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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLE COINCIDENZE E SULLE CORRISPONDENZE…

Lezione N.: 
8

Prof. Giuseppe Nibbi         Lo sguardo di Erodoto      1 -2 - 7 (Redi) dicembre  2005

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULLE COINCIDENZE E SULLE CORRISPONDENZE

     “Quando Erodoto vuole vendicarsi, dice le bugie”: questa frase, lì per lì, sembra avere un tono scherzoso, in realtà è un’affermazione molto “sostanziosa” dal punto di vista culturale perché contiene due idee significative che la scorsa settimana abbiamo visto saltare fuori da Le Storie di Erodoto, l’opera di cui ci stiamo occupando in questo Percorso.

     La frase: “Quando Erodoto vuole vendicarsi, dice le bugie” custodisce due parole-chiave: la parola “ambiguità” e la parola “vendetta”. Queste due parole, che abbiamo incontrato nello scorso itinerario – a loro volta – contengono due idee significative. Secondo Erodoto la parola “ambiguità (anfibìa o aporìa)” – insieme alle parole ricerca (tesis), analisi (antitesis), giudizio (crisis) – si coniuga intimamente con la parola “storia (istorìa)”, e questo abbinamento è determinato dall’idea che la realtà che ci circonda è molto spesso incerta, confusa, indeterminata, “ambigua” (troviamo spesso nel Le Storie di Erodoto l’espression: cosmos anfibolos, il mondo è ambiguo o l’espressione upar aporetika, la realtà è contraddittoria).  La parola “vendetta (timorìa)” si coniuga con la parola “storia” perché Erodoto coltiva l’idea che questa azione, questo atto, questo gesto funesto e nefasto sia determinante per lo svolgimento degli avvenimenti e degli accadimenti umani.

     La “vendetta” – secondo Erodoto – è determinante per lo sviluppo della “storia” (Scrive Erodoto: “timoria ufene ta istoria, la vendetta cuce, imbastisce, tesse la storia”).

     Questa frase: “Quando Erodoto vuole vendicarsi, dice le bugie” ci serve ancora come punto di partenza per l’itinerario di questa sera. Secondo i suoi detrattori (che non sono stati pochi) Erodoto dice raramente la verità: secondo costoro egli narra spesso delle leggende, racconta frequentemente delle favole e, nella maggior parte dei casi, inventa le cose per stupire, per sorprendere, per impressionare, per sbalordire, per “meravigliare”. Ma è proprio vero che Erodoto racconta più leggende che fatti concreti, più favole che avvenimenti reali? Erodoto “allude”, e oggi sorride con grande compiacimento, perché piano piano l’archeologia dimostra che, lui, non ha raccontato solo leggende e favole. Il fatto è che Erodoto non si avvicina ad una “storia” per cercare la “verità”: una storia – ed Erodoto lo ha capito – si presenta sempre in modo “ambiguo (anfibolos, aporetikos)”, confusa in mezzo alle leggende e alle favole e, spesso, è molto difficile disunire gli elementi reali dagli elementi mitici. (Non dimentichiamoci del fatto che – quasi tutti noi, per esempio – abbiamo studiato la “storia di Roma” attraverso edificanti “leggende” contrabbandate per avvenimenti reali).

    Erodoto si avvicina alle “storie”, non per cercare l’autenticità, ma per trovare coincidenze e corrispondenze. Secondo Erodoto il mondo in cui viviamo è pieno di “coincidenze” e di “corrispondenze” ed è attraverso questi due elementi che noi possiamo cercare di capirci qualcosa. Da Le Storie traspare che per Erodoto non è tanto importante trovare la “verità”, ma è più importante cercare le “coincidenze” e le “corrispondenze”. Sono le “coincidenze” e le “corrispondenze” – per l’Erodoto pensatore – che danno un senso alla vita.

    A che cosa si connettono per Erodoto queste due parole: “coincidenza” e “corrispondenza”? Queste due parole si collegano a due idee, altre due idee importanti che saltano fuori dal testo dell’opera di Erodoto. Il termine “coincidenza” (che ha assunto poi nella storia della lingua molteplici significati) per Erodoto ha soprattutto il significato di “incontro”. Il termine greco che Erodoto usa per definire il concetto della “coincidenza” come “incontro”, è la parola: chairòs. Molti di voi ricordano certamente che abbiamo incontrato questo termine nel secondo Percorso di studio sulle Lettere di Paolo di Tarso. Paolo di Tarso – in particolare nella famosa Lettera ai Romani, uno dei testi fondamentali della Storia del Pensiero Umano, scritta probabilmente da Corinto nella primavera dell’anno 57) usa il termine kairòs per definire il “tempo presente” (rispetto al crònos che è il tempo che passa e rispetto all’eskatòn che è il tempo che verrà): il kairòs è l’adesso, è ora, è questo momento che dobbiamo vivere. Il kairòs – secondo Paolo – non è tempo che passa destinato a sfuggirci, non è tempo che verrà destinato a non essere vissuto, il kairòs è tempo che resta, è l’occasione, è la coincidenza, è l’incontro reale con il tempo. Ebbene, il termine greco che Erodoto usa per definire il concetto della “coincidenza” come “incontro”, è la parola chairòs, con una piccola differenza formale che dobbiamo notare, da bravi studenti: il testo di Paolo della Lettera ai Romani riporta la parola “kairòs” scritta con la kappa, mentre il testo de Le Storie di Erodoto usa la lettera c. È bene ricordare che tra i due personaggi e tra le due “scritture” ci sono più di cinquecento anni: le parole-chiave si evolvono tanto dal punto di vista formale quanto dal punto di vista del contenuto. C’è “coincidenza” quando due oggetti disuguali o due soggetti differenti vengono a trovarsi sulla stessa linea assicurando la continuazione del tragitto, e garantendo la prosecuzione del flusso comunicativo.  

     Il termine “corrispondenza” (anche questo termine ha assunto poi nella storia della lingua molteplici significati) per Erodoto ha soprattutto il significato di “accordo”. Il termine greco che Erodoto usa per definire il concetto della “corrispondenza” come “accordo”, è la parola: syntesis,  e credo non ci sia proprio niente da spiegare: basta la parola. C’è “corrispondenza” quando due entità disuguali o due individui differenti vengono a trovarsi in una situazione di complicità che favorisce formalmente lo scambio di gesti, di parole, di indicazioni, di chiarimenti, di dati, di informazioni. Senza incontro (chairòs) e senza accordo (syntesis) non ci sono relazioni, e senza coincidenze e corrispondenze – ci fa capire l’Erodoto filosofo – non ci sono rapporti umani, e di conseguenza non c’è “storia”. Secondo Erodoto il mondo in cui viviamo è pieno di “coincidenze allusive” e di “corrispondenze eloquenti” e a proposito.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il termine “coincidenza” per Erodoto ha soprattutto il significato di “incontro (chairòs)”: qual è la “coincidenza” più importante (o più strana, o più bizzarra) che avete preso o che avreste voluto prendere (perché magari l’avete persa quella “coincidenza) ?

Il termine “corrispondenza” per Erodoto ha soprattutto il significato di “accordo (syntesis)”: qual è “l’accordo” più importante, (o più strano, o più bizzarro) che avete fatto o che avreste voluto fare ?

Fate coincidere e corrispondere la scrittura con la vostra autobiografia: bastano quattro righe…

     Ma prima di questa digressione – in cui abbiamo inventariato, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, altre due parole emergenti da Le Storie di Erodoto – ci stavamo chiedendo se sia proprio vero il fatto che (come insinuano i suoi detrattori) Erodoto dice raramente la verità. Ci stavamo domandando se sia proprio vero il fatto che Erodoto racconta spesso delle leggende e delle favole facendole passare per avvenimenti reali. Ci stavamo chiedendo se sia proprio vero il fatto che, nella maggior parte dei casi, Erodoto inventa le cose per stupire, per sorprendere, per impressionare, per sbalordire, per “meravigliare”. Insomma è proprio vero che Erodoto racconta più leggende che fatti concreti, narra più favole che avvenimenti reali?

     È certamente vero il fatto che Erodoto riporta nel suo testo molte leggende, ma è altrettanto vero che spesso dichiara di identificarle in quanto tali: facciamo il classico esempio in cui Erodoto cita uno degli animali mitici più famosi: l’araba fenice, un uccello che possiede la caratteristica di risorgere dalle sue ceneri (ogni 500 anni) e che ha attratto molti lettori medioevali, rinascimentali e romantici a caccia di formule magiche per riprodurre la vita. Molti scrittori hanno utilizzato “l’araba fenice” come metafora: il poeta Pietro Metastasio (1698-1782) scrive quei famosi versi che tutti sappiamo a memoria: «È la fede degli amanti come l’araba fenice che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa…».

     Ed Erodoto che cosa scrive nel libro II al capitolo 73? Nei capitoli precedenti – siamo nel II libro e quindi Erodoto sta viaggiando in Egitto – ha già descritto tutta una serie di animali, più o meno sacri – coccodrilli, ippopotami, lontre, pesci, anguille, oche volpine – che vivono in questo straordinario paese a contatto con il fiume divino, il Nilo.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  II  73

C’è anche un altro uccello sacro, che si chiama fenice. Io non l’ho mai visto, se non dipinto; poiché, tra l’altro, compare tra loro soltanto raramente: ogni 500 anni, come affermano i sacerdoti di Eliopoli; e si fa vedere, dicono, quando gli sia morto il padre. Per dimensioni e per forma, se è come lo si dipinge, è così: le penne sono parte color d’oro, parte color rosso vivo: soprattutto esso è molto somigliante all’aquila per contorni e per grandezza. Dicono che esso compia un’impresa di questo genere (ma, secondo me, il racconto non è credibile): cioè, partendo dall’Arabia, porta nel tempio del Sole il padre, tutto avvolto nella mirra, e lo seppellisce nel santuario.

Per trasportarlo farebbe così: prima di tutto, dicono, impasta con la mirra un uovo grande quanto le forze gli permettono di portarlo; poi, si prova a tenerlo sollevato e, quando si sia in tal modo allenato, avendo svuotato l’interno dell’uovo, vi introduce suo padre. Quindi con altra mirra spalma la parte per la quale ha praticato lo svuotamento e introdotto il padre, di modo che, essendovi quello dentro, si ristabilisce il peso di prima; avendolo dunque, così avvolto, lo trasporta in Egitto, nel santuario del Sole. Ecco quanto raccontano di questo uccello.

     Erodoto afferma che, secondo lui, questo racconto non è credibile però non smentisce l’esistenza di questo straordinario volatile. “Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa…”. Certamente se poi leggiamo, nel libro IV al capitolo 27 de Le Storie, il racconto degli “uomini con un occhio solo” e il racconto dei “grifi (i “cavalli alati”) che fanno la guardia a l’oro”, e se leggiamo nel libro II al capitolo 75 la storia dei “serpenti alati”, ci sentiamo in dovere di dire: ma perché Erodoto non smentisce i suoi informatori dicendo loro che stanno spacciando leggende per cronache e che stanno divulgando favole per resoconti? Come mai un razionalista come Erodoto non smentisce queste fandonie? C’è qualcosa che, forse, ci sfugge per cui dobbiamo riflettere con attenzione?

     Se riflettiamo, utilizzando i termini della digressione che abbiamo fatto precedentemente, noi dovremmo capire che a Erodoto interessa prima di tutto aver realizzato un “incontro partecipe” e un “accordo comunicativo” con persone appartenenti a popoli diversi (rispetto alla sua mentalità greca): popoli strani, popoli “meravigliosi-deinòs” (sappiamo che in questa parola lo splendore e l’orrore s’incontrano).

     Se esiste “incontro (chairòs)” e “accordo (syntesis)”, se esistono “relazioni umane (filìas)” allora c’è anche la “storia” e di conseguenza ci devono essere anche coincidenze e corrispondenze che Erodoto ha cercato e ha colto e che noi dobbiamo imparare a leggere. Che coincidenze e che corrispondenze ci sono con la storia nelle affermazioni (apparentemente) fantasiose che Erodoto ha scritto?  

     Prima di proseguire questo “complicato ragionamento”: leggiamole queste “storie fantasiose” facendoci venire il dubbio che dietro a queste “immagini fantastiche” ci possano essere delle coincidenze effettive e delle corrispondenze reali.

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Erodoto,  Le Storie  IV  27

Anche questi popoli, dunque, si conoscono abbastanza; ma per quello che c’è oltre il loro paese, verso nord, sono gli Issedoni che sostengono che ci sono uomini con un occhio solo, e i grifoni che custodiscono l’oro: dagli Issedoni gli Sciti hanno ricevuto le notizie che essi ripetono e dagli Sciti le abbiamo raccolte noi, che diamo a quegli uomini il nome di Arimaspi, vocabolo scita; poiché tra gli Sciti “arima” vuol dire uno e “spu” occhio.

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Erodoto,  Le Storie  II  74  75  76

Nei dintorni di Tebe (in Egitto), vi sono dei serpenti sacri, assolutamente innocui per gli uomini, che, piuttosto piccoli di misura, portano due corni cresciuti a sommo del capo: dopo la loro morte, vengono seppelliti nel santuario di Zeus; poiché si dice che siano consacrati a questo dio.

Vi è una località dell’Arabia, situata press’a poco vicino alla città di Buto, dove mi sono recato io stesso per avere informazioni sui serpenti alati. Giunto colà, vidi ossa di serpenti e vertebre dorsali, in numero tale che è impossibile riferire; cumuli di spine, ed erano molti: cumuli grandi, meno grandi, più piccoli ancora.

Questo luogo dove sono ammonticchiate le ossa dei serpenti è disposto così: uno stretto passaggio che dai monti si apre in una vasta pianura, la quale si congiunge con la pianura egiziana.

Si racconta che, all’inizio di primavera, i serpenti alati spiccano il volo dall’Arabia verso l’Egitto; ma gli ibis (uccelli consacrati al dio Thoth), fattisi loro incontro a quest’imbocco della valle, non li lasciano entrare nel paese e li uccidono.

Per questa azione, dicono gli Arabi, gli ibis sono in grande onore presso gli Egiziani; e anche gli Egiziani riconoscono con loro che è questa la ragione per cui onorano tali uccelli.

L’aspetto dell’ibis è questo: completamente nero in tutto il corpo, ha gambe di gru e becco straordinariamente adunco, grandezza pari a una gallinella: tale (è) la figura degli ibis neri, quelli che lottano contro i serpenti.

     Erodoto “allude”, e ora, mentre stavamo leggendo rideva sotto i baffi con grande compiacimento, perché? Perché l’archeologia sta dimostrando che, lui, non ha raccontato solo leggende e favole; l’archeologia dimostra che Erodoto non racconta favole ma riporta “coincidenze” e “corrispondenze”. Erodoto scrive di aver sentito raccontare che, a nord del Mar Nero, vivono “gli uomini con un occhio solo” e noi sappiamo che – se non in presenza di menomazioni – gli esseri umani di occhi ne hanno due: che “coincidenza” e che “corrispondenza” ci può essere nell’affermazione che fa Erodoto?

     Voi sapete – i giornali, la radio, finanche la televisione (l’oracolo contemporaneo) ne hanno dato notizia – che, dopo avere scavato per anni (in condizioni molto disagiate), nel territorio a nord del Mar Nero, nel territorio dei “meravigliosi Sciti”, gli archeologi finalmente sono stati premiati e hanno scoperto dalle parti di Olbia le tombe e i tesori dei re di quei luoghi, quelli di cui Erodoto dice che vengono seppelliti con tutti i loro averi, e anche con tutte le persone (anche se sono ancora vive?) e gli animali (anche se non sono ancora morti?) del loro entourage, del loro seguito.

     Intanto cominciamo a constatare che Erodoto le ha scritte queste cose: per giunta è anche un po’ sorpreso da queste strane usanze! Erodoto racconta solo favole? No, difatti gli archeologi hanno scavato dando fiducia anche alle affermazioni di Erodoto. Qualche anno fa abbiamo potuto ammirare la straordinaria e “meravigliosa” mostra intitolata L’oro degli Sciti; e anche Erodoto – come primo giornalista che ha scritto un “meraviglioso” reportage, una straordinaria “corrispondenza” su questo popolo – è stato citato più volte e l’editoria (bontà sua) ha ricominciato ad interessarsi delle sue opere, e gli intellettuali (non solo gli specialisti appassionati) si sono accorti che è esistito anche un certo Erodoto. Ebbene, in queste tombe, in questi preziosi siti archeologici, gli scheletri che sono stati rinvenuti sono agghindati in modo molto particolare: si fa sfoggio di abiti ben curati, prodotti con materiali ben lavorati, soprattutto vengono usate le pelli e vengono usati molti ornamenti in oro (l’oro degli Sciti di cui, per primo – per sentito dire, perché lui non lo ha visto – riferisce Erodoto). Ma quello che ha colpito di più gli archeologi è la foggia del copricapo dei re e dei guerrieri sepolti insieme al re. Il copricapo dei guerrieri Sciti è una specie di elmo, fatto di cuoio e ornato di metallo (di ferro per i guerrieri, d’oro per i re) che possiede una striscia di cuoio che copre una parte (la sinistra) del viso, in modo da lasciare scoperto un occhio solo. Gli studiosi di Erodoto (e anche noi in questo momento) hanno sùbito capito: eccoli qui i meravigliosi “uomini con un occhio solo”, ecco la coincidenza e la corrispondenza che rende meno “favolosa” l’affermazione che Erodoto raccoglie. Perché si coprono un occhio questi guerrieri? Perché – come Erodoto ci racconta in altri brani – questi guerrieri sono dei formidabili arcieri, e i Persiani hanno provato sulla loro pelle l’efficacia delle frecce degli Sciti e dei popoli limitrofi (per esempio i Massageti): sono stati anche avvertiti con un messaggio formato da oggetti, tra cui “cinque frecce”, ricordate? I guerrieri di queste terre a nord del Mar Nero tirano con l’arco, e, quando anche noi tiriamo con l’arco o con la fionda (altre armi a Scuola non sono ammesse) chiudiamo un occhio per prendere la mira, ebbene, il copricapo di questi guerrieri ha la ”chiusura dell’occhio” incorporata. Questo copricapo da oggetto funzionale – lo abbiamo capito dopo le scoperte archeologiche – è diventato un oggetto tradizionale, il segno distintivo di molte tribù di cui Erodoto raccoglie notizie.

     Erodoto deve fare i conti con lingue sconosciute (come fa Erodoto a conoscere i dialetti degli Sciti e dei popoli limitrofi? Si affida a traduttori) e gli antichisti ipotizzano che la parola “arimaspu”, che Erodoto riporta e che abbiamo letto nel secondo brano, presso quelle tribù possa significare “arciere”, appunto: uomo con un occhio solo. Quindi quando Erodoto scrive che “quelle terre sono abitate dagli uomini con un occhio solo” noi potremmo tradurre questa affermazione con l’espressione: “quelle terre sono abitate dagli arcieri…”. Ecco di che cosa si parla quando si dice: coincidenze e corrispondenze.

     Gli scavi archeologici hanno anche portato alla luce le immagini dei grifoni (le aquile della Scizia): i meravigliosi uccelli rapaci che volteggiavano numerosi su quei vasti territori. Le immagini di questi grandi uccelli, chiamati “aquile scite” sono state trovate (e poi messe in mostra) incise su molti oggetti d’oro rinvenuti negli scavi. “Le immagini dei grifi fanno la guardia all’oro”, scrive Erodoto fornendoci un’altra coincidenza, un’altra corrispondenza. Il termine grifo, nel nostro immaginario culturale, definisce un “cavallo alato” e difatti questi “meravigliosi” uccelli mettono le ali ai cavalli. Per nutrirsi, infatti, catturano, ghermendolo con i loro artigli, un quadrupede (i cavallini sciti per esempio), lo portano in alto e poi lo lasciano precipitare in modo che si sfracelli e poi se lo mangiano. L’immagine del grifo, dell’ippogrifo, del cavallo che vola ad ali spiegate, è nata così, da questo tragico connubio, da questa coincidenza e da questa corrispondenza.

     Lo stesso vale per l’immagine dei “serpenti con le ali”: qui siamo in Egitto e da tempo (da qualche secolo) conosciamo i geroglifici raffiguranti gli ibis (i bellissimi uccelli sacri egizi) che tengono tra le unghie o nel becco, dopo averli catturati, i serpenti. La rappresentazione è la stessa: i serpenti volano con le ali dell’ibis e ad una certa altezza le immagini si sovrappongono e, alla vista, con la complicità della luce del sole, del riverbero e della polvere, i serpenti appaiono alati.

     L’archeologia dimostra che Erodoto non racconta solo favole ma riporta anche “coincidenze” e “corrispondenze”.

     E allora, che cosa dobbiamo fare noi, qual è il nostro dovere istituzionale? Il nostro dovere, secondo la natura di questo Percorso di studio, è quello di prestare attenzione alle coincidenze e alle corrispondenze in funzione della didattica della lettura e della scrittura. L’oggetto verso cui c’indirizziamo contiene esplicite coincidenze ed evidenti corrispondenze con Le Storie di Erodoto. Per entrare in contatto con questo “oggetto” e con il suo autore ci dobbiamo spostare geograficamente: dobbiamo muoverci alla volta di Istanbul. È un viaggio breve perché la distanza tra Olbia (la terra degli Sciti) o tra Sinferopoli (la terra dei Tauri) e Istanbul non è molto lunga.

     A Istanbul (a Costantinopoli, a Bisanzio: questa città ha tre nomi e tre significativi strati culturali!) ci aspetta uno scrittore che è vissuto per molto tempo in questa affascinante metropoli (oggi turca) diventandone anche cittadino onorario. Questo scrittore si chiama Pierre Loti (1850-1923) e dobbiamo subito dire che, a Istanbul, sulla collina panoramica che sovrasta la città c’è il caffè Pierre Loti: ecco dove andiamo a prendere un caffè questa sera! Questa è un’informazione utile per i viaggiatori (anche di questo gruppo). Perché si dovrebbe andare – non in modo virtuale, ma in modo reale – a bere un caffè (naturalmente alla turca) in questo posto? Prima di tutto per godere dello stupendo panorama, poi perché questo luogo, questo locale caratteristico – secondo Pierre Loti – è adatto alle “apparizioni (fenomenoi)”.

     Ma intanto dobbiamo domandarci: chi è Pierre Loti, e come mai appare su questo itinerario?  Pierre Loti, intanto, è lo pseudonimo dello scrittore francese Julien Viaud. Il nome Loti gli è stato dato da una giovane fanciulla tahitiana. Avete presenti le fanciulle tahitiane di quest’epoca? Ebbene qui troviamo subito una coincidenza e una corrispondenza infatti per osservare le fanciulle di Tahiti dobbiamo incontrare il pittore Paul Gauguin.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

L’incontro con questo famoso personaggio e con le sue opere consiste in un esercizio abbastanza semplice: basta utilizzare l’enciclopedia o cercare un fascicolo delle sue opere in biblioteca oppure navigare (verso i mari del sud, verso la Polinesia…) sulla rete di Internet… Buon viaggio, buona ricerca e se le opere di Gauguin vi suggeriscono un pensiero, scrivetelo: sono sufficienti quattro righe per esprimere un pensiero…

     Pierre Loti è nato a Rochefort nel 1850, ha studiato alla Scuola navale ed è stato ufficiale di marina per quarantadue anni.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La città di Rochefort, situata sulla costa atlantica nel dipartimento della Charente-Maritime, merita una visita sull’atlante, e, con la guida della Francia si può andare a constatare se ci sono tracce di Pierre Loti nella città in cui è nato: mi sembra di ricordare che c’è una “maison (la casa) de Loti”…

Se la ricerca è fruttuosa potete scrivere qualche appunto di viaggio (anche se virtuale)…

     Loti ha viaggiato a lungo – assomiglia a Erodoto – in paesi che all’epoca erano poco conosciuti (Tahiti, il Senegal, il Giappone, la Cina). Quando decide di congedarsi dalla marina e di ritirarsi a vita privata comincia a dedicarsi con impegno alla scrittura e porta a termine una quarantina di opere ispirate alle sue esperienze di viaggio. Loti viene considerato il più grande romanziere esotico del XIX secolo. L’ambientazione delle sue storie è varia: il primo ambiente che utilizza è la Turchia, che è anche la sua patria di elezione, e un quartiere di Istanbul è conosciuto ancora oggi con il nome di Pierre Loti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

E con una guida della città, potete – se volete – informarvi meglio…

     Il romanzo più significativo di Pierre Loti ambientato a Istanbul s’intitola Aziyadé (1879). A Tahiti ambienta il romanzo Il matrimonio di Loti (1880), in cui racconta anche come ha assunto il suo nuovo nome. In Giappone ambienta La signora dei crisantemi (1887).  Tra la Bretagna e l’Islanda ambienta Pescatore d’Islanda (1886), che viene considerato il suo romanzo migliore. Ma in tutti i testi di Loti – noi ne abbiamo citato solo alcuni di cui si consiglia la lettura – i paesaggi, i quadri esotici, occupano lo stesso spazio e hanno la stessa importanza della trama.

     Nel suo Diario intimo 1878-1887, pubblicato postumo (1925), Loti offre ai lettori la chiave di lettura del suo modo di scrivere che è stato chiamato “dell’esotismo naturalistico”: questo modo di scrivere, con le dovute differenze, richiama un po’ anche lo stile di Erodoto. Le opere di Loti affascinano per una caratteristica particolare: sono velate da una sottile, costante e coinvolgente malinconia, la quale fa parte del carattere dello scrittore, e anche questa caratteristica, con le dovute differenze, ci ricorda lo stile di Erodoto. La malinconia che Loti mette in scena produce la solitudine nei protagonisti ma è un sentimento attivo che determina uno slancio per salvarsi evadendo in realtà diverse e fascinose: chissà se la malinconia (mutuata dai poeti lirici elegiaci in Ionia) ha prodotto anche in Erodoto lo slancio che – nonostante il “fastidio” – lo ha spinto a viaggiare? Il linguaggio di Loti è semplice, scorrevole, la sua scrittura è impressionista e questo scrittore si fa apprezzare perché lo si legge con facilità, e con naturalezza è capace di coinvolgerci nelle storie che narra e soprattutto nei paesaggi “meravigliosi, deinòs” che descrive.

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Potete cercare in biblioteca i romanzi di Pierre Loti che abbiamo citato e leggerne qualche pagina…

     E ora anche noi leggiamo una pagina di Pierre Loti che è un brano tratto della lettera, scritta all’editore, che funge da prefazione al romanzo Aziyadé e contiene esplicite coincidenze ed evidenti corrispondenze con Le Storie di Erodoto. Ci troviamo anche noi insieme all’autore seduti in quel caffè sulla collina di Istanbul che allora si chiamava Il Corno d’oro e che oggi si chiama Pierre Loti. Protagonista di questo brano è una misteriosa figura femminile che mette in difficoltà l’autore e lo costringe a riflettere.

LEGERE MULTUM….

Pierre Loti,  Lettere (all’editore per la pubblicazione di Aziyadé) (1879)

L’avevo appena sfiorata con gli occhi, al mio ingresso, quando il cameriere mi aveva fatto accomodare al solito posto sulla terrazza del caffè Il Corno d’oro con la sua stupenda vista sulla città di cui quassù, con uno sguardo, si diventa padroni persino più padroni di quanto possa esserne il sultano chiuso nel suo palazzo ombroso. Frequentavo quotidianamente Il Corno d’oro perché soffiava un’aria calda dal mare e quassù la vegetazione rinfrescava piacevolmente la brezza rendendo i pensieri più freschi e di conseguenza più giovani, meno gravati dalle malinconie della maturità.

Dopo che mi fui accomodato mi accorsi che era seduta al tavolino accanto al mio, vicinissima a me, e ne percepivo il respiro e anche i fremiti, m’irrigidii e i miei muscoli si contrassero e per qualche istante attesi che un suo immancabile accompagnatore apparisse dopo averla lasciata soltanto per un breve momento: era una giovane signora, una donna, e in questa città le donne non sono mai da sole.

Era una giovane signora dalla bellezza asiatica, e quando mi resi conto che era sola, risi dentro di me al pensiero che questo fatto mi preoccupava, non avevo mai provato questa sensazione: quando mai in questa città ero stato così vicino ad una donna sola. Furtivamente, facendo finta di occhieggiare l’ambiente circostante, la osservai ma l’idea di metterla in imbarazzo m’impensieriva. Colsi che era vestita elegantemente, senza velo, con un leggero trucco intorno agli occhi azzurri. La posa, l’atteggiamento, il portamento era quello della buona borghesia. Cominciai a pensare al paradosso di sedere accanto ad una donna turca non accompagnata, non velata, sorridente e per nulla inquieta per la mia presenza ravvicinata.

Un brivido mi colse, accompagnato contemporaneamente da un moto di soddisfazione e di preoccupazione, quando ruppe gli indugi e mi rivolse la parola.

Un brivido di piacere per cui rimasi incantato: a chi, straniero, è data la soddisfazione di ascoltare la voce di una donna in questa città? E un brivido d’inquietudine: come giustificare questa conversazione con la comparsa di un eventuale severo e intransigente accompagnatore?

La sorpresa straordinaria fu che cominciò a parlare nella mia lingua: come sapeva che ero francese? Parlò con uno stile più ricercato di quello di un’intellettuale della Sorbona e mi disse subito che aveva frequentato il liceo francese di Istanbul e avendomi individuato – dai modi e dall’accento con cui avevo ringraziato il cameriere – come francese, ci teneva a farmi sapere che aveva studiato nella migliore scuola della città (era un complimento?), come ci teneva a farmi sapere (questa era un’ammonizione?) che il Corano proclama di compiere opere buone, di condividere le proprie ricchezze, di tollerare il diverso, di godere con equilibrio dei beni della terra e di non lasciare lo straniero senza compagnia perché la nostalgia della terra d’origine non prenda il sopravvento nel suo cuore e non si abbandoni alla malinconia

Incredibile, neppure le parigine più intraprendenti conoscevano un modo migliore per dare inizio ad una conversazione con un forestiero sconosciuto, e poi: come faceva a conoscere così bene il mio stato d’animo?

«Mi sembra, signore, che siate quasi spaventato di trovarvi in compagnia di una donna turca, di una donna di Istanbul, nata in questa città e che si permette di iniziare un colloquio con un uomo, per di più straniero, senza neppure essere stata interrogata».  Questo mi disse sorridendo facendomi rimanere allibito. «Tutte le donne hanno il velo in faccia in questa città, camminano per le strade come dei fantasmi, lo avete notato immagino: è per questo che siete in imbarazzo e vi rimane difficile guardarmi in faccia e anche rivolgermi la parola?». Arrossii o forse impallidii e questo, nonostante le apparenze, dimostra che ero in uno stato di confusione infatti non sapevo se guardarla o non guardarla se parlarle o non parlarle, ma fu lei a continuare la conversazione.

«I sultani predicano che dobbiamo mantenere le nostre tradizioni, le nostre radici e fanno velare le donne io penso – disse abbassando il tono della voce – che noi donne dovremmo liberarci da certe usanze, il Corano non prevede veli in faccia ma naturalmente li prescrive sulle parti intime, ma questo so che è prescritto anche a Parigi, e io credo che poter aprire la faccia sia un modo per poter aprire la testa, e poi la Turchia ha radici più lontane: è stata la culla del pensiero, sulle sue coste egèe sono nati Ippocrate, Eraclito ed Erodoto che ha viaggiato in questi luoghi, sui Dardanelli, sul Bosforo».  S’interruppe perché il suo caffè – che il cameriere le aveva servito – si era depositato e, in punta di labbra, lo bevve. 

«Lei, signore, conosce senza dubbio l’opera di Erodoto». Io annuii trepidante, l’affermazione della signora m’intimorì.

«Anche perché lei ha l’aria di essere un viaggiatore, un gran viaggiatore come lo era Erodoto che visitò popoli lontani e sconosciuti, e fece incontri straordinari».

Io assentii ancora, come per farle capire che avevo effettivamente viaggiato molto.

La signora chiese il conto, io non sapevo come comportarmi: avrei dovuto compiere il gesto di offrire o sarebbe stato un atto sconveniente? Ebbi la sensazione di avere io un velo sul viso, in questo luogo, che consideravo un po’ come la mia patria, non sapevo come comportarmi, cominciai a sospettare di aver capito poco di questo paese, del paese reale, cominciai a supporre che sotto l’affascinante velatura esteriore ci fosse qualcosa che non conoscevo.

La signora pagò, mi salutò sorridendo, io risposi impacciato, e lei si allontanò in fretta.

Frequentai tutti i pomeriggi Il Corno d’oro, stavo seduto al solito posto come rimanendo in attesa, ma lei non tornò.

Avrei voluto chiedere informazioni al cameriere ma temevo di espormi e soprattutto di compromettere la signora; mi resi conto che speravo in un nuovo incontro non per ragioni di galanteria ma perché avrei voluto ribaltare la situazione: mi ero comportato come se io fossi la donna velata e lei il mio rigido custode, avrei voluto dimostrarle che sapevo conversare e corrispondere senza timori e senza remore. Mi domandavo se si fosse fatta di me l’idea di un uomo ridicolo e davanti a queste preoccupazioni mi accorsi che questi pensieri erano il frutto della mia ignoranza: che cosa sapevo della Turchia? Io che l’avevo conquistata con l’arroganza del colonialismo occidentale avevo preso possesso solo della bellezza dei tramonti sul Bosforo? Quante signore misteriose c’erano in questa città che sapevano ragionare ampiamente sulle radici culturali di questa terra? Probabilmente molto poche, però c’erano e io non ne ero a conoscenza.

Mi resi conto che dovevo andare oltre Il Corno d’oro e, come se fossi stato orientato dall’Oracolo, feci una visita alla biblioteca dell’Istituto francese: dovevo tornare a casa per giudicare ciò che avevo visto tanto lontano da casa? Infatti avevo sentito il bisogno di cercare il libro di quell’Erodoto a cui, inaspettatamente, ero stato paragonato e che non sentivo nominare dal tempo della scuola.

Ne trovai una copia ben tenuta: nessuno doveva averla mai consultata, o forse no, prima di me l’aveva senz’altro tenuta tra le mani una studentessa che, qualche anno dopo, mi era apparsa per ricordarmi che anch’io avevo il velo.

Cominciai a leggere e quella lettura mi prese, stimolò la mia immaginazione e sognai che periodicamente la dèa Artèmide, in modo misterioso, appare a qualcuno per rivelare al predestinato che è necessario sollevare il velo che ancora copre il volto di tutti gli esseri umani che abitano questo mondo.     

     Le parole della giovane signora che, come un miraggio, appare allo stupefatto scrittore creano delle coincidenze e delle corrispondenze. Prima di tutto dobbiamo rivelare che non c’è nessun mistero intorno a questa persona, non si tratta di una apparizione della dèa Artemide: la signora si è soltanto allontanata dalla città per recarsi in viaggio, per andare in crociera. Riapparirà? Non lo sappiamo. Ora sappiamo che le sue parole – raccolte da Loti – creano delle interessanti coincidenze e delle significative corrispondenze. Le parole, l’atteggiamento di questa persona (di questa misteriosa signora turca) sono sintomatiche di una situazione: molte idee, almeno nei pensieri della borghesia illuminata, si sono messe in movimento nella (immobile) Turchia di fine ’800 e, questo movimento, nei primi decenni del ’900, contribuisce a produrre un cambiamento. Pierre Loti, in questa lettera, documenta questa situazione.

     A questo punto ci troviamo di fronte a due problemi. Il primo problema consiste nel riassumere in poche parole la storia della Turchia e il secondo problema consiste nel capire come Erodoto entra in gioco in questa storia.

     Si può riassumere la storia della Turchia in due parole? Probabilmente sì se seguiamo il consiglio di Erodoto il quale ci ha insegnato che dobbiamo cercare le coincidenze e le corrispondenze. Forse si può riassumere la storia della Turchia usando una banconota turca (prima che in questo paese si affermi definitivamente l’Euro). Su di una banconota turca (Mille lire turche-Bin türklirasi) ci sono due volti. aD una parte c’è Maometto II che nel 1453 conquista Costantinopoli. Poi ci sono cinque secoli di impero ottomano: ci sono i sultani con le loro ricchezze, il loro splendore e il loro dispotismo. Dall’altra parte della banconota c’è Kemal Ataturk, il “padre della Turchia moderna”: Ataturk significa appunto “il padre dei Turchi”. Ataturk è il personaggio che decide di liberare il suo paese dai sultani in nome della democrazia, della parità dei sessi, del suffragio universale, del confronto culturale con l’occidente greco-latino. Ataturk sostiene che il pensiero islamico si può coniugare con la democrazia e dimostra che la cultura islamica può contribuire all’edificazione dello Stato laico dei diritti e dei doveri. Ataturk afferma che per modernizzare un paese non è necessaria la dittatura, non è necessario lo Stato autoritario (come purtroppo, in quegli anni, si cominciava a pensare in molti stati europei) e vuole dimostrare che si può modernizzare una nazione introducendo invece più democrazia. È stata una dura lotta e, nel 1923, Ataturk vince. Il 1923 è l’anno in cui, per coincidenza (?), muore Pierre Loti e noi, per corrispondenza (?), siamo indotti a pensare che anche la signora misteriosa, che, insieme a Loti, abbiamo incontrato, un giorno d’estate, al caffè Il Corno d’oro, abbia partecipato alla lotta dalla parte di Ataturk.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Noi abbiamo detto che avremmo riassunto la storia della Turchia in due parole (con due volti) e quindi non ci possiamo dilungare: andate voi ad incontrare più da vicino il personaggio di Ataturk utilizzando l’enciclopedia o la rete di internet…

Se un dato, un dettaglio, un particolare vi colpisce: scrivete quattro righe in proposito…

     Veniamo al secondo problema: in tutto questo che cosa c’entra Erodoto? Al caffè Il Corno d’oro la misteriosa signora, conversando con Pierre Loti ha sostenuto che le radici della Turchia affondano fino al tempo di Erodoto. Ed Erodoto, che è nato in Turchia 2500 anni fa, viene prima della ineffabile cultura cristiana ortodossa che predica i doni della Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, amor di Dio. Erodoto viene prima della sublime cultura del Corano che – come ricorda la misteriosa signora a Pierre Loti – proclama di compiere opere buone, di condividere le proprie ricchezze, di tollerare il diverso, di godere con equilibrio dei beni della terra e di non lasciare lo straniero senza compagnia perché la nostalgia della terra d’origine non prenda il sopravvento nel suo cuore e non si abbandoni alla malinconia. Ataturk ha fatto una scelta: ha riportato in primo piano l’Erodoto turco. E ha scelto di stare prima di tutto con Erodoto, con la “cultura laica” dell’Erodoto europeo.

     Nel dibattito sull’ingresso (tra dieci anni) della Turchia in Europa non sarebbe meglio mettere in primo piano l’Erodoto europeo? Come? Beh, se si vuole far crescere l’Europa dei cittadini europei, il Parlamento europeo dovrebbe varare un programma di alfabetizzazione culturale, una campagna di formazione culturale: noi, per esempio, abbiamo delle idee e un metodo di lavoro da proporre. Erodoto stesso – che in questo momento coopera al programma del nostro Percorso di studio – ha delle idee e un metodo di lavoro da proporre, e allora torniamo a viaggiare con Erodoto, non a caso siamo sbarcati a Istanbul. Questi luoghi – dove oggi c’è Istanbul, dove troviamo lo stretto dei Dardanelli e il Bosforo – Erodoto li cita spesso ne Le Storie. Su questi mari i Persiani ci passano sempre con i loro ponti di barche per attaccare o gli Sciti o i Greci. Nel testo de Le Storie troviamo un famoso racconto in cui il re persiano Serse frusta l’Ellesponto colpevole di aver disturbato con qualche tempesta il passaggio delle sue truppe: leggiamo questa curiosa narrazione.

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Erodoto,  Le Storie  VII  34  35

Movendo, quindi, da Abido in direzione di questo promontorio, quelli cui era affidato il lavoro gettavano i ponti: i Fenici con funi di lino bianco, gli Egiziani con cavi di papiro; tra Abido e la riva opposta vi sono 7 stadi (circa 1300 metri). Era appena stato stabilito il passaggio che una violenta tempesta, scatenatasi, distrusse tutte quelle attrezzature e le disperse.

Quando lo venne a sapere Serse, irritato contro l’Ellesponto, ordinò che lo si flagellasse con 300 colpi di sferza e si calasse in mare un paio di ceppi. Ho pure sentito dire che, insieme con i flagellatori, Serse mandò anche dei marchiatori, perché bollassero a fuoco l’Ellesponto. È certo che, mentre lo flagellavano, ordinò che dicessero queste parole barbare e insensate: «Onda amara, il mio signore ti infligge questo castigo perché l’hai offeso, senza aver da lui ricevuta offesa alcuna. Il re Serse ti varcherà, che tu voglia o che non voglia. È ben giusto che nessuno fra gli uomini ti offra sacrifici, perché tu non sei che un fiume (l’Ellesponto poteva esser chiamato “fiume” effettivamente per la sua poca larghezza e perché l’attraversa la corrente dalla Propontide all’Egeo) torbido e salmastro».

Al mare, dunque, fece infliggere questo castigo e a quelli che avevano diretto i lavori sull’Ellesponto fece tagliare la testa.

Questa idea di far frustare un mare ci appare un po’ ridicola: cè un motivo dietro a questo comportamento? Intanto, questo comportamento – ci racconta Erodoto – si ripete, e veniamo a sapere che il potente re Ciro, per esempio, punisce il fiume Ginde che gli ha inghiottito un cavallo bianco.

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Erodoto,  Le Storie  I  189

Quando Ciro, nella sua marcia verso Babilonia, giunse sulle rive del Ginde (L’odierno Dijậla che, nascendo dallo Zagros, sfocia nel Tigri presso Bagdad) – fiume che ha le sorgenti tra i monti Matiani, attraversa il paese dei Dardani  (popolazione di cui non sappiamo nulla) e sfocia in un altro fiume, il Tigri, il quale, scorrendo a sua volta presso la città di Opi, va a gettarsi nel Mare Eritreo –, e tentò di passarlo a guado, nonostante fosse navigabile, uno dei sacri cavalli bianchi, baldanzosamente entrato nel fiume, tentò la traversata, ma il fiume lo inghiottì e lo trascinò via tra i gorghi.           Ciro si sdegnò violentemente contro il fiume che aveva avuto tanta audacia e minacciò di renderlo così debole che, per l’avvenire, anche le donne lo avrebbero agevolmente passato, senza bagnarsi il ginocchio.

In seguito a tale minaccia, messa da parte la spedizione contro Babilonia, divise il suo esercito in due parti e, quando l’ebbe diviso, per mezzo di funi distese in linea retta, fece tracciare il piano di 180 canali (in tutto, dunque, i canali risultavano 360, quanti i giorni dell’anno), per ognuna delle due rive del Ginde, rivolti in tutte le direzioni. Quindi assegnate le varie squadre di soldati, diede ordine di scavare.

Dato il gran numero di quelli che lavoravano, l’opera fu portata a compimento. Tuttavia, in tale lavoro, consumarono là, in quel posto, tutta l’estate.

     Come vediamo, parlando dei grandi re dei Persiani, Erodoto fa sempre emergere la “frusta” e non perde mai l’occasione di rimarcare questa “corrispondenza”. Erodoto fa emerge la frusta del dispotismo e, in questi due casi, lo potremmo chiamare: “dispotismo idraulico”. Ma perché i Persiani si comportano così? Erodoto ci fornisce una spiegazione: i Persiani si comportano così perché sono “molto religiosi” fino a diventare “superstiziosi”. I Persiani credono che i mari e i fiumi siano degli “esseri animati”. I Persiani hanno una mentalità “animista” e credono che i mari e i fiumi si debbano sempre rispettare, ma se loro non ti rispettano ci si può anche litigare. E come li rispettano i mari e i fiumi, i Persiani? Leggiamo, quello che racconta Erodoto.

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Erodoto,  Le Storie  I  138

Di tutto ciò che presso di loro è proibito fare, non è nemmeno lecito parlare.

La cosa più riprovevole è dai Persiani comunemente considerata la menzogna e, in secondo luogo, aver dei debiti e ciò per molte ragioni; ma soprattutto perché, dicono essi, chi ha debiti è indotto nella necessità di dire anche qualche menzogna.

Il cittadino che abbia la lebbra o la malattia bianca (psoriasi?) non entra in città, né mantiene rapporti con gli altri Persiani perché, dicono, se è malato ha commesso qualche mancanza contro il Sole. Ogni straniero che sia colpito da questi mali lo allontanano dal loro paese e così le colombe bianche (qui il testo presenta una lacuna; sembra, ad ogni modo, si accenni a una speciale prevenzione dei Persiani per le colombe bianche, considerate come uccelli di cattivo augurio) adducendo lo stesso motivo.

In un fiume essi non orinano, né sputano; non vi lavano le mani, né permettono ad altri di farlo, poiché per i fiumi essi hanno la più grande venerazione.

     I Persiani di Erodoto frustano i mari, puniscono i fiumi, e noi oggi li consideriamo un po’ ridicoli, frustano i mari, puniscono i fiumi ma non vi “orinano dentro”. Come mai noi – che ci consideriamo civilmente molto più avanzati di questi “barbari” e non usiamo la “frusta” – i mari e i fiumi li trattiamo (li abbiamo trattati finora) in modo peggiore scaricandovi dentro tutti i rifiuti possibili? Il ragionamento che stiamo facendo ci sta portando a definire meglio il tema della coincidenza e della corrispondenza che Erodoto, attraverso Le Storie, ci propone in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Qui il discorso si fa delicato. È chiaro che Erodoto ci racconta delle “storie” di cui noi mettiamo in discussione l’autenticità: la flagellazione del mare, la punizione del fiume sono episodi realmente accaduti oppure sono leggende, sono favole legate ad un modo di pensare arcaico? Erodoto non li ha visti con i suoi occhi questi fatti e naturalmente ci comunica che lui li riporta come li ha sentiti raccontare. Ci tiene a farci capire che, le “storie”, non sono la verità ma possono “coincidere”, possono “corrispondere” con la veridicità, con il verosimile. Che cosa significa?

     Significa che la “veridicità” – secondo Erodoto – prende forma quando coincide e quando corrisponde con la legge morale. Significa che – per Erodoto – esistono delle “coincidenze etiche” e delle “corrispondenze etiche” che giustificano la “veridicità” del racconto. Se è bene non inquinare i mari (con le scorie radioattive) e se è giusto non sporcare i fiumi (con le vernici), il fatto di raccontare che non si deve fare è sempre “verosimile”, anche quando la cronaca dei fatti non corrisponde propriamente alla realtà. Voi direte (come molti detrattori di Erodoto hanno detto): ma questa non è “storia”. No, questa è “filosofia”, ma – allude Erodoto – è molto difficile scindere nettamente queste due discipline. Erodoto però non vuole perdere di vista la “storia”. E – giocando con le parole – dobbiamo dire che non la perde di vista proprio in relazione al tema della vista.

     In Erodoto il tema degli occhi è molto importante, e indubbiamente gli “occhi” sono molto importanti. Erodoto dice esplicitamente di preferire “la vista a l’udito” come strumento di conoscenza. Non è il solo a fare questa dichiarazione, è in compagnia del suo conterraneo (più vecchio di lui di circa cinquant’anni), il filosofo Eraclito di Efeso il quale nel Frammento 101 a. del suo trattato Peri’ Physeos - Sulla Natura scrive: «Più degli orecchi gli occhi testimoniano». Ma di Eraclito di Efeso parleremo ancora perché Erodoto, da ragazzo, nella Ionia, ha sicuramente studiato in una delle tante Scuole d’impostazione eraclitea: erano le più diffuse. Ora, se sia più importante la vista o l’udito è stato sempre, nella cultura occidentale, un tema di grandi discussioni. I “romantici”, per esempio (sempre in bilico tra la letteratura dell’Antico Testamento e quella dei Dialoghi di Platone), tra il 1790 e il 1810 hanno proposto una formula di compromesso: «Bello è l’occhio che guarda, sublime l’orecchio che ascolta». Nella nostra storia intellettuale (sempre in bilico tra la letteratura dell’Antico Testamento e quella dei Dialoghi di Platone) c’è una civiltà dell'occhio, c’è una civiltà della vista che si identifica con la cultura greca (l’occhio è greco). E c’è una civiltà della voce, una civiltà dell’ascolto, dell’udito che si identifica con la cultura ebraica (l’orecchio è ebraico).

     Erodoto non sembra voglia sostenere una battaglia ideologica su questa questione, probabilmente – privilegiando la vista sull’udito – vuole dire che non bisogna fidarsi troppo delle cose conosciute per “sentito dire”. Ma Erodoto ci racconta soprattutto degli episodi che lui non ha visto e che ha solo udito e allora: come mai sostiene la “veridicità” di certi episodi – che hanno tutta l’aria di essere delle leggende, delle favole, degli apologhi – nonostante diffidi del “sentito dire” e sostenga di preferire la vista all’udito? Erodoto sceglie di raccontare una serie di episodi che lui non ha visto e di cui ha solo sentito dire, senza accentuare la formula dubitativa sulla loro “veridicità”, in virtù di una coincidenza etica e di una corrispondenza etica. Se un racconto udito, di cui non si può constatare l’autenticità, narra un episodio che contiene un insegnamento morale ecco che – allude Erodoto – lo si può anche considerate degno di “essere vero”. Per questo motivo Erodoto viene considerato dagli antichisti un “sofista di tendenza etica”. Il suo modo di pensare – e questa è un’altra “forma intellettuale” di cui dobbiamo tenete conto se vogliamo esercitarci nella lettura de Le Storie – è legato anche alle idee che vengono elaborate dal movimento filosofico dei Sofisti. Erodoto è contemporaneo di questo movimento di pensiero e, all’interno di questa corrente assume una posizione propria.

     Per capire meglio la questione dobbiamo ricordare brevemente le parole-chiave, le idee significative e i due principali personaggi che caratterizzano il movimento dei Sofisti. La parola “sofista”, letteralmente in greco, significa “sapiente”. I sofisti negano l’esistenza di una “verità esterna” e di una “verità indipendente dalle controversie umane”. Il movimento dei Sofisti sostiene tre tesi di fondo. La prima tesi è il “fenomenismo”: secondo questa tesi la realtà non è conoscibile in se stessa, ma solo nelle sue apparenze, nel suoi fenomeni. La seconda tesi è il “soggettivismo”: i Sofisti spostano la loro attenzione dallo studio della Natura allo studio dell’individuo, della persona, dell’essere umano, e, quindi ritengono che qualsiasi conoscenza dipenda dal soggetto. La terza tesi è lo “scetticismo”, secondo cui risulta impossibile decidere sulla verità o sulla falsità di una determinata affermazione. Queste concezioni, queste tesi, sono state sintetizzate dal filosofo Protagora, nato ad Abdera nel 491 a.C. in una celebre dichiarazione: «L’essere umano è misura di tutte le cose. In quanto le cose appaiono a me, tali sono per me; in quanto appaiono a te, tali sono per te». Di conseguenza – secondo i “sofisti” – esistono solo le “opinioni”, non la “verità”. Il soggetto giudica sempre in base al proprio “vissuto”, senza alcuna possibilità di costruire un discorso oggettivo.

     L’idea di Protagora, che l’essere umano sia la “misura di tutte le cose”, viene tradizionalmente rappresentata dalla figura di Atlante che regge sulle spalle l’intero universo. Protagora di Abdera fonda e promuove una Scuola di tendenza scettica che raccoglie molti studenti. Le tesi del movimento dei Sofisti sono state anche sintetizzate dal filosofo Gorgia, nato a Lentini (Siracusa) nel 490 a.C: siamo nella Mega Ellas, nella Magna Grecia, dove anche Erodoto emigrerà e dove trascorrerà (sembra) l’ultima parte della sua vita. Gorgia va ancora oltre le tesi originarie del movimento affermando che «nulla esiste» e «se qualcosa esistesse non potrebbe essere pensata». Gorgia, molto provocatoriamente, mette in crisi – oltre all’attendibilità dell’esistenza e della conoscenza – anche l’efficacia della logica, e la stessa possibilità di costruire una cultura, affermando che: «Se qualcosa esistesse e fosse pure pensabile, non sarebbe comunque comunicabile in alcun modo». Naturalmente i ragionamenti di Gorgia portano alla formazione dell’idea nichilista, di cui abbiamo incontrato, due settimane fa, un esponente ottocentesco: il medico Evgenij Vasil’ev Bazàrov, un personaggio creato dallo scrittore Ivàn Turgénev nel romanzo Padri e figli (1862): qualcuno ne ha iniziato la lettura?

     Gorgia di Lentini quindi dà l’avvio ad una corrente di tendenza nichilista a cui aderiranno molti discepoli. Erodoto, nel movimento dei Sofisti, ha una sua posizione che non comprende né lo scetticismo né tanto meno il nichilismo. Erodoto è un malinconico il cui pensiero oscilla tra il pessimismo e un moderato ottimismo. Anche per Erodoto la realtà non è conoscibile in se stessa, ma solo nelle sue apparenze e nel suoi fenomeni. Anche per Erodoto esistono solo le “opinioni”, non la “verità”, e il soggetto giudica sempre in base al proprio “vissuto”. Però – secondo Erodoto – il vissuto è raccontabile, e il “racconto”, se contiene un insegnamento morale, ha il potere di rendere “verosimile” la realtà. Per questo motivo Erodoto viene considerato dagli antichisti un “sofista di tendenza etica”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In quale occasione avete coltivato lo scetticismo? Quale situazione vi ha suggerito il nichilismo? Avete vissuto un momento di pessimismo?  Quando avete conosciuto l’ottimismo?

Per quattro interrogativi bastano quattro righe di scrittura… 

     E allora – per concludere – riflettiamo su un altro esempio in cui emerge la “tendenza etica” presente nel pensiero di Erodoto.

     Leggiamo che cosa scrive nel libro II al capitolo 177. Qui Erodoto ci fa incontrare un personaggio nei confronti del quale nutre una certa ammirazione: il Faraone Amasi. Forse Erodoto ha stima di questo personaggio anche perché, a sua volta, il Faraone Amasi ammirava i Greci.

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Erodoto, Le Storie  II  177  178

Sotto il regno di Amasi, si dice, l’Egitto godette il massimo della prosperità, sia per i vantaggi che vennero al paese dal fiume, sia per i prodotti che la terra offriva agli abitanti: le città in esso abitate sarebbero state, allora, in tutto, 20.000.

Fu Amasi che promulgò per gli Egiziani la legge che, ogni anno, ciascun cittadino dovesse dichiarare al governatore della provincia donde traeva i suoi proventi: chi non lo faceva e non giustificava il suo tenore di vita, veniva punito con la morte.

Solone di Atene prese dall’Egitto questa legge per divulgarla tra gli Ateniesi: ed essi l’osservano tuttora, perché è veramente giustissima.

Animato da simpatia verso i Greci, Amasi ad alcuni di essi concesse particolari favori: tra l’altro, a quelli che venivano in Egitto assegnò la città di Naucrati affinché l’abitassero; a quelli che non intendevano stabilirvisi, ma giungevano colà soltanto per il commercio, diede dei luoghi per erigervi altari e templi ai loro dèi.

     Ci impressiona molto la legge secondo cui: “ogni cittadino deve dichiarare ogni anno da dove trae i suoi profitti”. Che cosa fa Erodoto: “allude”?

     Facciamo due osservazioni. La prima è di natura storico - politica. C’è un errore “storico” di fatto nel testo di questo brano: Solone non può aver copiato da Amasi perché viene prima, egli fa le sue leggi (nomoi) nel 594 a.C. mentre Amasi sale al trono nel 569 a.C., quindi venticinque anni dopo. Ma noi sappiamo come ragiona Erodoto e quindi prima di condannare Erodoto dobbiamo riflettere. Sappiamo che Erodoto “fa la storia” soprattutto per coincidenze e corrispondenze etiche. Lui ci vuole dire che a fondamento della civiltà greca moderna, come di quella egizia, come di quella turca, come di quella italica c’è questa norma basilare, questa “legge giustissima”, questa “legge perfetta” che sconsiglia di usare denaro sporco (capitali, patrimoni, fondi illeciti) per finanziare i propri o gli altrui interessi. Il denaro sporco inquina gli interessi, e gli interessi sporchi contaminano la società. Se Erodoto commette un errore di datazione che cosa cambia? Forse che un errore di datazione snatura il valore dell’onestà e di conseguenza la disonestà diventa tollerabile?

     Questo racconto non è esatto dal punto di vista storico tuttavia porta in sé la “veridicità” perché si basa su una coincidenza e su una corrispondenza etica: la “verità” sta nel “dichiarare i redditi reali e nel dimostrare che la loro fonte è lecita, in accordo con le leggi che una comunità si è data” e la “verità” sta nel pagare le tasse in modo corrispondente al proprio reddito; che poi, il primo a legiferare per affermare questo principio sia stato Amasi o Solone ha un’importanza secondaria. Infatti, prima di tutto, è il principio che è “passato alla storia” piuttosto che coloro i quali lo hanno affermato, e oggi questo principio risiede, impreziosendolo, nel testo della nostra Costituzione e tutti i cittadini, questo principio, lo rispettano fedelmente. Che cosa fa Erodoto: “allude”?

     La seconda osservazione è di natura linguistica. Nel testo originale de Le Storie di Erodoto scopriamo sempre delle cose “originali”. Entrare nelle “parole originali” è come entrare nello specchio di Alice (Alice nel paese delle meraviglie, “deinòs”). La parola che noi traduciamo “legge”, i Greci – anche Erodoto naturalmente – la chiamano “nomos”. Nel testo greco de Le Storie l’espressione: con una legge giustissima, con una legge perfetta, corrisponde alle parole: Amòmo nòmo. Come potete sentire c’è un’assonanza significativa (una coincidenza), una tessitura musicale (una corrispondenza) dove, giocando con le parole, si rafforza quel che si vuole affermare.

     Erodoto “allude” e sorridendo sembra dire: «Attenzione, si può essere tremendamente seri proprio se si gioca con le parole e quindi – come cittadini democratici – dobbiamo reagire se abbiamo a che fare con un “kacho nòmo”, non è un parolaccia, in greco significa: “con una cattiva (kachos) legge (nòmos)” e dovremmo misurarci positivamente con un “amòmo nòmo (“con una legge giustissima”)». Erodoto gioca con le parole e questi giochi sono stati chiamati dagli studiosi: “allegorìe semantiche”. Erodoto gioca anche perché deve far entrare in scena il Faraone Amasi. Secondo lui Amasi è un tipo “simpatico” che ha, contemporaneamente, un rapporto tanto serio quanto giocoso con le Istituzioni. Amasi è “un po’ mattacchione” ed Erodoto nel suo libro – sulla scia delle coincidenze e delle corrispondenze – ne racconta la “storia”. Ma questa è un’altra “storia” e la storia di Amasi, il “faraone mattacchione”, la prenderemo in considerazione dopo le vacanze, il prossimo anno.

     Questa sera abbiamo potuto constatare che Erodoto “gioca con le parole”, ma, nel testo de Le Storie, gioca spesso anche con i discorsi. Che cosa significa – in riferimento a Le Storie di Erodoto – usare l’espressione “giocare con i discorsi”?  “Giocare con i discorsi”, per Erodoto, significa avvalersi di “ciò che narra” per creare delle “fantastiche storie allegoriche”.

     De Le Storie di Erodoto noi abbiamo studiato le “forme strutturali (come è fatto questo libro)”, abbiamo studiato e stiamo studiando le “iforme intellettuali (quali parole-chiave e quali idee significative contiene il testo di quest’opera)”, ora dobbiamo incontrare le “forme allegoriche”. Come si presentano le “forme allegoriche (le cosiddette metafore erodotee)” nell’opera di Erodoto? Sapete già che non basta una battuta per rispondere a questa domanda, è necessario seguire un itinerario di studio. Lui, Erodoto, annuisce sorridendo, voi, accorrete, per intraprendere questo itinerario: la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 2, 2005