il pubblico, gli chiedono di aiutarli se si sono cacciati in una situazione pericolosa e chiedono consiglio sul da farsi, raccontano ciò che sta accadendo dietro le quinte: nasce così il cosiddetto “meta-teatro”, il teatro nel teatro [espediente per tenere attento il pubblico].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete assistito a rappresentazioni di teatro in piazza o per strada?...

Scrivete quattro righe in proposito...    

Sapete che, nel mese di luglio, ad Avignone si tiene un famoso “Festival teatrale” che investe i molti piccoli teatri, le vie e le piazze di questa bella città provenzale che ha ospitato i papi...    Informatevi sulla rete...

     La grandezza di Plauto è dovuta soprattutto alla sua versatilità linguistica: il latino di Plauto è una lingua di integrazione culturale e di contaminazione intellettuale che amalgama insieme allegorie provenienti dal mondo mitico delle origini, termini dialettali e popolari, parole inventate di sana pianta e parole greche della tradizione ellenistica.

     Anche se la traduzione non ha la stessa resa della lingua originale ora leggiamo il celebre “dialogo tra Ballione e il cuoco”, un brano che, per la struttura narrativa e l’inventiva linguistica, è diventato un modello sistematicamente utilizzato non solo nella scrittura teatrale ma anche nella prosa: penso, per esempio, a Giovanni Boccaccio e al testo delle novelle del Decamerone ma ora non possiamo allontanarci dal nostro sentiero. Il brano del “dialogo tra Ballione e il cuoco” è tratto dalla seconda scena del terzo atto dalla commedia, che più volte abbiamo citato, intitolata Pseudolus [Il mentitore] dove troviamo il lenone Ballione – lenone significa sfruttatore, e Ballione è un cinico e malvagio profittatore – alle prese con un cuoco che lui ha assunto di malavoglia il quale non è meno imbroglione e profittatore di lui. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Tito Maccio Plauto,  Pseudolus    Atto III   Scena seconda

BALLIONE Chi dice mercato dei cuochi dice una sciocchezza; perché quello non è un mercato di cuochi, ma un mercato di ladri. Eh sì! se io avessi preso solenne impegno di cercar un cuoco birbone, non avrei potuto condurne qua uno più birbone di quello che conduco: chiacchierone, borioso, insulso, inetto. Già non può essere che questo il motivo per cui Orco (dio dei morti) non ha voluto prenderlo con sé: perché qui sulla terra ci fosse qualcuno che cucinasse per i morti; soltanto lui (indica il cuoco) può cucinare delle vivande di loro gusto!

CUOCO Se l’opinione che avevi di me è questa che vai sbandierando, perché mi hai ingaggiato?

BALLIONE Per mancanza di scelta: non ce n’erano altri. Ma se eri davvero un bravo cuoco, perché te ne stavi seduto tutto solo là al mercato?

CUOCO Te lo dirò io: è per l’avarizia della gente che son stato messo da parte, non per colpa mia.

BALLIONE Come può essere?

CUOCO Te lo spiegherò. Quando vengono a ingaggiare un cuoco, non ce n’è uno che cerchi il migliore e il più caro; la gente preferisce prendere quello che costa meno. Ecco perché oggi me ne stavo seduto tutto solo al mercato. Si diano pure per una dracma quei morti di fame! Quanto a me, nessuno riesce a farmi alzare per almeno due dracme. Io non ammannisco un desinare come gli altri cuochi che ti servono ammanniti nei loro piatti degli interi prati, che prendono i convitati per buoi e presentano loro delle erbe, acconciando queste erbe con altre erbe. E ci cacciano dentro coriandolo, finocchio, aglio, macerone; vi aggiungono romice, cavolo, bietola, blito; ci sciolgono una libbra di lasepizio; si pesta della senape, quella maledetta senape che fa lacrimare gli occhi di quelli che la pestano prima che abbiano finito di pestarla. Simili individui, quando cucinano un desinare, al momento di condirlo, non lo condiscono con condimenti, ma con Strigi (vampiri) capaci di divorare gli intestini dei convitati ancor vivi. Ecco perché gli uomini conducono un’esistenza tanto breve su questa terra. Quando si pensa che ammassano nel proprio ventre erbe simili, che ti fan venire i brividi anche a nominarle, non solo a mangiarle! Delle erbe che le bestie non mangiano, gli uomini le mangiano!

BALLIONE E tu? Usi dei condimenti divini, che hanno il potere di allungare la vita agli uomini, per biasimare quegli altri condimenti?

CUOCO Dillo pur forte! Potran vivere anche duecento anni, quelli che mangeranno le pietanze che avrò ammannito io!

Quando nelle mie casseruole io ci ho cacciato dentro il cicilendro, o il cepolendro, o la secaptide (sono tutti nomi inventati), si metton subito a bollir da sé. Questi sono i condimenti per gli animali di Nettuno (i pesci). Quanto agli animali terrestri, li condisco col cicimandro, con l’apalopside o con la catarattria.

BALLIONE Che Zeus e gli dèi tutti ti fulminino con tutti i tuoi condimenti e con tutte le tue menzogne!

CUOCO Lasciami parlare, via!

BALLIONE Parla e va’ in malora!

CUOCO Quando tutte le casseruole bollono, io le scopro tutte; il profumo si leva al cielo con le gambe a penzoloni

BALLIONE Il profumo? Con le gambe a penzoloni?

CUOCO  Mi sono sbagliato senza accorgermene.

BALLIONE  E cioè?

CUOCO Con le mani penzoloni, volevo dire. Con quel profumo Zeus ci pranza tutti i giorni.

BALLIONE E se non vai a cucinare da nessuna parte, con che diamine pranza Zeus?

CUOCO Va a dormire senza aver pranzato o va a letto senza cena.

BALLIONE Va’ in malora! E per queste baggianate oggi dovrei darti due dracme? Ti ci mando io a letto senza cena!

CUOCO Eh sì! Confesso di essere un cuoco carissimo, ma faccio in modo che il mio servizio appaia adeguato al prezzo, dove vado a lavorare.

BALLIONE A rubare, vorrai dire!

CUOCO Pretendi forse di trovare un cuoco che non abbia gli artigli d’un nibbio o il becco ricurvo di un’aquila?

BALLIONE E tu? Pretendi forse di andare a cucinare da qualche parte, senza che ti rinserrino gli artigli e ti raddrizzino il becco ricurvo mentre cuoci il desinare?

     La lingua di Plauto è un capolavoro: è una delle lingue più versatili e ricche della letteratura latina e ha costituito un modello che – come abbiamo detto – è andato ben oltre la letteratura latina. Questa affermazione si collega ad una riflessione che abbiamo fatto qualche settimana fa [all’inizio di dicembre dello scorso anno] e questa riflessione la dobbiamo completare perché ci porta sul piano della didattica della lettura e della scrittura.

     Sappiamo che la maggior parte dei più significativi scrittori latini non sono romani ma sono originari delle province conquistate – questo vale anche per Plauto – e questa situazione ha influito sullo sviluppo dei virtuosi processi di integrazione e di contaminazione culturale che hanno giovato alla formazione della lingua latina e all’evoluzione della Letteratura latina. Non esisterebbe la Letteratura latina e non sarebbe comparso neppure il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” se non ci fossero stati – a cominciare dal III secolo a.C. – processi di integrazione fra culture diverse ed esperimenti, per altro ben riusciti, di contaminazione linguistica. Questo fatto – visto che la nostra lingua nazionale deriva dal latino, visto che ci sono le lingue neolatine che, nei secoli, hanno colonizzato il mondo – ha influito anche [e se non ci si riflette non ne siamo consapevoli] sulla conformazione della nostra mente, sul nostro modo di parlare e di scrivere: le lingue sono frutto di inventiva, di investimenti in intelligenza e sono esercitazioni e manifestazioni di creatività e la storia dei loro processi di formazione condiziona il nostro modo di essere.

     L’incontro con il teatro di Plauto rimanda, quindi, anche al grande tema dell’invenzione della lingua, della creazione delle parole, dell’ideazione del linguaggio scritto, che è un tema interessante e fondamentale per la nostra vita di relazione. Plauto – per quanto riguarda la formazione della lingua attraverso l’integrazione e la contaminazione tra culture diverse – dà inizio ad una operazione intellettuale [anche se da questo termine lui prenderebbe le distanze perché le “operazioni intellettuali” non sono gradite alla censura] che ha uno sviluppo molto significativo, un’evoluzione  che, nei secoli, non si è mai arrestata e che, tuttora, non s’arresta.

     Ricordate quando qualche settimana fa abbiamo studiato che Tito Livio – tra Plauto e Livio ci sono due secoli di differenza – viene criticato perché scrive in un latino contaminato dall’inflessione padovana [Tito Livio è nato e cresciuto a Padova e ci torna da vecchio]: un intellettuale [che incontreremo a primavera inoltrata], con questa intelligente osservazione, ci fa capire che non esistono lingue “non contaminate”. Ebbene, capite che il tema della “contaminazione linguistica” aveva ormai fatto sì che si aprisse un acceso dibattito culturale, una vivace discussione in proposito. Questo dibattito appassionava coloro che si occupavano di Letteratura [a Roma nascono dei Circoli culturali in proposito e li visiteremo strada facendo perché è un fenomeno interessante] e questo dibattito sul tema della “contaminazione linguistica”, che nel tempo ha trovato costantemente nuova linfa, continua tuttora ad appassionare chi parla, chi ascolta, chi legge e chi scrive. Plauto era già convinto che non esistono e non possono esistere “lingue pure”, le lingue sono soggette ad un continuo processo di contaminazione e bisogna anche fare attenzione [abbiamo detto qualche settimana fa] che la “contaminazione linguistica” non va confusa con la “colonizzazione linguistica”: la contaminazione sviluppa anticorpi e quindi arricchisce, mentre la colonizzazione impoverisce la lingua perché è il risultato della sottomissione. Dove ci porta questa riflessione?

     Questa riflessione ci porta ad incontrare un personaggio che questa sera possiamo appena presentare, e Plauto è ansioso di incontrare questa persona perché è stata capace di descrivere perfettamente un concetto che lui condivide e ha messo in evidenza nei testi delle sue commedie. Questo concetto lo possiamo esprimere con una citazione che, fra poco, troveremo collocata all’interno delle due pagine del testo letterario che leggeremo per concludere questo itinerario. Ve la leggo questa citazione: «Lui sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti». L’autore di questa frase – che riflette sul concetto della “categoria di causa” – è uno scrittore che, in Italia, negli anni ’50 e ‘60, ha animato – pur senza mai intervenire direttamente se non con le sue opere [vive molto appartato] – il dibattito sulla lingua intesa non come un “oggetto statico” ma come un “laboratorio permanente” di integrazione culturale e contaminazione intellettuale.

     Il personaggio di cui stiamo parlando si chiama Carlo Emilio Gadda: nato a Milano nel 1893 e morto a Roma nel 1973 [lo stesso anno del suicidio di Guido Morselli]. Questa sera di Carlo Emilio Gadda – uno scrittore che viene considerato uno dei più importanti della Letteratura europea del ‘900 – diciamo solo che è stato capace di creare e di dare valore a quel fenomeno che, dai tempi della “sapienza poetica ellenistica”, viene chiamato “contaminatio”. Carlo Emilio Gadda è autore di libri – certamente di non facile lettura se non con il metodo del LEGERE MULTUM – che stanno tra il racconto, il saggio, il grottesco, caratterizzati da una inesausta e originale invenzione stilistica con la quale crea un elaborato e composito impasto linguistico, un misto di forme colte e illustri [è un fine umanista], di forme tecniche [Gadda è un ingegnere], di forme dialettali, vernacolari e gergali [è un lombardo che si diverte a giocare soprattutto con i dialetti del sud] e di forme neologistiche [è uno straordinario inventore di parole]. Questo linguaggio frutto di una integrazione culturale e di una contaminazione intellettuale sperimentata su tutti i piani possibili [come se queste caratteristiche ellenistiche si esprimessero all’ennesima potenza] porta la prosa di Gadda a far emergere una variegata gamma sentimentale che va dall’elegia alla satira con la quale lo scrittore esprime una sorta di tragica disperazione perché l’esistenza non si configura secondo schemi piani o pacificati ma è esposta ad una interminabile trafila di traumi non classificabili né prevedibili che rendono la vita un dramma. Gadda il dramma, per eccesso di pudore, lo esprime sempre con tagliente ironia piuttosto che con lo sconforto, l’abbattimento e lo smarrimento, andando alla ricerca – come estrema forma di sostegno [non di consolazione] – di ciò che nel dramma c’è di comico.

     Tutti conoscete – almeno il titolo – del romanzo più noto di Carlo Emilio Gadda: un’opera che viene considerata tra le più significative della Letteratura del ‘900 che s’intitola Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, e già il titolo è tutto un programma a proposito di “contaminazione linguistica. Questo romanzo, pubblicato nel 1957 ma scritto un decennio prima, è un “giallo” esemplare proprio perché non si risolve secondo la visione del mondo dell’autore, e questa visione del mondo è affidata ad un personaggio che è ormai un classico: il dottor Francesco Ingravallo, detto Ciccio, trentacinquenne, molisano di origine, comandato alla squadra mobile di Roma e dotato – sebbene non sembri dal suo aspetto – di grande intelligenza ed ironia.

     Ma adesso leggiamo l’incipit che è un po’ come entrare in una specie di “mondo di Janus” e poi la prossima settimana vedremo chi è Carlo Emilio Gadda, quali sono le sue opere e, inoltre, cercheremo di capire su che cosa si trova ad indagare il commissario Ciccio Ingravallo nella fascistissima [sebbene sia poco soddisfatto di servire questo regime] Roma del 1927.

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne.

... continua la lettura ...

     La prossima settimana – anche Plauto si è già prenotato – andremo anche noi a pranzo dai Balducci [che abitano in via Merulana] in compagnia di don Ciccio ma prima ci dovremo documentare su Carlo Emilio Gadda e sulle sue opere ricordandoci che siamo sempre in cammino sul territorio della sapienza poetica ellenistica di stampo imperialeed è su questo sentiero che ci accompagnano questi personaggi.

     Quindi accorrete numerose e numerosi perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il concetto di “causa”] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui e il viaggio continua e se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme [quanti siamo]…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 20, 2012