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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’È IL LINGUAGGIO ALLUSIVO DEL TEATRO DI PLAUTO SUL MONDO DI JANUS ...

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale     11-12-13  gennaio 2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’È IL LINGUAGGIO ALLUSIVO DEL TEATRO DI PLAUTO SUL MONDO DI JANUS ...

     Ben tornate e ben tornati a Scuola: buon anno a tutte e a tutti voi! Il nostro Percorso sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” riprende il suo cammino entrando nel mese “Januarius”, dopo aver celebrato i Saturnali.

     Dal mese di ottobre dello scorso anno stiamo attraversando questo vasto spazio culturale nel quale non ci eravamo ancora addentrate e addentrati in modo specifico nel corso di questi 28 anni, da quando è iniziata questa esperienza didattica. Sappiamo che il periodo dell’Ellenismo – dal IV secolo a.C. al V secolo d.C. [tanto dura questa stagione della Storia del Pensiero Umano] – è caratterizzato da un grande e complesso movimento di integrazione culturale: tra la cultura greca e le culture orientali [sulla scia della spedizione di Alessandro Magno], tra la cultura greca e la cultura biblica [sulla scia della traduzione in greco dei Libri dell’Antico Testamento] e tra la cultura greca e la cultura latina [sulla scia della conquista dell’Ecumene da parte dei Romani]. Questi tre aspetti dell’Ellenismo [alessandrino, giudaico-cristiano e latino] non sono separati tra loro, spesso si sovrappongono e i loro confini debordano sovente l’uno dell’altro e molti paesaggi intellettuali rappresentano scenari comuni. Lo spazio di integrazione – caratterizzato da sentimenti di odio e di amore – tra la cultura greca e la cultura latina è stato chiamato territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e, come sappiamo, il termine “imperiale” deriva dalla parola latina “imperium” e si riferisce all’estendersi dell’autorità di Roma sul territorio dell’Ecumene ellenistica.

     E ora riprendiamo il passo sul sentiero del nostro Percorso: riprendiamo il filo della trama che abbiamo cominciato a tessere lo scorso anno.

     Lo spazio leggendario più antico e misterioso di questa ampia area – del territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” – contiene [come ormai ben sappiamo] un vasto paesaggio intellettuale che è stato chiamato il “mondo di Janus”, e su questo scenario acquitrinoso e boscoso [così si presenta la Valle del Tevere ai tempi della comparsa di quella polis etrusca che diventerà Roma attraverso l’incontro tra popolazioni diverse] abbiamo visto comparire negli itinerari dello scorso anno, oltre alla figura “bifronte” di Janus [Giano], due figure-cardine della mitologia romana: la dèa Vesta, la divina nutrice, che nasce dalla metamorfosi della ninfa Carna, e il dio Saturno il quale si presenta come il dio della terra che, approdato nel  “mondo di Janus”, assume soprattutto i connotati del dio della “distruzione”. Approdato nel mondo di Janus, che è un dio “bifronte”, anche Saturno assume questo connotato e diventa “ambiguo” incaricandosi di essere contemporaneamente un distruttore e un costruttore: con questo espediente mitico gli aggressivi Romani vogliono giustificare il loro carattere.

     L’idea che la “distruzione” sia un procedimento necessario, sia una procedura che stia nella natura delle cose – la Natura stessa ha tra le sue caratteristiche fondamentali anche quella di essere “distruttiva” – è un concetto cardine su cui abbiamo riflettuto [a questo proposito, lo scorso anno, ci è stato utile l’incontro con un dramma perduto, sottoposto a censura, di Livio Andronico forse intitolato Vesta, e con Gli anelli di Saturno del professor Sebald] e su questo concetto dobbiamo continuare a riflettere perché questa idea, proveniente dalla “cultura ianuaria”, è tuttora più che mai attuale.

     Mentre i Romani applicano la loro politica di conquista – estendono il loro “imperium” –, prima nel Lazio [“latium” significa lo “spazio circostante”] e poi in Italia, si sviluppano nel loro immaginario collettivo una serie di immagini mitiche che si sovrappongono all’azione concreta della conquista e della “distruzione” e non è casuale il fatto che il mondo mitico dei Romani si identifichi con il territorio di Janus dove compare la dèa Vesta che è rappresentata da un bastone fatto con uno spinoso ramo di biancospino [che poi, come sappiamo, diventerà un intero fascio di verghe: uno dei simboli della Repubblica romana e anche di un ventennio recente della storia italiana] e dove compare il dio Saturno che si presenta, inizialmente, come il dio della fecondità della terra e poi come il dio della “distruzione”. Sotto lo sguardo del dio Saturno la “distruzione”, nell’ideologia dell’imperialismo romano, viene considerata, paradossalmente, una sorta di atto purificatorio necessario per costruire qualcosa di nuovo che rimanda al ricordo addirittura di un’età dell’oro: di pacificazione e di fratellanza tra gli uomini. In pratica questa specie di giustificazione mitica – distruggiamo tutto per costruire tutto nuovo in modo che ci possa essere la pace e la fratellanza – serve solo, nella realtà, per mascherare la sete di potenza e la smania di supremazia della città di Roma [dell’Urbe].

     Nel Lazio dove, nel III secolo a.C., ormai Roma è dominante, il mitico “mondo di Janus” – che è stato descritto in forme artistiche orali e appena embrionali [i carmina] di cui [come sappiamo] rimangono scarsi documenti, difficilmente interpretabili – viene investito da un evento culturale di importanza capitale, un evento che avrà ripercussioni non solo sui Romani ma anche sui moderni e su noi contemporanei: l’incontro con la poesia dei Greci, frutto di una già antica tradizione letteraria.

     Lo scorso anno abbiamo conosciuto Livio Andronico e Gneo Nevio, i primi autori della Letteratura latina; ebbene, Livio Andronico traduce in latino l’Odissea [Odusia] a fini pedagogici e poi Nevio scrive il Bellum Poenicum [La guerra punica] il primo poema epico della Letteratura latina che racconta, in versi saturni, le vicende della prima guerra punica, un avvenimento che Nevio ha vissuto di persona, e questi sono i primi esempi di poesia epica in latino quando il genere letterario dell’epica greca ha già circa trecento anni.

     La velocità con cui a Roma si è realizzata quella che è stata chiamata “l’acculturazione ellenica” è impressionante, sembra che i Romani sentano la necessità di correre ai ripari e vogliano ridurre una lacuna: hanno capito che la cultura è potere, sanno che la Letteratura è strumento per l’estensione dell’influenza di un popolo sugli altri popoli, hanno anche intuito che può costituire un pericolo interno perché gli scrittori sono spesso degli antagonisti, ma si premuniscono rafforzando i sistemi di controllo. Abbiamo già ricordato, prima della vacanza, come avviene il processo di “acculturazione ellenica” a Roma: questo meccanismo, in primo luogo, viene innescato dai Libri dei Greci – sotto forma di rotoli di papiro, in latino “volumina”, che cominciano ad essere raccolti nella prima fase dell’Ellenismo [come abbiamo studiato nei due viaggi precedenti a questo] nelle biblioteche delle grandi città, a cominciare da Alessandria [a Roma non ci sono ancora biblioteche pubbliche e di questo fatto ne riparleremo a primavera: è un ritardo impressionante!] –, ma il processo de “l’acculturazione ellenica” a Roma non avrebbe potuto compiersi senza l’apporto di certe persone le quali, a motivo della propria appartenenza culturale, hanno potuto svolgere un ruolo di mediazione intellettuale tra i Romani, soprattutto i giovani romani, e questi Libri.

     Lo sappiamo già – e non è casuale il fatto – che i primi poeti latini non sono cittadini di Roma: Livio Andronico [lo conosciamo come il primo autore della Letteratura latina] è uno schiavo greco che viene dall’ellenistica città di Taranto e Gneo Nevio [lo conosciamo come il secondo autore della Letteratura latina] è nativo dell’ellenistica città di Capua, e ci renderemo conto che anche quelli che verranno, e che incontreremo strada facendo, sono “stranieri” rispetto a Roma. E anche gli scrittori della latinità repubblicana [del II secolo a.C.] e dell’età di Augusto [I secolo d.C.], che abbiamo già incontrato negli itinerari dello scorso anno, sono forestieri: Catone il Censore viene dalle campagne di Frascati, Publio Ovidio è di Sulmona, Tito Livio è di Padova e questi ultimi, prima di stabilirsi a Roma, vanno a studiare ad Atene. Ebbene i poeti latini, in quanto stranieri – persino un prosatore nostalgico dell’antica Repubblica come Catone il Censore di cui conosciamo le opere –, sono in possesso di una mentalità caratterizzata dall’idea della mediazione e dalla pratica della contaminazione, e considerano normale avere almeno due cuori: uno romano e uno greco, se non addirittura tre cuori [“tria corda habeo - ho tre cuori”, dice Ennio, un poeta che incontreremo e capiremo che significato ha questa affermazione].

     Abbiamo detto che quando il mitico “mondo di Janus” viene investito dall’incontro con la poesia dei Greci anche le figure mitiche latine per eccellenza – che caratterizzano l’età dell’oro dei Romani – hanno già un antecedente greco perché Saturno arriva in esilio nel Lazio dal mondo dell’Olimpo e la figura di Vesta ha alle spalle la dèa greca Hestia con caratteristiche simili e una differenza: il simbolo della greca Hestia non è il bastone della latina Vesta ma è un grande seno sebbene non procace. Sappiamo che tanto la figura del greco Saturno quanto quella della greca Hestia sono presenti nelle opere – che anche Catone il Censore conosce – dell’ormai antico poeta greco Esiodo. Sappiamo che il culto di Hestia arriva sulle coste dell’Italia meridionale dal VI secolo a.C. con i migranti greci i quali portano con loro il fuoco di Hestia, il fuoco del focolare domestico e della loro polis di provenienza, e portano con loro anche un vasto repertorio di racconti mitici che si diffondono tra i popoli italici e si fondono con narrazioni autoctone, locali, aborigene.

     La Vesta del “mondo di Janus”, rispetto all’Hestia greca di Esiodo, assume un carattere e ha un atteggiamento più autoritario e rispetto al Saturno greco di Esiodo quello che viene accolto nel “mondo latino di Janus” diventa più aggressivo, con un carattere decisamente orientato verso la “distruzione” e lo stupro incestuoso. Queste caratteristiche, decisamente forti, possedute dai mitici personaggi di Saturno e di Vesta, già in origine evocate dagli autori latini degli albori, hanno sempre, nei secoli, attirato l’attenzione di molte scrittrici e di molti scrittori.

     A questo proposito, lo scorso anno, abbiamo incontrato e conosciuto sul nostro Percorso lo scrittore Guido Morselli e siamo venute e venuti a conoscenza del “caso letterario” che nel 1973 ha investito – per una stagione – il mondo della cultura dopo la tragica morte dello scrittore: il prossimo anno ricorre il quarantennio della morte di Morselli ma quest’anno, il 15 agosto, ricorre il centenario della sua nascita e la Scuola non può far altro che tener desta la memoria attraverso la didattica della lettura e della scrittura. Guido Morselli è un romanziere di lucida ironia e di disincantata intelligenza il quale nei testi delle sue opere tratta temi di importanza esistenziale che ci riguardano da vicino e che sono attinenti al viaggio di studio che stiamo compiendo: sappiamo che Morselli ha una solida cultura classica, è studioso dell’Ellenismo e cita esplicitamente e riflette sulle contraddittorie figure mitiche di Saturno, di Vesta, della ninfa Carna, figure che sono presenti nel nostro inconscio e noi dobbiamo saper elaborare i significati dei loro caratteri.

     Lo scorso anno abbiamo puntato l’attenzione, come sapete, sul romanzo intitolato Un dramma borghese pubblicato nel 1978 ma scritto da Morselli tra il 1961 e il 1962. Perché c’interessa il testo di questo romanzo? C’interessa perché in questo testo aleggiano le figure mitiche di Saturno, di Vesta e della ninfa Carna le quali si manifestano attraverso i protagonisti del romanzo: il padre, la figlia Mimmina, l’amica della figlia Thérèse. Morselli in questo “dramma borghese” riflette, e fa riflettere, provocatoriamente sulle contraddizioni laceranti che sono insite nel rapporto tra un uomo e una donna inteso come rapporto amoroso, contraddizioni, in questo caso, complicate dal fatto che quest’uomo e questa donna sono padre e figlia: che cosa vuole questa figlia da suo padre, vuole istaurare un rapporto incestuoso? Forse vuole ben altro.

     Nel testo di questo romanzo lo scrittore fa delle ipotesi e ci ragiona e poi lascia che sia la lettrice e il lettore a riflettere e a giudicare. Il padre dichiara esplicitamente – e lo abbiamo letto lo scorso anno – ciò che non vorrebbe e questa sua dichiarazione suona come un imperativo categorico: «Non ho il complesso di Saturno: non mangio i figli, non insidio le figlie» e noi capiamo che significato ha questa affermazione fatta da un uomo sollecitato a meditare sulla complessità dei rapporti umani. Il frammento che abbiamo letto prima delle vacanze – e che evocava la significativa figura di Vesta – si è concluso con la comparsa di Thérèse, l’amica di Mimmina, che, come fosse una ninfa, non è da meno in quanto a personaggio provocatorio, invadente, insinuante, anche prepotente ma capace di imbastire una provocatoria riflessione sul tema della metamorfosi della ninfa Carna nella dèa Vesta, cioè sul tema del rapporto tra il dovere e il piacere, un tema che – sebbene subisca una continua rimozione – non ha mai cessato di essere di attualità.

     E, in proposito, leggiamo ancora alcune pagine da Un dramma borghese:

LEGERE MULTUM….

Guido Morselli, Un dramma borghese

 e avvertito ormai che la famosa Thérèse, così poi si è presentata da sé con un sorriso squillante, non gradisce discorsi inutili.

La piccola ninfa parla e tiene gli occhi, in cui brilla una punta di malizia, aperti sgranati su di me. Suppone ch’io non creda all’importanza delle sue attribuzioni e mi sorveglia, sebbene più divertita, direi, che offesa. Sospetto infondato, perché sono sempre disposto a credere, finché siano cose che non mi riguardano; e ora per giunta comincio a stancarmi, e ascolto appena.

- Oggi, nel mio campo, avere diciott’anni non è un’inferiorità; al contrario. Si capisce che una ragazza dev’essere preparata e capace ma, quando lo è, se poi ha diciott’anni, è una ragione di più per farsi apprezzare. Lei forse non è al corrente.

... continua la lettura ...

     Riprenderemo a leggere da qui fra poco.

     Sappiamo – perché questo concetto lo abbiamo già studiato ma ora va approfondito – che la figura mitica della dèa Vesta nasce da una metamorfosi che si compie nel leggendario “mondo di Janus” [una metamorfosi che ci ha raccontato Ovidio nei Fasti]: la ninfa Carna, che rappresenta il piacere allo stato puro e naturale, viene trasformata, in modo brutale, nella dèa Vesta che rappresenta il dovere [i doveri della madre, matris monia].

     La figura di Vesta rappresenta il dovere e, di conseguenza, viene collocata a diretto contatto con le relazioni umane più importanti ed è inequivocabile che, nell’ambito delle relazioni umane, emerga – dal sommerso dove viene tenuto – un elemento che ha sempre suscitato spavento in chi deve gestire l’ordine sociale: il piacere femminile, un fenomeno che tutte le istituzioni autoritarie dell’Età assiale hanno sempre cercato di contenere [anche con brutalità] come se fosse la manifestazione del disordine. In definitiva nell’intimità della dèa Vesta continua ad agitarsi l’indole, la natura, l’essenza della ninfa Carna e questo non è un tema superficiale perché suscita un interrogativo importante su cui riflettere: può il piacere essere equiparato al dovere, c’è una stretta relazione tra le due cose?

     Probabilmente nel mitico “mondo di Janus” si ripercuote l’eco di un reale scontro tra i generi che è in atto nell’antico mondo latino, un mondo che impone alla donna di essere ubbidiente e ligia ai doveri [monia] assegnandole, ipocritamente, il ruolo di “regina”: una regina [e ci s’immagina che le donne avranno detto: “Ma come, abbiamo fondato la Repubblica e noi dobbiamo vivere ancora in regime di Monarchia?”] che può regnare solo se rimane reclusa nel sacro recinto della casa, solo se tiene sempre accesa la fiamma del focolare, solo se sa essere la nutrice dell’intera famiglia.

     Probabilmente nel mitico “mondo di Janus” si ripercuote l’eco di un reale scontro tra i generi e lo scontro deve aver raggiunto livelli preoccupanti se il Senato deve legiferare in nome di Vesta per decretare che: “Il piacere è un dovere per le spose romane, e anche se materialmente la condizione di piacere non si realizza va comunque manifestata idealmente perché la fedeltà al dovere, che dà grandezza allo Stato, è da considerarsi di per sé un piacere”. Ma che legislazione è questa?

     Questo è un concetto della legge – promulgata dal Senato all’inizio del III secolo a.C. – che, nel nome di Vesta, regolamenta il “ripudio delle spose”. I mariti no, ma le spose potevano essere ripudiate e una delle motivazioni era: “se la sposa non prova piacere significa che non fa il proprio dovere verso lo Stato”.

     Si capisce – interpretando i miti del “mondo di Janus” – che c’è sempre stata una forma di contestazione [anche se non visibilmente manifesta] a questa ideologia da parte delle donne con la motivazione che il piacere ha una sua autonomia rispetto al dovere: il piacere è una condizione umana che risponde a regole proprie, una situazione svincolata dall’istanza superiore del dovere. Meglio il modello gioioso della ninfa Carna che, facendosi inseguire di grotta in grotta, insegna a coltivare il desiderio perché il piacere deve essere gioia e momento estatico. Se è affine al potere, il dovere procura l’avvilimento del desiderio e il piacere dato dal potere è solo un surrogato, un prodotto sostitutivo.

     La dèa Vesta non è che la ninfa Carna ancora traumatizzata per aver subito violenza e questo trauma è destinato a passare o a perpetuarsi nel tempo? Questo rapporto traumatico tra uomo e donna che, nel mondo latino, si perpetua dalle origini – tutte voi e tutti voi conoscete l’episodio mitico, e giustificatorio, che porta il nome di “ratto delle Sabine”, ci capiterà di parlarne in modo più particolareggiato ma questo accenno è già sufficiente per capire i termini della questione – non può che generare aggressività e richiesta, non in termini gentili, di sottomissione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine “trauma” – “trauma” inteso come situazione psicologica – è affiancato dalle parole: turbamento, botta, batosta, shock, impressione, sconvolgimento, lesione, rottura, scossa, stordimento...  Avete subito un trauma?...  

Scrivete quattro righe in proposito: la scrittura lenisce e ha spesso effetti riparatori...

     Dopo aver imbastito questo ragionamento, e prima di leggere ancora alcune pagine tratte da Un dramma borghese che calzano con ciò che abbiamo detto, dobbiamo riflettere su un fatto che coinvolge Ovidio, il quale continua ad accompagnarci. Pensate a come sono trasgressive – perché non ci si rende mai abbastanza conto [la Scuola deve metterci nella condizione di capire] di come Ovidio, con la sua poesia, abbia creato una sorta di controinformazione e, alla fine, sia anche finito in esilio – e come sono provocatorie due opere come Arte di amare, che mette in primo piano l’autonomia del piacere, e le Eroidi [le Eroine] che è un’opera formata da lettere scritte da donne che hanno amato per il piacere di innamorarsi e hanno pagato di persona per questa loro libera scelta.

     E adesso andiamo avanti a leggere ancora alcune pagine da Un dramma borghese ma prima facciamo ancora una riflessione: c’è una ninfa, che si presenta come una piccola scolara [Thérèse], la quale tesse un ragionamento che costringe il giornalista colto a riflettere e a cercare nuove risposte, diverse da quelle che lui crede di essersi già dato dall’alto della sua presunta sicurezza di uomo che fa finta di essere fragile e non permaloso ma che, poi, è costretto a chiedersi se non lo sia davvero insicuro e ancora immaturo.

     Le ninfe [che diventano dèe previa stupro in mezzo ai biancospini] e i fauni [metà animali e metà uomini] sono figure mitologiche che invitano all’esercizio dell’investimento in intelligenza perché dentro alle loro storie ci sono delle allegorie dalle quali emerge un simbolismo nel quale si rispecchiano importanti questioni sociali, politiche e psicologiche che il potere istituzionale risolve orientando i sudditi in una precisa direzione. L’acquisizione delle competenze per imparare ad interpretare questo simbolismo è atto necessario per poter condurre la riflessione culturale su temi sempre attuali che riguardano la felicità o l’infelicità delle persone. La figura di Vesta, con le sue caratteristiche virtù, diventa un ideale modello politico nella società romana: Vesta [ogni sposa degna di questo nome] ha il dovere di essere comunque felice di quello che fa e di quello che pensa contrariamente compie un attentato nei confronti della solidità delle Istituzioni su cui si fonda lo Stato. Vesta, mentre tiene accesa la fiamma del focolare domestico, deve guardare oltre, deve sollevare lo sgardo verso il tempio dove arde il sacro fuoco della patria.

     E adesso leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Guido Morselli, Un dramma borghese

Le pupille della scolara (o della ninfa?) hanno lo stesso colore denso dei capelli: e sono grandi, non in armonia col viso che non solo è pallido ma piccolo, con un che di patito. Due occhi che si spalancano spesso, sebbene lei stia parlando, e s’incantano sugli oggetti. Ci si attaccano, con una sproporzionata attenzione, un po’ attonita, infantile. Se ne staccano lentamente, come a fatica. Ma poi piombano sull’interlocutore con un guizzo, e si provano, quanto meno, a stordirlo, da tanta è la vivezza penetrante e l’ardire tra fiero e sfrontato con cui lo squadrano, o lo scrutano.

... continua la lettura ...

     Torniamo sul nostro sentiero [All’aria libera…] e prendiamo il passo.

     Il primo genere letterario che contribuisce alla nascita della Letteratura latina nel III secolo a.C. è il teatro: le origini della Letteratura latina le troviamo nelle opere [nei frammenti] teatrali di Livio Andronico e di Gneo Nevio. Sappiamo che il genere letterario del teatro – così come quello dell’epica – prende campo a Roma attraverso il contatto sempre più intenso con la civiltà ellenistica fiorita, da più di tre secoli, nell’Italia meridionale, nella Magna Grecia [la Mega Hellas]: tutte le polis greche della Mega Hellas sono fornite di capienti teatri e la fama delle rappresentazioni che vi si tengono giunge fino a Roma suscitando molta curiosità. Gli scrittori latini delle origini, come Livio Andronico e di Gneo Nevio, – e anche quelli che verranno dopo, e vedremo chi sono – mettono, quindi, in scena commedie, drammi e tragedie ispirandosi ai modelli greci ben collaudati da secoli.

     Ma i primi scrittori latini vorrebbero anche dar vita a un teatro “nuovo” sia nelle forme che nei contenuti: nei contenuti vorrebbero attingere alle storie, ricche di accenti drammatici, che vedono come protagoniste le figure del “mondo di Janus” perché gli autori di teatro – e i grandi autori della tragedia e della commedia greca sono esemplari in questo senso – hanno sempre fiutato il disagio sociale che traspare dalle narrazioni mitiche e hanno ritenuto loro compito dar voce sulla scena a certe situazioni con ironia, in modo satirico e umoristico. Raccontare il mito delle origini significa alludere alla realtà del presente.

     Non è necessario essere delle studiose e degli studiosi di filologia per capire che da tutti i frammenti – e le citazioni successive – che possediamo dell’epoca degli albori della Letteratura latina si percepisce l’esistenza di un disagio che nasce dalla “condizione femminile”: nasce dal fatto – per dirla con i termini crudi della poesia –che la dèa Vesta non è che la ninfa Carna ancora traumatizzata per aver subito violenza per cui i suoi comportamenti “perbenistici” non sono dettati dalla spontaneità ma da una forzata educazione al sacrificio.

     Se tiriamo le conclusioni di questo ragionamento prendiamo atto che sono singolari: perché non esiste più una commedia, un dramma, una tragedia della Letteratura latina degli albori che tratta questo argomento fondamentale? E perché mai il testo del primo dramma della Letteratura latina – di cui [e lo abbiamo studiato qualche settimana fa] si conosce la data di composizione [240 a.C.], il nome dell’autore [Livio Andronico], il committente [il Senato romano], la motivazione della committenza [la vittoria nella prima guerra punica con l’annessione della Sicilia terra ricca di teatri], il titolo, che, forse, era Vesta – è sparito dalla circolazione dopo essere stato censurato dal Senato che lo aveva commissionato? Il mondo della cultura latina non è così libero come quello della cultura greca e il Senato romano, nel III secolo a.C., – con fare censorio – prende delle decisioni, che hanno anche degli aspetti comici oltre che tragici, con la motivazione di garantire la coesione sociale. In Senato c’è una maggioranza che tiene un atteggiamento di repulsione nei confronti della cultura greca [e che non vede l’ora di sottomettere militarmente i territori dell’Ecumene ellenistica] ma, per quanto riguarda il teatro, i Senatori decretano che gli autori debbano imitare, in forme latine, i contenuti della commedia, del dramma e della tragedia greca e, in modo particolare, ritengono che gli scrittori, nel comporre, si debbano riferire al cosiddetto “ciclo troiano” nel quale spicca un personaggio femminile straordinariamente esemplare che, da che mondo è mondo, attira l’attenzione: la bellissima Elena [era un po’ che non la incontravamo e di lei - chi di voi viaggia da tempo su questi percorsi - sa quasi tutto] che con il suo comportamento non solo dà scandalo ma fa scoppiare una guerra che porta alla distruzione dei Troiani e conduce alla lite continua gli stessi Greci. Questa figura “scandalosa” del mondo greco – intorno alla quale ruotano innumerevoli storie [noi le abbiamo studiate tutte nel famoso Percorso nel territorio della Tragedia nell’anno 2003-2004] –, questa donna innamorata che abbandona il marito e i figli e fugge con l’amante – secondo i Senatori [che l’avrebbero incontrata volentieri Elena, dice ironicamente Ovidio, e non per redimerla] – va portata in scena e denigrata pubblicamente in modo che, senza citarla, la si possa paragonare alla figura onesta – castigata, edificante, esemplare, retta, virtuosa, proba, costumata, decorosa, degna, modesta – di Vesta. Vesta – secondo il Senato romano – non deve essere portata in scena perché è il punto di riferimento della moralità femminile romana: la sua perfetta figura di sposa, di madre e di nutrice, aleggia sulla società familista come un giudice severo perché la figura mitica di Vesta [la porta, la chiave e il bastone] è l’immagine della censura stessa, la garanzia dell’ordine e della pace.

     Paradossalmente il Senato romano – la cui maggioranza respinge la cultura greca –vuole che si faccia uso del teatro greco e ne ama i contenuti purché vengano utilizzati per suscitare odio nei confronti dei costumi delle donne greche, sorelle di Elena, per ribadire che le donne romane sono figlie di Vesta: ed ecco come si concretizza, dalle origini, il complesso, ed ambiguo, rapporto di amore e odio tra cultura greca e cultura latina.

     Naturalmente questo fatto – in cui si manifestano nel tempo gli effetti della censura del Senato sul mondo letterario e culturale romano – ha condizionato, nel bene e nel male, lo sviluppo della Letteratura teatrale latina perché certi divieti sono durati nei secoli e hanno anche influenzato gli stili degli scrittori. Questa considerazione ci porta ad incontrare un personaggio che ci sta aspettando: il più importante commediografo della Letteratura latina che si chiama Tito Maccio Plauto, la cui influenza è arrivata fino al teatro più recente, quello di Shakespeare, di Ben Johnson, di Molière, di Giraudoux, tanto per citarne alcuni.

     Tito Maccio Plauto è nato verso il 254 a.C. a Sàrsina [anche lui non è un romano] che era stato il capoluogo del territorio abitato dalle tribù umbre che occupavano il versante settentrionale dell’Appennino Tosco-Romagnolo. Nel suo tempo Plauto era considerato un umbro, oggi Sàrsina si trova in Romagna nella valle del fiume Savio ed è raggiungibile in breve tempo attraverso il Casentino e il passo dei Mandrioli.

     Sàrisina è una cittadina di circa 3700 abitanti che vale la pena di essere visitata e il suo antico abitato si dispone con una pianta compatta attorno alla piazza principale che si chiama piazza Plauto che corrisponde al Foro della città romana di cui un tratto della pavimentazione è ancora riconoscibile. Sulla piazza c’è la Cattedrale di San Vicinio di struttura romanica sorta in età bizantina e ristrutturata intorno all’anno Mille e più volte rimaneggiata. In via Cesio Sabino c’è il “Museo archeologico sarsinate” che raccoglie molto materiale dell’epoca romana. Rimangono anche i resti delle mura della città medioevale quando Sàrsina era un centro importante perché è stata, fin dal IV secolo, sede vescovile. Oggi la cittadina di Sàrsina, in nome di Plauto, organizza ogni anno una rassegna teatrale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se utilizzate una guida dell’Emilia Romagna o la rete potete completare il vostro viaggio virtuale a Sàrsina che non è lontana, in una giornata si va e si torna e sulla strada s’incontra anche il Lago di Quarto, un invaso artificiale formato dal fiume Savio che è un ambiente adatto per mangiare al sacco: buon viaggio...

     Plauto – ligio alle direttive del Senato che, nel III secolo a.C., vuole rimuovere per decreto la memoria di un poco edificante mondo mitico che fa da eco a situazioni di ingiustizia sociale che si perpetuano nel presente [per esempio la “questione femminile”], e stando, quindi, molto attento all’occhio vigile della censura – utilizza i modelli greci [scarica sull’Ellade le ingiustizie e gli scandali che a Roma si vorrebbero nascondere], ma cerca una sua autonomia per ritagliarsi, con abilità intellettuale, spazi di trasgressione che oggi si possono riconoscere nei testi delle sue Commedie e ne rappresentano [se si sanno leggere e interpretare] i brani più significativi. Plauto opera una sintesi originale tra la cultura greca e gli elementi di costume presi dalla vita quotidiana romana inserendo, sotto traccia, in questo quadro scenico motivi provenienti dallo spazio mitico del “mondo di Janus” la cui esplicita rappresentazione non è gradita alle autorità per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, vale a dire, per non dare visibilità ad eventuali manifestazioni di dissenso. Plauto è molto abile a far passare integralmente – con l’esercizio dell’investimento in intelligenza – i suoi testi attraverso le strette maglie della censura senatoriale e non è casuale il fatto che sia il primo scrittore dell’età degli albori della Letteratura latina di cui ci sono pervenute opere complete.

     Le commedie di Paluto sono tutte ambientate in Grecia e recitate in costume greco [la satira ufficialmente andava indirizzata contro la Grecia, terra di uomini e soprattutto di donne scandalose] ma noi faremo un esempio – e molti se ne potrebbero fare [ma noi dobbiamo anche viaggiare] – di come Plauto sia abile a mettere in scena nelle sue Commedie le parole-chiave del mito latino e di come sia esperto, giocando sull’allusione, a far capire alle spettatrici e agli spettatori, che c’è un preciso riferimento al [non nominabile] “mondo di Janus” e alla [non trattabile] questione del rapporto tra il dovere e il piacere, una faccenda la cui risoluzione è stata imposta con l’autoritarismo a scapito tanto della ninfa Carna quanto della dèa Vesta [ma questo non si poteva dire esplicitamente].

     Ma chi è Plauto, e perché va considerato uno dei più importanti autori non solo di teatro ma anche della Storia del Pensiero Umano? Abbiamo appena ricordato dove e quando è nato. Le notizie sulla vita di Plauto sono scarse. Sappiamo che Plauto era di origine umbra: è nato a Sàrsina, che oggi si trova nel territorio della Romagna, e la sua data di nascita, fissata tra il 250 e il 254 a.C., è puramente congetturale e si ricava con l’aiuto di Cicerone che definisce Plauto “senex [vecchio, e per i Romani si era vecchi a sessant’anni]” quando ha scritto la commedia intitolata Psèudolus, la cui prima rappresentazione è avvenuta nel 191 a.C..

     La commedia Psèudolus [“Il mentitore”, Plauto usa il greco per dare i titoli alle sue commedie] è considerata uno dei capolavori dello scrittore. Il protagonista di questa commedia, Psèudolus, è il furbissimo e spavaldo servitore di un giovane signore che si chiama Calidoro il quale ama una cortigiana di nome Fenicio di proprietà di uno sfruttatore che si chiama Ballione. Ballione ha venduto ad un soldato fanfarone, dietro versamento di una congrua caparra, la fanciulla, gettando nella disperazione Calidoro. Ma i due innamorati, alla fine, potranno ricongiungersi e sposarsi per merito di Psèudolo, che ordisce una serie incredibile di inganni ai danni di Ballione, del messo del soldato venuto a saldare il debito e dello stesso padre del suo giovane padrone, anch’esso piuttosto scostumato.

     Questo è uno schema consolidato nelle commedie di Plauto che si ripete spesso e che ha fatto scuola nella tradizione teatrale. Anche il nome dello scrittore è stato a lungo oggetto di discussione: nelle edizioni fino all’Ottocento appare come Marcus Accius o Attius Plautus, in seguito venne corretto in Titus Maccius Plautus. Il nome Maccius è una chiara derivazione di Maccus, che è il nome di una delle maschere della commedia dell’Arte, mentre il nome Plautus è una forma romanizzata dell’umbro Plotus che, secondo le studiose e gli studiosi di filologia, significa “dai piedi piatti” o “dalle orecchie lunghe e pendenti”.

     Plauto si presenta come cittadino romano e non si sa se sia arrivato a Roma come schiavo. È leggendaria la notizia che, dopo aver perduto tutti i suoi guadagni realizzati con la sua prima attività di attore, Plauto si sia ridotto a fare il servo e sia stato costretto a girare la macina di un mulino come se fosse un asino.

     La cronologia delle sue opere è dubbia: oltre alla data della commedia Psèudolus [191 a.C. secondo Cicerone] si conosce solo la data, 200 a.C., della commedia Stichus [anche Stico è il nome di un servitore] nel testo della quale c’è un’allusione che permette di collocare anche la rappresentazione della Càsina [La sorteggiata] avvenuta dopo il 186 a.C.. Invece la data della morte di Plauto è sicura ed è avvenuta – è ancora una volta Cicerone che c’informa – a Roma nel 184 a.C..

     Ma la notizia più importante che riguarda l’opera di Plauto è quella relativa all’autenticità dei suoi testi. Plauto è stato un autore di grande successo e, quindi, molti impresari con pochi scrupoli hanno fatto passare come sue opere teatrali scritte da altri. Quando nel I secolo a.C. il grande erudito e filologo Marco Terenzio Varrone, detto il Reatino, decide di affrontare con rigore il problema dell’autenticità, a Plauto venivano attribuite ben 130 commedie. Terenzio Varrone ne distingue un gruppo di 20 sicuramente autentiche, un altro di 19 di incerta autenticità e altre 90 decisamente spurie. Le commedie autentiche vengono dette “Fabulae Varronianae” e il loro testo è praticamente integro tranne quello della Vidularia [La commedia del baule] di cui sono rimasti solo una serie di frammenti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’elenco delle commedie autentiche di Plauto ora non lo facciamo...  I testi delle venti commedie Varroniane di Plauto – ci sono anche delle Antologie plautine – potete trovarli in biblioteca: cercateli, osservateli, leggetene qualche riga, prendete atto che esistono...

     Se capitasse di andare a teatro ad assistere alla rappresentazione di una commedia di Plauto [magari a Sàrsina] è bene avere delle conoscenze in materia. A questo proposito, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo riflettere su alcune caratteristiche significative del teatro platino.

     Le commedie di Plauto [come abbiamo detto] sono ambientate in Grecia e vengono recitate in costume greco perché il Senato romano non tollera che certe “sconcezze”, che vengono raccontate e che fanno ridere il pubblico, potessero avvenire a Roma dove si verificavano regolarmente ma non lo si poteva affermare. Gli intrecci plautini sono quelli caratteristici della cosiddetta “nuova commedia attica” che ad Atene si era caratterizzata per il passaggio dalle tematiche sociali e politiche alle problematiche del singolo individuo. A Roma gli autori non possono parlare di politica quindi la figura di Vesta – che attira gli scrittori di teatro perché si presterebbe per la commedia, per il dramma e per la tragedia – non può e non deve comparire sulla scena. Il personaggio di Vesta rappresenta un tema politico perché questa figura inquadra, con rigore e spesso con brutalità, il ruolo della donna nella società romana: ci deve essere una Vesta latina in ogni casa romana così come ci deve essere una cortigiana greca sul palcoscenico dei teatri.

     Plauto attinge ai modelli greci e s’ispira ad autori ellenistici [nei due viaggi precedenti li abbiamo incontrati] come Menandro [342-291 a.C.], Difilo [360-280 a.C.], Filemone [360 ca-263 a.C.], e s’ispira anche ad autori minori.

     Plauto però, con grande abilità, inserisce nell’ambiente greco delle sue opere continue allusioni al mondo romano, ai suoi costumi e alla sua vita, al pubblico in teatro e poi utilizza metafore proposte con una lingua vivace e popolaresca, una lingua inventata con grande creatività [e ne parleremo prossimamente], con la quale, in toni decisamente più buffoneschi di quelli riscontrabili nel teatro greco, innesta nei suoi testi inequivocabili allusioni di carattere politico facendo uso delle parole-chiave della “cultura ianuaria”, con sottinteso riferimento al mitico “mondo di Janus” di cui esplicitamente non si può parlare. Se Vesta – e questa figura esprime il tema del disagio femminile e dell’autonomia del piacere – non si può nominare allora Plauto ne evoca la figura attraverso i termini-cardine che le sono propri [ve li ricordate?]: la porta, la chiave, il bastone. Queste parole-chiave, che sono patrimonio dell’innominabile “mondo di Janus”, ben camuffate ad arte, ricorrono nei testi di Plauto, e questo è anche il principale indizio culturale che Terenzio Varrone ha utilizzato per sondare l’autenticità dei testi di Plauto: nelle commedie spurie non ci sono allusioni al “mondo mitico di Janus”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Qual è, secondo voi, una parola scomoda [o più di una] che viene rimossa perché si pensa possa produrre una perdita di consenso?...

Scrivetela o scrivetele...  

     Plauto – per aggirare la censura – vuole apparire come un autore non originale, vuole mostrare che non compone del suo, ma che traduce in latino copioni greci provenienti dalla cosiddetta “commedia nuova”, in particolare di Menandro. L’atto di tradurre – “vertere” in latino – non ha però per Plauto lo stesso significato che ha per noi. Per lui si tratta piuttosto di realizzare un rifacimento, estremamente libero e creativo, dell’originale: non solo perché utilizza uno stile pieno di coloriture vivaci, bizzarre e fantasiose fino al delirio [al contrario, il linguaggio greco usato da Menandro è particolarmente semplice e piano], ma soprattutto perché combina liberamente fra loro scene provenienti da commedie diverse, aggiungendo episodi e personaggi.

     Plauto scrive le sue commedie in versi, dunque il suo teatro appartiene al genere della poesia. In particolare, è molto frequente che un personaggio, ad un certo punto, si metta a cantare un “canticum” con un accompagnamento musicale di flauti [tibiae], esibendosi in una vera e propria “aria” da operetta, se non proprio da melodramma. Ed è proprio nei testi dei “cantica” che Plauto inserisce più facilmente le sue provocazioni.

     Il frammento che leggiamo fra poco è tratto dal testo dalla commedia intitolata Curculio, una delle più celebri della produzione platina. Curculio significa “gorgoglione” che è il nome di un verme del grano, un parassita. Anche qui troviamo un servo scaltro – un po’ parassita come un verme – di nome Gorgoglione il quale escogita tutta una serie di raggiri per procurare al proprio giovane padrone Fedromo i denari necessari per riscattare la bella cortigiana Planesio, posseduta da uno sfruttatore che l’ha già promessa ad un soldato sbruffone: i raggiri naturalmente funzionano e servono per giungere al lieto fine.

     Il frammento che stiamo per leggere termina con un “canticum” il cui schema è quello di una “serenata” [un po’ come quella che sta nel Don Giovanni di Mozart e di Da Ponte], anche se, con una brillante invenzione, tipicamente plautina, l’innamorato Fedromo non indirizza la sua “serenata” alla propria bella, ma ai chiavistelli [pèssuli, in latino, e questa parola non ci è nuova e allude alla figura di Vesta] che bloccano la porta [e anche quest’altra parola allude alla figura di Vesta] della casa dove lei sta chiusa.

     Il contesto in cui questo “canticum” avviene risulta particolarmente interessante perché – come abbiamo capito – implica allusive connotazioni di carattere politico. Il verbo con cui il giovane introduce il suo canto è “occentare [un tipico verbo plautino]” che letteralmente significa “cantare contro” e, quindi, l’innamorato, mentre canta la “serenata” ai chiavistelli – Plauto usa due parole combinate “pèssuli-vestuli” che in italiano si può tradurre “chiaVestelli” dove l’allusione a Vesta suona  ancora più evidente [se non si entra dentro le parole non si entra in contatto con la Storia del Pensiero Umano e di Plauto rimane la superficie radanciana] –, ebbene, mentre l’innamorato canta la “serenata” ai chiavistelli che tengono prigioniera la sua amata perché finalmente si aprano, tenta anche contemporaneamente di forzare l’ordine sociale che rinchiude le donne ma ne permette la compravendita, che tiene recluse le donne proprio per favorirne la compravendita, come dire: liberiamo Vesta dalla soggezione perché che differenza c’è tra la condizione di una sposa romana e quella di una cortigiana greca? Sono entrambe prigioniere: la sposa romana sottomessa al dovere, la cortigiana greca sottomessa al piacere, entrambe private della libertà e dell’autonomia. La cosa più divertente, però, è che alla fine l’innamorato ci riesce davvero, in modo magico, con il “canticum [cantando contro]” a far aprir la porta, ma l’aspetto “tragico” della commedia plautina è che il lieto fine [“in tutte le commedie di Plauto – scrive Cicerone – c’è la provocazione del lieto fine”...] non è determinato dall’equità, dall’onestà, dalla correttezza, dalla rettitudine [tutte virtù sbandierate ma eluse] ma è indotto da intrighi truffaldini e da furberie tipiche di una società malata che non sa tenere nella giusta considerazione né il dovere né il piacere [ma è l’oggi!].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete mai avuto a che fare con un chiavistello?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     E ora leggiamo questo frammento tratto dal primo atto del Curculio ma prima di leggere facciamo una brevissima presentazione dei personaggi: Leena è una vecchia ubriacona che sta a guardia della fanciulla Planesio e il giovane Fedromo, accompagnato dal suo servo Palinuro, s’impegna a procurarle da bere perché lo faccia entrare in casa ma lei dopo aver perso una brocca si chiude in casa e lui deve vedersela con i chiaVestelli.

LEGERE MULTUM….

Tito Maccio Plauto, Curculio   Atto I  vv. 96-159

LEENA Un fior di vino vecchio è giunto alle mie nari.  L’amore che ho per lui, la brama, mi spinge qui nel buio. Ovunque sia, non è però lontano, lo sento, è un fior di vino vecchio ed io lo amo.

Evviva, l’ho preso! Salute, spirito mio, dolcezza dell’Eros. Mio vecchio, son vecchia ma ti bramo, ti desidero, ed al confronto tuo, ogni altro profumo mi farebbe scappare via lontano.  Per me tu sei la mirra, la rosa e il cinnamomo, cannella e zafferano, tu sei la tregonella, e dove sei versato vorrei esser sepolta, con te anche la morte è bella!

Ma solo il tuo profumo ha favorito finora le mie narici: adesso rallegra la mia gola.

Che farmene di te, profumo? Lui dov’è, il sapore? Desidero toccarlo, versarmi dentro, o brocca, d’un fiato il tuo liquore. E andata là, la seguo con calore.

FEDROMO (che nel frattempo si è ritirato per attrarre fuori la vecchia, sottovoce a Palinuro) La vecchia è assetata più d’un fiore sotto il sole.

PALINURO Un pochino. Quanto contiene il suo amore?

FEDROMO È modesta: un’anfora la tien desta.

PALINURO La vendemmia di quest’anno non basterebbe per lei sola. Conveniva nascesse cane, con un fiuto così fine per il vino a cui è incline.

LEENA O caro, di chi è questa voce che risuona da lontano?

FEDROMO (sottovoce a Palinuro) Penso sia opportuno chiamare la vecchia. Le vado incontro pian piano, che non si spaventi.

(A Leena) Torna indietro e guarda verso di me, Leena, mi senti?

LEENA Chi parla, chi comanda? Chi è a me vicino?

FEDROMO Il signore del vino, l’affascinante Bacco, che, in compagnia del suo mozzo, porta da bere alla tua gola arida e viene a sedare la sete al tuo stracco gargarozzo.

LEENA Quanto dista da me questa nave?

FEDROMO Guarda questo lume che indica la via.

LEENA Avvicinati, ti supplico con tutta l’anima mia, ma anche con la gola.

FEDROMO (avvicinandosi) Salute! Ho qui ciò che ti consola.

LEENA Come posso essere in salute, se sono rinsecchita dalla sete?

FEDROMO Ma presto berrai.

(sottovoce tra sé) Cadi nella mia rete.

LEENA Quanto tempo ci vuole? 

FEDROMO (porgendole la brocca) Ecco la brocca, mia dolce vecchia.

LEENA (afferrandola) Salute, uomo più caro dei miei occhi! Che bella immagine!

PALINURO Su, presto, versa tutto nella voragine, sciacqua in fretta la tua cloaca, vecchia ubriaca!

FEDROMO Zitto tu. Non voglio che tu le dica malvagità.

PALINURO Certo, piuttosto che dirgliene, gliela farei qualche malvagità.

LEENA (rivolta verso l’altare di Venere e mostrando di versarvi una libagione) Venere, lo so questo è poco, però un pochino te l’offro ma non sai quanto soffro! Gli innamorati per propiziarti nel fare i brindisi ti offrono sempre del buon vinetto, ma a me non toccano troppo sovente questi riguardi, ma prendine comunque un goccetto.                                     

PALINURO Guarda la sozza! Come ingurgita avidamente il vino puro! A gola piena! Sembra un mulino che non gira con l’acqua ma col vino.

FEDROMO Accidenti, sono perduto. Non so cosa dirle per cominciare.

PALINURO Beh, comincia con quello che hai detto a me.

FEDROMO Cioè?

PALINURO Dille che sei perduto e che non sai che fare.

FEDROMO Ti maledica il cielo

PALINURO Prova a dirlo alla vecchia prima che beva un otre intero.

LEENA (bevendo) Ahh! Che godimento!

PALINURO Ebbene, ti piace?

LEENA Mi piace sì, forse che mi lamento?                   

PALINURO Anche a me piacerebbe sforacchiarti con un pungolo dai piedi fino al mento.

FEDROMO  Zitto!

PALINURO Va bene, sto zitto. Ma lì è l’arcobaleno che s’imbeve.

FEDROMO Adesso glielo dico?

PALINURO Cosa vuoi dirle?

FEDROMO Che sono perduto.

PALINURO Su, diglielo, non essere cocciuto.                             

FEDROMO (a Leena) Vecchia, ascolta. Voglio che tu sappia questo: sono perduto, miseramente.                   

LEENA Io invece sono sana e salva, sana di corpo e di mente. Ma che c’è? Perché sei perduto?

FEDROMO Perché mi manca ciò che amo e non ho mai avuto.

LEENA Fedromo caro, così ti chiami, è vero? Non piangere. Provvedi solo a non farmi più patir la sete, e io ti condurrò l’oggetto del tuo amore e spegnerai l’ardore che brucia nel tuo cuore.

FEDROMO (mentre Leena rientra in casa) Se tieni fede alla parola data, ti erigerò una statua, non d’oro ma di vite buona, a gloria della tua gorgia beona.

(A Palinuro) Ci sarà qualcuno al mondo più fortunato, o Palinuro, se lei viene fuori davvero? Ma non son sicuro.     

PALINURO Per la verità, un innamorato in bolletta è un povero infelice, e tu hai fretta?

FEDROMO Non è il mio caso. Ho fiducia che il mio Gogoglione, il mio parassita, oggi arrivi coi denari da spendere in modo che la mia pena sia finita.

PALINURO Hai voglia d’aspettare una cosa che a me sembra una fanfaronata.

FEDROMO E se mi avvicinassi alla porta per cantarle contro una stornellata?

PALINURO Se ti va. Io non dico né sì né no né ma. Dico però, Padrone, ti vedo così cambiato nel carattere e nelle abitudini che puoi cantar contro, se vuoi, anche se, lasciatelo dire, non hai molte canore attitudini.

FEDROMO (davanti alla porta) Chiavistelli, oh chiaVestelli [pèssuli-vestuli], che piacere salutarvi! Io vi amo e bramo e prego, io vi supplico d’aprirvi: il mio amore secondate,

e in mio onore un ballo fate, sobbalzate, vi scongiuro, fate uscire la fanciulla

che mi succhia tutto il sangue, tanto l’amo sono esangue.

Ma lo vedi come dormono questi biechi chiavistelli!

Sono fermi come mummie e non volan come uccelli!

Del mio bene non v’importa, sconvenienti chiaVestelli [pèssuli-vestuli]! Ma che sento, che succede, che sussurra questa porta?   (A Palinuro) Zitto, zitto, servo sciocco!

PALINURO E chi parla? Muto son, come un allocco.

FEDROMO Sento un piccolo stridore che diventa un bel rumore. (La serratura stride). Finalmente i chiaVestelli [pèssuli-vestuli] preferiscono al dovere la canzone del piacere!

     Plauto è saggio come autore di teatro quando allude al personaggio di Vesta – un personaggio mitico che ha avuto ed ha nella Storia della Letteratura e del Pensiero Umano, sul piano antropologico, sociale e politico, una grandissima rilevanza – perché le caratteristiche della figura di Vesta rappresentano la manifestazione dei vari aspetti che riguardano un argomento fondamentale della Storia della Cultura: il tema della “questione femminile”.

     Il personaggio di Vesta, senza mai essere citato esplicitamente per evitare grane con la vigile censura romana, aleggia sulla Letteratura latina delle origini e si presenta spesso – pur emergendo da un dettaglio o da un gioco di parole – in tutta la sua complessità e se vogliamo utilizzare un’allegoria, parafrasando Plauto, possiamo dire che Vesta, mentre canta ufficialmente, ma anche con rabbia e rimpianto, un inno al dovere da compiersi, contemporaneamente sussurra tra sé la malinconica canzone del piacere rimosso.

     E il mito di Vesta – la metamorfosi della ninfa Carna che diventa, senza perderne l’essenza, la dèa Vesta [così ben narrata in versi da Ovidio nei Fasti] – noi lo possiamo leggere negli oggetti culturali più impensati: è tanto che non vedete il famoso film intitolato Vacanze romane? Chi non lo conosce? Provate un po’ a rivedere e a seguire il testo della sceneggiatura di questo film tenendo conto del “mito di Vesta” [forse neppure il regista e gli sceneggiatori ne sono stati consapevoli perché questo stampo è ben marcato nell’Ecumene contemporanea e non perché lo scenario è quello di Roma], ebbene, vi ritroverete nel “mondo di Janus”, di fronte agli stessi interrogativi che il concetto della metamorfosi poneva a Plauto e soprattutto a Ovidio.

     Ma non c’è proprio nessuno – nella prima fase della Storia della Letteratura latina – che ha il coraggio di sfidare apertamente la censura e di citare in modo esplicito il nome di Vesta, facendone un personaggio teatrale? Forse qualcuno c’è e probabilmente lo incontreremo anche se non restano che frammenti.

     Ma prima dobbiamo ancora occuparci del linguaggio di Plauto perché questo sì che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è un argomento fondamentale. Di che cosa si tratta?

     Se lo volete sapere accorrete numerose e numerosi la prossima settimana perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il teatro] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui.

     Anche quest’anno il viaggio – nel territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” – continua e se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 13, 2012