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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA EMERGONO LE DISTINZIONI TANTO NELL’AMBITO DELLA SCOLASTICA LATINO-CRISTIANA QUANTO IN QUELLA ARABO-ISLAMICA ...

Lezione N.: 
7

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica     18-19-20  novembre  2015

 

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA EMERGONO LE DISTINZIONI TANTO NELL’AMBITO DELLA SCOLASTICA LATINO-CRISTIANA QUANTO IN QUELLA ARABO-ISLAMICA ...

Prologo...

   Da anni - e specialmente in questi ultimi tre - noi siamo tutte parigine e tutti parigini: siamo cittadine e cittadini attivi di Parigi perché abbiamo frequentato, frequentiamo e [piaccia o non piaccia] continueremo a frequentare le Scuole di questa città: in particolare la facoltà delle Arti nel Vico de li Strami, e continueremo ad usare lo strumento dell’Alfabetizzazione per investire in intelligenza contro chi sfrutta l’arma dell’ignoranza per irretire influenzabili coscienze e cercare dì scatenare il terrore, che è un sentimento anticoranico perché il sentimento coranico per eccellenza è la speranza così come per i Libri biblici e per la Letteratura dei Vangeli. Per una di quelle paradossali coincidenze che spesso si manifestano, strada facendo, sul cammino della nostra Scuola abbiamo rischiato di citare il Bataclan a poche ore dal momento in cui questo storico edificio è salito alla ribalta mondiale: venerdì sera sono rimasto doppiamente impietrito perché Jules Verne, che ci ha accompagnate ed accompagnati nel corso dell’itinerario scorso, era presente, nel 1865, la sera dell’inaugurazione di questo teatro, insieme a Michel Carré con il quale scriveva Bataclan - che ha dato il nome a questa sala concerto - è il titolo di un’operetta di Jacques Offenbach, ambientata in Cina, rappresentata la sera stessa dell’inaugurazione. Ed è stato proprio il pensiero di Jules Verne a scuotermi ricordandomi che la prossima Lezione, quella di questa sera, è - a suo modo - la risposta della Scuola al comportamento anti-coranico e anti-islamico dei terroristi assassini e, per completare il paradosso, la data di creazione di questa Lezione, riportata dal computer [incredibile a dirsi], è martedì 14 luglio ore 17,01. Per prendere la Bastiglia - come metafora del fanatismo che imprigiona l’Intelligenza - bisogna studiare, e allora: allons enfants, marchon: In marcia cittadine e cittadini, ai Libri!

 

   Questo è il settimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” e, per la precisione, siamo ancora in quella grande porzione del territorio che è stata denominata “pre-umanistica” e che comprende, dal punto di vista temporale i secoli XIII e XIV [il 1200 e il 1300] e dove l’Umanesimo propriamente detto è in incubazione.

   In questo momento - mentre “l’autunno del Medioevo” è iniziato - noi ci troviamo di fronte ad un vasto “paesaggio intellettuale” che è stato denominato “della Scolastica naturalistico-sperimentale” e, all’interno di questo scenario, ci ha fatto da guida in queste due ultime settimane un significativo personaggio che si chiama Ruggero Bacone il quale continua ad accompagnarci perché insieme a lui dobbiamo ancora chiarire alcuni temi specifici che riguardano la sua esperienza di filosofo scolastico che precorrono la nascita dell’Umanesimo. E poi Ruggero Bacone continuerà ad accompagnarci sotto mentite spoglie sul piano letterario perché, come ben sapete, sembra che, per far dispetto a chi lo ha scomunicato anche a causa della sua frequentazione con le Arti magiche, invece di morire, si sia volatilizzato il 12 ottobre 1292, e continui a “farsi sentire”, e, difatti, noi abbiamo “sentito” evocare la sua presenza nel testo di un “romanzo-breve” - intitolato Dopo - che dobbiamo continuare a leggere, dopo.

   Ma nell’itinerario di questa sera, più che andare a caccia di “fantasmi”, noi dobbiamo andare a caccia di indizi, cioè di quei germi che hanno contribuito a far fermentare e lievitare il movimento dell’Umanesimo che non nasce all’improvviso come un fungo né esplode come un fulmine a ciel sereno nel XIV secolo. Il “paesaggio intellettuale”, al quale siamo di fronte e che abbiamo denominato “della Scolastica naturalistico-sperimentale”, già vasto di per sé, si trova a ridosso di un paesaggio attiguo anch’esso di consistenti dimensioni, che si protende al di fuori dell’Ecumene occidentale per debordare verso Oriente.

   Non è casuale che sul piano didattico questi due paesaggi siano attigui perché rappresentano due aree interdipendenti e questo rapporto di dipendenza dipende dal fatto che alcuni elementi fondamentali e costitutivi della cultura umanistica - un avvenimento, l’Umanesimo, che consideriamo fondamentalmente come un fenomeno “occidentale” - hanno la loro radice in Oriente. Ma procediamo con ordine. Prendiamo il passo accompagnate e ed accompagnati ancora dal genio [irregolare, secondo i vertici dell’ordine francescano] di  Ruggero Bacone.

   Il maestro della “Scuola sperimentale di Oxford” [come sappiamo, ma è bene rinfrescare la nostra memoria] ha introdotto nel metodo della conoscenza il concetto di “esperienza”, e questo concetto è maturato nel tempo, e ha le sue radici circa due secoli e mezzo prima che Ruggero Bacone lo codifichi come uno degli strumenti che favorisce la nascita del movimento dell’Umanesimo nell’Ecumene occidentale: “Che cosa c’è di più umano dell’esperienza umana?”, dirà Amleto a suo tempo.

   La scorsa settimana Ruggero Bacone ha ribadito che si conosce attraverso tre fonti: l’autorità, il ragionamento e l’esperienza. L’autorità, su cui si basa la Fede, ci fa credere nelle cose ma, sostiene Ruggero Bacone, non ce ne fa conoscere la natura. La ragione ci fa conoscere la natura delle cose ma, sostiene Ruggero Bacone, non è in grado di distinguere il vero dal falso, mentre l’esperienza, afferma Ruggero Bacone, è l’unica forma di conoscenza capace di verificare le dimostrazioni e i limiti della ragione. L’esperienza, sostiene Ruggero Bacone, mette in luce le insufficienze di ogni ragionamento astratto e ci fa capire che i problemi della metafisica non bastano a saziare la sete di conoscenza ma occorre studiare concretamente il mondo materiale per poterlo intendere e governare, quindi, afferma Ruggero Bacone: l’esperienza è la sola fonte di certezza capace di condurci sulla via della verità.

   L’esperienza è duplice, sostiene Ruggero Bacone: può essere “esterna”, data dai sensi, e, in questo caso, è fonte delle verità naturali, secondo l’insegnamento di Aristotele, e può essere “interna o mistica”, data dall’illuminazione divina [dalla Grazia], ed è allora fonte delle verità teologiche, secondo il pensiero di Agostino.

   Ruggero Bacone auspica, quindi, una riforma del sapere basata sul concetto di “esperienza” e il suo [come abbiamo già detto la scorsa settimana] - anche se esiste, da due secoli e mezzo, la consapevolezza che il “fare esperienza” sia un esercizio di importanza fondamentale per acquisire conoscenze - è, quello di Ruggero Bacone, per ora un tentativo destinato a fallire perché troppo spregiudicato, troppo “proiettato in avanti”, ed è per questo motivo che la sua figura, in modo leggendario, si è protesa nel futuro. Mettere in primo piano il concetto di “esperienza” significa  privilegiare alcuni strumenti, alcune discipline rimaste in secondo piano sul territorio della Scolastica latino-cristiana.

   Ruggero Bacone auspica una riforma del sapere basata non solo sulla filosofia e la teologia ma soprattutto su due strumenti che lui considera privilegiati: il primo strumento è la filologia [lo studio dell’esatto significato delle parole considerate nella loro lingua originale, e nel programma della Scuola di Oxford inserisce lo studio del greco, dell’ebraico e dell’arabo]; il secondo strumento è la matematica o le matematiche [Bacone utilizza spesso questo termine al plurale] perché studia i vari metodi in cui questa disciplina è stata interpretata: da quello “geometrico” di Pitagora a quello “algebrico” della cultura araba [“al-giabr” in arabo significa “ristrutturazione” cioè semplificare in una formula un lungo evento aritmetico].

   La tesi di Ruggero Bacone sulla necessità di studiare la filologia e le matematiche per la conoscenza del vero ha una sua base biblica: Dio, dice il testo sacro, ha creato tutto secondo il giusto “peso” e la giusta “misura” e, quindi, che l’Universo sia costruito “secondo linee, angoli e figure” appare chiaro a Ruggero Bacone, che ha imparato, e ha fatto propria, alla Scuola di Roberto Grossatesta una grande intuizione secondo la quale “il mondo non è che l’espansione di un nucleo luminoso”: l’espansione del nucleo avviene “in modo geometrico”, ecco perché la matematica [o le matematiche] è «la porta e la chiave delle scienze» scrive Ruggero Bacone. Nonostante questa intuizione sia destinata ad avere un grande futuro, la concezione baconiana dell’esperienza rimane ancora limitata: Ruggero Bacone dichiara che “è l’esperienza che tutto verifica e tutto controlla” ma non ha ancora inventato il modo per far sì che l’esperienza verifichi e controlli se stessa [e il tema della valutazione delle esperienze fa discutere tutt’oggi].

   Un’altra grande intuizione scientifica di Ruggero Bacone consiste nel fatto che la conoscenza sperimentale ha portato alla nascita di quella che Ruggero Bacone chiama “industria manuum ” [l’industria delle mani] e anche questa proposta risulta essere troppo sbilanciata in avanti e, difatti, è rimasta senza reali sviluppi: per il francescano “irregolare” Ruggero Bacone “[l’industria delle mani] industria manuum” è un modo per adempiere a quanto il santo di Assisi aveva stabilito nella prima Regola e aveva ribadito nel suo Testamento: «Io, scrive Francesco d’Assisi, ho lavorato con le mie mani, voglio continuare a lavorare con le mie mani e così voglio fermamente che lavorino gli altri frati … e quelli che non sanno, imparino». Quindi per Ruggero Bacone - secondo il dettato della Regola francescana originaria, in conformità anche con la Regola benedettina che prevede quattro ore di lavoro manuale per tutti - il lavoro è soprattutto un modo di vivere in solidarietà con i “minores, con la gente umile e povera [il lavoro serve per dare dignità alla condizione umana]. Purtroppo, con l’imporsi della borghesia [per quanto proclami, come classe sociale, di essere fedele ai precetti della cristianità], “l’industria delle mani” diventa una pratica che non viene interpretata in senso francescan-baconiano ma viene inserita in un progetto di potenza che la trasforma in una nuova forma di dominio dell’uomo sull’uomo, con risvolti per certi aspetti anche peggiori di quelli imposti dalla servitù della gleba. La “tecnica” è per Ruggero Bacone il vero modo per trasformare “l’intelletto speculativo” in “intelletto pratico” e per attuare meglio il precetto evangelico della caritatevole ridistribuzione dei beni secondo l’originaria Regola francescana sostenuta dalla corrente degli “spirituali”, ma il concetto di “tecnica” è destinato ad avere un’evoluzione diversa rispetto al pensiero “francescano” di Ruggero Bacone, e ci penserà poi l’altro Bacone, Francesco, quello vissuto nel Seicento [che incontreremo strada facendo su un altro territorio] a formulare l’ipotesi inquietante secondo cui: «La tecnica è il modo per trasformare il sapere in potere». Ma questa è un altra storia e ce ne occuperemo a suo tempo, anche se viviamo in un mondo dove questo concetto è palese.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

«Questo l’ho fatto con le mie mani!»: che cosa avete fatto ultimamente di bello, di buono, di utile con le vostre mani?… 

Prendete in mano la penna e scrivete quattro righe in proposito…

 

   Ruggero Bacone ci accompagna anche sul piano letterario perché, come ben sapete, continua a “far sentire” la sua presenza sotto forma di allusioni nel testo di un “romanzo-breve” - intitolato Dopo - che abbiamo cominciato a leggere la scorsa settimana. L’opera in questione è uno dei racconti contenuti nella raccolta - pubblicata nel 1937 e intitolata Fantasmi - della scrittrice statunitense naturalizzata “europea ” [così amava definirsi] Edith Wharton, con la quale abbiamo fatto conoscenza la scorsa settimana. Sappiamo che Edith Wharton è stata spronata a scrivere questi racconti dal suo amico Henry James, al quale lei aveva raccontato che per molto tempo, da bambina [nell’età dell’innocenza], non riusciva a dormire sapendo che nella sua stanza c’era un libro contenente storie di fantasmi.

   Nel testo del “romanzo-breve” che abbiamo cominciato a leggere, l’inquietudine cresce di pagina in pagina e coinvolge i protagonisti: una coppia di americani, Mary e Ned [Edward], i quali, su consiglio e con la mediazione della loro amica Alida, acquistano a buon prezzo una grande casa di campagna nella zona di Ilchester [nella contea inglese dove è nato e poi sembra si sia volatilizzato Ruggero Bacone] e vi si ritirano a vivere [di rendita, perché Ned ha fatto un affare, ma non sempre gli affari sono “puliti”]. Mary e Ned, in un primo momento, sono attratti dalle atmosfere “magiche e un po’ lugubri” della loro casa e amano ironizzare sarcasticamente sul fatto che possa ospitare un fantasma, ma soltanto “dopo”, come dice il titolo di questo testo, si rendono conto [o meglio, chi legge si rende conto] che c’è poco da scherzare su certi argomenti soprattutto quando si evoca, pur con bonaria leggerezza, la figura [il fantasma] di Roger Bacon, di Ruggero Bacone. Mary comincia a lasciarsi suggestionare dal fatto che nella sua casa “ci si senta” e coltiva questa affascinante suggestione, ma poi comincia anche a riflettere, diventando guardinga, su alcune stranezze del marito: un pomeriggio da un punto panoramico della casa, che Mary ha scoperto salendo su un terrazzino all’altezza del tetto, lei ed Ned vedono un uomo, uno sconosciuto [non se ne distingue l’identità], camminare indeciso sul viale che porta alla loro casa. Ned scende di corsa e gli si precipita incontro, ma poi dice a Mery - che chiede spiegazione di quel suo comportamento - di non averlo incontrato, dice che, forse, era Peters, un artigiano che sta facendo dei lavori di ristrutturazione agli annessi della casa, ma si capisce che Ned sta mentendo palesemente e sembra abbia qualcosa da nascondere. E, osservando i comportamenti del marito, gli interrogativi si moltiplicano nella mente di Mary, la quale, proprio in questo momento, vede dalla finestra della biblioteca una figura che si avvicina, e il suo cuore comincia ad aumentare i battiti: è un fantasma, o è solo suggestione? Per ora sembra essere solo suggestione, leggiamo.

 

LEGERE MULTUM….

Edith Wharton, Dopo

Stanca dei suoi pensieri, si accostò alla finestra. La biblioteca era adesso completamente buia, ma Mary constatò con sorpresa che il mondo esterno era ancora abbondantemente soffuso di luce tenue.   Mentre guardava fuori, oltre il cortile, una figura si disegnò laggiù, nella prospettiva dei nudi tigli; sembrava una semplice macchia di grigio più scuro nel grigiore, e per un istante, mentre avanzava verso di lei il cuore le accelerò i battiti, e Mary si disse: È il fantasma!

Ebbe il tempo, in quel lungo istante, di sentire all’improvviso che l’uomo del quale, due mesi prima, dal tetto, aveva colto una remota immagine, adesso, nell’ora a lui predestinata, era sul punto di rivelarsi tutt’altri che Peters; e l’animo di Mary cedette all’incombente paura della rivelazione. Ma la figura, acquistando corposità e fisionomia, persino alla sua vista debole si mostrò essere quella di suo marito; e Mary si volse per accoglierlo al suo ingresso, pronta a confessargli la sua stravaganza.

«È davvero troppo assurdo», esclamò ridendo, «ma non riesco mai a ricordarmene».

«Ricordarti cosa?» le chiese il marito, venendo avanti.

«Che, quando si vede lo spettro di Ilchester, non lo si riconosce mai».

Gli aveva posato la mano sulla manica, ed egli ve la trattenne.

«Perché, ti sembrava di averlo visto?» chiese, dopo un silenzio piuttosto lungo.

«Visto? Figurati che, nella mia folle determinazione di scoprirlo a ogni costo, l’ho scambiato addirittura per te, mio caro!»

«Per me? Adesso?»

Ned lasciò cadere la mano, e, distaccandosi da Mary, disse: «Sul serio, tesoro, faresti bene a smetterla, e sarebbe la cosa migliore che potresti fare»… 

«Oh, certo che ho intenzione di smetterla. E tu?» chiese lei, all’improvviso fissandolo. Era entrata nel frattempo la cameriera portando la corrispondenza e una lampada, la luce della quale investì in pieno il volto di Ned, mentre questi si chinava sul vassoio.   «E tu?» insistette testarda Mary, non appena la domestica se ne fu andata a far luce in altre stanze. 

«Io che cosa?» chiese a sua volta il marito con tono assente e, mentre dava un’occhiata alle lettere, la luce mise in forte risalto il netto solco scavategli dalla preoccupazione tra le sopracciglia. … «Hai smesso di tentare di vedere lo spettro?» chiarì Mary, col cuore che le palpitava un pochino per l’esperimento cui era intenta.  Il marito, messe da parte le lettere di sua spettanza, si era ritirato nell’ombra del camino.  «Non l’ho mai tentato», rispose, aprendo la fascetta di un giornale.

«Be’, naturalmente», continuò Mary, «la cosa esasperante è che non c’è scopo a tentare, dal momento che uno non può esser certo di averlo visto se non molto tempo dopo».  Ned stava spiegando il giornale, quasi non l’avesse sentita; ma, dopo una pausa, durante la quale i fogli frusciarono nervosamente nelle sue mani, alzò gli occhi e domandò: «E hai idea di quanto tempo ci vuole?»  …   Mary si era lasciata cadere in una poltroncina accanto al camino, e dal suo posto alzò lo sguardo, sorpresa, al profilo del marito stagliato contro il cerchio di luce della lampada. 

«No, nessuna idea. E tu?» interrogò a sua volta, ripetendo la domanda di prima con intenzionalità ancor più marcata.

Ned appallottolò il giornale e quindi, senza nessun motivo, andò verso la lampada.

«Buon Dio, no! volevo semplicemente sapere», esclamò, e nella sua voce si avvertiva una punta di stizza, «se non c’è una leggenda, una tradizione in merito».

«No, che io sappia», rispose Mary; ma represse l’impulso di aggiungere: «Che cos’è che ti induce a chiedermelo?» perché la cameriera era riapparsa, questa volta col tè e un’altra lampada.

Con la scomparsa delle ombre e la ripetizione del quotidiano rituale domestico, Mary si sentì meno oppressa da quella sensazione che provava di qualcosa di tacitamente imminente. Per qualche istante fu tutta presa dai particolari del rito del tè, e quando tornò a levare lo sguardo fu colpita, fino a restarne sbalordita, dal cambiamento verificatosi sul volto del marito. Questi si era seduto accanto alla lampada più lontana, ed era intento a esaminare la corrispondenza; ma era qualcosa che egli aveva trovato, o semplicemente il mutamento di prospettiva di Mary, che aveva restituito ai suoi tratti l’aspetto normale? I segni della tensione erano svaniti, e le tracce di fatica che ancora restavano, erano di quelle senz’altro attribuibili a un continuato sforzo mentale. Quasi attratto dallo sguardo di Mary, l’uomo levò il suo, le loro occhiate si incrociarono, ed egli sorrise.

«Aspetto con impazienza il tè; e qui c’è una lettera che ti riguarda», disse.

Mary prese la lettera che Ned le porgeva in cambio della tazza che lei gli presentava e, tornata al suo posto, ruppe il sigillo con il gesto distratto del lettore ma il suo successivo gesto consistette nel balzare in piedi, mentre la lettera cadeva sul pavimento e Mary porgeva al marito un ritaglio di giornale.

«Ned! Che cos’è? Che cosa significa?»

Lui s’era alzato nello stesso istante, quasi ne avesse udita l’esclamazione prima che lei la emettesse; e per qualche secondo marito e moglie si studiarono, come avversari ansiosi di cogliere l’uno il punto debole dell’altro, tra la poltrona di Mary e la scrivania di Ned.

«Ma cosa? Mi hai fatto prendere uno spavento!» disse finalmente lui, accostandosi alla moglie con un’improvvisa risatina un po’ stizzita. Sul volto era tornata a posarglisi l’ombra dell’apprensione sotto forma di un’ambigua vigilanza e Mary, guardandolo, ebbe la netta impressione che si sentisse circondato da alcunché di invisibile.

Mary gli consegnò il ritaglio. «Quest’articolo È della Sentinel Dice che un tale, un certo Elwell ti ha intentato processo Che c’era qualcosa che non andava nella Blue Star. Non capisco molto, ma …».   Continuarono a fissarsi mentre Mary parlava e, con sua sorpresa, essa constatò che le parole da lei appena pronunciate avevano avuto per effetto immediato quello di dissipare la tesa vigilanza dello sguardo di lui. «Oh, quello!» E Ned abbassò gli occhi al ritaglio, quindi lo ripiegò col gesto di uno che si trovi tra le mani qualcosa di innocuo e familiare. «Ma che hai questo pomeriggio, Mary? Sembri una che abbia ricevuto cattive notizie».

Lei gli stava dinanzi, sentendo la sua preoccupazione lentamente scemare al contatto del tono rassicurante di Ned.

«Allora, sapevi di questo? E non c’è niente di cui preoccuparsi?»

«Ma si può sapere di che cosa si tratta? Non capisco. Di che cosa ti accusa quest’uomo?»

«Oh, praticamente di tutti i delitti previsti dal codice».

Ned aveva lasciato cadere il ritaglio, prendendo posto in una poltrona accanto al fuoco. «Vuoi che te la racconti? Non è poi una storia particolarmente interessante, solo una questione di interessi imperniati sulla Blue Star».

«Ma chi è questo Elwell? Non l’ho mai sentito nominare».

«Un tale che io avevo interessato all’affare, cui ho offerto un’occasione. Ma sì che te ne ho parlato, all’epoca».

«Può darsi. Si vede che me ne sono dimenticata». Invano Mary frugò tra i suoi ricordi. «Ma se gli hai dato una mano, perché quest’improvviso voltafaccia?»

«Probabilmente un azzeccagarbugli l’ha abbindolato e l’ha persuaso a intentarmi processo. È una questione di carattere tecnico piuttosto complicata. Pensavo che cose del genere ti annoiassero».

Mary avvertì una punta di rimorso. In teoria, deprecava il disinteresse, tipico della moglie americana, per le attività professionali del marito, ma in pratica le era sempre riuscito difficile prestare attenzione a quello che Ned le diceva delle transazioni in cui era coinvolto dai suoi disparati interessi. Senza contare che durante gli anni di esilio nel Middle West, Mary era giunta a convincersi che, in una comunità dove le cose piacevoli dell’esistenza potevano essere ottenute soltanto a prezzo di sforzi ardui come quelli cui aveva dovuto sobbarcarsi Ned nella sua professione, le brevi pause che lei e lui potevano concedersi dovevano essere sfruttate a fondo, come un’evasione dalle preoccupazioni immediate, una fuga verso la vita che avevano sempre sognato di condurre. Un paio di volte era stata indotta a chiedersi se aveva fatto bene. Adesso, per la prima volta, era sbalordita dalla constatazione di quanto poco ne sapesse delle basi materiali su cui era costruita la sua felicità.

Scoccò un’occhiata al marito, e una volta ancora fu in parte rassicurata dalla placidità del suo aspetto; e tuttavia aveva bisogno di ragioni più concrete per sentirsi rinfrancata appieno.

«Ma come mai la sua denuncia non ti preoccupa? E perché non me ne hai mai parlato?»

Ned rispose alle due domande insieme: «Non te ne ho parlato, in primo luogo perché non mi preoccupa affatto. Semplicemente mi irrita. E poi, questa è una storia ormai vecchia. Si vede che chi ti scrive deve essersi trovato tra le mani un vecchio numero della Sentinel».

Mary provò una prima sensazione di sollievo: «Vuoi dire che è tutto finito? Che quell’Elwell ha perso il processo?»

Ci fu, da parte di suo marito, un’esitazione appena percettibile. «La denuncia è stata ritirata, ecco tutto». Ma lei non si diede per vinta. «Ritirata perché s’è reso conto che non aveva nessuna probabilità di farcela?»

«Appunto, non aveva nessuna probabilità», rispose il marito.

Mary era ancora alle prese con una perplessità, di cui avvertiva vagamente la presenza in fondo ai suoi pensieri. «E quanto tempo fa l’ha ritirata?»

Altra esitazione da parte di Ned, quasi un ritorno del suo precedente nervosismo.

«Me ne hanno appena informato; ma me lo aspettavo».

«Appena? Quando? Da una delle lettere che hai ricevuto oggi?»

«Appunto».

Mary non replicò e soltanto dopo una breve pausa di silenzio si rese conto che il marito s’era alzato, che aveva attraversato lo spazio che li divideva e che si era seduto sul divano accanto a lei; sentì che le passava un braccio attorno alla vita, che la sua mano cercava le sue e che le stringeva e, lentamente volgendosi, attratta dal calore della guancia di lui, ne incontrò gli occhi sorridenti.

«Allora, tutto bene? Davvero?» gli chiese con voce che parve farsi strada tra il fumo dei dubbi che si dissolvevano; e: «Ti giuro che non è mai andata così bene!» fu la risposta che Ned le diede ridendo, mentre la attirava a sé.

 

   Mentre i coniugi Mary e Ned si dedicano alle loro effusioni, sebbene in un clima di inquietudine creata da una situazione ambigua con velature di carattere autobiografico da parte della scrittrice, noi ci mettiamo in movimento: ci stiamo per spostare nel tempo indietro di due secoli e mezzo e nello spazio verso Oriente. Abbiamo detto in partenza che il vasto “paesaggio intellettuale della Scolastica naturalistico-sperimentale che ha nell’Università di Oxford il suo centro propulsore” è attiguo ad un altro paesaggio, anch’esso di consistenti dimensioni, che deborda fuori dall’Ecumene occidentale e si protende verso Oriente. Abbiamo anche detto che sul piano didattico questi due paesaggi sono attigui perché rappresentano due aree interdipendenti, e in questo rapporto di interdipendenza si colloca il fatto che alcuni elementi fondamentali e costitutivi della cultura umanistica [nonostante l’Umanesimo sia consideriamo fondamentalmente come un fenomeno “occidentale”] hanno la loro radice in Oriente e noi dobbiamo rintracciarli, soprattutto oggi, in un momento in cui dobbiamo propiziare con autorevolezza l’incontro tra civiltà.

   Spostarsi verso Oriente - verso la Persia, l’Afghanistan, l’India - significa seguire la via dell’espansione islamica verso est, e il contatto che si è venuto a creare tra le culture orientali [persiana in particolare] e la tradizione islamica ha prodotto risultati intellettuali che hanno avuto una ripercussione sullo sviluppo della “Scolastica arabo-islamica” in Occidente [nella penisola Iberica e nell’area nord-africana del Magreb].

   In Occidente la “Scolastica arabo-islamica” è stata, dall’XI secolo come abbiamo studiato nel viaggio dello scorso anno scolastico, un grande movimento culturale che si è sviluppato con le Scuole di Toledo, di Cordova, di Siviglia in appositi centri creati per la prima volta a Baghdad, in Oriente, detti “case della saggezza” [noi, dall’anno Mille, abbiamo frequentato soprattutto quella di Toledo] dove intellettuali islamici, cristiani ed ebrei si sono incontrati per tradurre e per studiare le Opere di Platone [i Dialoghi] e di Aristotele [la Fisica, la Metafisica, l’Etica], e sappiamo che queste Opere sono tornate in Occidente dall’Oriente sulla via dell’espansione araba perché, come abbiamo studiato a suo tempo, la Filosofia neoplatonica e le Opere dei Classici della cultura greca [Platone, Aristotele, Plotino, Porfirio] - con il trionfo egemonico della cristianità dentro i confini dell’Impero romano - erano state messe al bando, in quanto “opere pagane” dall’imperatore bizantino Giustiniano [che decreta, nel 529, la chiusura dell’Accademia neoplatonica di Atene]:  come ricorderete, un manipolo di filosofi neoplatonici, per non subire ritorsioni, sono fuggiti verso Oriente nel territorio dell’Impero persiano portando con loro una biblioteca da viaggio [metaforicamente chiamata “la Statua di Atena”, predisposta da Proclo di Costantinopoli, l’autore del Dionigi Areopagita, e contenete le Opere di Platone, di Aristotele, di Plotino, di Porfirio ed altre] e queste Opere sono state ben accolte, tradotte in siriaco e in persiano, studiate e conservate nelle biblioteche dell’Impero persiano a cominciare da quella di Damasco e poi fino a Buchārā; quando la Persia, nel VII secolo, è stata invasa dagli Arabi queste Opere hanno suscitato un grande interesse negli intellettuali islamici che le hanno tradotte in arabo e ne hanno tratto vantaggio dal loro studio e, quindi, la conservazione delle Opere della cultura classica [Platone, Aristotele, Plotino, Porfirio], che sono alla base dell’Umanesimo, è avvenuta in Oriente.

   Il positivo clima culturale che, con l’espansione araba, è venuto a crearsi in Oriente ha favorito la comparsa di notevoli personalità intellettuali e il pensiero della “Scolastica arabo-islamica occidentale” è stato influenzato da grandi figure di pensatori orientali [ecco di che cosa parliamo quando parliamo di interdipendenza tra i paesaggi intellettuali che stiamo visitando], e tra le figure di intellettuali orientali che hanno contribuito ad implementare la cultura occidentale spicca quella di Avicenna [Abu Ibn Sīnā, nato, vissuto e morto in Persia tra il 980 e il 1037] le cui Opere, giunte in Occidente [nel Magreb e nella penisola Iberica], hanno avuto un benefico influsso culturale sulla nascita e lo sviluppo dell’Umanesimo.

   Le studiose e gli studiosi quando descrivono le origini dell’Umanesimo - e gli studi in materia sono innumerevoli - puntualizzano che questo movimento nasce da una “crisi”: la crisi della Scolastica cristiano-latina e la crisi della Scolastica arabo-islamica; effettivamente questa affermazione ha un senso se si tiene conto dell’etimologia della parola greca “crisis” che non contiene un’idea di “peggioramento” perché letteralmente significa “distinzione” nel senso della “scissione in diverse parti autonome” e, quindi, “la crisi” risulta essere “un fattore di crescita” [il contrario dell’immobilismo monolitico].

   La crisi nel movimento della Scolastica latino-cristiana [e ce ne siamo rese e resi conto in queste prime settimane di viaggio e, ultimamente, stando in compagnia di Ruggero Bacone] si manifesta con una netta distinzione [una “crisis”] tra la “Facoltà delle Arti di Parigi” dove si pensa che prima si debba formulare una teoria per poi metterla in pratica privilegiando l’intelletto speculativo e la “Scuola sperimentale di Oxford” dove si pensa che solo dopo aver fatto esperienza si possa enunciare una teoria, privilegiando l’intelletto pratico.

   Per quanto riguarda la crisi del movimento della Scolastica arabo-islamica la situazione è più articolata, per le molte distinzioni che si vanno creando.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

“Entrare in crisi” significa operare delle “distinzioni”, quindi, “lo stato di crisi” prevede si debba: differenziare, diversificare, separare, dividere, suddividere, selezionare: e quale di questi termini mettereste per primo accanto all’espressione “fare una distinzione”?… 

Scrivetela…

Quale particolare situazione della vostra vita avete definito come un momento di crisi?…

Scrivete quattro righe in proposito…  

 

   Adesso dobbiamo spostarci in Oriente sulle orme di Avicenna perché è necessario capire quali sono le caratteristiche del rapporto di interdipendenza tra la cultura orientale e quella occidentale che sta alle origini dell’Umanesimo.

   Abbiamo detto che in Oriente si è verificata, dal VII secolo, l’espansione arabo-islamica sul territorio del vasto Impero persiano e di parte di quello Indiano e, venendo a contatto con le grandi culture presenti su questi territori, la tradizione islamica si è “contaminata” e si sono moltiplicate, sul piano politico ed etnico, le “distinzioni [la “crisis”]” tra le varie parti del mondo mussulmano che diventa sempre più eterogeneo [c’è un mondo mussulmano iberico, uno magrebino, uno mediorientale, uno arabico, uno africano, uno persiano, uno indiano].

   Si dice che “L’Oriente è la patria degli Spiriti”, e il concetto dello Spirito, variamente interpretato, entra anche nell’esegesi [nell’interpretazione] persiana della Letteratura del Corano ma ora l’aver pronunciato la parola “spiriti” provoca un certo effetto e fa drizzare le orecchie a Ruggero Bacone [che deve averci preso gusto a fare dello spirito travestendosi da “spirito” tra le righe della Letteratura contemporanea, in particolare quella dedicata ai fantasmi] e, quindi, a proposito di “spiriti”, è giunto il momento di tornare a vedere che succede a casa  di Mary e di Ned, una casa in cui “ci si sente”, e, per fare questo, non c’è che un modo, quello di leggere ora il seguito di Dopo.

 

LEGERE MULTUM….

Edith Wharton, Dopo

Grazie al cielo, tutto era chiaro quanto la luce che la sorprese, con la sua sostanza quasi estiva, quando uscì di casa per la quotidiana visita al giardino. Mary aveva lasciato Ned alla scrivania, concedendosi, mentre passava davanti all’uscio aperto della biblioteca, un’ultima occhiata alla sua figura con la pipa in bocca, china sulle carte, con il volto disteso; e adesso, non le restava che compiere il suo dovere mattutino. Il quale, in giornate d’inverno belle come quella, le imponeva soprattutto di bighellonare per le diverse regioni del suo dominio, lieta come se la primavera fosse già intenta a compiervi la sua opera. Davanti a Mary si spalancavano ancora tante possibilità, tali occasioni di rendere esplicite le grazie latenti della vecchia casa. E il sentimento di sicurezza che aveva riguadagnato conferiva, quel particolare mattino, una peculiare esuberanza al suo passo, mentre procedeva per quei dolci luoghi tranquilli. Andò dapprima all’orto, dove i peri a spalliera disegnavano complicati intrichi sui muri e piccioni svolazzavano tutt’attorno alla colombaia.

C’era qualcosa che non andava nell’impianto di riscaldamento della serra, e Mary aspettava un tale, un’autorità in materia, che doveva fare una scappata fra un treno e l’altro e pronunciare una diagnosi sulla caldaia. Ma come sprofondò nel calore umido della serra, tra gli odori speziati e i rosa e i rossi cerati di piante esotiche di moda in altri tempi - persino la flora, a Ilchester, era in carattere! - si rese conto che il grand’uomo non era arrivato e, essendo troppo preziosa la giornata per sprecarla in un’atmosfera artificiale, uscì e s’avviò diretta al giardino dietro la casa. Vista dal lieve disegno del giardino la casa sembrava emanare, da finestre aperte e da comignoli ospitalmente fumanti, qualcosa di umano, come una calda presenza, come una saggezza lentamente maturata al sole dell’esperienza. Mai, prima di allora, Mary aveva avuto così acuta la sensazione della sua intimità con la casa, mai era stata così certa che i segreti di questa erano tutti benefici, conservati, come si dice ai bambini, per il tuo bene, mai aveva provato tanta fiducia nella capacità della casa di integrare la sua esistenza e quella di Ned nell’armonioso disegno della lunga, lunghissima storia che la dimora era intenta a tessere al sole.

Udì passi alle sue spalle, e si volse, certa che si trattasse del giardiniere in compagnia del tecnico delle caldaie. Ma l’unica figura che si vedeva era quella di un uomo giovanilmente smilzo il quale, per motivi che al momento Mary non avrebbe potuto dire, neppure lontanamente coincideva con la sua nozione di un esperto di caldaie da serra. Il nuovo venuto, vedendola, si levò il cappello e si fermò con l’aria di ma sì, di un viaggiatore desideroso di sottolineare che la sua intrusione è affatto involontaria. Ilchester di tanto in tanto attirava qualche colto turista, e Mary quasi quasi si aspettava di accorgersi che lo straniero nascondesse un apparecchio fotografico. L’uomo, però, non aveva nulla del genere, e dopo un istante di silenzio Mary, con tono adeguato alla cortese esitazione dell’altro, chiese: «Cerca forse qualcuno?»

«Sì, il signor Edward», suonò la risposta data con un’intonazione vagamente americana, e Mary, avvertendola, lo scrutò con maggior attenzione. La tesa del cappello floscio gli gettava un’ombra sul volto che, così celato, pareva di persona giunta per trattare di affari e che, con fermezza anche se con civiltà, mostrava di sapere quali erano i suoi diritti, d’altra parte, a Mary era cara la serenità delle ore mattutine di suo marito e dubitava che avesse concesso a chicchessia il diritto di disturbarlo. «Ha un appuntamento con mio marito?» chiese.

Il visitatore ebbe un’esitazione, ma poi rispose: «Credo che mi aspetti».

Allora fu Mary ad avere un’esitazione. «Vede», disse, «al mattino di solito lavora, e non riceve mai nessuno».   Per un istante l’uomo la guardò senza replicare; e, quasi ne avesse accettata la decisione, si volse per allontanarsi. Poi però Mary lo vide fermarsi e alzare lo sguardo alla facciata serena della casa. C’era qualcosa, in lui, che rivelava stanchezza e delusione, lo scoraggiamento del viaggiatore venuto da lontano e le cui ore sono ritmate dagli orari. E allora un lieve rimorso la indusse a corrergli dietro.  «Mi scusi, ma lei viene da lontano?»

«», rispose l’uomo, «vengo da lontano».

«Quand’è così, se vuole accomodarsi in casa, sono certa che mio marito la riceverà. Lo troverà in biblioteca». Non sapeva lei stessa perché avesse aggiunto quest’ultima postilla, ma forse era soltanto per espiare il fallo della sua precedente mancanza di ospitalità. Il visitatore sembrò sul punto di esprimere la propria gratitudine, ma l’attenzione di Mary fu distratta dall’avvicinarsi del giardiniere in compagnia di un tale che, questo sì, aveva tutte le stigmate dell’esperto di caldaie.

«Di là», disse, indicando al visitatore la strada verso casa; e un istante dopo già se ne era dimenticata, tutta presa dal suo colloquio con il tecnico.

Fu un incontro che diede risultati così positivi, tanto che l’esperto fece in modo di perdere il prossimo treno, e Mary ne fu incantata al punto da trascorrere il resto della mattinata in vivaci confabulazioni tra i vasi da fiori. Terminato il colloquio, restò sorpresa constatando che era quasi ora di pranzo e, mentre s’affrettava verso casa, era quasi certa di vedere il marito uscirne alla sua ricerca. Ma nel cortile non trovò nessuno, e pensò che Ned fosse ancora al lavoro.

Siccome non voleva disturbarlo, se ne andò in salotto dove, seduta allo scrittoio, si immerse in nuovi calcoli delle spese per la serra quando la cameriera, comparsa sulla soglia, chiese se desiderava che servisse il pranzo. Mary e Ned, scherzando tra loro, dicevano che Trim annunciava il pranzo con l’aria di chi divulghi un segreto di stato, e Mary, tutta presa dai suoi conti, si limitò a borbottare un distratto assenso. Sentì Trim titubare incerta sull’uscio, poi i passi della cameriera echeggiarono per il corridoio e Mary, messi da parte i fogli, attraversò l’atrio e s’avviò alla biblioteca.

L’uscio era chiuso, e a sua volta Mary esitò, riluttante all’idea di disturbare il marito. Mentre se ne stava lì incerta, ricomparve Trim per annunciare il pranzo, e Mary allora si sentì giustificata ad aprire l’uscio. Suo marito non era alla scrivania, e lei si guardò attorno, aspettandosi di vederlo davanti agli scaffali, laggiù in fondo alla stanza; lo chiamò ma non ebbe risposta, e finalmente si rese conto che non era nella biblioteca. Si volse alla cameriera. «Il signor Edward deve essere di sopra. Ti dispiace andargli a dire che il pranzo è pronto?» Trim parve esitare, poi disse: «Col suo permesso, signora, il signor Edward non è di sopra».

«Non è nella sua stanza? Ne sei certa?»

«Certissima, signora».

Mary diede un’occhiata all’orologio. «E allora, dov’è?»

«È uscito», proclamò Trim.

«E dove è andato? E quando?»

«È uscito dall’ingresso principale e ha preso per il viale, signora». Per Trim era una questione di principio non rispondere a più di una domanda per volta.

«Per il viale? A quest’ora? E non ha lasciato detto niente?»

«No, signora» rispose Trim, «semplicemente se ne è andato con quell’altro signore».

«Signore? Quale signore?» E Mary si volse di scatto, quasi ad affrontare questa nuova incognita.   … «Il signore che è venuto a cercarlo, signora», spiegò Trim con tono rassegnato, e aggiunse «non saprei dire che ora fosse esattamente, signora, perché non sono stata io a far accomodare il signore che è venuto a trovarlo. Quando il campanello ha suonato, io mi stavo vestendo, e Agnes …»

«E allora, va’ a chiedere ad Agnes», ordinò Mary.

Trim continuava a mantenere un atteggiamento di magnanima pazienza, e disse: «Agnes non può saperne niente, signora, perché purtroppo per lei si era scottata una mano mentre cercava di cimare il lucignolo della nuova lampada che hanno portato dalla città, e allora è andata la sguattera a vedere chi era».

Mary diede un’altra occhiata all’orologio. «Ma sono le due passate! Va’ a chiedere alla sguattera se il signor Edward ha lasciato detto qualcosa». E, senza attendere altro, si diresse alla stanza da pranzo, dove ben presto Trim le portò la notizia che, stando alla sguattera, il signore venuto in visita era comparso verso le undici, e che il signor Edward era uscito con lui senza lasciar detto niente. La sguattera non sapeva neppure il nome del visitatore, avendolo questi scritto su un pezzo di carta che le aveva consegnato, dopo averlo ripiegato, con l’ordine di recapitarlo subito al signor Edward.

Mary finì di mangiare, ancora perplessa; e, terminato il pranzo, e quando Trim ebbe servito il caffè in salotto, la sua perplessità era ormai divenuta qualcosa di più, un lieve senso di inquietudine. Non era da suo marito assentarsi senza dir nulla a un’ora insolita, e l’impossibilità, per Mary, di scoprire chi fosse il visitatore, alle cui istanze Ned aveva evidentemente ceduto, rendeva tanto più inspiegabile la faccenda.

L’esperienza che Mary aveva come moglie di un ingegnere sempre indaffarato, convocato all’improvviso, costretto agli orari più impensati, l’aveva predisposta ad accettare filosoficamente qualsiasi sorpresa; ma, quando si era ritirato dagli affari, suo marito aveva fatta propria una regola di vita certosina. Quasi a compensare gli anni precedenti, di dispersione e agitazione, con i loro pranzi in piedi, le cene inghiottite in fretta nel traballio delle carrozze ristorante, egli ora coltivava fino alla esagerazione le raffinatezze della puntualità e della monotonia, scoraggiando il gusto della moglie per l’imprevisto, affermando che, per chi avesse gusti delicati, v’erano infinite gradazioni di piacere nel succedersi delle abitudini.

Mary uscì per parlare con il giardiniere. Poi andò alla posta del villaggio, fece un chilometro e mezzo circa di cammino; e quando riprese la via di casa, già il crepuscolo s’annunciava. Aveva imboccato un sentiero serpeggiante tra le doline e pensava che Ned nel frattempo era senz’altro tornato a casa e ne era così certa che quando rientrò, senza sostare a interrogare Trim, si avviò direttamente alla biblioteca.

Questa però era ancora deserta, e con involontaria precisione mnemonica Mary notò che le carte sulla scrivania si trovavano nell’identico ordine in cui stavano quando era entrata all’ora di pranzo. E allora, all’improvviso, fu colta da un vago timore, la paura dell’ignoto, una paura che sembrò acquistare forma e suono, e parve divenire qualcosa di respirante, acquattata tra le ombre: qualcosa di remoto vigilava e sapeva; Mary si avventò sul cordone del campanello e lo tirò con forza. Il brusco richiamo indusse Trim a precipitarsi in biblioteca con una lampada, e Mary tirò un sospiro di sollievo alla tranquillizzante riapparizione del consueto.

«Puoi servire il tè se il signor Edward è rientrato», disse, a giustificazione della scampanellata.

«Sissignora. Ma il signor Edward non è in casa», replicò Trim deponendo la lampada.

«Vuoi dire che è tornato e uscito nuovamente?»

«No, signora. Non è rientrato». La paura tornò, e Mary seppe che ormai la teneva stretta nelle sue spire.

«Non è rientrato da quando da quando è uscito con quel signore?»

«Proprio così, signora».

«Ma chi era quel signore?» insistette Mary.

«Non saprei dirlo, signora». E Trim, immobile accanto alla lampada, all’improvviso parve farsi meno rotondetta e rosea, quasi anche lei eclissata dalla stessa, strisciante ombra di apprensione. … «Ma deve ben avere un nome! Dov’è quel pezzo di carta?»

Andò alla scrivania, prese a frugare tra i documenti sparpagliati sopra; e il primo che attirò il suo sguardo fu una lettera rimasta a mezzo, vergata con la grafia di suo marito, con la penna che giaceva di traverso sul foglio, come se vi fosse stata lasciata cadere, in risposta a un improvviso appello. Caro Roger, diceva la lettera - ma chi era Roger? E fu inevitabile per Mary pensare a quel Roger Bacon il cui spirito ma era un pensiero fuori da ogni logica umana - ho testé ricevuto la tua lettera in cui mi dai notizia della morte di Elwell, e pur ritenendo che non ci sia più pericolo di ulteriori seccature, ritengo che sarebbe più sicuro…”. Lasciò cadere il foglio, continuò la ricerca; ma nessun biglietto ripiegato comparve tra le lettere e le pagine del manoscritto ammucchiate e accantonate come da un gesto dettato da fretta o da sorpresa.  «Ma la sguattera l’ha visto, no? Falla venire», ordinò.

Trim se la svignò di corsa, come se fosse grata di poter uscire da quella stanza, e quando riapparve, guidando una sua inferiore dall’aria sgomenta e sconvolta, Mary aveva già recuperato l’autocontrollo, e aveva già pronte le domande da fare.

La tempestò di domande fino al limite della sua resistenza senza cavane nulla di nuovo. «Dal momento che quel signore l’hai visto due volte, devi essere in grado di dirmi che aspetto aveva».

Ma questa conclusiva sfida alle capacità espressive della povera ragazza rivelò chiaramente che i suoi limiti di resistenza erano stati toccati. L’ordine di andare lei stessa all’uscio per accogliere un visitatore, costituiva di per sé una tale sovversione del prescrittivo ordine delle cose, da sconvolgerne disperatamente le facoltà, e tutto quello che riuscì a cavarsi di bocca, dopo vari sforzi affannosi, fu un balbettio: «Il suo cappello signora, era come dire? diverso, ecco».

«Diverso? Come sarebbe?» insorse Mary. E, in quel preciso istante, nella sua mente apparve un’immagine smarritasi sotto strati di successive impressioni.

«Vuoi dire che il suo cappello aveva la tesa larga e il volto era pallido un viso giovanile?» incalzò Mary, con un accanimento che le sbiancava le labbra. Ma, se mai la sguattera trovò risposta adeguata a quella sfida, essa andò perduta per l’ascoltatrice. Lo stranierolo straniero che aveva visto in giardino! Era lui l’uomo venuto a trovare suo marito e che con questi era uscito. Ma chi era, e perché Ned gli aveva obbedito?

 

   Vedremo come stanno le cose, se riusciremo a capire: ora volgiamo lo sguardo verso Oriente.

   L’espansione verso Oriente, che ha portato gli Arabi, dal VII secolo, alla conquista del vasto spazio dell’Impero persiano e di determinate aree di quello indiano, due grandi spazi rimasti ingovernati, ha fatto sì che la tradizione islamica sia venuta a contatto con le grandi culture presenti su questi territori favorendo significative contaminazioni intellettuali sul piano letterario, artistico e scientifico.

   Il personaggio che ha sempre rappresentato meglio la cultura islamica in Oriente, e in particolare in Persia, è Avicenna, un personaggio che molte volte abbiamo incontrato in questi anni ma sempre in contesti diversi, e sempre in Occidente, dove però lui personalmente non è mai stato, non si è mai mosso dall’Oriente. Bisogna dire che in Oriente la cultura islamica si è trovata ad essere più libera di sperimentare forme di contaminazione culturale, mentre in Occidente, dalla fine dell’XI secolo, il mondo islamico si troverà a dover subire il trauma del fenomeno deleterio delle crociate che, sebbene si presenti come un evento circoscritto, farà però cessare quasi del tutto la collaborazione creatasi, nell’interpretare le Opere di Platone e di Aristotele, tra gli intellettuali islamici e quelli cristiani.

   Dobbiamo incontrare Avicenna perché nel suo pensiero, già nell’XI secolo, troviamo i germi dell’Umanesimo e sembra un fatto un po’ paradossale che i temi principali dell’Umanesimo - che viene pensato come un movimento intellettuale prettamente occidentale [la parola stessa deriva dal termine latino humanitas] - siano rintracciabili in Oriente in ambiente islamico, ma è proprio attraverso le Opere di Avicenna che i germi dell’Umanesimo vengono trapiantati in Occidente a cominciare dal concetto di “esperienza”.

   Avicenna è il nome con cui è noto in Occidente il filosofo e medico musulmano di stirpe iranica Abū Ibn Sīnā, nato nel 980 in Persia presso Buchārā e morto ad Hamadhān intorno al 1037. Nascere e crescere a Buchārā costituisce un valore aggiunto: oggi questa città si trova in Uzbekistan ed è un museo a cielo aperto con circa centoquaranta significativi monumenti architettonici, inseriti dall’UNESCO nel Patrimonio dell’Umanità, proprio a testimonianza di un passato di grande magnificenza. Questa città è stata un florido emporio sulla via della seta [e, oltre alle merci, circolano le idee sulle grandi vie] e in essa si è sviluppata una straordinaria cultura enciclopedica, e l’enciclopedismo è un movimento che tende anche a raccogliere e a conservare i risultati delle “esperienze pratiche” e, come nel caso dell’enciclopedismo di Buchārā, a catalogare le “pratiche sperimentali di carattere scientifico e medico”.

   Avicenna fa tesoro del fatto di essere nato e di aver studiato a Buchārā [conosciamo un aneddoto famoso: sappiamo che da ragazzino Avicenna compra su una bancarella la Metafisica di Aristotele, la legge quaranta volte senza capire, poi inizia a frequentare la Scuola e, finalmente, ne comprende il senso e la struttura], e l’aver studiato a Buchārā fa di lui una delle più complesse figure della Storia del Pensiero Umano perché questo personaggio si sdoppia in vari modi: c’è un “Avicenna occidentale, medico, scienziato,  laico-razionalista di stampo neoplatonico e aristotelico” e c’è un “Avicenna orientale, mistico, contemplativo e profondamente devoto alla Fede islamica derivante dalla Letteratura del Corano”. Per l’Occidente, quindi, Avicenna è soprattutto un medico che ha scritto due libri molto importanti, due opere che hanno avuto un successo straordinario: il primo s’intitola Poema della medicina [Ùrguza fi at-tibb] e in esso Avicenna condensa il contenuto di una quarantina di trattati nei quali riporta le sue esperienze come medico [dalle esperienze pratiche trae i principi teorici] e quest’opera l’ha scritta, dall’inizio dell’anno Mille fino al 1020 circa, “in rima” [a posta s’intitola Poema]per dare la possibilità agli studenti di impararne più facilmente a memoria il testo. Quest’opera è stata tradotta in latino con il titolo di Canone della medicina ed è stata uno dei pilastri dell’insegnamento medico europeo fino al XVII secolo.

   La seconda opera che Avicenna ha portato a termine nel 1027, s’intitola Il libro della guarigione [Kitāb al-Šifā’] ed è un importante trattato d’impronta filosofica in diciotto volumi, dove l’autore espone in modo enciclopedico il sapere filosofico e scientifico del suo tempo: questo libro viene utilizzato in Occidente come libro di testo per tutto il Medioevo e, nonostante il titolo faccia pensare alla medicina con la presenza della parola-chiave “guarigione”, in realtà, in quest’opera il tema medico assume un tono metaforico che l’autore sintetizza in un’affermazione significativa: «La malattia, afferma Avicenna, è insita nell’esistenza umana delle persone  e, di conseguenza, le persone sono sempre in cura, sono sempre in cammino sulla via della guarigione e la via della guarigione s’identifica con un permanente percorso di studio: lo studio è la via della guarigione » [in arabo il verbo shafâ-guarire, e il verbo daras-studiare sono sinonimi come in latino lo sono le parole studium e cura]. Queste due Opere - il Canone della medicina e Il libro della guarigione - sono state scritte in Oriente e sono frutto della contaminazione tra la cultura islamica, il mondo persiano e la cultura neoplatonica e difatti sono scritte in arabo che, dopo l’anno Mille è una delle tre lingue - con il greco e il latino - della cultura internazionale.

   Il pensiero persiano è molto ricco: risente dell’influsso della predicazione attuata in Età assiale [2500 anni fa] da Zaratustra che propone l’idea di un cammino, da realizzare nella storia, che conduca verso il raggiungimento della pienezza umana: la persona - afferma Zaratustra - è responsabile della propria realizzazione umana; poi in territorio persiano si è diffusa l’eredità delle Opere di Platone, di Aristotele, di Plotino, di Porfirio, portate clandestinamente in Persia quando Giustiniano ha chiuso d’autorità l’Accademia di Atene nel 529, un tragico episodio che abbiamo ricordato poco fa e che, a suo tempo, abbiamo studiato in tutti i suoi particolari. È in questo contesto - in cui si fondono insieme diverse culture [quella araba-islamica, quella persiano-zoroastriana e quella neoplatonica] - che Avicenna produce le sue Opere, le quali, attraverso le vie aperte dall’espansione araba dall’Oceano Indiano a quello Atlantico, giungono in Occidente dove ottengono uno straordinario successo contribuendo a creare la cultura occidentale [influenzando tanto la Scolastica arabo-islamica quanto quella cristiano-latina] ed è così che le idee, contenute nelle opere di Avicenna, fanno da battistrada al movimento dell’Umanesimo. Se in Occidente il fenomeno dell’Umanesimo comincia a mettere radici sulla scia del concetto di “esperienza” enunciato da Ruggero Bacone, ebbene, nella formulazione di questa idea, a monte, c’è l’eredità della tradizione medica: di una disciplina in cui “l’esperienza” ha un ruolo fondamentale, e questa tradizione si è diffusa in tutta Europa soprattutto con le Opere “mediche” di Avicenna.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida dell’Uzbekistan che trovate in biblioteca e navigando in rete fate un’escursione a Buchārā, non rinunciate a fare questa esperienza perché nelle forme dei monumenti di questa città-museo si comprende “la solidità non spigolosa” del pensiero di Avicenna

Buon viaggio

 

   Ma dobbiamo ancora riflettere sulla presunta doppia personalità di Avicenna: che cosa significa “presunta”?

   Le Opere cosiddette “mediche” di Avicenna - il Canone della medicina e Il libro della guarigione - danno a questo filosofo “un carattere occidentale” in Occidente, ma siccome non si è mai mosso dall’Oriente, a lui si attribuisce “un carattere orientale” in Oriente e la sua figura è stata sdoppiata: c’è un “Avicenna occidentale [medico, scienziato, laico-razionalista di stampo neoplatonico e aristotelico]” e c’è un “Avicenna orientale [mistico, contemplativo e profondamente devoto alla Fede islamica derivante dalla Letteratura del Corano]” ma in realtà questa differenza non esiste perché il pensiero di Avicenna ha una sua precisa coerenza, e la differenziazione [la “crisis”] dipende da come, da dove e in quale contesto [tanto in Oriente quanto in Occidente] la sua Opera è stata interpretata e, quindi, se per definire “l’Avicenna occidentale” si citano le sue opere “mediche”, così per definire “l’Avicenna orientale” si cita come esempio il trattato intitolato Filosofia orientale [Al-Hikma al-ma’riqiyya] e su quest’opera dobbiamo aprire una riflessione perché in questo testo emerge l’importante tema tutt’oggi di grande attualità della “unità del sapere”.

   Nel trattato intitolato Filosofia orientale [Al-Hikma al-ma’riqiyya] Avicenna mette bene in evidenza come, utilizzando elementi provenienti da diverse culture, si possa produrre un nuovo pensiero dotato di originalità e questo pensiero [un tema di grande attualità], due secoli e mezzo dopo, lo troviamo alla base del programma della Scuola di Oxford che diventa il laboratorio dove, in Occidente, entrano in incubazione le idee dell’Umanesimo.

   Alla Scuola di Buchārā, Avicenna studia la Letteratura del Corano tanto per diventare una persona devota orientata al misticismo quanto per formarsi come scienziato e come medico e, a questo proposito, dobbiamo considerare il fatto che su 2639 versetti del Corano ben 570 parlano di “scienza” ed esortano a dedicarsi “all’esperienza scientifica” come pratica per realizzare i valori umanistici che il testo del Corano proclama [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia], e c’è un invito a propiziare “l’unità del sapere” secondo un’idea contenuta nell’affermazione: «La scienza senza religione è zoppa. La religione senza scienza è cieca», e Avicenna puntualizza che «Il Corano non è un libro di scienza ma è un libro di Segni [Ayat], e ci sono circa seimila Segni nel Corano di cui più di mille hanno a che fare con la scienza». E, a questo proposito, Avicenna ha un punto di riferimento che dobbiamo conoscere, una persona che rappresenta il prototipo dello scienziato islamico: uno dei maestri della Scuola di Buchārā che si chiama al Bīrūnī.

   Lo scienziato persiano al Bīrūnī  è vissuto [tra il 970 e il 1030, ed è quindi contemporaneo di Avicenna] soprattutto nella città di Ghazna - l’odierna Ghaznī in Afghanistan - e le sue opere di storia, di cronologia, di religione comparata, di matematica e in particolare di astronomia hanno avuto larga circolazione anche in Occidente. Al Bīrūnī è un etnologo e un antropologo ante litteram che, mettendosi al seguito del sultano Mahmud di Ghazna - che va alla conquista di una parte del territorio indiano - ha scritto un libro intitolato Sull’India che non ha avuto eguali nel Medioevo. In questo libro al Bīrūnī raccoglie il massimo di conoscenze possibili sull’India, che chiama “il nuovo mondo”, e compie molte osservazioni di scienze naturali creando così un modello di studio unitario su di un paese e su di una civiltà che viene osservata con grande simpatia per i colori, per il sincretismo religioso, per i Libri dei Veda. Al Bīrūnī poi fonde insieme nel suo racconto gli elementi della saggezza indiana con quelli della tradizione pitagorico-platonica e quelli della mistica dei sufi musulmani, creando un genere che esalta la piena armonia del Creato: è stato usato il termine “ecumenismo” per definire lo stile con cui è stato scritto questo libro.

   Di grande importanza, inoltre, sono i suoi trattati di astrologia, una disciplina nella quale al Bīrūnī, come Avicenna in medicina, resta un maestro fino al tempo del Rinascimento. E l’esperienza intellettuale di al Bīrūnī ha fatto scuola perché ha reso predominante “il modello di un sapere unitario” in cui la teologia, la filosofia e la scienza sono tra loro complementari e l’una arricchisce l’altra, e questa idea l’abbiamo ritrovata 250 anni dopo nel programma sperimentale di Ruggero Bacone e difatti al Bīrūnī è stato chiamato “il Ruggero Bacone della cultura islamica”.

   L’idea di un sapere unitario in cui la teologia, la filosofia e la scienza sono tra loro complementari è alla base della composizione dell’opera di Avicenna intitolata Filosofia orientale [Al-Hikma al-ma’riqiyya] nella quale si fondono insieme la teologia  coranica, con la tradizione degli Spiriti della religione persiana zoroastriana [o zaratustriana, per cui “tutta la realtà è animata da Spiriti”], con la filosofia platonica, con quella del Dionigi Areopagita e della Metafisica di Aristotele.

   Avicenna, che è uomo di fede e pone come base al suo ragionamento la Letteratura del Corano, afferma che Dio è l’Essere necessario e deve per forza esistere perché se il creato ha bisogno di un Creatore [Allah] è evidente che anche il Creatore, per sentirsi creatore, ha bisogno di un creato, altrimenti che creatore è? Di conseguenza Dio è l’Essere necessario e l’esistenza dipende da questa Necessità, quindi, la creazione è una necessità non è una possibilità [e questa affermazione - che in Occidente sarebbe stata condannata come eretica - dà alla teologia islamica un carattere neoplatonico per cui “l’Essere è necessario mentre l’Esistere è possibile”]. Dio, afferma Avicenna, è un Intelletto superiore che crea emanando Intelligenze o Spiriti [l’Oriente è la patria degli Spiriti] che hanno la funzione di inserire le forme nella materia.

   La tesi di Avicenna sulla creazione dell’Universo è fortemente influenzata dalla filosofia neoplatonica: si capisce che ha studiato i trattati del Dionigi Areopagita. Da Dio, per emanazione necessaria e non voluta, sostiene Avicenna, derivano le sfere celesti [le stelle, e i pianeti ciascuno con il proprio Cielo] e hanno origine gli Intelletti [o Intelligenze o Spiriti] che animano e reggono tali sfere [e il Cielo di ogni sfera celeste ha una sua Intelligenza, ha un suo Spirito]: infatti Dio pensa se stesso e genera il primo Intelletto, e il primo Intelletto, a sua volta, pensa se stesso e genera il secondo Intelletto, e così via fino a nove Intelletti che animano dieci Cieli, compreso quello di Dio. Poiché il processo di emanazione è necessario, tutto ciò che avviene è necessario [è Destino, el kadar], per cui, sostiene Avicenna, deve essere valida anche la predizione astrologica [e questa considerazione fa contento Ruggero Bacone], le cui incertezze si spiegano solo col fatto che l’Essere umano non conosce appieno i movimenti delle sfere e il funzionamento delle Intelligenze celesti. Avicenna nella sua opera fa l’inventario delle sfere celesti e dei Cieli ciascuno con la propria Intelligenza [o Spirito]: sopra tutto c’è l’Empireo, il Cielo di Dio, animato dall’Intelligenza teologica, dalla quale deriva il Cielo Cristallino, il primo Cielo, animato dall’Intelligenza morale, dalla quale deriva il Cielo Stellato, il secondo Cielo, animato dall’Intelligenza della natura, dalla quale deriva il Cielo di Saturno, il terzo Cielo, animato dall’Intelligenza astrologica, dalla quale deriva il Cielo di Giove, il quarto Cielo, animato dall’Intelligenza geometrica, dalla quale deriva il Cielo di Marte, il quinto Cielo, animato dall’Intelligenza musicale, dalla quale deriva il Cielo del Sole, il sesto Cielo, animato dall’Intelligenza aritmetica, dalla quale deriva il Cielo di Venere, il settimo Cielo, animato dall’Intelligenza poetica, dalla quale deriva il Cielo di Mercurio, l’ottavo Cielo, animato dall’Intelligenza razionale, dalla quale deriva il Cielo della Luna, il nono Cielo, animato dall’Intelligenza grammaticale [noi il Cielo della Luna lo abbiamo chiamato, a suo tempo, anche il Cielo dell’Alfabetizzazione, quello più a diretto contatto con gli Esseri umani]. Ecco la straordinaria visione dell’Universo così come la descrive - sulla scia del Dionigi Areopagita - Avicenna, e allora lavoriamoci sopra.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Mettete in ordine il catalogo delle dieci Intelligenze - grammaticale, razionale, poetica, aritmetica, musicale, geometrica, astrologica, naturale, morale, teologica – dalla più importante alla meno importante, secondo il vostro modo di pensare e così potrete dare un’immagine all’Universo come lo vedete voi: dedicatevi all’esercizio della Creazione

 

   Di sicuro la descrizione di questo sistema vi avrà fatto venire in mente qualcosa! Come ben sapete, questa è la struttura del Paradiso di Dante e, quindi, nell’Avicenna orientale ci sono già i germi dell’Umanesimo occidentale nella sua pienezza. E, come ben sapete, nel Limbo della Divina Commedia non poteva naturalmente mancare la figura di Avicenna, cara a tutti gli Umanisti. Leggiamo questi versi.

 

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Inferno  IV  130-146

Poi che innalzai un poco più le ciglia,

vidi il maestro di color che sanno [Aristotele]

seder tra filosofica famiglia.

 

Tutti lo miran, tutti onor gli fanno:

quivi vid’io Socrate e Platone,

che ‘nnanzi agli altri più presso gli stanno;

 

Democrito, che il mondo a caso pone,

Dìogenes, Anassagora e Tale,

Empedoclès, Eraclito e Zenone;

 

e vidi il buon accoglitor del quale,

Dioscoride [medico di Cilicia] dico; e vidi Orfeo,

Tullio e Lino e Seneca mortale,

 

Euclide geomètra e Tolomeo,

Ippocrate, Avicenna e Galieno,

Averroè, che il gran commento feo.

 

   Quest’ultimo verso ci permette di annunciare che la prossima settimana sarà Averroè uno dei protagonisti del prossimo itinerario: Averroè, alla fine del XII secolo, viene scomunicato e considerato addirittura estraneo alla cultura islamica ma il pensiero di Averroè non solo non si esaurisce ma si diffonde, e il suo sviluppo avviene in terra europea nell’ambito della Scolastica latino-cristiana, durante l’autunno del Medioevo.

   A Parigi, presso la Facoltà delle Arti, nel XIII secolo nasce e si sviluppa un movimento [non si tratta di una vera e propria corrente] che prende il nome di “averroismo latino” ma non saremo ancora a Parigi, in Vico de li Strami, la prossima settimana perché dobbiamo conoscere ancor meglio come si articola, tra Oriente e Occidente, “il concetto dell’unità del sapere”, e per capire questo concetto dobbiamo seguire la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale con lo spirito utopico che lo studio porta con sé.

   L’appuntamento è tra otto giorni a Cordova [e siccome la Scuola allarga la vita sarà il 14 dicembre 1198] il giorno del controverso funerale di Averroè, in cui vengono anche bruciati i suoi Libri: perché, a cosa è valso? Chi brucia i Libri e uccide vittime innocenti ha sempre torto e non l’avrà vinta!

   La Scuola è qui, il viaggio continua perché “il pensiero ha le ali, scrive Averroè, e nessuno potrà fermare il suo volo” verso i valori universali dell’Umanesimo, quei valori che tutte le donne e gli uomini di buona volontà devono perseguire: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 20, 2015