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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA SI SVILUPPA LA LINEA DOTTRINARIA DEL CONCILIO DI NICEA E IL PENSIERO DELLA FILOSOFIA NEOPLATONICA ...

Lezione N.: 
26

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica 22-23-24  maggio  2013

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

SI SVILUPPA LA LINEA DOTTRINARIA DEL CONCILIO DI NICEA

E IL PENSIERO DELLA FILOSOFIA NEOPLATONICA ...

     E così, un passo dopo l’altro, siamo arrivate ed arrivati anche al penultimo itinerario di questo viaggio sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”.

     L’imperatore Costantino, nel 312, prende il potere in Occidente, prima sconfigge Massenzio [a Roma] e, nell’anno successivo [nel 313], a Milano promulga l’Editto di tolleranza in cui dichiara che il monarca è cristiano, poi liquida sul Bosforo Licinio, l’Augusto d’Oriente, riunificando lo Stato e abolendo la Tetrarchia e, dopo aver spostato la capitale da Roma a Bisanzio [che prenderà il nome di Costantinopoli], pretende che il Cristianesimo diventi una vera e propria religione e che faccia da supporto alle istituzioni statali e, per questo, vuole che la dottrina della Chiesa di Roma sia ben definita: per raggiungere questo obiettivo, nel 325 ordina la convocazione del Concilio ecumenico a Nicea per redigere il documento [il simbolo] che regoli l’ortodossia cristiana e che fissi il “canone” della Sacra Scrittura evangelica. Che cosa succede al Concilio di Nicea e, soprattutto, quali sono le conseguenze di questo importante avvenimento?

     Il Concilio di Nicea è uno dei più importanti avvenimenti della Storia universale, non solo dell’Età tardo-antica, perché a Nicea l’assemblea dei Vescovi stabilisce la “linea dottrinaria [l’ortodossia]” della Chiesa Cattolica [in greco “katholikos katholikòs” significa “universale”] e decreta il primato del Vescovo della Chiesa di Roma su tutte le altre Chiese. In che cosa consiste la “linea dottrinaria” del Concilio di Nicea?

     Il Concilio di Nicea, fondamentalmente, deve [sciogliere un nodo intricato] stabilire la “natura” di Gesù Cristo: in quale modo Gesù Cristo è “figlio di Dio”, portando a compimento un procedimento che – tra storia, leggenda, mito e tradizione – era iniziato negli anni 90, a Roma, con la Scuola ellenistica clementina [e noi, in questo viaggio, abbiamo seguito questo itinerario e studiato i temi emergenti]. Naturalmente in questi secoli [il II, il III, il IV] si sono sviluppate più linee interpretative sul tema della “natura” di Gesù Cristo, e questo fatto non è stato indolore perché ha prodotto scontri cruenti, perché ha generato più di una guerra tra le varie anime del Cristianesimo funestandone la storia.

     Nel 325 l’imperatore Costantino impone ai Vescovi di tutte le Chiese sparse sul territorio dello Stato romano – se ne contano più di trecento di una certa importanza – di riunirsi in un Concilio per porre fine ai violenti scontri ideologici che stanno investendo la Cristianità e che sono un elemento di turbamento in tutto l’Impero: Costantino con l’Editto di Milano dichiara che il Cristianesimo è la “religione preferita dall’imperatore” e fa questa affermazione per dare una [ulteriore] forma di santificazione alla sua autorità e, quindi, vuole che il Cristianesimo trovi un’unità dottrinale intorno al Vescovo della Chiesa di Roma. A Roma non abita più l’imperatore e, di conseguenza, è più che mai necessario attribuire un titolo di sacralità, un primato religioso, a quella che, per la sua potenza [anche se decaduta], dovrà continuare a chiamarsi l’Urbe, la Città eterna. Intanto [come sappiamo] Costantino si è fatto ristrutturare la bella, tranquilla e ospitale città di Bisanzio che prenderà [dal 330] il nome di Costantinopoli ma vuole, comunque, lasciare a Roma un’autorità a lui fedele, con cui è [o dovrebbe essere] in sintonia, un’autorità sulla quale possa anche scaricare tutte le gatte da pelare che si agitano nella parte occidentale dell’Impero che è, ormai, allo sfascio. Che cosa succede di rilevante al Concilio di Nicea?

     Il primo Concilio di Nicea [a Nicea si terrà anche un secondo Concilio nel 787, il settimo Concilio Ecumenico, per porre fine alla lotta iconoclasta, contro le immagini sacre] si svolge dal 20 maggio fino [probabilmente] al 19 giugno del 325 [1688 anni fa] e vi partecipano circa trecento Vescovi sotto la presidenza onoraria dell’imperatore Costantino che fa le veci del vecchio papa Silvestro I [papa dal 314 al 335] il quale, per motivi di salute, è assente e ha delegato a presiedere i lavori i suoi più fedeli collaboratori: Osio, vescovo di Cordova, e i suoi due segretari, i presbiteri Vito e Vincenzo. A Nicea i Vescovi quando s’incontrano [Costantino ce li porta volenti o nolenti] si guardano in cagnesco e sono divisi in gruppi che rappresentano diverse correnti di pensiero e, da subito, lo scontro divampa insanabile proprio sul tema della “natura di Gesù” e, quindi, sulla “forma del Dio cristiano”, una forma che è andata configurandosi con la complicità del Neoplatonismo di Origene per cui si parla di un “Dio unico in tre Persone”: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Questa formula, negli ultimi settant’anni [dalla morte di Origene al Concilio di Nicea], è andata stabilizzandosi ma il problema è tutt’altro che risolto perché le variazioni sul tema sono numerose: innanzitutto era necessario chiarire come fosse possibile salvare, insieme all’unità della sostanza divina, l’individualità di ciascuna persona [il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo], e bisognava precisare se il termine “persona”, nella Trinità, doveva corrispondere alla parola “prosopon prosopon” che in greco non designa una persona propriamente detta ma il personaggio del teatro, la maschera che esprime un ruolo, oppure se il termine “persona” doveva coincidere con il concetto legato alla parola “hypostasis” che in greco indica un’idea che si materializza in una concreta entità unica e differenziata.

     Uno dei gruppi più battaglieri a Nicea è quello dei Vescovi “adozionisti” – e voi conoscete questo termine e sapete che il pensiero “adozionista” [che ha le sue radici nell’Epistolario di Paolo di Tarso e nel testo del Vangelo secondo Marco] considera Gesù Cristo un rabbi [un vero uomo] adottato da Dio nel momento del Battesimo di Giovanni – e i Vescovi “adozionisti”, che rappresentano un pensiero fortemente radicato nelle comunità del IV secolo, al Concilio danno battaglia ma non riescono a spuntarla, vengono sconfitti anche perché l’Imperatore parteggia per la “tesi conciliativa, compromissoria e accomodante” fondata sulla sintesi tra la natura umana [di matrice ebraica] e la natura divina [di stampo greco] di Gesù Cristo [definito come vero Dio e vero Uomo]: questa tesi, frutto [come sappiamo] di un audace processo di integrazione culturale [durato più di due secoli], è andata formandosi nella Chiesa di Roma dagli anni 90 [con la Scuola ellenistica clementina].

     A loro volta i Vescovi “adozionisti” sono divisi tra loro perché il “concetto adozionista” viene interpretato in modi diversi [questa divisione da una parte crea vivacità culturale ma dall’altra porta debolezza alla corrente “adozionista”]. Nella corrente “adozionista”, a Nicea, emerge una posizione che condiziona fortemente la storia del Cristianesimo e il suo rapporto con il potere imperiale: il sostenitore di questa posizione si chiama Ario [256-336], è il vescovo di Alessandria, e ha rielaborato la dottrina trinitaria di Origene [che abbiamo studiato la scorsa settimana] creando un pensiero e una tradizione, l’Arianesimo, di lunga durata. Secondo Ario – che al Concilio di Nicea difende con impeto le sue tesi sostenuto da ventidue Vescovi – Gesù Cristo è la “prima creatura di Dio Padre” ed è quindi un “dio minore” rispetto al Padre, un “dio di seconda categoria”[come sostiene Origene rifacendosi anche al versetto 28 del capitolo 14 del Vangelo secondo Giovanni dove Gesù dice: «Il Padre è più grande di me»]: il Padre è il Dio potente [più grande] che adotta un Dio-figlio più fragile. Secondo Ario il “Padre” è Dio a pieno titolo mentre il “Figlio” è la prima delle sue creature, e può essere equiparata ad un “angelo”, al “primo angelo” e quindi [secondo Ario] il Figlio non può essere della “stessa sostanza del Padre [omoousios omoousios]” come sosteneva [settant’anni prima] Origene ma può semplicemente assomigliare al Padre cioè essere “omoiousios” [dal termine “omoios” che significa “simile”]. La tesi di Ario, quindi, non corrisponde a quella di Origene: per Ario Gesù è “omoiousios” [rassomigliante al Padre] e non “omoousios” [della stessa sostanza del padre] ma Origene al Concilio di Nicea viene ingiustamente condannato insieme all’Arianesimo anche se la sua formula, che definisce Gesù “della stessa sostanza del padre ”[omoousios], diventa un punto essenziale del Simbolo [del Credo] niceno: la differenza di una sola “i ” [un solo iota] determina una barriera metafisica insuperabile perché fa cambiare sostanzialmente il significato della dottrina, infatti, una cosa è dire che “Gesù è somigliante al Padre [” omoiousios] come una maschera teatrale [prosopon], ben altra cosa è affermare che “Gesù è della stessa sostanza del Padre ” [omoousios] come un’idea che si materializza in una concreta entità [hypostasis].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La parola “persona” in greco corrisponde anche al concetto legato al termine “hypostasis”, un termine che indica l’idea quando si materializza in una concreta entità...  

Quale oggetto, del quale avevate un’idea in mente, si è materializzato e ve ne siete potute e potuti  appropriare?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

     Ario viene sconfessato anche dai Vescovi “adozionisti” più intransigenti secondo i quali “Gesù è un uomo [non un angelo], è un rabbi ebraico adottato da Dio” secondo la linea del testo del Vangelo secondo Marco e secondo i testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso. I legati pontifici – Osio, vescovo di Cordova e i due presbiteri romani Vito e Vincenzo – respingono tanto la tesi “adozionista” quando la “dottrina” di Ario. L’imperatore Costantino – che vuole sedare le controversie – auspica e invita energicamente i Vescovi a trovare un compromesso su tutti i temi di scontro e a Nicea – dopo lunghe e violente discussioni – i Padri conciliari vengono obbligati dall’imperatore [il quale presiede con la spada in mano] a siglare uno storico compromesso con il quale si definisca la “natura” di Gesù Cristo in modo che le varie componenti si possano riconoscere nelle definizioni conciliari.

     Costantino al Concilio di Nicea affida a Osio, vescovo di Cordova e ai presbiteri Vito e Vincenzo [i rappresentanti della Chiesa di Roma, di papa Silvestro] la stesura di un documento e questo documento noi lo conosciamo tutti a memoria: è intitolato “Simbolo niceno”, ed è meglio conosciuto con il nome liturgico di “Credo”. Il testo del “Simbolo niceno [il Credo]” contiene un significativo “compromesso” che dovrebbe soddisfare le esigenze delle varie correnti in conflitto: Gesù Cristo viene definito contemporaneamente “vero Dio” e “vero Uomo”: Gesù Cristo ha, quindi, una natura completamente umana – e questo dovrebbe raccogliere l’istanza “adozionista” –  ma la “sostanza” di questa natura umana è completamente divina secondo il pensiero di Origene. Gesù Cristo, quindi, è un uomo “nato da una donna” ma generato con la “stessa sostanza divina” di Dio-Padre. Tutte e tutti noi conosciamo a memoria questa frase del “Credo” e sappiamo anche che il concetto di “sostanza” [in greco “ousia ousìa”], è la “prima categoria” di Aristotele: Aristotele usa le “categorie” – che sono dieci idee generali – per descrivere tutta la realtà, per descrivere come è fatto il mondo. A Nicea, dopo il pensiero di Platone [Gesù è un’idea di Dio] che era già entrato in gioco nei secoli precedenti con il pensiero “adozionista”, anche le Categorie di Aristotele entrano nella tradizione [Gesù è della stessa sostanza del Padre] del Cristianesimo.

     L’assemblea del Concilio vota il 12 giugno del 325 sulle varie tesi presentate e il “Simbolo niceno” viene approvato a grande maggioranza [lo votano anche molti Vescovi “adozionisti”] e noi pensiamo che, a questo punto, possa finalmente fiorire la pace e invece scoppia [ancora più cruenta di prima] la guerra perché Ario e i ventidue Vescovi che sostengono la sua tesi non ci stanno ad accogliere il compromesso del “Simbolo niceno” perché lo ritengono una forzatura anacronistica e, di conseguenza, su di loro si abbatte l’anatema dell’Imperatore che inizia a perseguitarli e, naturalmente, loro si difendono perché nella base hanno un buon seguito e inizia, e si diffonde, un violento conflitto religioso che dura a lungo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Naturalmente dobbiamo fare una visita alla città di Nicea che oggi si chiama Ìznik e si trova in Turchia nella regione delle Terre del Mare di Marmara, sulle rive di un bel lago che nell’antichità si chiamava Lago Ascanio   È interessante visitare i resti della polis ellenistica di Nikeia, in particolare la chiesa di Santa Sofia dove si sono tenute le sedute del secondo Concilio Ecumenico nel 787 Anche la città ellenistica di Nicea è stata fondata, su un sito già preesistente, durante le guerre di successione dopo la morte di Alessandro Magno e, a questo proposito: sapete perché si chiama Nikaea?…    Andate a fare una piccola ricerca in proposito utilizzando l’enciclopedia, la guida della Turchia, navigando in rete    Buon viaggio…

     Il primo Concilio di Nicea [nel 325] determina un nuovo modo di osservare la realtà, e la realtà, d’ora in avanti, viene guardata con un’ottica diversa e più complessa di prima perché si è determinata [nel IV secolo, dopo circa trecento anni di drammatico dibattito] una situazione che ha in sé qualcosa di paradossale: c’è stata una definitiva ellenizzazione del Cristianesimo – e la dottrina della Chiesa si regge sulla filosofia greca [sul Neoplatonismo e sulle Categorie di Aristotele] –; contemporaneamente, però, è avvenuta anche una trasformazione radicale della filosofia greca che è destinata ad essere soggiogata, nei suoi punti nodali, dalla nuova fede religiosa. Ebbene, questo grande tema [il tema del rapporto “paradossale” tra la dottrina cristiana e la filosofia greca] costituisce [se vogliamo usare una metafora] la spina dorsale del pensiero medioevale, quindi, è argomento dei futuri viaggi che faremo.

     Ma ora – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – estraiamo dalla riflessione che abbiamo fatto il termine “ottica” che ci serve per puntare l’attenzione sul testo del racconto che stiamo leggendo dalla scorsa settimana, un racconto che s’intitola Un paio d’occhiali e che è contenuto nella raccolta Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese [che abbiamo incontrato otto giorni fa]. Nel racconto Un paio d’occhiali si narra che a Napoli vive una bambina che si chiama Eugenia la quale vede il mondo che la circonda appena appena perché è “mezza cecata”, tuttavia lo interpreta. La zia Nunziata – zitella che vive in casa con lei – le regala un paio di occhiali assai costosi per delle persone che vivono nei bassi di un quartiere molto povero durante il secondo dopoguerra: converrà alla piccola Eugenia mettere ben a fuoco la realtà con i nuovi occhiali che sta per indossare oppure sarà meglio per lei trasfigurare il mondo con l’occhio ingenuo e speranzoso della sua anima? Gli occhiali danno una visione oggettiva della realtà ma se la realtà messa a fuoco è brutta gli occhiali diventano uno strumento insopportabile proprio, paradossalmente, per la loro meravigliosa utilità. La zia Nunzia ha mandato Eugenia dal droghiere a comprare due caramelle ed Eugenia, strada facendo, senza neppure rendersene conto, cade in tentazione. Intanto – nell’ambiente in cui Eugenia vive – tutti sanno che sta per mettersi gli occhiali e tutti si sentono in dovere di dire la loro in modo non troppo benevolo.

LEGERE MULTUM….

Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli

Un paio di occhiali

Camminando più adagio di quando era venuta, Eugenia cominciò a sfogliare, senza rendersene ben conto, una delle due caramelle, e poi se la infilò in bocca. Sapeva di limone. «Dico a zi’ Nunzia che l’ho perduta per la strada» propose dentro di sé. Era contenta, non le importava se la zia, così buona, si sarebbe arrabbiata. Si sentì prendere una mano, e riconobbe Luigino.  «Sei proprio cecata!» disse ridendo il ragazzo. «E gli occhiali?». … «Mammà è andata a prenderli a via Roma».

... continua la lettura ...

     La corrente filosofica neoplatonica è, dal III secolo, quella che contribuisce maggiormente alla costruzione della dottrina del Cristianesimo ma, naturalmente, la parabola del pensiero neoplatonico continua [e continuerà] ad avere il proprio sviluppo indipendente attraverso personaggi i quali vogliono sviluppare le loro opere  in assoluta autonomia intellettuale. Chi sono questi personaggi e che cosa hanno prodotto?

     Sappiamo che dopo la morte di Ammonio [nel 244], e lo scioglimento della sua Scuola, gli studenti che l’hanno frequentata cominciano a percorrere la loro strada in modo indipendente facendo tesoro dell’insegnamento che hanno ricevuto. Tra questi non solo Plotino ed Origene hanno lasciato una traccia nella Storia del Pensiero Umano ma dobbiamo ricordare anche Cassio Longino [anche lui ha il suo posto nell’affresco della Scuola di Atene, accanto a Plotino, ad Ammonio e ad Origene].

     Cassio Longino ha fatto una brillante carriera da filologo e da retore e di lui ci rimangono molti frammenti di un Trattato di Retorica. Longino, per la sua erudizione, è stato soprannominato “biblioteca vivente” e “museo ambulante”. A lui è stato erroneamente attribuito il famoso trattato intitolato Del Sublime, di cui non si conosce il nome dell’autore, perché in quest’opera ci sono delle idee che Cassio Longino ha elaborato. Del Sublime è una delle più importanti opere di critica estetica dell’antichità in cui si afferma che l’opera d’arte non è solo frutto dell’imitazione ma è soprattutto il prodotto della fantasia e del sentimento: quest’opera [e ne abbiamo già parlato a suo tempo] anticipa i temi del Romanticismo.

     Ma Cassio Longino entra nel vortice della storia quando viene chiamato, come consigliere e come ministro, da Zenobia la regina di Palmira: la straordinaria città della Siria che è stata recentemente portata alla luce in tutto il suo splendore. Longino diventa il primo ministro di Palmira e sostiene con grande determinazione la resistenza della regina Zenobia contro i Romani che stanno occupando militarmente questa zona del mondo. Palmira resiste con tutte le sue forze contro l’imperialismo romano, ma alla fine deve arrendersi e Zenobia e Longino, resistenti in nome dell’indipendenza dei popoli, vengono sconfitti dall’imperatore Aureliano, vengono imprigionati e messi a morte nel 273.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate un visita a Palmira utilizzando una guida della Siria e la rete, buon viaggio

     Gli eredi più fedeli di Plotino e i continuatori più importanti del pensiero neoplatonico in Età tardo-antica sono Porfirio di Tiro e Giamblico di Calcide.

     Porfirio di Tiro [232-304] è il più fedele discepolo di Plotino, ha svolto buona parte della sua attività a Roma e sappiamo che ha messo in ordine e pubblicato i 54 trattati che Plotino ha redatto [tra il 253 e il 269]: Porfirio li ha distribuiti in sei gruppi di nove libri ciascuno a cui ha dato il nome di Enneadi [un’enneade è un insieme di nove elementi], e le Enneadi è una delle opere più significative della Storia del Pensiero Umano anche per la sua versatilità. Per capire questa affermazione dobbiamo aprire una parentesi per ricordare che la traduzione [nelle moderne lingue europee] delle parole-chiave contenute nel testo delle Enneadi dà adito a versioni molto diverse per cui quest’opera può assumere connotati assai differenti: il tema dominante delle Enneadi di Plotino è quella della “mistica” con la proposta di dare un senso alla propria vita attraverso la spiritualità, l’azione contemplativa e la ricerca metafisica, ma l’esercizio mistico può essere interpretato in senso laico [questo è il pensiero di Plotino che rivendica la laicità della mistica] o in senso religioso e queste due diverse possibilità procurano al pensiero neoplatonico valenze assai ampie.

     La questione della traduzione [e dell’interpretazione] delle Enneadi di Plotino è un tema esegetico di vaste proporzioni [che incontreremo strada facendo nel corso dei viaggi futuri] e ora ci limitiamo a ricordare che in lingua italiana ci sono due famose traduzioni: quella di Vincenzo Cilento [del 1947] e quella di Giuseppe Faggin [del 1948]. Queste due traduzioni sono molto diverse l’una dall’altra, in certi punti persino opposte e la differenza che colpisce di più consiste nel fatto che Faggin traduce in modo asciutto ed essenziale mirando al concetto, mentre Cilento traduce con dovizia di termini raddoppiando le righe dell’originale e privilegiando il carattere lirico del testo. È doveroso ricordare, seppur brevemente, questi due studiosi che, con dedizione, si sono cimentati nella traduzione delle Enneadi.

     Vincenzo Cilento è nato a Stigliano in provincia di Matera nel 1903, ha studiato a Firenze “Alla Querce” dove è diventato frate barnabita, e nel 1930 è stato trasferito    all’istituto “Bianchi” dei barnabiti di Napoli dove ha insegnato discipline classiche e filosofiche diventando uno dei maggiori esperti delle Enneadi di Plotino e della cultura tardo-antica. Cilento è morto a Napoli nel 1980.

     Giuseppe Faggin è nato a Isola Vicentina nel 1906, si è laureato a Padova in legge ma ha sempre insegnato filosofia nei licei [a Bassano del Grappa, a Campobasso, a Vicenza]; i suoi studi lo hanno portato a diventare uno dei massimi esperti di storia della mistica e dell’occultistica tardo-antica, medioevale e moderna. Faggin è morto a Vicenza nel 1995.

     I testi di queste due traduzioni italiane delle Enneadi si completano a vicenda: quello di Faggin aiuta meglio a capire i concetti e la trama teoretica del pensiero plotiniano mentre quello di Cilento è più incisivo dal punto di vista poetico [le studiose e gli studiosi utilizzano entrambi i testi], e poi dobbiamo dire che c’è qualcosa di paradossale [come in tutte le migliori tradizioni culturali della Storia del Pensiero] nella differenza tra queste due traduzioni delle Enneadi [il paradosso è un elemento tipico della filosofia neoplatonica di cui Cilento e Faggin sono grandi studiosi]. Per capire in che cosa consiste il paradosso è necessario fare un esempio utilizzando il termine “Nous [l’Intelletto emanato dall’Uno]”: Cilento, che ha intenzione di dare un senso laico alla mistica di Plotino, quando traduce il termine “Nous” utilizza la parola “Spirito” che fa pensare a un concetto religioso, mentre Faggin, che ha intenzione di dare un senso religioso alla mistica di Plotino, quando traduce il termine “Nous” utilizza la parola “Intelligenza” che fa pensare a un concetto laico: questo bel paradosso ha fatto riflettere le studiose e gli studiosi sul fatto che, oggi, è controproducente formalizzarsi sul dualismo tra la lettura laica e la lettura religiosa delle Enneadi, anche perché risulta evidente che, secondo Plotino, l’Uno non ha una natura divina ma si configura come “la potenza intellettuale di tutte le cose [c’è un afflato laico in questa affermazione]” e quindi il Nous [l’Intelletto universale] è “tutte le cose a livello spirituale [e quindi c’è anche un afflato mistico-religioso in questa affermazione]” e, di conseguenza, il Nous [l’Intelletto emanato dall’Uno] è un oggetto che risulta essere frutto di una “laicità mistica” soprattutto perché rappresenta l’unione dell’Essere con il Pensiero ed evidenzia la sintesi tra il Mondo delle Idee di Platone e l’Intelletto universale di Aristotele, e l’integrazione tra questi due elementi [tra questi due progetti intellettuali laici dai quali scaturisce la metafisica] produce buoni frutti sul piano della Storia del Pensiero Umano. Strada facendo [già nel prossimo viaggio - che partirà ad ottobre - sul vasto territorio medioevale] ne coglieremo un certo numero. Entrambe le traduzioni delle Enneadi di Vincenzo Cilento e di Giuseppe Faggin esaltano il pensiero di Plotino secondo cui la mistica, la spiritualità, l’azione contemplativa, la ricerca metafisica sono, in prima istanza, esercizi ad uso del pensiero laico [componenti della riflessione intellettuale sul senso da dare all’esistenza umana] prima ancora che del pensiero religioso [come ingredienti della professione di fede].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per conoscere meglio Vincenzo Cilento e Giuseppe Faggin potete utilizzare la rete e troverete molte altre interessanti informazioni su di loro, mettetevi in ricerca

     Entrambe le traduzioni di Cilento e di Faggin hanno anche messo ben in evidenza che la presenza delle Enneadi di Plotino sul territorio dell’Età tarda antica [dal III secolo] non rappresenta soltanto la testimonianza della vitalità e della continuità del pensiero platonico e aristotelico, ma evidenzia soprattutto l’espressione di un grande equilibrio spirituale in un’epoca di disorientamento, di angoscia, di vita grama.

       Ma ora torniamo a Porfirio di Tiro che è un artefice dell’incontro tra pensiero platonico e pensiero aristotelico, naturalmente, in versione neoplatonica.

     In Età tardo-antica, insieme ai Dialoghi di Platone, anche le opere di Aristotele – la Fisica, la Metafisica, l’Etica, l’Estetica – attirano l’attenzione dei neoplatonici e Porfirio s’impegna a dare una forma platonica [neoplatonica] al pensiero aristotelico: a questo proposito, ha scritto un’opera che ha avuto uno straordinario successo nelle Università europee durante tutto il Medioevo dove si è svolto un dibattito serrato sul tema della “cristianizzazione” del pensiero di Platone e di Aristotele e sul tema dell’integrazione tra filosofia platonica e filosofia aristotelica [questi argomenti saranno motivo di studio nei nostri prossimi viaggi], e quest’opera di Porfirio s’intitola Isagoge. L’Isagoge di Porfirio [in greco “isagoge” significa “introduzione”] è un breve trattato che commenta un’opera di Aristotele intitolata Le categorie.

     Porfirio – per dimostrare che Aristotele ha fatto tesoro del pensiero platonico – si fa interprete della “logica” di Aristotele facilitandone la diffusione e nell’Isagoge spiega come Aristotele descrive la realtà. La realtà [secondo Aristotele] è “unione” [in greco il termine “unione” corrisponde alla parola “sýnolon” che è composta da “sýn” che significa “insieme” e “hòlos” che significa “tutto” e per questo è facile trovare scritto che per Aristotele la realtà è “sìnolo di materia e di forma”] di un elemento universale [la forma, in greco “morfé” oppure “ìdea”] che è il principio vitale ed intelligibile, e di un elemento particolare [la materia, in greco “ule”] che è la passività ed è l’elemento indecifrabile e, quindi, ogni singola sostanza [che sia una persona, un animale, una pianta o un oggetto] si manifesta come l’insieme di due componenti: la “forma” [la componente universale], e la “materia” [la componente particolare]. La “materia” è il sostrato non ancora formato ma pronto ad assumere una determinata forma, e questa attitudine Aristotele la chiama “potenza” [in greco “dìnamis”]. La “forma” poi, essendo l’attuazione di questa possibilità [di questa attitudine] che ha la materia, viene chiamata da Aristotele “atto” [in greco “praxis”]. In questo modo [afferma Aristotele] una sostanza, in quanto composta di “forma” e di “materia”, è contemporaneamente atto [praxis] e potenza [dìnamis]: il fiore è “atto” rispetto al seme [è l’attuazione della forma che è in potenza nel seme] ed è “potenza” rispetto al frutto [perché ha in sé la possibilità di produrre il frutto che è atto rispetto al fiore]. Ogni sostanza individuale [una persona, un animale, una pianta, un oggetto] è potenza e atto, è “atto” rispetto all’elemento che la segue nella gerarchia degli esseri, ed è “potenza” rispetto all’elemento che la precede: si forma così una “trafila di esseri” ciascuno dei quali [afferma Aristotele] è contemporaneamente potenza ed atto. Questa “trafila” però [scrive Aristotele] non può procedere all’infinito: deve avere un fondamento. La “trafila degli esseri” è come una “catena” costituita da anelli e quindi, perché abbia un fondamento, è necessario che ci sia un primo anello e un ultimo anello: il primo anello [afferma Aristotele] è un Atto puro, cioè un atto senza potenza [perché altrimenti si verrebbe ad ammettere un nuovo e superiore anello nella catena]  e questo primo Atto puro Aristotele lo chiama “Motore immobile”, e lo definisce “Pensiero di Pensiero” perché non può che contemplare solo se stesso, mentre l’ultimo anello della catena sarà una “pura potenza”, cioè una materia priva di ogni forma, ma [afferma Aristotele] intorno a noi non c’è alcuna materia priva di forma e, difatti noi possiamo solo pensare alla “materia prima [non contrassegnata da alcuna forma]” e, di conseguenza, [afferma Aristotele] la “materia prima” può solo essere concepita come un’astrazione attraverso quello strumento per eccellenza che è il Pensiero [ò Logos] e resa comprensibile con le parole [òi logòi]. Questo ragionamento permette ad Aristotele di affermare che tutta la realtà è un “sistema logico” governato dal Logos [il Pensiero] e descritto con i logòi [le parole] e Aristotele chiama “logica” la disciplina con la quale si conosce il Mondo perché le cose materiali [la pluralità degli oggetti che formano il Mondo] posseggono una “forma ideale” che l’Intelletto [Nous] è capace di cogliere mediante un processo di astrazione che rende visibile [“ideîn”, in greco] con le parole l’essenza di una cosa: questa essenza intelligibile si chiama “concetto”, quindi [scrive Aristotele], per conoscere [e per avvalorare] la realtà dobbiamo saper cogliere i “concetti ”[eìdos], saper decodificare le “forme ideali” delle cose.

     Porfirio trae spunto da questo ragionamento aristotelico per affermare che, se la materia risulta realmente esistente per il fatto che è racchiusa in un’idea, ciò significa che Aristotele, per descrivere e per conoscere come è fatto il Mondo, non ha potuto fare a meno di utilizzare il pensiero di Platone [il dialogo platonico intitolato Timeo].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – sensato, coerente, giusto, chiaro, naturale, comprensibile – mettereste per prima accanto all’espressione “sistema logico”?...   

Scrivetela...

In quale occasione avete detto: “Credo che questo sistema sia logico”?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Proseguiamo nella nostra riflessione – in cui Porfirio è sempre il protagonista principale – dicendo che però Aristotele è andato al di là del quadro platonico [del Mondo delle Idee, del mito del Demiurgo] e ha proseguito il suo ragionamento sul tema della “logica” affermando che tutta la realtà particolare la si può contenere [e definire] dentro una rete formata da una serie di concetti fondamentali [dieci concetti generali, ben identificati] che hanno la massima estensione in modo da poter contenere tutti i concetti particolari, e che Aristotele chiama “categorie”: ed è proprio su questo punto strategico che interviene Porfirio, componendo l’Isagoge [Introduzione], per portare l’interessante tema aristotelico delle “categorie” sul terreno platonico.

     Che cosa sono, e quali sono le categorie di Aristotele e in che cosa consiste l’Isagoge, l’introduzione su questo tema scritta da Porfirio? Per prima cosa leggiamo un frammento tratto da Le categorie di Aristotele.

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Le categorie

I concetti sono collegati tra loro, e un concetto è incluso in un altro concetto più generale e questo in un altro più generale ancora. Man mano che, nella scala dei concetti, si sale, diminuisce la comprensione della realtà particolare ma aumenta l’estensione della conoscenza. Si può affermare che tutta la realtà è contenuta in dieci concetti generali, o predicati supremi, detti categorie.

     Le categorie di Aristotele sono i concetti della massima estensione che ci permettono di definire la realtà particolare e, secondo Aristotele, sono dieci: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, l’azione, la passione, il luogo, il tempo, il possesso e lo stato. Ed è attraverso queste dieci categorie che noi siamo in grado di dare un significato al Mondo e di conoscerlo nelle sue forme particolari. Facciamo un esempio per semplificare, se dico: “Silvestro è il mio gatto rosso”, tutte e tutti voi avete capito quello che ho detto: perché è comprensibile questa affermazione [e sono comprensibili la maggior parte delle affermazioni che facciamo]? è comprensibile perché il mio Intelletto possiede “le categorie” e le ha utilizzate correttamente. Io capisco che “Silvestro” è il nome proprio di un animale comune, il “gatto”, in virtù della categoria della “sostanza”, capisco che è “rosso” perché è uno dei colori compreso nella categoria della “qualità”, capisco che è “uno” perché è compreso nella categoria della “quantità”, capisco che è “mio” per la categoria del “possesso” e della “relazione”. Ebbene, abbiamo capito questa situazione particolare perché l’attività del nostro intelletto è supportata dai concetti generali: la preposizione formulata per categorie – “una sostanza di qualità e di quantità è in relazione con me e ne sono in possesso” – risulterebbe poco comprensibile per la sua massima generalità ma se io non possedessi i concetti logici nella loro estensione, se non possedessi le categorie [di sostanza, qualità, quantità, relazione, azione, passione, luogo, tempo, possesso e stato], non potrei arrivare a conoscere la realtà particolare. Intuisco che “Silvestro è il mio gatto rosso” perché posso utilizzare le categorie della sostanza, dell’azione, della qualità, della quantità, del possesso, della relazione.

     Porfirio studia l’interessante questione de Le categorie di Aristotele e vuole definirne la natura in termini neoplatonici anche perché Aristotele alla domanda “ma come ci sono entrate le categorie nella mia mente?” risponde in modo un po’ vago affermando che il sistema logico delle categorie riguarda innanzitutto il piano delle parole [òi logoi], il piano dialettico-linguistico. Porfirio nell’Isagoge ammette che la realtà può essere conosciuta attraverso cinque categorie [dimezza le categorie di Aristotele]: il genere, la specie, la differenza, il proprio e l’accidente [o la variabile]. Secondo Porfirio, però, questi predicabili non sono soltanto parole ma sono anche strutture del pensiero, quindi, sono anche “forme dell’Essere” e, di conseguenza, sono presenti nell’Uno, allo stesso modo in cui, le Idee [secondo Platone] stanno in un loro Mondo. Questo legame, creato da Porfirio, tra il “Mondo delle Idee” di Platone e la “Logica” di Aristotele – attraverso la mediazione di molti importanti pensatori [che incontreremo nel prossimo viaggio] come  Severino Boezio [525], Pietro Abelardo [1142], Tommaso d’Aquino [1274], Guglielmo da Ockham [1349] – diventa un modello di “pensiero forte” che condiziona la visione del Mondo per tutta l’Età medioevale e moderna [introducendo il problema degli Universali, uno dei temi più significativi della filosofia medioevale di cui ci occuperemo a suo tempo]. Questo modello logico viene chiamato “L’albero di Porfirio” perché dall’Uno, dal genere sommo, la sostanza [per emanazione] discende, attraverso le varie differenze specifiche, fino alle specie più basse; scrive Porfirio: «Dalla sostanza si diramano i generi, poi le specie si differenziano in modo proprio con le loro variabili. Così la realtà si articola dai rami alle radici come un albero».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’albero è radici, fusto, rami, gemme, foglie, fiori, frutti, semi: disegnate il vostro albero...

Un disegno, per quanto semplice possa essere, è sempre il risultato di un utile investimento in intelligenza: non rinunciate a compiere questo esercizio...

     Nel 1983 [in seguito alla crisi delle ideologie derivanti dai “pensieri forti”] si comincia a parlare di “pensiero debole” e i filosofi Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti pubblicano un testo [un’antologia di scritti di Autori Vari] intitolato Il pensiero debole che contiene un saggio di Umberto Eco, intitolato L’antiporfirio, nel quale il semiologo analizza le origini del “pensiero forte” derivato della visione del Mondo creata da “L’albero di Porfirio”: una visione potente e lungimirante nata dal legame tra il “Mondo delle Idee” di Platone e la “Logica” di Aristotele. Leggiamo un frammento tratto da questo saggio per capire che stiamo parlando di argomenti di attualità culturale.

LEGERE MULTUM….

Umberto Eco, L’antiporfirio in Il pensiero debole a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti

Porfirio manifesta l’intenzione (non si sa quanto sincera) di lasciar da parte la domanda se i generi e le specie esistano in sé o se siano mere concezioni della mente. Quello che c’interessa è che egli è il primo a tradurre Aristotele in termini di albero e certo è difficile evitare il sospetto che così facendo egli sia tributario di una concezione neoplatonica della catena degli esseri.

     Aristotele – fino al XII secolo [siamo nel cuore del Medioevo] – viene interpretato come se fosse un pensatore neoplatonico.

     Porfirio ha condotto, da neoplatonico coerente, la polemica contro il Cristianesimo [che sta fagocitando il Neoplatonismo] e ha scritto [intorno al 270] una grande opera [in 15 libri] intitolata Discorso contro i Cristiani. Quest’opera è andata perduta perché è stata bruciata nel corso di tre campagne di distruzione: la prima nel 325 per volere dell’imperatore Costantino poi [visto che qualcuno la conservava e la riproduceva] per volere dell’imperatore Teodosio II nel 435, e poi [siccome ce n’era ancora qualche copia in giro] sotto l’imperatore Valentiniano nel 448. Di quest’opera di Porfirio, per fortuna, rimangono molte citazioni [molti frammenti] perché i Padri della Chiesa, in particolare Gerolamo e Macario di Magnesia [i quali si lamentano di non poter disporre dell’opera completa] hanno utilizzato il testo del Discorso contro i Cristiani di Porfirio come stimolo per costruire in modo più valido la dottrina del Cristianesimo.

     La critica dottrinale [molto acuta] che Porfirio, da neoplatonico, fa nel Discorso contro i Cristiani si basa sull’idea di come sia possibile proclamare la resurrezione della carne, la santificazione della materia, l’immortalità [per quanto futura] dei corpi se l’elemento vitale [anche per la Letteratura dei Vangeli] è lo Spirito [Pneuma Pneuma] di cui è fatta l’anima che risulta essere un elemento assolutamente alternativo al corpo. jSolo lo Spirito [sostiene Porfirio] può avere la possibilità di non degradarsi e di continuare a vivere perché è l’anima che dura in eterno e il corpo [la prigione dell’anima] è bene che si disperda nella polvere: la morte del corpo ha un senso, è un evento liberatorio, e [si domanda Porfirio] per quale motivo vogliamo farlo risorgere?

     Dai frammenti che ci sono rimasti dell’opera intitolata Discorso contro i Cristiani si capisce che l’autore si contraddistingue per la grande erudizione e per l’acume esegetico: Porfirio, quando dimostra che la Letteratura dei Vangeli è di natura allegorica [non è storica ma spirituale] perché non racconta la storia di Gesù ma l’evento della predicazione su Gesù, diventa [e Gerolamo e Macario di Magnesia l’hanno intuito] un [involontario] anticipatore della moderna esegesi biblica: infatti nei verbali dei dibattiti per la preparazione dei Documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II Porfirio di Tiro viene citato molte volte come se fosse un Dottore della Chiesa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – soffio, anima, intelletto, carattere, arguzia, o quale altra parola – mettereste per prima accanto al termine “spirito”?...

Scrivetela...

     “Il pensiero ha le ali” [ha scritto Averroè, che prima o poi rincontreremo] e, quando un’opera contiene “un pensiero intelligente”, resiste alla distruzione: non ci sono decreti imperiali che possano fermare il pensiero.

     E infine dobbiamo ricordare che l’opera di Porfirio che ha avuto più successo di pubblico è La vita di Pitagora, un’opera di divulgazione in cui l’intellettuale neoplatonico di Tiro si diverte a giocare con il mito e “neoplatonizza [se così si può dire]” i concetti pitagorici e la stessa cosa fa il suo allievo più diretto, Giamblico di Calcide, il quale, anche lui, scrive un’opera intitolata Synagoge [Raccolta delle dottrine pitagoriche], un’opera, andata perduta in molte delle sue parti, che tratta di teologia aritmetica, di mistica dei numeri, di musica, di geometria, di astronomia.

     Il principale discepolo di Porfirio è Giamblico di Calcide le cui opere hanno contribuito notevolmente alla formazione culturale dell’imperatore Giuliano detto [ingiustamente] l’Apostata [il traditore]. Costantino, morendo [nel 337], divide l’Impero, come fosse un patrimonio privato, fra i suoi tre figli, ma fra questi [e tra altri membri della sua famiglia] si sono accesi presto violenti conflitti e, quindi, congiure, massacri, ammutinamenti sconvolgono di nuovo lo Stato romano finché l’ordine viene ristabilito da un nipote di Costantino, Giuliano [331-363], il quale ritiene che molte fibrillazioni negative, a cominciare dalle guerre per imporre la linea ortodossa, dipendano dal Cristianesimo e, di conseguenza, tenta inutilmente di restaurare la religione e la morale dell’ellenismo. Giuliano muore giovane, combattendo contro i Persiani, che minacciano le frontiere orientali dell’Impero: Giuliano viene ferito gravemente e la sua morte viene descritta, serena e solenne, come quella di Socrate, di Epicuro e di Plotino.

     Le opere di Giamblico di Calcide [250 circa-330 circa] hanno avuto [come quelle di Porfirio di Tiro] uno straordinario successo nel periodo del Rinascimento italiano e fiorentino. La Synagoge [Raccolta delle dottrine pitagoriche] di Giamblico ha contribuito allo sviluppo intellettuale e all’affermazione in tutto il mondo [dal 1450 al 1525] del movimento rinascimentale. Le opere di Giamblico [così come quelle di Porfirio] sono state tradotte in latino [dal 1474 al 1497] da Marsilio Ficino [segretario dell’Accademia fiorentina fondata da Lorenzo il Magnifico] il quale ha potuto usufruire dei testi delle opere di Giamblico anche per scrivere la sua opera fondamentale: Teologia platonica sull’immortalità delle anime [1474]. Ci occuperemo dell’opera di Marsilio Ficino a suo tempo ma si capisce [già dal titolo della sua opera] come la cultura della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica abbia contribuito a formare il pensiero moderno.

     Giamblico di Calcide ha scritto un trattato [redatto tra il 300 e il 330] intitolato Peri mysterion logos [Sui misteri] che va considerato il libro fondamentale della religiosità greca dell’epoca tardo-antica. Questo libro [sulla scia delle Enneadi di Plotino] descrive un itinerario che deve servire per condurre gli esseri umani a purificarsi e a liberarsi dagli aspetti negativi che procura la corporeità. La purificazione [metanoia metànoia] avviene con la conoscenza e con la pratica dei culti divini orfico-dionisiaci che l’Umanità ha ereditato. Secondo Giamblico [che riprende, soprattutto, la tradizione della Scuola pitagorica] la conoscenza del divino è innata nella persona umana, e Dio è l’Ente supremo che s’identifica con l’idea del Bene di Platone: il pensiero di Platone viene trasformato in una religione per creare un’alternativa ideologica al Cristianesimo e, quindi, i pensatori cristiani, nei secoli, sapranno utilizzare a pieno questa operazione culturale, che trasforma il Neoplatonismo in religione, per “cristianizzare” il potente pensiero di Platone e per dare al Cristianesimo una forte base filosofica.

     Dio [scrive Giamblico] è l’Uno capace di emanare gli esseri divini e, ad ogni emanazione dell’Uno, corrisponde una divinità intermedia e tra queste divinità e gli esseri umani è situato il regno dei dèmoni che possono donare la salute e infliggere la malattia. Per liberarsi dalla materia corporea e risalire all’Uno, per ritornare ad unirsi con la Divinità [scrive Giamblico], l’anima deve imparare a evocare le Entità divine [le Idee pure del mondo di Platone] che sono situate una dopo l’altra sul cammino dell’ascensione: questo itinerario consiste nel praticare un rituale mistico contrassegnato da formulari magici da recitare in preghiera e da gesti sacri da compiere.

     Giamblico, per quanto riguarda i rituali mistici e i formulari magici, attribuisce grande importanza alle dottrine egiziane [il culto di Iside] e al pensiero di Pitagora. Gli esseri umani [secondo Giamblico] entrano in contatto con la divinità attraverso una disciplina che si chiama: teurgia [da teòs, dio e èrgon, azione]. Giamblico, attraverso l’opera Sui misteri, costruisce la teologia del neoplatonismo utilizzando la disciplina della teurgia. Che cos’è la teurgia e che differenza c’è tra la teurgia e la teologia? La teologia è la disciplina che parla degli dèi, che parla di Dio. La teurgia è un’arte di natura magica che cerca di evocare gli dèi, di evocare Dio stesso in modo che gli dèi, o Dio stesso, possano agire sugli esseri umani.

     La prassi dei rituali teurgici, che Giamblico di Calcide prescrive nel suo libro Sui misteri, diventa di moda nel XV e nel XVI secolo nell’Europa rinascimentale [a Firenze ci sono molti templi teurgici]. Il rituale teurgico tradizionale prevede il “telestiche telestiché”, cioè l’animazione di una statua consacrata della divinità. Il teurgo [il sacerdote], detto “docheus docheus”, svolge un ruolo di medium. Il rito consiste nel far girare una trottola magica [un “sigofalos sigofalòs”]: questa trottola è a forma di disco d’oro con sopra un triangolo [la “tetraktys tetraktys” di Pitagora]. Il triangolo gira e, quando si ferma, i vertici [come fossero delle frecce] indicano le “formule mistiche” scritte sulla superficie del disco. Al centro del disco c’è uno zàffiro, una pietra preziosa di colore blu [azzurro intenso], che costituisce il tramite con il Cielo, con lo spazio etereo. La trottola magica non può essere fatta ruotare sempre: la sua rotazione è “astrologica” e coincide con i movimenti delle sfere celesti. La trottola deve attrarre le intuizioni metafisiche, i pensieri delle Entità divine e la sua rotazione è sincronizzata con un “calendario teurgico” che scandisce il tempo dell’anno liturgico astrale. Dopo aver assorbito le intuizioni metafisiche, facendo girare la trottola, il docheus entra dentro la statua consacrata della divinità [come se fosse un’armatura] e, attraverso il fuoco sacro, va in estasi ipnotica, parla e svela i pensieri delle Entità divine e le anime dei partecipanti al rito vengono attirate verso la Luce Originaria, prodotta dalle emanazioni divine dell’Uno, e possono congiungersi con l’Intuibile  e succede che l’anima esce dal corpo [evade temporaneamente dalla prigione materiale] ed entra in comunione con la divinità e poi ritorna nel corpo rinnovata, purificata, divinizzata [diremmo in Grazia di Dio].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Una trottola, uno zàffiro: che cosa vi fanno venire in mente queste due parole?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Nella seconda parte dell’Età tardo-antica [nel Basso tardo-antico] dal III secolo la realtà può essere osservata con due paia di occhiali differenti: ci sono le lenti che danno la visione eterogenea del Cristianesimo in crescita e ci sono le lenti che danno, l’altrettanto eterogenea, visione del Neoplatonismo sulla via dell’emarginazione.

     Alla povera Eugenia questi importanti temi culturali sono preclusi e a lei basterebbe un solo paio di occhiali se la realtà materiale che la circonda fosse degna di essere messa a fuoco, ma non lo è e, forse, per Eugenia risulta più limpida la realtà sfuocata che lei s’immaginava attraverso il suo desiderio di vedere bene. E quindi, per concludere, cavalchiamo la metafora letteraria e finiamo di leggere il racconto di Anna Maria Ortese Un paio di occhiali da Il mare non bagna Napoli.

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Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli

Un paio di Occhiali

«Mammà! Gli occhiali!».

«Piano, figlia mia, mi buttavi a terra!».

Subito, si fece una piccola folla intorno. Donna Mariuccia, don Peppino, una delle Greborio, che si era fermata a riposarsi su una sedia prima di cominciare le scale, la serva di Amodio che rientrava in quel momento, e, inutile dirlo, Pasqualino e Teresella, che volevano vedere anche loro, e strillavano allungando le mani. Nunziata, dal canto suo, stava osservando il vestito che aveva tolto dal giornale, con un viso deluso.

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     La prossima settimana percorreremo l’ultima tappa di questo viaggio di studio: poi ci sarà ancora una Lezione durante l’itinerario conviviale [giovedì 6 giugno nel Parco di Sant’Antonio ad Impruneta e venerdì 7 giugno allo Spazio-Soci della Coop. di Ponte a Greve] che, però [come è tradizione], sarà breve.

     Con quali lenti ci mettiamo ad osservare lo scenario dell’ultimo itinerario di questo viaggio? La fase finale dell’Età tardo-antica la si deve guardare con un paio di occhiali che hanno due lenti diverse: una lente guarda il panorama diversificato del Cristianesimo che si sta sovrapponendo a tutte le culture dell’Ecumene e l’altra lente scruta lo scenario del Neoplatonismo che cerca di difendere la sua identità. Quali visioni ci propone questo paio di occhiali biforcuto?

     Per rispondere è necessario camminare sulla via dell’Apprendimento permanente, che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “errante” per esortarci ad investire in intelligenza. Non perdete l’ultimo itinerario di questo viaggio.

     La prossima settimana è come se coltivassimo l’idea del ritorno [nòstos]: un’idea che porta con sé il carattere della sosta e della tregua, ma, per fortuna, il concetto della tregua fa sempre maturare la speranza e la volontà di ripartire, e la Scuola deve prospettare una nuova “avventura cognitiva”, una nuova partenza nell’autunno che verrà…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 24, 2013