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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’È IL RICORDO DELL'ETÀ DI SATURNO, DI CARNA E DI VESTA...

Lezione N.: 
7

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 23-24-25  novembre 2011

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’È IL RICORDO DELL'ETÀ DI SATURNO, DI CARNA E DI VESTA...

     Da sette settimane siamo in viaggio e stiamo attraversando il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”: un vasto spazio culturale dove si assiste – in un rapporto complesso e dialettico di odio e amore – all’integrazione tra la cultura greca e la cultura latina. Il tema del rapporto d’integrazione tra la cultura greca e la cultura latina è sempre stato un argomento che ha intensamente coinvolto nella ricerca le studiose e gli studiosi di filologia; purtroppo questo tema ha sempre trovato poco spazio sul terreno della didattica: si è studiata la Letteratura greca e la Letteratura latina come se fossero due apparati autonomi, ignorando le dinamiche – di accoglienza e di repulsione – che sono sorte tra queste due realtà, e invece sono proprio queste dinamiche a promuovere la creatività e l’investimento in intelligenza.

     La scorsa settimana siamo approdate e siano approdati nello spazio più antico e misterioso di questa ampia area leggendaria, uno spazio [in latino “latium”] che è stato chiamato il “mondo di Janus” [Janus è il dio della “ianua”, della porta]. Abbiamo potuto constatare che il “mondo di Janus” è un territorio acquatico, acquitrinoso ma anche boschivo, ricco di fonti e attraversato da un fiume, Tiberinus pater, che mette questo sistema in movimento. Sappiamo che il “mondo di Janus” è popolato da creature, chiamate Linfe o Ninfe, che hanno la caratteristica di sciogliersi allo stato liquido, di essere in armonia con l’umidità e, naturalmente, questo fatto richiama la fecondità della Natura che, in principio, sostenta gli aborigeni, e poi, nell’età successiva agli albori impone il ritmo dei suoi cicli e detta le regole alle attività agricole che hanno determinato la prima grande Rivoluzione nella Storia dell’Umanità.

     Abbiamo capito che i paesaggi intellettuali che incontriamo su questo Percorso hanno l’ampiezza dell’oscillazione di un pendolo che compie un movimento temporale che va dal II secolo a.C. – l’età repubblicana in cui vive Catone il Censore, che ci sta ancora accompagnando in questo viaggio – fino al I secolo d.C. in cui ha inizio l’età di Augusto e lo Stato romano si trasforma in un impero. Nell’arco di questi duecento anni si compie “ufficialmente” il processo di integrazione tra la cultura greca e la cultura latina: si usa l’avverbio “ufficialmente” perché questo percorso, che dura due secoli, è documentato, è autenticato dalla presenza di opere che ne descrivono la parabola. Dove non ci sono testimonianze scritte è difficile se non impossibile costruire un itinerario intellettuale che possa stimolare le azioni dell’apprendimento.

     Noi sappiamo che il rapporto tra la civiltà greca e il mondo romano nasce da un legame molto più antico che affonda le sue radici nel VI secolo a.C. con la diffusione della cultura orfico-dionisiaca, ma di questo rapporto è come se i Romani – troppo presi dalle guerre di conquista e dagli scontri interni tra patrizi e plebei – non se ne fossero accorti. È come se i Romani avessero rimosso il fatto di aver subìto l’influenza della legislazione, della cultura, della filosofia e della letteratura greca.

     Le opere di Catone il Censore [che continua ad essere nostro compagno di viaggio], quindi, rappresentano, nel II secolo a.C., il momento della presa di coscienza del complesso rapporto tra la consolidata cultura greca e la cultura latina e che si va formando a mano a mano che Roma si espande sul territorio dell’Ellenismo. Le opere di Catone il Censore, per prime, mettono in luce un rapporto di amore [perché i Romani non ne hanno potuto fare a meno] e odio [perché fin dalle origini ne hanno subito la dipendenza culturale e ai Romani questa idea di subire non va a genio] tra civiltà ellenica e tradizione latina.

     Tito Livio e Publio Ovidio – che abbiamo incontrato negli scorsi itinerari – vivono circa duecento anni dopo Catone il Censore, all’inizio del I secolo d.C., in un’epoca in cui questo processo di integrazione si è “ufficialmente” concluso – ed è lo stesso Augusto a decretarne la chiusura a vantaggio dei Romani [colonizzati culturalmente ma vincitori militarmente] ma senza voler umiliare i Greci [sconfitti militarmente ma egemoni culturalmente] – e all’inizio dell’età imperiale si parla ormai di “cultura greco-romana”. Per questo motivo noi procediamo con il metodo del pendolo, facendo oscillare la nostra attenzione tra i due punti che rappresentano gli estremi di uno spazio temporale che sta tra la metà del II secolo a.C., l’età di Catone il Censore e della nascita della cosiddetta “nuova Repubblica” e l’inizio del I secolo d.C., quella che chiamiamo l’età di Augusto e della nascita dell’Impero. Quindi noi procediamo sul nostro cammino seguendo le oscillazioni di questo pendolo ideale che attraversa uno spazio che noi ci dobbiamo raffigurare nella nostra mente e che abbiamo già definito come l’area della “cultura ianuaria”, che si dilata in questo spazio, e sappiamo che cosa significa questa dicitura.

     La scorsa settimana – facendo oscillare il pendolo tra l’opera di Catone il Censore e le opere di Publio Ovidio e di Tito Livio – abbiamo studiato come dalla “cultura ianuaria” emergano e prendano forma letteraria le figure delle Ninfe o Linfe. L’itinerario della scorsa settimana lo abbiamo concluso incontrando il personaggio di Carmen. Il nome del personaggio di Carmen rimanda alla Ninfa Carmenta che Ovidio evoca nei Fasti con enfasi perché lui vuole sostenere un concetto che, per la sua poetica laica ed ironica, è fondamentale. Ovidio nel testo dei Fasti [un’opera di cui abbiamo studiato le caratteristiche] descrive le creature che abitano il “mondo di Janus” e il suo racconto è sempre finalizzato alla riflessione tanto esistenziale quanto filologica: Ovidio vuole sottolineare il fatto che non ci sarebbe il mito senza la poesia, e la poesia, con Ovidio, diventa una “denuncia”, si manifesta come un esercizio di “controinformazione”. La raffigurazione, la rappresentazione della realtà non dipende dai sacerdoti e dalla religione ma dipende dai poeti e dalla “sapienza poetica”: il “mondo di Janus” esiste grazie ai “carmina”, alle primordiali composizioni poetiche. Non sono le Ninfe a fare esistere i “carmina”, sono i “carmina” che fanno esistere le Ninfe e gli dèi nei quali si manifestano i vizi degli uomini. Ovidio – formatosi alla cultura filologica di matrice ellenistica – rompe, nel testo dei Fasti, lo schema gerarchico del “mondo di Janus” e mette in primo piano una delle  sorelle di Lara che si chiama Carmenta la quale “doveva il suo nome ai carmina, i canti, che sapeva intonare”. Ovidio afferma che “il principio” è nella voce [carmen] dei cantori, è nelle mani dei poeti – aleggia pur sempre lo spirito di Orfeo – e per noi è un invito a domandarci: quali sono le origini della Letteratura latina? Ce ne occuperemo fra poco perché – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non possiamo non raccogliere la provocazione di Ovidio.

     Sembra che – come ci ricordano le studiose e gli studiosi di filologia, e a questo discorso abbiamo già accennato la scorsa settimana – ci sia stata una velata polemica tra lo storico Tito Livio e il poeta Publio Ovidio. Sappiamo che Livio e Ovidio hanno vissuto contemporaneamente a Roma, entrambi hanno frequentato Augusto negli stessi anni, ma loro due non si sono frequentati perché sono profondamente diversi: Tito Livio è introverso, vive appartato, è riservato e schivo mentre Ovidio è estroverso, fa vita mondana da persona di successo. I due si rispettano e quindi è in modo allusivo e pacato – in termini intellettuali – che Ovidio, nel testo dei Fasti, contraddice la visione di carattere mitico-religioso che Livio ha delle origini di Roma e non condivide il richiamo di Livio a tornare alle sane tradizioni divinatorie delle origini: per Ovidio le origini sono di carattere letterario e bisogna fondare una cultura universale piuttosto che tornare ad una religione particolare. La Ninfa Carmenta, così come la descrive Ovidio nei Fasti, rappresenta l’allegoria della “sapienza poetica” ed è al vertice della scala gerarchica perché, scrive Ovidio: “Come Janus, anche Carmenta conosceva il passato e il futuro, e svelava il destino con la sua voce [carmen] che risuonava fra i monti, nei boschi e nelle grotte nascoste”. La Ninfa Carmenta appare come una creatura molto autorevole che “deve il suo nome ai carmina, ai canti, che sapeva intonare”: questa figura mitica è la rappresentazione dei “carmina”. Che cosa sono i “carmina” e che ruolo hanno i “carmina” nella Letteratura latina delle origini?

     Quando i Latini volevano indicare la poesia utilizzavano la parola “carmen”. Si tratta di una parola molto antica, connessa – piuttosto misteriosamente [non è facile fare delle indagini filologiche in proposito] – con il verbo “cano” che significa “cantare”. Dunque nelle antiche tradizioni latine, e poi a Roma – tanto in età repubblicana quanto in età imperiale –, la poesia sarebbe stata un canto? Questo fatto costituisce una notevole differenza rispetto al nostro modo di intendere la poesia. Per noi, infatti, quest’arte non presuppone un uso melodico, o musicale, della voce. Se leggiamo una lirica dal Canzoniere del Petrarca: «Solo e pensoso i più deserti campi vo misurando a passi tardi e lenti …» o una lirica dalle Occasioni di Eugenio Montale: «Non recidere forbice quel volto solo nella memoria che si sfolla …» vediamo che presuppongono la semplice produzione di “stringhe” verbali, regolate da schemi metrici o semplicemente ritmici, ma non richiedono certo di essere cantate. Per i Romani invece la poesia prevedeva anche un uso melodico della voce umana: ma quale tipo di uso melodico?

     La parola “carmen” ci riserva delle sorprese, e allora riflettiamo. A Roma si chiamavano “carmina”, al plurale, non solo le poesie, ma anche molti tipi di testi relativi ai campi più svariati della cultura: erano “carmina” i precetti [i precetti dati da Catone il Censore], erano “carmina” le leggi [i testi delle Leggi delle XII Tavole], erano “carmina” gli incantamenti [i testi degli incantesimi fatti dalle fattucchiere], erano “carmina” le formule di giuramento [dei soldati nell’esercito, delle spose nei matrimoni, dei testimoni nei tribunali], erano “carmina” le preghiere, erano “carmina” gli oracoli. Di fronte a questa situazione – se il termine “carmina” ha un ventaglio così ampio di significati – dove va a finire la poesia? Difatti noi non pensiamo alla poesia quando ci troviamo di fronte al dibattimento di una causa in tribunale o alla preparazione di un sacrifico: perché allora, anche in questi casi, i Romani parlano di poesia? Che cosa intendono per poesia?

     Se si prendono ad una ad una le produzioni che i Romani definivano “carmina” – anche quelle apparentemente più lontane dalla poesia, come una formula di giuramento o il responso di un oracolo – si nota che tutte quante sono accomunate dalla stessa caratteristica: si tratta di testi che si presentano in modo molto diverso dal parlare comune. E allora si capisce che vengono definiti “carmina” quegli enunciati concepiti non per essere usati e subito dimenticati – come accade per qualsiasi discorso quotidiano [verba volant] – ma per essere conservati nella memoria della comunità: una legge, una preghiera, un vaticinio, un precetto di saggezza, sono destinati a durare perché la legge non si applica una volta sola, perché le preghiere sono quotidiane, perché i vaticini [i pronostici] sono stagionali e le feste sono annuali. Tutte le composizioni che i Romani definiscono “carmina” sono pensate in modo tale da poter essere ripetute ogni volta che se ne presenti la necessità, ma per ottenere questo scopo bisognava dare al discorso un taglio specifico usando un lessico poco consueto e, soprattutto, costruendo parallelismi fra le singole frasi, creando giochi fonici capaci di colpire l’attenzione e la memoria, ricorrendo agli strumenti di quella situazione che chiamiamo “analogia”: i “carmina” sono testi analogici [dotati di un analogico che il digitale non cancella].

     Che cos’è l’analogia, a che cosa corrisponde in termini di parole-chiave?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La parola “analogia” rimanda alla somiglianza, alla similitudine, all’affinità, alla relazione, all’attinenza, alla corrispondenza, alla conformità, all’equivalenza, all’identità, all’uguaglianza…

Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “analogia”?…

Scrivetela

     Operare per costruire strumenti che creino “analogie” significa agire in modo da formare la comunità e lo strumento necessario, in proposito, è il linguaggio. In origine la civiltà romana – come lo erano in origine tutte le civiltà dell’Età assiale della Storia – era quasi esclusivamente orale e l’uso della scrittura era assai limitato e sia la produzione che la conservazione dei testi erano affidate alla memoria. Nella società moderna perché un testo possa durare viene messo per iscritto e poi, se è un testo autorevole, viene inserito in una raccolta, in un codice. Ma come si fa ad ottenere lo stesso risultato in un mondo in cui tutti i discorsi si presentano uguali, perché tutti sono ugualmente fondati sulla bocca, sull’orecchio e sulla memoria? Ebbene, l’unica cosa da fare è costruirli in modo tale che essi si presentino immediatamente come diversi, usando uno stile ricco di parole particolari, di allitterazioni [di ripetizioni di vocali e consonanti per ottenere effetti speciali], di giochi fonici, di echi, di parallelismi.

     Ma questo non bastava ancora: quando questi “carmina” venivano recitati, si faceva ricorso anche ad una dizione adeguata alla natura eccezionale del testo e, quindi, si faceva ricorso a quei tratti che le studiose e gli studiosi di filologia chiamano “soprasegmentali”, come l’intonazione e il ritmo della frase per far comprendere immediatamente all’uditorio che tipo di discorso stava ascoltando. Di conseguenza dobbiamo immaginarci che, al momento di recitare un “carmen”, la voce assumesse una curva melodica, musicale, che andava ad assomigliare ad un “canto”: ecco perché i Romani chiamavano “carmina” – dal verbo “cano”, cantare – i testi destinati ad entrare, e a restare, nella memoria della comunità. La poesia, intesa come successione di versi, faceva ovviamente parte di questo insieme, e ne costituiva uno degli esempi più ragguardevoli. Bisogna precisare che la lingua latina aveva [ed ha] una struttura la quale, per sua stessa natura, predisponeva [e predispone] al “canto”.

     Non è facile trattare questo argomento ma alcune cose bisogna dirle, alcuni concetti bisogna esprimerli perché non sono incomprensibili: le vocali del latino hanno ciascuna una loro specifica “durata” – sono infatti brevi o lunghe come le note musicali che esprimono un differente valore – e ugualmente brevi o lunghe sono considerate le sillabe di cui ciascuna parola si compone. E così gli accenti, anche loro hanno una natura musicale, e corrispondono ad un innalzamento o abbassamento del tono della voce. Questo per dire che per un poeta latino era più che mai naturale “cantare” e, quindi, le Ninfe, in quanto tali, non esistono: però il fatto “che vengano fatte cantare”, e che il loro canto sia una “linfa”, sia un nutrimento per l’intelletto, è una realtà su cui riflettere.

     Noi non potremmo mai ascoltare la melodia – se così la possiamo chiamare – di un antico “carmen” e neppure l’hanno mai udita i personaggi [Catone il Censore, Publio Ovidio, Tito Livio] che abbiamo incontrato e altri che incontreremo e che fanno parte della Storia della Letteratura latina: ricordate le parole del senatore Rosario La Ciura quando afferma – parlando con il suo interlocutore Paolo Corbera – che nessuno dei suoi esimi colleghi studiosi dell’Ellenismo aveva mai udito parlare l’antica lingua greca mentre lui aveva avuto questo privilegio? Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo breve La sirena, che noi abbiamo letto in partenza, vuole evocare anche il mistero delle origini o della nostalgia delle origini.

     Quando si parla di “carmen”, infatti, ci si riferisce ad una fase molto remota della cultura latina, ben diversa da quella che viene attestata nei documenti scritti. Questa fase remota – come sempre succede – è stata sottoposta ad una elaborazione mitica ed è diventata, nella testimonianza dei nostri informatori, a cominciare da Ovidio – dai Fasti di Ovidio – una “aurea aetas”, un’età dell’oro o “saturnia aetas”, il tempo dell’influenza di Saturno.

     Ma procediamo con ordine: sul nostro sentiero adesso cominciano a presentarsi una serie di paesaggi intellettuali che dobbiamo osservare. Degli antichi “carmina” abbiamo qualche testimonianza perché alcuni frammenti e, soprattutto, un importante elemento formale emergono nelle opere di due personaggi che vengono considerati i primi scrittori della Letteratura latina. Questi due scrittori appartengono alla generazione precedente a quella di Catone il Censore il quale ci ricorda che anche lui nelle sue opere ha utilizzato dei frammenti di antichi “carmina” e uno di questi frammenti – è una preghiera – c’interessa e lo studieremo.

     Prima di incontrare i due scrittori che vengono considerati i primi autori della Letteratura latina dobbiamo riflettere sulle caratteristiche del genere letterario dei “carmina”. I  componimenti che prendono il nome di “carmina” erano formati da versi chiamati “saturni” e, non a caso, un momento fa, abbiamo evocato la figura di Saturno che ha un ruolo nella mitologia latina. Per comporre i “carmina” si usa il “verso saturnio” e questo verso è stato chiamato così perché l’età antica in cui vengono composti i “carmina” corrisponde a quella che per i Romani era la leggendaria “età di Saturno”: una mitica età dell’oro quando, secondo la leggenda, il dio Saturno si era rifugiato nel Lazio perché era stato cacciato via dal cielo da un dio più giovane di lui che lo aveva spodestato e fu accolto da Janus e dai Fauni, creature semi divine – il corrispettivo maschile delle Ninfe –, per metà animali e per metà esseri umani, ai quale il fuggiasco Saturno insegnerà a cantare e il canto produce felicità.

     Il “verso saturnio” è imprevedibile perché non ha una sua regolarità, non ha una forma precisa tuttavia è stato utilizzato per secoli nel corso dell’età delle origini. Il “verso saturnio” assume una sua chiarezza con i primi scrittori della Letteratura latina anche perché si deve misurare con l’esametro greco e, quando il raffinato esametro greco fa la sua comparsa nel mondo latino, l’arcaico verso saturnio scompare per sempre.

     Che cosa ci resta degli antichi “carmina”? Tra i “carmina” più antichi di cui si ha memoria, risalenti al VI secolo a.C., c’è il celebre Carmen Saliare, legato ai riti magico-religiosi dei sacerdoti Salii. Il Carmen Saliare è uno dei primi testi latini che ci sono pervenuti, di esso sono rimasti pochi frammenti, di difficile comprensione.

     Ogni anno in marzo e in ottobre, per celebrare l’apertura e la chiusura della stagione della guerra, i Salii – questo nome deriva dal verbo “salio” che significa “saltare” –, che erano i dodici sacerdoti di Marte, percorrevano in processione, vestiti da antichi guerrieri, i luoghi più importanti di Roma, intonando preghiere di invocazione, danzando e battendo con il piede il suolo con colpi forti e regolari, e percuotendo con un bastone gli “ancilia”, i dodici scudi sacri di bronzo. Il Carmen Saliare rievocava un episodio mitico: quando il re Numa Pompilio aveva fondato il collegio dei sacerdoti Salii per custodire l’ancile, un sacro scudo caduto miracolosamente dal cielo come pegno divino per la salvezza e la gloria di Roma. Il Carmen Saliare racconta come gli altri undici scudi, perfettamente uguali al primo, erano stati costruiti con grande perizia dal fabbro Mamurio Veturio tanto che l’originale non era più riconoscibile. Il frammento più ampio che si possa leggere del Carmen Saliare dice: «I fabbri di Roma si chiamano tutti Mamurio Veturio e tutti gli scudi fabbricati dai fabbri romani son sacri».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che cosa vi fa venire in mente la parola scudo?…Vi è capitato di fare da scudo a qualcuno e a qualcosa ?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Per fortuna i “carmina” non servivano solo per celebrare la guerra: ed è il “carmen” stesso che diventa uno scudo perché lo scudo non era soltanto un oggetto del corredo del soldato romano ma era anche una metafora per indicare varie forme sacrali di salvaguardia e quindi c’erano anche “carmina” che rispondevano alle esigenze di protezione che aveva una società basata sul lavoro dei campi. Guardate che qui entriamo in un tema di grande contemporaneità perché se qualcuna o qualcuno di voi ha vissuto – attraverso la propria famiglia – l’esperienza del lavoro agricolo ha potuto, magari senza saperlo, conoscere anche delle forme poetiche molto simili ai “carmina”.

     Il testo dei “carmina” che ci è pervenuto in una versione quasi completa e attendibile è il famoso Carmen Arvale, risalente al VI secolo a.C.. Questo testo è giunto fino a noi perché – seguendo il ritmo della civiltà e della cultura agricola che si è mantenuta intatta nel tempo – è stato trasmesso di generazione in generazione.Il Carmen Arvale è un canto propiziatorio affinché gli dèi invocati diano protezione e fertilità ai campi. Numerosi frammenti del Carmen Arvale si trovano in una epigrafe del 218 d.C. contenuta negli Acta fratrum Arvalium [Atti dei fratelli Arvali] in cui il collegio sacerdotale dei cosiddetti “fratelli Arvali” registrava le proprie attività liturgiche. Questo canto, in versi saturni – che venivano ripetuti come se fossero un ritornello – costituiva il momento culminante della processione della festa Ambarvalia [dell’auspicio per un buon raccolto] che si celebrava nel mese di maggio.

     Il testo del Carmen Arvale non è di facile interpretazione ma si capisce che in esso si invocano i Lari [i figli della Ninfa Lara] e i Semòni, una serie di divinità campestri che devono proteggere i campi coltivati dalle pestilenze: in latino “arva” significa “campo coltivato” ed è da questo termine che deriva la parola “arvale”. I “fratres Arvales” formavano il collegio dei dodici sacerdoti che erano dediti al culto delle divinità agricole. Le divinità agricole – nell’arcaico mondo latino – sono molte ma tra queste emergono due figure fondamentali: la Ninfa Carna che – secondo un procedimento mitico che ormai conosciamo – diventa poi l’importantissima dèa Vesta e di questi due personaggi, che hanno assunto un notevole spessore letterario, sentiremo ancora parlare.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete avuto occasione di partecipare a rituali in cui si pregava o si cantava per la protezione dei campi coltivati?…  

Scrivete quattro righe in proposito…

     Già che siamo in argomento dobbiamo ancora dire qualcosa a proposito dei “carmina” e questo qualcosa può riguardare, anche in questo caso, la nostra esperienza personale. Questi sembrano argomenti lontani nel tempo e fuori dalla realtà e così finiamo per crederci figlie e figli di nessuno, abitatori di un non-luogo, assoggettati alla televisione che è un non-luogo perfetto perché propone l’imitazione dei luoghi, sostituendo l’immagine di una relazione a una relazione concreta [l’aveva già capito Platone con il mito della caverna]; e pensare che un tema che può apparire così remoto come quello dei “carmina”, che sta agli albori della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”, può farci prendere coscienza – a noi persone che siamo qui a Scuola in carne ed ossa – di come molti nostri gesti quotidiani abbiano le loro radici lontano nel tempo in età arcaica, un’età della quale non rimangono “memorie”, non restano oggetti materiali, ma rimane “memoria”, resta reminiscenza intellettuale: non è un problema di contenuti culturali soltanto ma è soprattutto un problema di forme intellettuali che hanno la capacità di allargare la nostra vita e, quindi, pensiamoci a questo fatto.

     Facciamo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – una riflessione critica in proposito perché oggi troppo spesso sentiamo dire: questo è un fatto “naturale” e, quindi, sembra non possa cambiare nulla. L’alfabetizzazione funzionale e culturale c’insegna che tutto è cultura [o coltura] e anche ciò che ci appare come naturale, in realtà, è sempre una costruzione culturale  soggetta allo “studio”, una costruzione culturale [ora stiamo parlando dei “carmina”] che ha le sue dimensioni le quali variano col tempo e nello spazio: variabili a seconda dei contesti, delle epoche e delle tradizioni, e se a questo proposito non investiamo in intelligenza e non ce ne rendiamo conto, non c’è possibilità di progresso culturale ed umano. L’alfabetizzazione funzionale e culturale, di conseguenza, ha il compito di promuovere esperienze di studio che provochino riflessioni e suscitino interrogativi in modo da relativizzare la presunta legittimità di tutte quelle forme di potere che vogliono imporre credenze e illusioni come se fossero verità assolute. Ebbene, abbiamo ancora qualcosa da dire a proposito dei “carmina” e questo qualcosa può riguardare, anche in questo caso, la nostra esperienza personale.

     A Roma i “carmina”, in forma orale, avevano una grande diffusione perché erano legati alla sfera privata e profana delle persone: soprattutto i cosiddetti “carmina convivalia [canti conviviali]”. Cicerone scrive: «Era regola che nei banchetti dei nostri antenati gli invitati cantassero uno dopo l’altro, accompagnati dal flauto, le gesta e le virtù degli uomini illustri». In questi banchetti [convivia] i ceti più elevati della città si incontravano quasi quotidianamente, ricambiando a turno cene dove si parlava soprattutto di politica ma dove anche la poesia, la musica e la danza assumevano un ruolo importante. I “carmina convivalia” celebravano, in versi saturni, le imprese gloriose di antenati illustri ma noi non conosciamo nulla degli eroi celebrati in questi canti perché di queste composizioni non è pervenuto neppure un frammento.

     Sappiamo poi che c’erano i “carmina triumphalia” improvvisati dai soldati durante le sfilate delle cerimonie di trionfo in onore dei generali vittoriosi: erano composizioni in versi saturni che contenevano, probabilmente, espressioni rozze, battute triviali e licenziose che avevano poco del trionfale.

     Dobbiamo ricordare ancora i “carmina” detti “neniae” che erano lamentazioni funebri messe in versi saturni che venivano intonate durante le esequie in lode dei defunti prima da un parente e poi, in epoca più tarda, dalle “praeficae”, donne che venivano assoldate appositamente e che, in parte, improvvisavano, in lacrime, questi canti secondo uno schema fisso. I funerali a Roma – non solo quelli dei personaggi più in vista – erano cerimonie pubbliche con un grandioso corteo cui partecipavano tutti i parenti, gli amici e, simbolicamente, anche gli antenati, rappresentati da persone con maschere di cera sul volto che nel Foro pronunciavano una “laudatio funebris” che celebrava, in versi saturni, le virtù e le imprese del defunto.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Oggi la tradizione dei “carmina convivalia” continua soprattutto nel momento di fare un brindisi

Fate un brindisi e corredatelo con un “carmen” augurale…

Scrivete il testo del vostro “carmen augurale” perché non si perda: due righe sono sufficienti…

     Ci vuole poco a capire che tra il canto dei “carmina”, che avveniva in città, e la rappresentazione teatrale, che nasce in campagna e poi si diffonde nelle città, il passo è breve, e di teatro non potremo fare a meno di occuparcene perché dobbiamo incontrare – abbiamo detto – quelli che vengono considerati i primi autori della Letteratura latina però prima di dedicarci a questo incontro dobbiamo ancora riflettere su un’altra questione che è rimasta aperta.

     Abbiamo imparato che per comporre i “carmina” si usa il “verso saturnio” e questo verso è stato chiamato così perché l’età antica in cui nascono i “carmina”, e di cui i “carmina” sono la voce [carmen], corrisponde a quella che per i Romani era la leggendaria “età di Saturno”: la mitica età dell’oro dei Romani corrisponde con l’era di Saturno. Naturalmente questo tema ha una rilevanza letteraria di cui – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci dobbiamo occupare, e chi ci fornisce l’occasione per farlo? Ma ce la fornisce Ovidio [è qui che scalpita] il quale nel testo dei Fasti – con la sua straordinaria capacità evocativa [Ovidio è un grande poeta perché c’insegna a evocare, a richiamare alla memoria perché ci si possa commuovere e il commuoversi è un atto di trasformazione, di cambiamento] e con la sua raffinata competenza filologica [Ovidio è un grande poeta perché c’insegna che la riflessione filologica, la storia delle parole, è necessaria per conoscere noi stesse, noi stessi e il mondo in cui viviamo] – ci mette in comunicazione con la figura di Saturno e ci presenta il rapporto tra Janus e Saturno che è anche una metafora del processo di integrazione – uno dei primi segmenti – tra la cultura ellenica e il mondo latino [Saturno gravita, prima di tutto, nell’area olimpica e dall’alto dell’Olimpo cade nella palude ianuaria]. Inoltre Ovidio porta sulla scena la sposa di Saturno elencando i diversi nomi di questo personaggio in modo da aprire un nuovo capitolo dell’apparato mitologico latino di cui ci dobbiamo occupare perché Ovidio questo capitolo lo scrive, ma non è il solo, qui c’è anche un altro che scalpita [nel continuo oscillare del pendolo] ed è Catone il Censore che ha chiesto la parola perché, in proposito, ha qualcosa da dire, e aspetta [è molto disciplinato] il suo turno.

     Ma ora dobbiamo leggere il testo di Ovidio che ci porta nell’età di Saturno:

LEGERE MULTUM….

Publio Ovidio Nasone, Fasti

Arrivò su una nave. Era vecchio, aveva lunghi capelli e una barba fluente.

Indossava un mantello di porpora e in mano reggeva una falce. Veniva a cercare ospitalità

per nascondersi perché, si racconta, lo aveva cacciato dal cielo un dio

più forte di lui per prenderne il posto. Janus accolse quel dio in esilio come ospite

degno di ogni riguardo e gli diede in dono una sede, il dorso roccioso del colle

che gli stava di fronte e che un giorno sarà il Campidoglio. Il dio ospite si chiamava Saturno,

il suo nome discendeva dal satus, l’atto del seminare e dalle sationes,

le sementi. Saturno infatti era un dio legato alla terra, anzi, ne era il signore.

Lui della terra conosceva i segreti, sapeva come renderla ricca e feconda.

Allora insegnò a Janus il suo sapere, l’agri cultura, l’arte di avere cura dei campi,

per contraccambiare il dono da lui ricevuto. Accettare e contraccambiare dei doni

significava instaurare un forte legame, stringere un vincolo reciproco di aiuto

e di solidarietà: così Janus e Saturno si legarono l’uno con l’altro e iniziarono

a regnare insieme sulle rive del fiume e fu allora che Saturno insegnò a Janus

a cantare e Janus lo insegnò ai Fauni e fu così che su quella terra risuonarono

i carmina in versi che allietarono il mondo. Allora Janus, che tutto vedeva e sapeva, disse:

- Ecco, inizia il tempo di Saturno, - e un nuovo tempo iniziò. Non appena

quel dio s’insediò sul suo clivo, tutto intorno divenne un’esplosione di fecondità

e di pienezza. Zèfiro soffiava sui fiori sbocciati d’un tratto e la terra produceva

spontaneamente i suoi frutti e i campi davano spighe ricolme per tutto l’anno.

Scorrevano fiumi di latte, il miele stillava dalle querce e dai lecci.

Accanto al dio, come sposa, stava d’altronde Ops, dèa dell’abbondanza e della prosperità,

chiamata così perché procurava agli esseri umani i mezzi, opes, necessari alla vita,

oppure perché la frutta e le messi nascevano per opera, opus, della terra.

Sarà invocata come Terra Ops, o anche Ops Mater, dal momento che la terra è la madre di tutti gli esseri umani:

li partorisce e li nutre. Grazie a Saturno e a Ops, che fu chiamata anche Carna e poi Vesta,

gli umani vivevano una ricca e felice abbondanza. Vivevano in pace,

in perfetta uguaglianza, avendo tutto in comune. Ognuno manteneva coscienza

dei propri doveri, portava rispetto per l’altro, di lui si fidava e gli era leale,

in altre parole tra gli umani regnava pudor et fides. Il mondo andava secondo iustitia,

era conforme al ius, l’ordine giusto di tutte le cose. Il regno di Saturno fu tanto felice

da essere un giorno chiamato età dell’oro, aurea aetas, come l’oro splendente

e prezioso, e costituirà non tanto un miraggio della memoria, o una ricorrente nostalgia da poeti,

quanto un modello profondo. L’età dell’oro rimarrà quel passato, quell’era di Saturno

per quanto indefinita e lontana, durante la quale non c’erano

i mali del tempo presente: non c’era fatica, non c’era violenza, non c’erano divisioni sociali.

Non c’era arrivismo né amore del lusso, nessuna corsa al guadagno.

Non c’erano, soprattutto, né dolus fraus, inganno e menzogna che rendono gli esseri umani infidi

e nemici tra loro. L’aurea aetas verrà pensata per lo più

per l’assenza di mali, fase originaria della storia di Roma, intatta e felice, poi poco

a poco degenerata. Accadde infatti in quei tempi felici e lontani che un giorno, all’improvviso,

Saturno sparì, non comparuit, non si presentò più alla vista. D’altra parte era un dio

e non poteva di certo morire, e gli umani avevano già avuto il dono del dio Saturno

e la forma migliore per ricambiare il beneficio ricevuto sarebbe stata quella di coltivare la terra,

di averne la massima cura: ogni buon Romano in tal modo avrebbe realizzato

nella giusta stagione e nel suo appezzamento per sempre,

la feconda età di Saturno. Un Romano perbene sarà sempre un agricoltore

che manterrà la terra ricevuta dai padri con scrupolo e devozione, per trasmetterla

ai figli, a vantaggio non solo della sua famiglia ma dell’intera città.

Praticando l’agricoltura infatti i Romani vivranno in pace e si atterranno al modello di vita felice

dell’età di Saturno. Si narra che Janus, per rendere onore al dio della terra, coniò

la prima moneta di bronzo, da un lato v’incise la testa del dio, dall’altra la nave

che lo aveva portato fin lì. I Romani costruiranno l’aerarium, il tesoro pubblico,

proprio nel sottosuolo del tempio del dio Saturno perché durante il suo regno

non esistevano i furti né la proprietà privata, e non solo, siccome ogni metallo

era considerato sostanza viva che cresceva nelle viscere della terra, non diversamente

dai semi, così come presiedeva al misterioso sviluppo delle sementi il dio Saturno a

vrebbe fatto crescere il tesoro comune. Quando Saturno non comparve più

il dio Janus lo volle onorare con un culto speciale e istituì i Saturnalia.

La festa, fissata il 17 dicembre, col tempo durerà sette giorni.

Giorni di sospensione non solo del tempo normale ma anche delle regole sociali più radicate.

In quei giorni Roma sarà abitata da gente diversa rispetto ai Romani degli altri mesi,

vestita in modo diverso, dai costumi diversi se non opposti. Il tempo dei Saturnali verrà detto

tempo della libertas decembris, della libertà di dicembre. Dimessa la toga, la seria veste

dei cittadini, tutti i Romani, di ogni classe, età, rango e onore, indosseranno

la synthesis, la veste colorata normalmente portata durante i festosi banchetti,

e sul capo avranno il pilleus, il berretto di lana riservato generalmente ai liberti,

gli schiavi affrancati. E non ci sarà distinzione tra libero e schiavo, tra servo

e padrone: vigerà l’uguaglianza, come nel tempo antico e felice dell’età di Saturno.

O, addirittura, tutto apparirà capovolto e in ogni casa saranno i servi ad esercitare

il comando, verranno persino serviti a tavola dai loro padroni e potranno dire e fare

in libertà. Tutti poi si scambieranno regali, soprattutto candele e pupazzi,

come nell’aurea aetas tutto sarà ripartito, scambiato fra tutti e si rinnoverà

un monito antico come se fosse tornata l’età di Saturno: i beni non sono possesso,

ma circolazione, e la fortuna di ognuno va ridistribuita e divisa.

     Catone il Censore – al quale dobbiamo dare la parola perché, in proposito, a proposito del “carmina”, ha qualcosa si importante da dirci – nel testo della sua opera intitolata De agri cultura, di cui abbiamo già studiato le caratteristiche, riporta una “preghiera per la fertilità dei campi” scritta, in parte – perché lui questo brano lo ha rielaborato –, in “versi saturni”.

     Questo brano non è solo interessante dal punto di vista formale ma lo è anche per quanto riguarda il contenuto perché Catone il Censore evoca una divinità molto importante della mitologia latina delle origini che viene ad assumere un peso maggiore di quello di Janus: questa divinità – che, un momento fa, abbiamo sentito citare da Ovidio nel testo dei Fasti – si chiama Vesta, un nome che conosciamo. Janus è il dio che prende il nome dalla “porta [ianua]” e controlla i passaggi ma Vesta è la porta stessa, è la chiave della porta, è la custode del bastone che rappresenta la severità dei costumi: Janus e Saturno vengono “cantati”, Vesta viene “pregata”.

     Leggiamo il testo di questa preghiera che Catone il Censore ha lasciato in eredità prima di tutto ad Ovidio e poi a noi. Anche il testo della preghiera riportata da Catone il Censore mette in evidenza il fatto che Vesta – secondo una consolidata tradizione narrativa che abbiamo imparato a conoscere – è in un primo momento una Ninfa che poi viene trasformata in dèa e che assume un carattere diverso da quello che aveva quando era una Ninfa, ma questo avvenimento mitico sarà ancora una volta Ovidio a raccontarcelo, tra pochi minuti, quando il peso del pendolo, che oscilla nella nostra mente tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C., tornerà dalla sua parte.

     Intanto leggiamo il testo della “preghiera per la fertilità dei campi” dal De agri cultura che ci propone Catone il Censore: il peso del pendolo ora è dalla sua parte.

LEGERE MULTUM….

Marco Porcio Catone, De agri cultura

O Madre, eri la Ninfa Carna e, per volere celeste hai assunto poteri divini

chiamandoti Vesta, ti prego e t’imploro di essere benevole e propizia

a me, alla mia famiglia e ai nostri servi. Per questa ragione ho ordinato che siano portati

intorno al mio campo, alla mia terra e al mio fondo un maiale, il principe

degli animali, una pecora e un toro affinché tu tenga lontani, scacci e storni

i morbi visibili e invisibili, la sterilità e la desolazione, le calamità e le intemperie

e tu permetta che messi, cereali, vigneti e piante crescano e diventino rigogliosi

e tu mantenga in salute pastori e bestiame e tu dia benessere a me e alla casa.

Per queste ragioni, per purificare il fondo, la terra e il campo, tu degnati di accogliere

questo maiale, questa pecora e questo toro da latte e sii, o Vesta, onorata per sempre

     Ma come avviene nel “mondo di Janus” la trasformazione della Ninfa Carna nella dèa Vesta, che è la figura mitica più importante dell’ideologia su cui si reggono le Istituzioni dell’antica Repubblica di stampo agrario?

     Ogni donna romana viene educata [c’è chi preferisce dire “addestrata”] ad incarnare la dèa Vesta, o meglio, a fondare la propria vita sui valori [o presunti tali] che la dèa Vesta rappresenta. Noi potremmo pensare che, in questa società, ci sia una sorta di “matriarcato”: c’è solo in apparenza perché in realtà le donne non hanno poteri – non sono in grado di autodeterminarsi – ma hanno solo doveri [“monia”, quando il dovere viene sollecitato con un ammonimento, con un decreto].

     Il culto di Vesta viene praticato in un angolo della casa che diventa una zona sacra e dove sono esposti degli oggetti significativi, due cose in particolare: la prima è un bastone fatto con un ramo di biancospino e la seconda è un sacchetto di fave secche. Per sapere il motivo della presenza di questi due oggetti bisogna avere un po’ di pazienza e attendere qualche minuto.

     Vesta è la dèa del focolare domestico, è la nutrice per eccellenza di tutti gli abitanti della casa ma è anche la dèa del focolare pubblico – visto che, secondo l’ideologia dell’antica Repubblica agricola, “lo Stato è la somma dei focolari privati” e se il focolare privato non funziona, se non tira bene, la colpa ricade sempre sulle donne di casa – e il focolare pubblico ardeva in un piccolo tempio rotondo che si trovava nel Foro e, col tempo, custodi di questo fuoco sacro saranno sei sacerdotesse chiamate “vestali”, scelte dal Pontefice Massimo fra le fanciulle delle famiglie più virtuose. È una vestale anche una certa Rea Silvia e questo personaggio [che tutte e tutti noi abbiamo sentito nominare] richiama nella nostra memoria altre narrazioni leggendarie che ci sono state raccontate dagli storici come se avessero un fondamento reale – lo storico Tito Livio lo incontreremo ancora in proposito – piuttosto che cantate dai poeti come tradizioni mitiche.

     Ma torniamo al poeta Publio Ovidio che nel testo dei Fasti – utilizzando anche tutta l’ironia di cui è capace – ci racconta la metamorfosi della Ninfa Carna che diventa la dèa Vesta la quale si assume la responsabilità di mettere in riga anche un esuberante e poco complimentoso Janus che, nella mente del poeta, sembra essersi perfettamente integrato, in quanto a comportamenti erotici, con il personaggio di Zeus.

     Leggiamo questo brano, molto significativo, dai Fasti di Ovidio:

LEGERE MULTUM….

Publio Ovidio Nasone, Fasti

Un tempo, nell’antica selva di Alerno, non lontano dal Tevere e dai suoi acquitrini,

viveva una ninfa di nome Carna. Era bella, dalla pelle rosata, sempre di buon umore.

Le piaceva scherzare e prendere in giro. Specialmente quelli, ed erano tanti, che

la corteggiavano. Lei non rispondeva di no, anzi, invitava gli innamorati a guidarla nel bosco.

Verrò con te, - diceva, - cerchiamo un posto nascosto. Tutto per noi».

E quelli contenti andavano avanti. Poi una volta entrati nel fitto della foresta,

Carna sceglieva qualche grande cespuglio oppure una grotta, si nascondeva, e non

si faceva trovare mai più. E agli innamorati ingannati non restava che andarsene via.

Accadde un giorno che la vide il dio Janus. Pensò: «Che bellezza, la voglio per me».

E senza esitare le andò vicino e le propose l’amore.

«Sì, - disse lei, - verrò con te, cerchiamo un posto nascosto».

Janus, tutto felice, s’inoltrò nella selva mentre lei

lo seguiva. Carna fece allora come era solita fare, sgattaiolò in una grotta.

Che sciocca. Dimenticava che Janus vedeva ogni cosa anche dietro alle spalle.

Infatti la vide e la scovò nel suo nascondiglio e Carna dovette subire, senza ribellarsi,

l’assalto del dio il quale la prese senza darsi pensiero, non si può dire che conoscesse le buone maniere

e, pensando di non essere ingrato, in cambio dell’amore concesso, donò a Carna il ramo di un biancospino.

Un ramo spinoso come quelli che si usavano per costruire i recinti, per tenere lontano ogni pericolo da campi ed armenti.

«Con questo, - le disse, - terrai lontano ogni insidia». E Carna rispose: «Sei tu l’insidia»

e lo colpì con il ramo spinoso così con forza da metterlo in fuga

e mentre Janus fuggiva rivolse il ramo spinoso contro sé stessa e gridò:

«Che io sia battuta se non accetto i miei doveri [monia] di madre [matris]»

e la sua voce [carmen] risuonò su quel mondo facendo fremere le ninfe ed i fauni.

Soltanto un dio può mettere in fuga un dio e questo gesto coraggioso fu apprezzato dal Fato

che sovrasta ogni cosa, e così la forza del Destino le infuse all’istante poteri divini.

«O Carna, - disse la voce [carmen] Fatale, - non sei più una ninfa spensierata

e gioconda, adesso sei una dèa riflessiva e severa e ti chiamerai Vesta perché tu possa coprire,

rivestire, ammantare e anche portare e cingere e fasciare ed avvolgere».

E Vesta, conservando le virtù carnali di Carna, fu una dèa piena di salute,

molto attiva a correre qua e là dove veniva chiamata. Vegliava sui bambini neonati,

dava loro forze, colore, appetito. Ne tutelava la carne perché crescessero sani.

Si occupava anche delle persone adulte e ne proteggeva gli organi interni, carnosi, detti vitalia.

A lei, nel primo giorno del mese di giugno, veniva offerto un passato

di fave e farro condito con lardo, sicché quel giorno era chiamato Kalendae fabariae, Calende delle fave.

Chi mangiasse questa zuppa non avrebbe sofferto tutto l’anno malattie dei vitalia

conservando una buona salute. Ma Vesta, la divina nutrice,

la dèa del focolare domestico, dava il meglio di sé vicino a una culla.

     Con questo brano ironico dai Fasti di Ovidio – ma non è l’unico – la cosiddetta “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” raggiunge risultati notevoli sul piano antropologico, politico e psicologico. Il tono della poesia di Ovidio è ironico, e poi ci si domanda come mai Ovidio sia stato mandato in esilio nel momento in cui Augusto vera le Leggi Giulie sulla famiglia che sono particolarmente repressive nei confronti delle donne che accettano i loro doveri di madre [matris monia] – e questo è senz’altro un fatto positivo – ma sono costrette ad accettare anche a subire, in silenzio, la violenza e a farsi violenza: «Sei una dèa – si sentono dire – sei la dèa del focolare come Vesta e quindi, come Vesta, ogni tanto bastonati [sacrificati, sopporta, rinuncia, soffri in silenzio, immolati]». Se poi una avesse risposto: «Ma io non voglio essere una dèa, vorrei essere semplicemente una donna», allora, di fronte a questa affermazione sacrilega, di fronte a questo insulto rivolto a Vesta, sarebbe stata processata per direttissima e spinta giù da una rupe in modo che la sua carne [la ninfa Carna] potesse sfracellarsi tra i cespugli di biancospino, quel biancospino che, nell’angolo sacro di casa, ricordava alla donne romane quanto fosse faticoso ma incontrovertibile essere fedeli ai loro doveri [monia] di madre [matris].

     L’alfabetizzazione culturale e funzionale deve utilizzare la Storia del Pensiero Umano per aprire spazi di riflessione, quindi, riflettete e organizzatevi in modo che il bel biancospino e il nutriente passato di fave possano assumere un ruolo diverso perché la mitologia [che richiama l’antropologia, la politica, la psicologia: e lo aveva già capito Ovidio e con lui molti altri autori] – la mitologia e, in questo caso, la “sapienza poetica ellenistica” – va rifondata se no sapete che cosa succede nell’ignoranza? Succede che si torna, periodicamente, a dire: «Beati i tempi in cui le donne erano le dèe del focolare! Ma perché mai, ingrate, non vogliono fare le dèe?».

     Ma rimaniamo nell’ambito della didattica della lettura e della scrittura: che cosa c’insegna questo intreccio filologico che abbiamo dipanato sulla scia dell’oscillazione del pendolo che attraversa la “cultura ianuaria” dall’opera di Catone il Censore nel II secolo a.C. a quella di Publio Ovidio nel I secolo d.C.?

     Abbiamo visto emergere un tema che è sistematicamente entrato nella Storia della Letteratura, nel genere letterario del romanzo moderno e contemporaneo: il tema mitico, simbolico, della trasformazione di una ninfa in una dèa. Questo tema mitologico è servito a scrittrici e a scrittori per creare significativi personaggi femminili in modo da porre, attraverso l’opera narrativa, questioni importanti di carattere sociale, politico e psicologico.

     Tra i tanti esempi che si potevano fare in proposito ne abbiamo scelto uno che si presenta in modo esplicito. Lo scrittore che ce lo propone è una nostra vecchia conoscenza: Émile Zola. Émile Zola [1840-1902] è uno scrittore parigino che ha fatto il giornalista e il critico d’arte prima di esordire in letteratura con un romanzo che ha suscitato un grande interesse e che s’intitola Thérèse Raquin [1867]. Zola, influenzato dalla lettura di Balzac, di Flaubert, dei fratelli Goncourt, elabora il disegno di un grande ciclo di romanzi che abbiano come soggetto la storia di una famiglia [i Rougon-Macquart] durante il Secondo Impero dal 1871 al 1893 in cui pensa di descrivere “scientificamente” e con spietata obiettività la situazione politica e sociale della Francia a lui contemporanea. Questo ciclo comprende una ventina di romanzi – Zola è uno scrittore molto prolifico – la cui lettura è molto utile per “rivivere” una significativa fase storica della storia europea. I titoli più famosi di questi romanzi – di cui la Scuola consiglia la lettura – sono Il ventre di Parigi [1873], L’ammazzatoio [1877], Nanà [1880], Germinal [1885], La bestia umana [1890], La disfatta [1892]. Poi Zola porta a compimento un ciclo – altrettanto interessante – dedicato a Le tre città: Lourdes, Roma e Parigi [1894-1898].

     Inoltre Émile Zola è stato lo scrittore che ha preso posizione in modo più deciso nel cosiddetto “affare Dreyfus” con il famoso articolo J’Accuse! [1898] in cui si schiera, con prove concrete, a sostegno dell’innocenza del capitano Dreyfus ingiustamente accusato, anche perché era ebreo, di tradimento solo per coprire i loschi affari dei vertici militari francesi: Dreyfus ottiene la revisione del processo e viene assolto, ma l’articolo di Zola fa talmente scalpore nelle sedi del potere parigino che lo scrittore, per motivi di sicurezza, deve, per un  certo periodo di tempo, rifugiarsi in Gran Bretagna dove dà inizio ad un nuovo ciclo di opere intitolato Quattro Vangeli [1899-1903] di cui compone, pubblicati postumi, tre romanzi: Fecondità, Lavoro e Verità, il quarto, intitolato Giustizia, non lo porta a termine perché nel 1902 muore.

     La nostra attenzione ora si concentra su due romanzi di Zola in cui è protagonista il personaggio di Nanà che incarna, dichiaratamente, in modo simbolico, la figura di una ninfa che si trasforma in una dèa secondo lo schema mitico che prevede per le donne un panegirico di divinizzazione che esalti la fedeltà ai loro doveri – anche, e soprattutto, per le donne di piacere come Nanà alle quali tocca, comunque, uno spietato destino di sottomissione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Si consiglia di cercare in biblioteca i due romanzi di Émile Zola intitolati “L’ammazzatoio” e “Nanà” in modo da poterli leggere…

     Noi ora non raccontiamo nulla delle trame di questi due romanzi perché vogliamo subito passare alla lettura di una pagina di entrambe le opere per mettere in evidenza l’argomento che c’interessa: il tema – ricorrente nei testi dei romanzi moderni e contemporanei – dell’allegorico, del simbolico passaggio di un personaggio femminile dal ruolo di ninfa carnosa a quello di dèa, in questo caso, vendicatrice.

     Il corpo di Nanà, con i suoi fianchi grassi e rotondi, la sua voce chioccia e sensuale, sprigiona, fin da bambina, un irresistibile invito carnale e il suo destino è quindi di essere una minorenne prostituta. Nanà – la ninfa dorata Nanà – fa infiammare di passione gli uomini ed è causa della loro rovina assumendo atteggiamenti che apparentemente sembrano innocui ma si rivelano essere i gesti di una dèa vendicatrice: Nanà è una “Vesta al contrario” che invece di dare salute dispensa la morte e, come probabilmente già sapete, la malattia s’insinua nella sua bella carne e diffonde il contagio. La fine di Nana, morta di vaiolo proprio alla vigilia della guerra franco-prussiana, incarna anche la fine di un’epoca. Nanà nasce ninfa, cresce dèa e muore da povero essere umano e i toni truci che lo scrittore usa esaltano l’unico sentimento possibile: la pietà.

     Ma non c’è tempo per dire altro: i testi di questi romanzi sono da leggere perché conservano, sotto molti aspetti, una impressionante attualità. Leggiamo una pagina da L’ammazzatoio dove incontriamo la desiderabile ninfa:

LEGERE MULTUM….

Émile Zola, L’ammazzatoio

Nanà cresceva, diveniva una giovane ninfa. A quindici anni era già grande come una vaccherella, di carnagione bianchissima, era bella piena, così rotonda che si sarebbe fatta rotolare come una palla.

Signorsì, aveva quindici anni, tutti i denti e non portava busto: Una vera freschezza di gazza stemperata nel latte, una pelle vellutata di pesca, un naso grazioso, una bocca rosea, degli occhi lucenti e vivi a cui gli uomini avevano voglia di accendere la pipa. La sua folta capigliatura bionda, color d’avena fresca, sembrava averle gettato una polvere d’oro sulle tempie, delle macchie rossicce che le mettevano là una corona di sole. Oh! una bella bambola, come dicevano i Lorilleux, una mocciosa cui si sarebbe dovuto soffiare ancora il naso, e le cui grosse spalle avevano le rotondità piene e la matura fragranza di una donna fatta.

Ormai Nanà non aveva più bisogno di ficcar batuffoli di carta nel busto.

     Ora leggiamo una pagina da Nanà dove la protagonista il ruolo di dèa dell’Amore se lo conquista in palcoscenico non perché abbia delle qualità artistiche ma perché ha qualche cos’altro da offrire.

LEGERE MULTUM….

Émile Zola, Nanà

In quel momento, le nubi, in fondo alla scena, si aprirono, e apparve Venere. Nanà, alta, esuberante per i suoi diciotto anni, avvolta nel suo manto bianco di dea, coi lunghi capelli biondi sciolti con semplicità sulle spalle, si avanzò verso la ribalta, con tranquilla disinvoltura, sorridendo al pubblico. E intonò il suo bel pezzo d’entrata:

   Quando Venere la sera va a zonzo …

Fin dal secondo verso, tutti, nella sala, cominciarono a guardarsi tra loro. Era uno scherzo? era una presa in giro di Bordenave? Mai si era sentita una voce così stonata, così ineducata al canto. Il suo impresario l’aveva giudicata bene: cantava come uno zufolo. Non sapeva neppure stare sulla scena, le mani le buttava sgraziatamente in avanti e il corpo lo dondolava in un modo che fu giudicato sconveniente e screanzato. Degli oh! oh già si alzavano dalla platea e dai posti in piedi, già si sentiva qualche fischio, quando una voce di galletto di primo canto, dalle poltrone d’orchestra, gridò con entusiastica convinzione:

«Che scicchettona!».

Tutta la sala guardò da quella parte. Era il cherubino, lo studentello scappato di collegio, coi suoi begli occhi sgranati, con la sua faccia bionda fattasi tutta fiamme alla vista di Nanà. Quando vide che tutta la gente lo guardava, si fece di brace per aver parlato, senza volerlo, a così alta voce. Daguenet, che gli era vicino, lo guardava fisso sorridendo, il pubblico rideva disarmato e non pensava più a fischiare, e intanto i giovanotti in guanti bianchi, entusiasmati anch’essi dal meraviglioso profilo di Nanà, andavano pur essi in solluchero e applaudivano. «E vero, è scicchettona! Bravo!»

Intanto Nanà, vedendo ridere tutti, si mise a ridere anche lei. L’allegria raddoppiò. Era proprio curiosa, quella bella ragazza! Il suo ridere le scavava una sensuale fossettina nel mento. Essa attendeva, schietta, alla mano, senza nessuna soggezione del pubblico, con l’aria di dire essa stessa, con una strizzatina d’occhio, che, sì, lei non aveva neanche due centesimi di talento, ma che ciò non aveva importanza, perché aveva un’altra cosa. E dopo aver fatto al direttore d’orchestra un cenno che voleva dire: Andiamo, vecchio mio! attaccò la seconda strofetta:

   A mezzanotte è Venere che passa …

Era sempre la stessa voce, che però ora solleticava il pubblico nel suo punto debole tanto da suscitare in tutti un leggero brivido. Nanà conservava sulle labbra quel suo sorriso che le illuminava la piccola bocca rossa e splendente e le riluceva nei grandi occhi chiarocelesti. A certi versi un po’ arditi, un tremito di ghiottoneria le arricciava il naso, le rosee narici fremevano, le guance le si imporporavano. Essa continuava a dondolarsi non sapendo fare altro, ma quel dondolìo, ora, non si giudicava più scorretto; tutt’altro; e gli uomini lo seguivano ingordi coi loro binocoli. Quando terminò la strofetta, la voce le mancò completamente e lei capì che non ce l’avrebbe mai fatta; e allora, senza turbarsi, dette in una scrollata dei fianchi che le disegnò, sotto la sottile camicia, una rotondità perfetta, mentre, col corpo piegato e coi seni capovolti, tendeva in alto le braccia. Scoppiarono gli applausi. Subito dopo essa si voltò raddrizzandosi e mettendo in mostra la nuca, dove un ciuffo dei capelli biondi spiccava come un vello di belva. E gli applausi divennero irrefrenabili.

     Infine leggiamo un’ultima pagina da Nanà dove non esiste più né la ninfa sensuale né la dèa che sembra essere immortale ma dove incontriamo la donna vittima del suo atroce destino il cui corpo, sfigurato dal vaiolo, subisce l’unica metamorfosi possibile quella della decomposizione, ma la vita sta proprio in questo fenomeno. In questa pagina troviamo anche un intreccio filologico che riconosciamo e che, facilmente, possiamo dipanare.

LEGERE MULTUM….

Émile Zola, Nanà

Uscivano alla svelta gettando uno sguardo al letto. Ma, mentre Lucia, Bianca e Carolina erano ancora lì, Rosa diede un’ultima occhiata alla stanza per lasciarla in ordine. Tirò giù la tenda davanti alla finestra, poi pensò che quella lampada non ci stava bene, ci voleva un cero; e, dopo avere accesa una delle candele del candelabro di rame che era sul caminetto, la posò sul comodino, vicino al cadavere. Una viva luce rischiarò bruscamente il viso della morta. Che orrore! Ebbero tutte un brivido e scapparono via.

«Oh, quanto è cambiata, quanto è cambiata!» mormorò Rosa Mignon rimasta ultima. Uscì anche lei e chiuse la porta. Nanà ora era sola, con la faccia volta in alto, nella luce della candela. E non era che un carname, un ammasso di umori e di sangue, una palata di carne marcia gettata là su un cuscino. Le pustole avevano invaso tutta la faccia, le bolle si toccavano l’una con l’altra, e, putrefatte, spappolate e di un color grigiastro come il fango, sembravano già muffa di terra, sembravano una poltiglia informe in cui non era più possibile distinguere i lineamenti. Un occhio, quello di sinistra, era completamente affondato nella fermentazione della purulenza; l’altro, mezz’aperto, sprofondato nella carne, era come un buco nero e guasto. Il naso continuava ancora a venire a suppurazione. Tutta una crosta rossastra partiva da una gota e arrivava fino alla bocca contorcendola in un riso abominevole. E su questa maschera orribile e grottesca del nulla, i capelli, i bei capelli, conservavano la loro fiamma di sole e spiovevano giù come ruscelli d’oro. Venere si decomponeva e la dèa dell’amore e del cielo lasciava il posto a Saturno il dio della terra e della distruzione [du carnage]. Sembrava che il veleno da essa succhiato dalle carogne lasciate a imputridire nei rigagnoli, quel fermento con cui essa aveva ammorbato tutto un popolo, le fosse risalito sul viso e glielo avesse disfatto.

La camera era vuota. Una ventata di disperazione salì dal boulevard e gonfiò la tenda: «A Berlino! a Berlino! a Berlino!»

      «Venere si decomponeva – scrive Zola – e la dèa dell’amore e del cielo lasciava il posto a Saturno il dio della terra e della distruzione [du carnage, del massacro]». Ed ecco che l’amore lascia il posto all’odio perché il grido: «A Berlino! a Berlino! a Berlino!» significa che è iniziata la guerra franco-prussiana e ricompare, infine, la figura di Saturno.

     Questa sera abbiamo studiato l’importanza di quelle antiche composizioni che si chiamano “carmina”. Per la composizione dei “carmina”, come sappiamo, viene utilizzato il “verso saturnio” e questo genere di verso è ancora in uso nelle opere di due personaggi che vengono considerati i primi scrittori della Letteratura latina e questi due scrittori appartengono alla generazione precedente a quella di Catone il Censore.

     Ci siamo già domandate e domandati più volte quali siano le origini della Letteratura latina, noi stiamo andando a cercare le radici più profonde di questo avvenimento che si presenta come un fenomeno di integrazione culturale ed è per questo che il nostro sentiero sta attraversando lo spazio acquitrinoso e boscoso del “mondo di Janus [della cultura ianuaria]”. Ma il Senato romano – nel puntiglioso tentativo di dare un’identità alla cultura latina che nasce e si sviluppa in integrazione con diverse “colture” – ha voluto anche stabilire per decreto l’inizio della Storia della Letteratura latina e qui si apre una bella questione sulla quale è necessario riflettere.

     Chi sono i primi scrittori della Letteratura latina e quali opere hanno composto e quali forme ha assunto, in questo caso, il processo di integrazione tra la cultura greca, la cosiddetta cultura italica e il mondo latino? Su questi interrogativi – e anche su altre questioni collaterali – dobbiamo riflettere: lo faremo la prossima settimana perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la Letteratura] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona.

     Se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme: questa affermazione – che determina la conclusione dei nostri itinerari – è di carattere metaforico e non vuole escludere il fatto che si vada a camminare da sole e da soli, anzi, suona come un invito a farlo, periodicamente, l’esercizio del camminare in solitario. Questo per dire che la prossima settimana incontreremo – ogni tanto ne incontriamo uno – un viaggiatore solitario, un viandante saturnino che, a piedi e zaino in spalla, attraversa il territorio della regione in cui vive per constatare che la terra rispecchia anche la “storia della sua distruzione ”[è anche il titolo di un’opera che questo personaggio ha scritto].

     Il “mondo di Janus”, il modo del miti latini, ha trovato la sua collocazione nell’età di Saturno che è il dio della terra e, contemporaneamente, il dio della distruzione: di quell’inesorabile fenomeno che scandisce il cammino umano e il susseguirsi degli eventi naturali che sono difficilmente governabili. Che cosa significa che l’era di Saturno è l’età dell’oro dei Romani?  Significa che hanno assecondato il fenomeno della distruzione? E dipende da questo il loro straordinario successo?

     Sono domande provocatorie che ci portano lontano per cui: è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme e per farlo la Scuola è qui, quindi, accorrete numerose e numerosi perché il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 25, 2011