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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA SI SVILUPPA IL CULTO MISTERICO DELLA DEA ISIDE ...

Lezione N.: 
23

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica              17-18-19  aprile  2013

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

SI SVILUPPA IL CULTO MISTERICO DELLA DEA ISIDE ...

     Questo itinerario, il ventitreesimo del nostro viaggio di studio sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”, prelude a due settimane di pausa: quest’anno il 25 aprile [è un giovedì] e il 1° maggio [un mercoledì] coincidono con i giorni di Lezione e il nostro viaggio s’interrompe temporaneamente e la “vacanza” [nel senso della “disponibilità”] può e deve favorire la riflessione sul “diritto-dovere al lavoro [il 1° maggio]” e sul “ritorno alla democrazia [il 25 aprile]”.

     Ci troviamo ancora di fronte al paesaggio intellettuale de “l’Età degli Antonini”, un periodo che dura circa un secolo [dal 117 al 192] e che viene considerato “illuminato” per merito di tre imperatori [che abbiamo incontrato] – Elio Adriano, Antonino il Pio e Marco Aurelio – i quali, seppure con molte contraddizioni, cercano di governare lo Stato nel miglior modo possibile e di opporsi alla crisi [ormai irreversibile] che attanaglia le Istituzioni ormai irrimediabilmente squalificate. Sappiamo che, purtroppo, anche la dinastia degli Antonini si conclude male [va in malora] con l’ascesa al potere dell’incapace e dissoluto Commodo.

     Abbiamo capito che il secolo degli Antonini è comunque un periodo fecondo per la Storia della cultura e abbiamo preso atto del fatto che, in questo momento [nella seconda metà del II secolo], sul territorio dell’Ecumene, e in particolare a Roma – ma anche in molte altre città, ad Atene, a Cartagine e soprattutto ad Alessandria –, il dibattito culturale è caratterizzato da un significativo argomento legato ad un vivacissimo dibattito che nasce da un eloquente interrogativo: c’è contrapposizione o c’è sintonia tra “lo spirito” e “la materia”, tra l’anima e il corpo?

     Sappiamo che il tema della liberazione dell’anima immortale prigioniera del corpo marcescibile è di primaria importanza non solo come argomento affrontato dagli stoici, dagli epicurei, dagli scettici di Scuola cinica, dai neopitagorici di Scuola ermetica, dai cristiani concilianti, dai cristiani gnostici intransigenti e dai neoplatonici [a breve ci occuperemo di Neoplatonismo] ma questo tema è, da secoli, anche [e soprattutto] patrimonio dei cosiddetti “culti misterici” e i “culti misterici” – diffusi su tutto il territorio dell’Ecumene e trapiantati a Roma – sono delle cerimonie, dei riti iniziatici che dovrebbero propiziare la salvezza dell’individuo favorendo la liberazione della sua anima dal peso e dalla schiavitù del corpo materiale. A Roma, dal I secolo, si afferma soprattutto il “culto di Iside” e noi possediamo un’opera [tra le più significative della Storia della Letteratura e del Pensiero Umano] – che abbiamo già introdotto la scorsa settimana – che ci permette di studiare e di riflettere su questo tema che investe la sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica.

     L’opera in questione, come sapete, s’intitolata Le metamorfosi [Metamorphoseon libri] o L’asino d’oro: un’opera che si presenta sotto forma di “romanzo” [ricordiamo che in Età tardo-antica la parola “romanzo” non esiste ancora ma il genere è in incubazione], un’opera narrativa – in undici libri a loro volta divisi in brevissimi capitoli – che è il capolavoro di uno scrittore che si chiama Apuleio. Le metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio sono l’unico “romanzo” della Letteratura latina che ci è giunto completo e, presumibilmente, è stato scritto a Cartagine durante la maturità dell’autore dopo che era uscito assolto da un processo per magia. Ma chi è l’autore di quest’opera, che cosa sappiamo di Apuleio?

     Apuleio è un personaggio che, a leggere le sue molte opere, si presenta in possesso di una curiosa e versatile personalità e si rivela, nella seconda metà del II secolo, il più autentico interprete dei gusti e delle nuove tendenze mistico-religiose importate a Roma e che, nella capitale dell’Impero, diventano di moda. Lucio Apuleio è un personaggio assai versatile: è un oratore, un filosofo, uno scienziato, un conferenziere e un brillante scrittore. Il prenome di Lucio, tramandato dai codici antichi, è sicuramente derivato dal nome del protagonista del suo celebre romanzo, quindi, il vero prenome di Apuleio non lo conosciamo.

     Apuleio è nato nella ricca provincia d’Africa, intorno al 125, a Madaura, una città al confine tra la Getulia e la Numidia nell’odierna Algeria [oggi Madaura si chiama M-Daorouch e si trova a circa trenta chilometri da Souk Ahras, l’antica Thagaste] situata a 1100 metri di altitudine, e gli scavi archeologici hanno messo in luce buona parte della città romana a pianta quadrangolare: l’area del Foro sulla quale è stata poi eretta una fortezza bizantina, l’area della curia, del minuscolo teatro, delle terme, dei frantoi e delle abitazioni dell’aristocrazia. A Madaura si trovavano le Scuole di retorica che hanno reso famosa Thagaste la città di Agostino vescovo di Hippona [Annaba]. Il sito di Madaura ha un fascino particolare, specialmente in primavera, perché si ricopre di violette e si diffonde nell’aria un profumo inebriante.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Nel III secolo Madaura era una florida città della provincia d’Africa, e con una giuda dell’Algeria e collegandovi alla rete andate a visitarla

     Apuleio nasce in una famiglia agiata e quindi, dopo aver fatto gli studi di grammatica e di retorica a Madaura, si trasferisce prima a Cartagine per seguire i corsi di eloquenza e poi ad Atene dove si dedica all’approfondimento degli studi filosofici. Si capisce che Apuleio ha una gran voglia di studiare perché si interessa di scienze naturali, di geometria, di astronomia, di medicina, di musica e si vanta [“Sono stato l’amante di tutte le Muse”] di essersi dedicato a molte discipline. Apuleio è stato attratto anche dalle dottrine religiose ed è stato iniziato ai misteri di Dioniso e di Iside, è stato poi un instancabile viaggiatore [Ha scritto: «Viae cupidus et peregrinationes cupiens … Sono stato avido di viaggiare e desideroso di peregrinare»], e soggiorna periodicamente a Roma per svolgere l’attività – che lo ha reso famoso – di conferenziere e i temi delle sue conferenze sono quelli, di natura filosofica, che lui tratta nelle sue numerose opere.

     Prima di raccontare – anzi, ce lo facciamo raccontare da lui medesimo – l’episodio più rilevante e più ricco di conseguenze della sua vita legato al suo matrimonio e al processo che ha subito – facciamo [per conoscenza] l’elenco  delle opere che Apuleio ha prodotto. Della vasta produzione di Apuleio in prosa e in poesia, in latino e in greco, ci sono pervenuti una serie di significativi trattati filosofici, Apuleio segue la filosofia di Platone [si capisce che conosce i “Dialoghi” di Platone] e utilizza alcune idee di Platone per valorizzare le dottrine mistico-religiose provenienti dall’Oriente, in particolare il culto di Iside e, quindi, non è un vero e proprio filosofo ma è senza dubbio un divulgatore di cultura. I trattati filosofici di Apuleio che ci sono pervenuti sono: De Platone et eius dògmate [Platone e la sua dottrina] in cui riassume le teorie platoniche naturali ed etiche [il pensiero di Platone sta prendendo campo in Età tardo-antica]; De dèo Socratis [Il demone di Socrate] che è un trattato sulla dottrina dei demoni, ed è una originale dissertazione su una realtà popolata da forze misteriose da esorcizzare, dove il “demone di Socrate [ed è Platone a spiegare il concetto]” è la voce interiore che spinge la persona saggia a cercare la verità non tanto per trovarla ma per praticare il cammino della ricerca che è l’unica strada capace di dare un senso alla vita; De mundo [Il mondo] un trattato che spiega come è fatto il Cosmo secondo le teorie di Aristotele; Flòrida [Florilegio, Antologia] è una breve antologia di ventitré passi scelti dalle conferenze di Apuleio e raccolti da un ignoto compilatore, gli argomenti trattati sono vari e mostrano la raffinata abilità dello scrittore nel narrare con vivaci descrizioni temi di natura filosofica, aneddotica e mitologica: parla delle meraviglie dell’India [il pellegrinaggio in India era di moda], fa l’elogio del pappagallo, racconta in chiave ironica l’episodio di Apollo e Marsia, descrive un viaggio di Pitagora, riporta il confronto tra la sua versatilità di oratore e l’ingegno del sofista Appia. Poi c’è tutto un elenco di titoli di opere perdute – tramandati dallo stesso Apuleio o da altri autori antichi, quali Cassiodoro, Carisio, Microbio e Fulgenzio – che sono la testimonianza della molteplicità degli interessi dell’autore, che vanno dall’astronomia all’agricoltura, dalla filosofia alla medicina, dall’aritmetica alla poesia e alla musica, c’è anche un titolo di un poemetto – a sua volta contenuto in un’opera intitolata De herbarum medicaminibus [Sulle virtù delle erbe] – che suona De virtutibus unguenti violae et rosae [Le virtù del profumo della viola e della rosa] e che ricorda il buon aroma dell’aria primaverile di Madaura ma il cui contenuto [a detta delle studiose e degli studiosi di filologia] doveva riguardare, molto probabilmente, il culto di Iside.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dove, quando e perché avete raccolto violette in vita vostra?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     L’episodio più rilevante e più ricco di conseguenze della vita di Apuleio è legato al suo matrimonio e al processo che ha subìto con l’accusa di essere un mago e questa questione rimanda ad un’altra delle sue opere che s’intitola Apologia o De magia liber [Apologia o Libro della magia].

     Dobbiamo sapere che nel 155, durante un viaggio da Cartagine verso Alessandria, Apuleio si ferma a Oea [l’odierna Tripoli] dove viene, ben volentieri, ospitato da Ponziano, suo compagno di studi ad Atene. Ponziano è orfano di padre, ha un fratello che si chiama Pudente, e vive con la madre vedova la quale è una ricchissima e ancor bellissima signora che si chiama Pudentilla ed è molto corteggiata e richiesta da tutti gli aristocratici della provincia africana ma lei ignora questi corteggiamenti. Appena conosce Apuleio – affabile, simpatico, colto – s’innamora subito di lui e, dopo poche settimane, gli chiede di sposarla: lui non rifiuta. Dopo tre anni il figlio Pudente e i fratelli di Pudentilla intentano una causa contro Apuleio con l’accusa di aver plagiato e sedotto la donna con filtri malefici [mala medicamenta] e formule magiche [magici sussurri] e lo incolpano anche dell’omicidio dell’amico Ponziano che era morto in circostanze misteriose. Il processo per il reato di magia nera e per omicidio si tiene a Sabratah [città della Tripolitania, od ovest dell’odierna Tripoli] davanti al proconsole romano Claudio Massimo che consente allo scrittore di difendersi da solo avendone i titoli. Apuleio riesce a smontare le accuse mossegli, dimostrandone l’inconsistenza, con una difesa ben articolata e argomentata che mette in luce non solo la sua vasta e brillante cultura, ma anche la meschinità e l’ignoranza degli accusatori.

     Apuleio nel testo dell’Apologia o De magia liber [Apologia o Libro della magia] racconta la sua esperienza giudiziaria e noi ora leggiamo il “prologo” di quest’opera che ne sintetizza l’argomento. Quest’opera, a suo tempo, ha avuto molto successo – ha attirato la curiosità delle lettrici e dei lettori – perché si avvicina più ad un “romanzo poliziesco dalla vena comica [se si potesse usare questa terminologia in Età tardo-antica]” che ad un trattato di giurisprudenza e di oratoria giuridica. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Apuleio, Apologia o De magia liber [Libro della magia]

Il proconsole Claudio Massimo, consapevole dei miei titoli, mi consentì di tenere a mia difesa l’orazione giudiziaria, e io cercherò di essere fedele, nel mio racconto, alle argomentazioni, nella loro forma e nel loro contenuto, che ho sostenute nel tribunale di Sabratah nel processo per magia nera che mi fu intentato dai parenti di Pudentilla che avevo sposato ad Oea, madre vedova di Ponziano, il mio miglior compagno di studi ad Atene, che perse la vita in circostanze misteriose non certo per causa mia.

In questo trattato riporterò i testi delle orazioni con cui ho dovuto confutare le miserevoli e persino ridicole accuse rivolte verso la mia persona e la mia vita privata, come quella di essere troppo bello per essere un filosofo, di lavarmi i denti con una pasta dentifricia, di possedere uno specchio, di aver scritto versi d’amore per due giovinetti. Mi sono poi dovuto difendere dalla grave accusa di essere un mago, un praticante della magia nera: per questo motivo mi si rinfacciava di possedere uno scheletro umano che invece non era altro che una statuetta di Mercurio, protettore dei viaggiatori, consunta dal tempo e logorata dalle carezze votive.

Nei testi delle mie orazioni, davanti al proconsole e ai giudici, ho ricostruito la mia vita a Oea fin dal mio arrivo, sostenendo che era stato l’amico Ponziano ad incoraggiarmi al matrimonio con la madre, ho sostenuto e ho dimostrato che io non ero povero a caccia di dote e che non ho toccato neppure una moneta del patrimonio di mia moglie, la quale, anzi, dopo la morte accidentale di Ponziano, anche su mio suggerimento, aveva nominato erede nel suo testamento il figlio Pudente, ed è stata soprattutto questa prova documenta che ha favorito il giudizio di assoluzione della corte con formula piena in mio favore.

Terminato il processo e riacquistata la libertà e la dignità, che sono i beni maggiori di cui l’essere umano possa godere, prima di ripartire per Cartagine, mi sono recato in pellegrinaggio al tempio di Iside, onde ringraziare la dèa, e poi mi sono dedicato alla visita di Sabratah la cui bellissima struttura, frutto della mirabile fusione della cultura fenicia, ellenica e romana, risulta incantevole e di struggente atmosfera per il gioco cromatico delle arenarie e dei marmi sullo sfondo azzurro del mare.

     Viene proprio voglia di fare una visita a Sabratah…

     Apuleio nell’opera intitolata Apologia o De magia liber [Apologia o Libro della magia] racconta l’esperienza del processo che ha subìto con l’accusa di essere un mago e di praticare la magia nera e riporta – rielaborati attraverso la scrittura – i testi delle Orazioni che ha pronunciato in sua difesa in tribunale rendendoli in modo erudito secondo lo stile del modello retorico ciceroniano con un linguaggio vivace, con una trattazione brillante, ironica e scanzonata in cui mette in ridicolo i suoi avversari ed esalta la sua condizione di filosofo, di scienziato naturale e la sua iniziazione ai misteri dei culti orientali soprattutto al culto di Iside. Il fatto curioso è che Apuleio non nega di praticare la magia e non condanna quella che lui considera un’interessante disciplina cosicché, nelle epoche successive [nel Medioevo e soprattutto nel Rinascimento], ha conservato la fama di mago.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Seguiamo il consiglio di Apuleio e dedichiamoci a fare una visita all’area archeologica di Sabratah utilizzando l’enciclopedia, una guida della Libia, collegandovi alla rete, tenendo conto del fatto che nel 1982 questo sito archeologico è stato dichiarato dall’UNESCO Patrimonio mondiale dell’Umanità…  Fate un’escursione a Sabratah   

     In seguito al processo Apuleio torna a Cartagine, dove esercita varie professioni: quella forense, quella di medico, quella di bibliotecario e di conferenziere. Non si sa né dove né quando sia morto, probabilmente a Cartagine verso la fine del principato di Marco Aurelio.

     Sappiamo invece – e abbiamo già cominciato a studiare questo argomento la scorsa settimana – che l’opera più importante di Apuleio s’intitola Le metamorfosi, un’opera che, nei secoli, ha sempre avuto successo, e anche Agostino di Thagaste, vescovo di Hippona, cita quest’opera nel trattato De Civitate Dei [del 426] con il titolo L’asino d’oro, ed è proprio con questo titolo che quest’opera è stata tramandata nel Medioevo e nel Rinascimento, epoche in cui ha sempre trovato molti lettori e traduttori.

     Sappiamo che Apuleio nel prologo de Le metamorfosi [il primo capitoletto del primo Libro del quale la scorsa settimana abbiamo letto l’incipit] precisa che quest’opera s’ispira alle Fabulae Milesiae, un volume di novelle di contenuto erotico composte da Aristide di Mileto [nel II secolo a.C.]. Sappiamo che il “tema delle fonti” [da dove scaturiscono le parole e le idee di un’opera] è più che mai significativo in funzione della didattica della lettura e della scrittura [è un argomento specialistico: ma perché ce ne dobbiamo privare?].

     Prima di occuparci del tema delle “fonti” de Le Metamorfosi di Apuleio, che prevede l’incontro con alcuni importanti personaggi che non possiamo ignorare, dobbiamo affermare che Apuleio è stato bravo ad utilizzare le “fonti culturali” per comporre la sua opera ed è stato abile a fondere in un quadro mirabile – che ha preso la forma di un “romanzo” [per definire quest’opera si può davvero utilizzare la parola “romanzo”] – una serie di elementi qualificanti: fantastiche avventure, amori sensuali e osceni, bellissime fanciulle, truci briganti, prodigi miracolosi, magie, fiabe soavi, particolari raccapriccianti e scabrosi, e via dicendo. Il protagonista de Le metamorfosi si chiama Lucio [e come sappiamo anche ad Apuleio viene attribuito questo nome in modo strumentale] e il giovane greco Lucio – curioso di magia – è il narratore in prima persona di un mondo realistico e vivo, sensuale e cosmopolita, colorito e raffinato, materialista e spiritualeggiante: quest’opera descrive bene la società tra il II e il III secolo dell’Età tardo-antica. «Stai attenta lettrice, stai attento lettore, ti divertirai [laetaberis]», dice all’inizio Apuleio e l’autore infatti si abbandona con compiacimento alla fantasia più sfrenata, alla gioia del narrare per il narrare e sembra dire che solo “alienandosi nella narrazione” ci si salva dalle brutture del mondo condizionato dal sistema imperialista che ha imposto la “mentalità predatoria”. E, di conseguenza, a questa chiave di lettura di tipo fiabesco e popolare, se ne aggiunge un’altra simbolica e mistica secondo la quale il racconto assume un valore pedagogico [educativo]: il protagonista – trasformato in asino attraverso un maldestro esperimento di magia – viene coinvolto in vicende che assumono il significato di un vero e proprio “attraversamento degli Inferi”, durante il quale tocca il fondo dell’avvilimento fisico e morale per poter così risalire [con un percorso catartico] riacquistando non solo la forma umana ma soprattutto giungendo ad una profonda e intensa maturazione interiore che produce una trasformazione esteriore [porta a modificare lo stile di vita].

     E ora occupiamoci del tema delle “fonti” de Le metamorfosi di Apuleio, un argomento che ci dà anche la possibilità – investendo in intelligenza – di incontrare alcuni importanti personaggi coinvolti in questa questione.

     Il tema delle fonti de Le metamorfosi di Apuleio coinvolge alcuni personaggi importanti [che abbiamo già incontrato in questi anni su altri Percorsi]. Le metamorfosi di Apuleio sono affini nel contenuto ad uno scritto, molto più breve, intitolato Lucio o l’asino che ci è pervenuto insieme con le opere di un importante scrittore greco, d’impronta filosofica come Apuleio, di Età tardo-antica: Luciano di Samòsata. Chi è Luciano di Samòsata? [Abbiamo avuto occasione di incontrarlo qualche anno fa viaggiando in compagnia di Erodoto].

     Luciano – nato a Samòsata [antica città della Siria] intorno al 125 [anche Apuleio si dice sia nato intorno al 125] – è un sofista [di Scuola cinica] che ha peregrinato per quasi tutte le regioni dell’Impero soggiornando soprattutto in Italia e in Gallia. I molti scritti di Luciano di Samòsata sono raccolti in un’opera intitolata Dialoghi che forma un corpus di 82 testi, di cui 70 sono considerati autentici. I più importanti tra questi scritti [e a suo tempo ne abbiamo letto dei brani] sono i Dialoghi degli dèi, i Dialoghi dei morti, i Dialoghi delle cortigiane, i Dialoghi degli dèi marini, il breve trattato intitolato Sul modo di scrivere la storia e i tre racconti metaforici Il sogno, Il gallo e Lucio o l’asino che però non è un’opera originale di Luciano ma è il rifacimento di un testo di autore sconosciuto.

     Il contenuto dei Dialoghi di Luciano – nel suo complesso – s’ispira alla filosofia della Scuola cinica di Diogene e di Menippo [li abbiamo incontrati e ne abbiamo studiato il pensiero nel IV secolo a.C.]. Diogene e Menippo – secondo Luciano – sono stati gli unici filosofi coerenti che hanno vissuto disprezzando davvero i beni superflui ed esaltando il valore delle buone e genuine sensazioni [secondo il pensiero della Scuola cinica si è felici se s’impara a godere dell’essenziale spogliandosi dalla brama dell’avere il superfluo]: Diogene di Sìnope è un personaggio sul quale è fiorita un’aneddotica straordinaria [esemplare è quella sul suo incontro con Alessandro Magno] ed è sulla scia di questa figura che il pensiero della Scuola cinica [dopo circa sei secoli] continua a fiorire ancora in Età tardo-antica nelle opere di scrittori come Luciano di Samòsata.

     Quella di Luciano è una scrittura satirica molto efficace che mette in discussione tutte le credenze con uno scetticismo sereno ed obiettivo: una scrittura ricca di brio e di umorismo che, nello stile, ricorda quella del commediografo Aristofane. Ai Dialoghi di Luciano di Samòsata appartiene anche un testo che s’intitola Storia vera. Quest’opera [in due libri] la si può definire una specie di “romanzo satirico” ed è una “parodia”: è “un romanzo che prende i giro i romanzi”, in cui lo scrittore mira a fare il verso alle invenzioni e alle fantasie dei poeti i quali mentono e pretenderebbero di essere presi sul serio. Nel proemio di Storia vera Luciano avverte chi legge che non dirà una parola di vero – il titolo Storia vera è ironico –, e poi dà libero corso alla sua fantasia vivacissima e narra una lunga serie d’avventure curiose e immaginarie: Luciano racconta un fantastico viaggio, compiuto da una comitiva, dalle Colonne d’Ercole [lo stretto di Gibilterra] fino alla luna [con una puntata fino al sole], e di nuovo dalla luna alla terra, dove i viaggiatori approdano su un nuovo continente fino ad allora sconosciuto. In questo racconto favoloso incontriamo isole misteriose, territori della cuccagna, fiumi di vino, fonti d’unguento miracoloso, balene gigantesche, esseri immaginari, sirene, ippogrifi, centauri e via dicendo: per la ricchezza e la varietà d’invenzioni Storia vera di Luciano è diventata un modello “classico” che ha ispirato i racconti meravigliosi degli scrittori d’ogni tempo, da Rabelais a Swift, da Voltaire a Jules Verne. Ebbene, Apuleio per scrivere Le metamorfosi si è servito del testo apocrifo di Luciano di Samòsata intitolato Lucio o l’asino?

     A questa domanda dà una risposta un altro personaggio che noi abbiamo incontrato qualche percorso fa e che si chiama Fòzio di Costantinopoli, celebre bibliofilo vissuto nel IX secolo [in Età medioevale]. Fòzio [820 circa-891] è un intellettuale bizantino, vissuto nel periodo dell’alto medioevo ed è celebre per essere stato il patriarca di Costantinopoli, uno dei massimi rappresentanti della Chiesa greca d’Oriente: è noto soprattutto come teologo ed è stato proclamato “santo” della Chiesa orientale [la sua festa si celebra il 6 febbraio]. Fòzio è nato in una famiglia aristocratica, da giovane ha ricevuto una buona formazione culturale e ha poi seguito la carriera diplomatica per conto dell’Impero bizantino [dell’Impero romano d’Oriente]: questo è un argomento che si trova su un territorio che attraverseremo nel prossimo viaggio ma, tuttavia, dobbiamo dire qualcosa che riguarda questo personaggio in funzione della riflessione che stiamo facendo.

     Nell’anno 863, da laico, Fòzio viene eletto patriarca di Costantinopoli [non era un prete e riceve gli ordini religiosi in fretta e furia] ma la Chiesa di Roma [che pretendeva di avere un potere decisionale su tutta la cristianità] non riconosce la sua elezione e il papa Niccolò I scomunica Fòzio, e questo è il primo grave dissidio tra la Chiesa latina e quella greca: tra loro c’era [e c’è ancora] una diversità di vedute e una diversa interpretazione sul ruolo delle persone nell’ambito della Santissima Trinità. Il risultato di queste dispute – con reciproche scomuniche tra papi di Roma e patriarchi di Costantinopoli [sarà per noi argomento di studio nel prossimo viaggio] – fa sì che Fòzio si ritiri dalla vita pubblica e diventi un intellettuale a tempo pieno e scriva numerose opere dottrinarie, polemiche, teologiche e lessicali.

     L’opera più importante di Fòzio – un vero e proprio patrimonio per la Storia della Letteratura e del Pensiero Umano – è un grande volume che s’intitola Biblioteca, un volume che, di solito, non lo si legge tutto di fila ma lo si va a consultare al momento del bisogno. Nella sua Biblioteca Fòzio espone e riassume ben 280 opere letterarie di cui si sarebbero inesorabilmente perse le tracce. Della maggior parte di queste opere non abbiamo altra conoscenza se non attraverso gli estratti e i compendi di Fòzio e noi non avremmo mai potuto conoscerne l’esistenza. La Biblioteca di Fòzio è un importantissimo strumento di documentazione su testi che sarebbero andati completamente perduti se questo dotto intellettuale bizantino non avesse conosciuto e trascritto il riassunto di queste opere del passato i cui testi si sono persi per sempre. Questo non vale per Le metamorfosi di Apuleio, il cui testo si è conservato integralmente, e a quest’opera Fòzio dedica più pagine e fa un’analisi delle fonti facendo un’affermazione molto interessante: Fòzio scrive che tanto Le metamorfosi di Apuleio quanto Lucio o l’asino di Luciano di Samòsata derivano da un perduto romanzo dello sconosciuto scrittore greco Lucio di Patre [di Patrasso] che lui sostiene di aver letto prima che se ne perdessero le tracce. Fòzio [anche se non lo dice esplicitamente] si dev’essere divertito molto a leggere Le metamorfosi di Apuleio e ne fa un bel riassunto [forse teme che questo testo possa andare perduto?] definendo quest’opera con il termine di “mithos [una fantastica narrazione]”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è, nella vostra esperienza di lettrici e di lettori, un’opera che potete definire come una “fantastica narrazione”?...

Citatela, bastano due righe di scrittura per rispondere e per consigliarne la lettura...

     E ora noi approfittiamo della Biblioteca di Fòzio per leggere il riassunto [il compendio] con cui lo scrittore racconta, a grandi linee, la trama de Le metamorfosi di Apuleio, un’opera che definisce non casualmente con il termine di “mithos”: Fòzio vuole proprio precisare che questo testo va considerato come “una fantastica narrazione [un romanzo mitologico]”. Si capisce che Fòzio si è molto divertito a leggere quest’opera e si capisce anche – dalle omissioni che fa, da quello che non dice – la preoccupazione che nutre da cristiano greco del IX secolo per il pensiero “religioso” che veicola questo testo così attrattivo: sulla superficie dell’Ecumene domina il Cristianesimo [una religione fortemente burocratizzata e strettamente legata al potere politico dell’Impero romano d’Oriente] ma sotto traccia [per reazione] continua ad esistere con i suoi “misteri” il culto della dea Iside.

     E adesso, in prima istanza, leggiamo il compendio [il riassunto] de Le metamorfosi di Apuleio composto da Fòzio di Costantinopoli nella sua Biblioteca e poi riflettiamo sull’intreccio filologico che questa riduzione propone: un intreccio solidamente ancorato sulle omissioni [su ciò che non dice].

LEGERE MULTUM….

Fòzio di Costantinopoli, Biblioteca

Il giovane Lucio si reca in Tessaglia per affari di famiglia. Lungo la via si accompagna a due altri viaggiatori e da uno di essi, Aristomene, ascolta una tenebrosa storia di magia che accende in lui la curiosità di conoscere più da vicino l’arte magica. A Ipata, dov’è diretto, diviene ospite del ricco e avaro Milone la cui moglie Panfìla è ritenuta una pericolosa strega. Una parente della madre, Birrena, invano offre a Lucio l’ospitalità della sua ricca casa e lo mette in guardia contro le male arti di Panfila. Il giovane, ansioso di conoscere i misteri della magia, entra nelle grazie di Fotide, l’ancella della maga, con la quale coltiva ben altri riti che quelli della magia. Una sera è invitato al palazzo di Birrena dove ascolta un’altra storia di stregonerie narrata da Télifrone e, ritornando a casa ebbro, nell’oscurità crede di vedere alla porta di Milone tre ladri e li trafigge con la spada. Il giorno dopo è preso e trascinato in tribunale per essere giudicato di triplice omicidio. Il giudizio avviene nel teatro pieno di una folla che segue con grandi risate lo svolgersi del processo e quando il giudice, pronunciata la condanna, obbliga Lucio a scoprire i corpi delle sue vittime, tra gli schiamazzi degli spettatori appaiono tre grandi otri sgonfi e bucati: Lucio ha fatto le spese della festa del dio Riso che si celebra a Ipata ogni anno con qualche esilarante invenzione. Il giovane torna a casa mortificato per la beffa, e Fotide per consolarlo gli promette di farlo assistere agli incantesimi della padrona. La notte seguente attraverso una fessura Lucio assiste alla prodigiosa trasformazione di Panfìla in gufo. Lo stupore in Lucio cede alla curiosità sì che egli prega Fotide di aiutarlo a cimentarsi nella stessa trasformazione. Fotide prende dal forziere l’unguento magico, ma sbaglia vasetto e, appena unto, Lucio si trasforma non in un uccello, bensì in un asino. L’ancella si dispera dell’errore, ma promette a Lucio che il mattino dopo gli farà mangiare delle rose grazie alle quali egli riprenderà l’aspetto umano. Lucio, sebbene cambiato in asino, conserva tuttavia il sentimento e invece di uccidere a calci e a morsi la sciaguratissima ragazza, si rassegna ad attendere l’alba nella stalla. Qui conosce subito le sventure riservate alla condizione di bestia, perché il suo cavallo e l’asino di Milone vedendo l’intruso avvicinarsi alla mangiatoia, lo allontanano a calci, e il proprio servo, che lo sorprende mentre tenta di raggiungere la corona di rose sospesa alla cappella della dea Epona, scarica addosso all’asino sacrilego un nugolo di legnate. Non è nemmeno cessata questa tempesta che una masnada di ladroni assale la casa e impadronitasi di tutte le ricchezze di Milone, carica le bestie della stalla e fugge. Lucio tenta, durante l’attraversamento di una borgata, di liberarsi invocando il nome di Cesare, ma riesce a pronunziare solo un lungo ooooh e i banditi irritati dal raglio gli somministrano un’altra dose di bastonate. Durante una tappa è liberato della soma e pascolando vede in un orto le rose salvatrici ma, mentre sta per addentarle, accorre un ortolano col solito bastone e l’ammazzerebbe se egli non si difendesse validamente coi calci. Dopo altre peripezie l’asino è condotto al covo dei banditi guardato da una vecchia. Il giorno dopo i ladroni rapiscono una fanciulla, Carite, e l’affidano alla vecchia in attesa di chiederne il riscatto alla famiglia. Per consolare la povera giovane, strappata al fidanzato il giorno delle nozze, la vecchia le narra una lunga novella con grande diletto anche dell’asino. L’asino-Lucio, stanco e rotto dalle fatiche e minacciato di finire in pasto agli avvoltoi, durante l’assenza dei banditi taglia la fune e fugge portando Carite in groppa. Ma la notte di luna svela la fuga e i due sono ripresi dai banditi di ritorno da una loro impresa, i quali pensano d’infliggere ai fuggitivi una orribile punizione. Per fortuna sopravviene Tlepolemo, il fidanzato di Carite che, fingendosi bandito, riesce a fare ubriacare i ladroni e farli precipitare da una roccia, libera Carite e la porta in salvo sull’asino. I due fidanzati si sposano e non dimenticano l’asino che viene mandato in campagna a godersi in ozio il pascolo, ma anche qui Lucio continua a sperimentare la malvagità: la moglie dell’asinaio lo sfrutta attaccandolo alla ruota della macina e un ragazzo lo tormenta e alla fine con le sue calunnie rischia di farlo castrare. Con la tragica morte di Carite e Tlepolemo inizia una nuova serie di disgrazie per il povero asino che viene venduto al mercato e Lucio capita nelle mani di alcuni degenerati sacerdoti della dea Syria e imprigionati questi per le loro malefatte, è venduto a un mugnaio, la cui moglie prende a odiarlo perché spettatore dei suoi vizi. Morto il mugnaio per le male arti della moglie, Lucio passa a servizio d’altri padroni, prima un ortolano, poi un soldato, e dalla fame che patisce, dalle inique busse che riceve e dalle scellerataggini di cui è spettatore, conosce le vergogne degli uomini e le miserie della giustizia. Capitato al servizio di due fratelli addetti alla cucina di un ricco signore invece di mangiare la biada ruba i manicaretti preparati per il padrone dai due cucinieri i quali si accusano a vicenda dei furti. Scoperto alla fine, proprio per effetto della sua colpa, ha una tregua alle miserie: è comprato dal padrone che gode un mondo a veder l’asino mangiare a tavola come una persona. Ammaestrato a fare tante cose che finge d’imparare docilmente, Lucio diventa una specie di asino sapiente che il padrone mostra orgoglioso a tutti. Una signora, ammirata dalla sua destrezza, è presa da una morbosa voglia e, asinaria Pasifae [moglie di Minosse re di Creta alla quale Afrodite ispira una violenta passione per un toro e così diventa madre del Minotauro], corrotto il guardiano col danaro, si giace con l’asino.

Il padrone apprende la cosa e pensa di dare uno spettacolo pubblico facendo unire nel teatro l’asino con una donna condannata alle bestie per nefandi delitti. Lucio è deciso a sottrarsi alla vergogna di dare pubblico spettacolo di sé con una donna, e venuto il giorno della rappresentazione, mentre tutti sono intenti ai preparativi, fugge a Cencrea, dove purificatosi nel mare, invoca lamentosamente la luna perché gli ridìa la sua forma umana. In sogno riceve la premonizione di partecipare il giorno dopo ad una sacra processione dove potrà mangiare le rose che il sacerdote recherà.

Lucio si presenta alla festa e addenta la corona che il sacerdote gli porge e, tra lo stupore di tutti riprende, la sua forma umana. Lo stesso sacerdote gli spiega il significato della metamorfosi che è la morale di questa fantastica narrazione [mithos]: l’essere umano che si abbandona al vizio e abdica alla dignità umana si perde e solo la Misericordia divina e la religione possono redimerlo.

     Fòzio, nel comporre il compendio de L’asino d’oro, è molto abile nel lasciare in sospeso l’esposizione dei contenuti con uno stile che provoca la curiosità facendo nascere nella mente della lettrice e del lettore il desiderio di avvicinarsi al testo della “fantastica narrazione [del mithos]” di Apuleio per scoprire come si svolge il geniale racconto nei suoi aspetti particolari [“Il geniale racconto di Apuleio mi dà le vertigini”, scrive Flaubert]. Così facendo Fòzio vuole depistare: vuole ribadire che quest’opera è innanzitutto un godibile romanzo d’amori e d’avventure, arricchito con favole, digressioni mitologiche, episodi comici ed erotici, mentre vuole distrarre dal fatto che Le metamorfosi di Apuleio è soprattutto un’opera in cui vi è, occulto ma continuo, il richiamo ai riti misterici delle dea Iside che, specialmente in area orientale, non hanno mai cessato di essere praticati, nascostamente anche dai Cristiani.

     Nel testo del compendio che abbiamo letto Fòzio fa due grosse omissioni: non dice nulla – neppure il titolo [scrive solo che è “una lunga novella”] – della celebre “favola” raccontata a Carite, rapita dai briganti il giorno delle nozze, dalla vecchia a cui è stata affidata, e poi Fòzio descrive la fine del romanzo di Apuleio come se quest’opera volesse esaltare la “morale” del Cristianesimo e, quindi, l’accorto filologo omette il riassunto dell’XI Libro de Le metamorfosi dove Apuleio illustra nei particolari le cerimonie di iniziazione al culto di Iside in modo che risultino gradite.

     Ora torniamo sul territorio dell’Età tardo-antica, sul sentiero specifico del nostro itinerario: con Fòzio abbiamo fatto un salto di circa sette secoli in avanti e questo balzo ci è utile in chiave interlocutoria perché la lettura del compendio di Fòzio su Le metamorfosi di Apuleio ci serve per poterci porre tre importanti domande alle quali dobbiamo dare delle risposte.

     La prima domanda è: come utilizza la scrittura narrativa Apuleio, come sviluppa la sua “fantastica narrazione”? Fòzio loda la capacità di narratore di Apuleio e vuole concentrare l’attenzione su questo aspetto e lo fa lasciando in sospeso il racconto, come dire: “questo testo è così ben articolato che non lo si può riassumere, quindi, andate a leggere questo romanzo e vi divertirete molto perché di narrativa si tratta non di teologia!”. La seconda domanda è: per quale motivo Fòzio non fa neppure un accenno alla celebre favola che Apuleio ha inserito nel cuore del suo romanzo, La favola di Eros e Psiche: un lungo racconto che vive di vita propria? Alla terza domanda invece è più facile dare subito una risposta: perché Fòzio non riassume il Libro XI de Le metamorfosi di Apuleio? Evidentemente non vuole propagandare i riti misterici della dea Iside e non vuole divulgare un filone seducente della cultura pagana che conserva per tutti un grande carisma dato dal fascino di quello straordinario oggetto che è la luna [Iside].

     Per rispondere alla prima di queste domande – come utilizza la scrittura Apuleio, come sviluppa la sua “fantastica narrazione”? – non possiamo far altro che leggere alcune pagine da Le metamorfosi. Sta di fatto che è veramente difficile scegliere: la scelta è caduta sull’episodio [anche se non è tra i più brillanti] “canonico” della trasformazione di Lucio in asino. Bisogna aggiungere che la lettura de Le metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio non presenta particolari difficoltà: lo stile è già proprio quello del romanzo d’avventure.

LEGERE MULTUM….

Apuleio, Le metamorfosi o L’asino d’oro  Libro III

Vorrei Fotide che tu soddisfacessi un mio vivissimo desiderio, farmi vedere la tua padrona [Panfìla] mentre esegue qualche operazione di questa magica arte soprannaturale, ad esempio quando fa appello agli dèi o almeno quando si muta in altra forma. Io ho infatti un grandissimo desiderio di conoscere da vicino l’arte della magia per quanto anche tu non mi sembri inesperta o digiuna in tale materia. Questo io lo so e me ne accorgo benissimo. Difatti, mi sono sempre curato poco delle carezze delle belle signore, ma tu con i tuoi occhi scintillanti, le tue guance porporine, la tua chioma lucente, i tuoi baci a bocca aperta, il tuo seno profumato, mi hai ridotto al rango di uno schiavo, e il bello è che io ci sto volentieri al tuo servizio. Ormai per me non è più questione né di tornare a casa e nemmeno di far i preparativi per il ritorno: una notte come questa non la cederei per nient’altro al mondo.

Ella rispose: - Vorrei bene, Lucio, accontentare il tuo desiderio. Ma la mia signora, oltre ad essere per natura gelosa della sua arte, ha l’abitudine di compiere sempre i suoi riti misteriosi nella solitudine più completa, lontano dagli sguardi della gente. Eppure voglio anteporre il tuo desiderio al mio rischio e spierò l’occasione opportuna per farti contento. Naturalmente, e te l’ho già detto prima, bisogna che tu osservi su una faccenda così grave il silenzio più scrupoloso.

Frattanto, mentre si chiacchierava, una reciproca sete di piacere ci mette in eccitazione l’animo e il corpo. Ci leviamo in fretta le vesti e nudi ci abbandoniamo freneticamente alle danze di Venere, Fotide volle offrirsi con la massima generosità finché non fummo entrambi stanchi morti e finché sui nostri occhi, illanguiditi per l’amorosa veglia, non scese alfine il sonno e ci avvinse sino a giorno avanzato.

In tal modo trascorrevamo voluttuosamente le notti. Non ne erano passate molte, che un bel giorno Fotide mi corre avanti, tutta commossa e agitata, e mi rivela che la sua signora voleva la notte seguente trasformarsi in un pennuto uccello, visto che con gli altri suoi sortilegi non riusciva sino allora a far alcun passo innanzi nei suoi affari di cuore, in tal forma sarebbe poi andata a trovare volando l’oggetto del suo amore. Perciò mi preparassi con prudenza a contemplare uno spettacolo straordinario.

Erano circa le nove di sera, quando Fotide, in punta di piedi senza far rumore, mi conduce lei stessa sino alla camera al piano superiore e mi invita a mettere l’occhio in una fessura della porta. Ed ecco ciò che vidi.

Dapprima Panfìla si spoglia di tutte le vesti, poi apre un bauletto e ne estrae alcuni vasetti, leva il coperchio a uno di essi, ne trae fuori una pomata, se ne sfrega a lungo le palme e si unge tutta, dalle unghie dei piedi alla cima dei capelli, quindi, dopo un lungo e segreto colloquio con la lucerna è scossa per tutto il corpo da un tremito insistente. Al tremito sottentra poi un lieve palpitare, mentre sul corpo spunta una molle peluria, crescono delle robuste penne, il naso si incurva e si indurisce, le unghie s’ispessiscono e si fanno adunche. E così Panfìla diviene un gufo. Emette uno stridulo lamento, spicca piccoli salti sul pavimento per provar le sue capacità, poi s’innalza e vola via al di fuori con le ali spiegate.

Panfìla, dunque, s’era trasformata a suo piacere ma io, sebbene non fossi stato sottoposto a nessun incantesimo, ero sbalordito per l’accaduto e tutto mi pareva d’essere fuorché il Lucio di prima. Ero fuori di me, come stordito da una frenetica esaltazione, e sognavo ad occhi aperti, mi sfregai persino le palpebre a lungo, per il desiderio di sapere se ero sveglio davvero. Alla fine, quando tornai a riprender coscienza della realtà, afferrai la mano di Fotide e, accostandomela agli occhi, chiesi:                             - Concedimi, ti prego, una dimostrazione del tuo affetto davvero fuori dell’ordinario. Dammi un po’ di quell’unguento, ti scongiuro, o mia dolcissima amica, e lega il tuo schiavo con un beneficio che non potrà mai ripagare. Presto! Fammi stare al fianco della mia Venere sotto forma di Amore alato.

- Che dici? - rispose. - Che volpone che sei, tu vuoi che io mi dia spontaneamente la zappa sui piedi. A stento, ora che sei senz’armi, riesco a proteggerti da queste lupe di Tessaglia! Se diventi un uccello, dove ti cercherò, quando mai ti potrò rivedere?

- Mi preservino gli dèi dal commettere un’infamia simile, - replicai. - Ammettiamo pure che io mi trasformi nell’aquila stessa, che io, innalzandomi in volo, possa scorrazzare per il cielo in ogni direzione in qualità di sicuro e giulivo messaggero del sommo Giove. E con ciò? Io saprei sempre, anche dopo aver ricevuto l’onore di appartenere al regno dei volatili, ritornare al mio dolce nido. Ma ora che ci penso, c’è da fare anche questa considerazione: quando, dopo l’unzione, mi sarò trasformato in un uccello di questo genere, io dovrò girare al largo da ogni abitazione. Che bello ed allegro amante può esser mai un gufo? Potrebbero mai le signore trovar in lui il loro piacere? Ma come! Noi vediamo bene che, quando questi uccelli si introducono in qualche casa, vengono immediatamente presi e inchiodati ai battenti delle porte. Si fa così perché essi espiino col loro supplizio quei lutti che minacciano alle famiglie con i loro voli del malaugurio. Ma io quasi mi dimenticavo di chiederti: che debbo dire o fare per levarmi di dosso le penne e ritornar quel Lucio che ero?

- Stai sicuro, al riguardo ci penso io, - mi rispose. - La mia padrona mi ha dato, caso per caso, tutte le indicazioni che consentono, a metamorfosi avvenuta, di riprendere umane sembianze. Non credere, però, che l’abbia fatto per bontà d’animo. No di certo! Ma solo, perché io potessi al ritorno porgerle la medicina della salvezza. Considera infine quanto sia modesto il valore delle erbe che producono un prodigio del genere: un po’ di aneto con qualche foglia di alloro messo a macerare in un bicchiere d’acqua sorgiva in quantità sufficiente per bagnarsi il corpo e per berne.

Mentre mi ripeteva queste assicurazioni, Fotide profondamente agitata si introduce nella stanza ed estrae una scatolina dal bauletto. Io dapprima la bacio e l’abbraccio, la prego che mi assista e mi accordi un felice volo, poi getto via tutti i vestiti, vi immergo avidamente le mani e, cavata una bella dose di quell’unguento, me ne stropiccio tutte le parti del corpo.

Già cercavo di librarmi in volo, ora muovendo un braccio ora l’altro, nel mio desiderio di trasformarmi in un uccello ma in nessun punto del corpo mi spuntava piuma o penna, al contrario, i miei peli acquistano lo spessore delle setole, la pelle tenera diviene solido cuoio, all’estremità delle palme si perde la divisione delle dita, ed esse tutte si contraggono insieme sino a formare uno zoccolo solo, e al termine della spina dorsale mi spunta un’enorme coda.

Ormai avevo un muso smisurato, una bocca lunga e larga, delle narici spalancate, delle labbra pendule, e così pure le orecchie erano cresciute in modo esagerato e si erano ricoperte di ispidi peli.

Un solo conforto vedevo a questa mia sciagurata metamorfosi, ed è questo: che, mentre non riuscivo più a tenere Fotide tra le mie braccia, i miei attributi di maschio si erano notevolmente sviluppati.

Mentre osservavo tutte le parti del corpo mio, in cerea d’un rimedio che non trovavo, e mi vedevo divenuto asino e non uccello, volli esprimere a Fotide il mio dispetto, per ciò ch’aveva fatto. Ma ormai mi mancava non solo il gesto, ma anche la voce umana, sicché potei solo abbassare l’estremità delle labbra e, guardandola di traverso con gli occhi bagnati di lagrime, indirizzarle la mia tacita supplica. Ella, appena mi vide in tale stato, rivolse contro di sé le mani e si prese a schiaffi: - Disgraziata me! - gridò. - Sono rovinata! L’agitazione e la fretta mi hanno tratta in errore, e anche la somiglianza dei vasetti ha contribuito a ingannarmi. Ma fortunatamente l’antidoto di questa trasformazione è abbastanza facile a trovare: infatti, ti basterà morder delle rose, per uscire di corpo all’asino e ritornare immediatamente il mio Lucio di prima. Volesse il cielo che stasera avessi composto qualche ghirlanda di rose, come faccio di solito! Non dovresti ora sopportare alcun ritardo, nemmeno per una sola notte. Ma sta’ sicuro, che subito all’alba troverai pronto il rimedio.

Così si espresse l’addolorata Fotide. Ma io, pur divenuto asino completo e, da Lucio che ero, una bestia da soma, conservavo ancora l’intelligenza umana. Perciò considerai con molta attenzione, se non era il caso di ammazzare quella femmina infame e scellerata, abbattendola a forza di calci oppure assalendola a morsi.

Tuttavia, una più cauta riflessione mi fece deporre l’imprudente proposito. Temetti cioè, se avessi inflitto come punizione a Fotide la morte, che mi sarei privato anche d’ogni aiuto e speranza di salvezza.

Abbasso dunque il capo e, rassegnandomi alla mia infelicissima situazione, mi ritiro nella stalla, vicino alla mia fedelissima cavalcatura. Qui trovai allogato anche un altro asino che apparteneva a Milone già prima mio ospite. Frattanto pensavo tra me: «Se esiste un qualche tacito e naturale vincolo che leghi insieme gli animali privi di parola, il mio cavallo dovrebbe riconoscermi e sentirsi mosso a pietà nei miei riguardi, dovrebbe quindi offrirmi l’ospitalità e per giunta farmi un trattamento di riguardo». O Giove ospitale! O divinità della Fede che te ne stai solitaria! Quel mio egregio destriero fece comunella con l’asino, e tutti e due si accordarono immediatamente ai miei danni. Temevano, era evidente, per le proprie razioni e, appena videro che mi accostavo alla mangiatoia, abbassarono le orecchie e mi corsero dietro, scalciando rabbiosamente. Così fui costretto a girare alla larga il più possibile dall’orzo. Che bella riconoscenza da parte di un servitore! E dire che, la sera prima, quell’orzo lo avevo apparecchiato con le mie mani.

     La seconda domanda – per quale motivo Fòzio nella sua Biblioteca non fa neppure un accenno a La favola di Eros e Psiche nonostante sia un eccezionale oggetto emblematico? – presupporrebbe una riflessione ben più ampia di quella che stiamo per fare. L’ipotesi più accreditata è che Fòzio non voglia rinfocolare una forma pagana di spiritualità che continuava a covare sotto traccia nell’alto-medioevo cristiano, un periodo percorso da profonde inquietudini, tanto nell’Oriente greco-bizantino [pressato dagli Arabi] quanto nell’Occidente latino ricompattatosi nel Sacro romano impero carolingio. Che tipo di “spiritualità” ha coltivato Apuleio con il testo de La favola di Eros e Psiche? Su questo tema dobbiamo riflettere.

     La favola di Eros [Amore] e Psiche è uno dei più efficaci racconti del repertorio mitico e in esso si ritrovano motivi tipici di tutte le tradizioni culturali del mondo antico [di quella indiana dei Libri dei Veda, di quella beritica dei Libri dell’Antico Testamento, di quella ellenica orfico-dionisiaca]. E l’espressione più compiuta di questa “favola” si trova, in Età tardo-antica, inserita nel testo de Le metamorfosi di Apuleio dove occupa un ampio spazio [una cinquantina di pagine]: parte del quarto Libro, tutto il quinto e parte del sesto.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il consiglio è quello di leggere questa “favola” servendosi di una delle tante traduzioni che sono state fatte in lingua corrente e pubblicate in modo autonomo…

     Nel II secolo dell’Età tardo-antica – un’epoca in cui nessuno crede più agli dèi della tradizione [gli dèi olimpici], in cui prosperano numerose credenze religiose di carattere esoterico e in cui il messaggio cristiano non ha ancora una diffusione tale da costituire un riferimento per la maggioranza – Apuleio, con il racconto de La favola di Eros e Psiche, interpreta il bisogno di una nuova spiritualità che affondi le sue radici nell’antica tradizione legata al culto delle dèa egizia Iside.

     La parola “Psiche” traduce il termine “Anima” e l’allegorico personaggio femminile che porta questo nome rappresenta la persona ansiosa di conoscere, desiderosa di penetrare profondamente la Verità, quindi disubbidiente nei confronti dei limiti imposti dalla divinità che punisce questa presunzione e costringe la persona ad espiare la colpa di aver indagato nell’ambito che riguarda l’origine del bene e del male [come succede ad Adamo ed Eva nel racconto della Genesi]. Questa favola sintetizza chiaramente la vicenda di Lucio e illustra simbolicamente il cammino che il “colpevole curioso”, caduto in disgrazia, deve percorrere per riscattarsi: non è la magia che ci rende immuni, perché la magia ci lega, ma è la nostra adesione incondizionata all’Amore universale [all’Eros] che salva la nostra Anima e ci rende persone autonome. Per Apuleio, quindi, “Psiche” rappresenta l’Anima mentre “Eros” rappresenta un principio cosmico [l’Amore universale] attinto dal pensiero delle Scuole neoplatoniche [che si stanno diffondendo con un’impostazione di natura mistica ben lontana dalla visione laica di Platone]. Apuleio coniuga il principio dell’Amore universale [l’Eros] con i culti misterici della dèa Iside che hanno una valenza di carattere religioso per cui la salvezza è destinata solo agli eletti che ricevono la rivelazione divina dopo un tirocinio mistico [Il Neoplatonismo - il più importante movimento di pensiero dell’Età tardo-antica - si sviluppa nel III secolo su basi prettamente laiche e noi ne studieremo a breve le caratteristiche].

     Nei secoli c’è stato un proliferare di interpretazioni de La favola di Eros e Psiche e, nel corso del ‘900, per il carattere volutamente simbolico di questa “fiaba”, se n’è occupata la psicoanalisi e, in particolare, quella di matrice junghiana, e gli studiosi di questo orientamento hanno letto questa “favola” come una “sceneggiatura” della psicologia femminile. L’Anima è una categoria junghiana fondamentale, è il modello originale della vita stessa ed è il principio dell’Eros, e La favola di Eros e Psiche, così come la racconta Apuleio, illustra in modo esemplare e suggestivo le dinamiche e le relazioni dell’Anima: è una “fiaba di redenzione” cioè un racconto che indica alla persona un possibile percorso per fare l’esperienza del proprio Sé, per prendere coscienza della “propria individualità”. Quando scocca la freccia di Eros, quando ci s’innamora, noi facciamo un’esperienza magica che, però, non è un punto d’arrivo ma è un punto di partenza verso la comprensione della propria individualità: tra due innamorati, all’inizio, esiste una sorta di “congiunzione mistica”, alimentata dal mistero e dalla forza della passione che li unisce, ma poi, con la conoscenza, subentra la presa di coscienza. Nel racconto de La favola di Eros e Psiche [fra poco ne leggeremo un compendio] l’unione tra i due amanti avviene, simbolicamente, nel buio, senza il “controllo della coscienza”, e quando la luce della coscienza – rappresentata dalla lampada di Psiche [la quale vuole vedere con chi sta facendo l’amore] – invade la relazione entra in scena la separazione [che è anche causa di sofferenza] perché, essendo la coscienza una parte della psiche, la separazione diventa necessaria perché la persona possa riconoscere la propria “individualità” per poter scegliere autonomamente di amare.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se dovessimo fare l’elenco di tutte lo opere [letterarie, teatrali, musicali, di arti figurative] che ha ispirato “La favola di Eros e Psiche”, solo per citarne i titoli, le autrici e gli autori noi staremmo qui tutta la notte e oltre: con l’ausilio dell’enciclopedia, della biblioteca, della rete potete aprire il ventaglio delle vostre conoscenze…

     Se vogliamo sentire una “colonna sonora” de La favola di Eros e Psiche [decine di musicisti se ne sono occupati] è utile ascoltare l’importante poema sinfonico, per orchestra e coro, intitolato Psyche di Cèsar Franck [1822-1890], scritto tra il 1887 e il 1888, e composto da sei parti: “Il sonno e i sogni di Psiche”, “Psiche trasportata dagli Zefiri nel giardino di Eros”, “Il giardino di Eros”, “L’incontro di Psiche ed Eros”, “Le sofferenze di Psiche”, “Il trionfo dell’immortale amore di Psiche e d’Eros”. La favola viene interpretata da Cèsar Franck in termini positivi, vuole sottolineare il trionfo dell’Amore e il linguaggio musicale di quest’opera precorre le atmosfere del ‘900 e da essa trae ispirazione soprattutto Debussy.

     Le figurazioni artistiche de La favola di Eros e Psiche sono più numerose di quelle letterarie e musicali e tra le opere moderne sono famosi gli affreschi di Raffaello [e aiuti] alla Farnesina, di Fiorin del Vaga a Castel Sant’Angelo, quelli di Giulio Romano al Palazzo del Tè di Mantova, i quadri del Correggio, del Salviati e dello Zuccheri, del Prud’hon e poi la celebre raffigurazione di François Gérard [del 1798] che troviamo spesso utilizzata in editoria nella quale si capisce, dagli sguardi dei protagonisti, che sono al buio. Tra le sculture sul tema di “Eros e Psiche” è famosa quella di Antonio Canova e la “Psiche abbandonata” di Pietro Tenerani.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate ad osservare queste immagini, che fanno risaltare il testo de “La favola di Eros e Psiche” di Apuleio, utilizzando la biblioteca e la rete…

     Ora non possiamo leggere tutto il testo de La favola di Eros e Psiche – fatelo voi – però dobbiamo conoscere gli elementi fondamentali di questa narrazione e possiamo farlo utilizzando un compendio. La prima versione italiana de Le metamorfosi è di Matteo Maria Boiardo che l’ha intitolata l’Apuleio volgare – nel senso di “tradotto in lingua italiana corrente” – e fatta stampare a Venezia nel 1519, ma la cinquecentesca lingua italiana del Boiardo non è facilmente fruibile, mentre più leggibile è la famosa trasposizione de Le metamorfosi di Apuleio fatta da Agnolo Firenzuola [dal 1515 al 1525], pubblicata a Venezia nel 1550 col titolo L’asino d’oro. Agnolo Firenzuola [1493-1543] traduce genialmente il romanzo di Apuleio in chiave moderna a cominciare dal fatto che il protagonista, Lucio, è chiamato in modo autobiografico Agnolo e nell’opera vengono inseriti usi e costumi del primo Cinquecento. Il Firenzuola compone per divertire e – così come fa Fòzio – esclude il Libro XI che descrive la consacrazione di Lucio al culto di Iside, e preferisce scrivere una pungente satira contro i frati di Sant’Antonio e fare una serie di riferimenti ai propri casi personali, ai propri amori, ambientando il romanzo nella cittadina dove è nato e dalla quale ha preso il nome [“Firenzuola, posta appiè delle Alpi che sono tra Firenze e Bologna”]. L’asino d’oro del Firenzuola ha avuto molto successo e l’autore è stato abile soprattutto a tradurre e a ridurre i testi delle favole del romanzo di Apuleio e, difatti, il compendio cinquecentesco che lo scrittore fa de La favola di Eros e Psiche è un riassunto esemplare che non tralascia nessuno dei temi fondamentali della “fiaba di redenzione”, e allora leggiamolo.

LEGERE MULTUM….

Agnolo Firenzuola, L’asino d’oro [La favola di Eros e Psiche]

Un re e una regina avevano tre bellissime figliole tra cui la minore di bellezza addirittura divina di nome Psiche. La fama di costei si sparse in tutte le terre vicine, e da esse traevano a lei pellegrinaggi per vederla. Il culto della dea Venere era abbandonato a Pafo a Cnido e a Citera, mentre a Psiche erano attribuiti onori divini. Tale rivalità d’una mortale irrita l’animo di Venere la quale, chiamato a sé il figlio Cupido, gli mostra Psiche e lo scongiura di vendicare l’onore di sua madre inducendo Psiche a innamorarsi del più vile essere della terra. Alla fanciulla intanto mai nessun uomo ha ardito accostarsi, tanto che, sospettando i suoi genitori un odio celeste, consultano l’oracolo di Mileto, il quale ordina che Psiche sia rivestita come per la morte, e accompagnata in corteo ferale, abbandonata su un’alta rupe, promessa sposa a un tale di cui trema il cielo e la terra e l’inferno. Psiche, abbandonata su un’alta rupe, è sollevata da terra da un venticello che la posa su un fiorito cespuglio, e qui si addormenta. Risvegliatasi, si avvia e perviene a un meraviglioso palazzo ove ode voci che le dicono essere sue tante meravigliose ricchezze, la invitano a riposare e a prendere poi un bagno, dopo di che sarà servita da tante voci ignude che sono le sue ancelle e che l’ammoniscono di non indagare sulla sua nuova sorte. Invisibili presenze la servono, fanno armoniosi concenti, e infine un ugualmente invisibile marito la fa sua. Il marito le dice di non cercare delle sorelle, di non rispondere alle loro voci e di non mostrarsi a esse quando le sentirà piangere là sullo scoglio dove fu abbandonata, pena una grave sciagura. Egli cede poi alle insistenze di Psiche, e le permette di fare doni preziosi alle sorelle, ma la mette in guardia dai consigli che le daranno. Arrivano le sorelle sullo scoglio, Psiche manda Zeffiro a rilevarle, mostra a esse il suo meraviglioso palazzo, e le rimanda a casa sulle ali del vento, colme di regali e gonfie d’invidia. Ma nelle ripetute visite delle sorelle, Psiche è caduta in frequenti contraddizioni a proposito del suo sposo, che descrive ora in un modo ora in un altro. Le sorelle capiscono che ella non lo ha mai veduto: segno che ella è moglie d’un nume, e d’un nume è incinta. Piene di rabbia, le insinuano lei essere sposa d’un mostro venefico che finirà col divorarla, le consigliano di levarsi di notte, mentre il marito dormirà, vederne le sembianze al lume d’una lucerna e, armata d’un rasoio, ucciderlo colpendolo al collo, dopo di che sarà libera per andare, con tutte le sue ricchezze, a nozze con uno di stirpe umana. Psiche accende la lucerna nottetempo: e invece d’un mostro vede al suo fianco un meraviglioso dio: Cupido. Mentre lo contempla tremando d’amore, una goccia d’olio sfuggitale dalla lucerna sveglia Cupido. Il quale, sorpreso, dilegua per l’aria a volo. Psiche abbandonata, corre a raccontare tutto alle due sorelle. Una di esse, eccitata dalla descrizione del dio, corre a offrirsi a lui sullo scoglio dove di solito era rilevata dal vento servizievole di Psiche. Ma qui è travolta dalle onde. Uguale sorte tocca alla seconda sorella. Intanto un gabbiano informa Venere dell’avventura e della scottatura di Cupido. La dea esce dal bagno e corre dal figlio che rimprovera dei suoi amorazzi, e prega Cerere e Giunone che le trovino quella vagabonda di Psiche. Venere è seccata di dover diventare nonna, e di aver proprio la sua rivale per nuora. Cerere trova Psiche presso le soglie d’un suo tempio ma, per non avere pettegolezzi da spartire con la nipote Venere, si rifiuta di proteggere la poverella. Psiche si rivolge a Giunone, ma inutilmente, che ella non vuole aver l’aria di proteggere una fuggitiva ricercata da sua nuora. Intanto Venere si rivolge a Giove perché le ceda l’aiuto di Mercurio nella ricerca della femminella, e a costui affida un manifesto che contiene il nome e i connotati di Psiche. Il dio dalla voce sonora pubblica per le città il suo bando e il premio, assegnato a chi trova Psiche, che è di sette baci alla dea Venere. Gli uomini muovono alla ricerca. È proprio la Tresca, una delle serve di Venere, che riesce ad acciuffare Psiche vagabonda e a trascinarla presso la dea padrona. La quale, dopo aver inveito contro la miserella, e dettole che mai consentirebbe alle nozze del figlio con lei, le dà da scernere un gran mucchio d’orzo in cui son mischiati grano ceci lenti fave e semi di papavero. Ed ecco che, durante la notte, una schiera di formiche si affanna diligente a compiere il lavoro che Psiche non si sente neppure di tentare. Altri lavori dà Venere da compiere a Psiche sospettando che ella sia protetta da tutti i fedeli del dio d’Amore: uno è di procurarle un bioccolo di lana delle pecore d’oro su un alto monte, un altro di attingerle una brocca d’acqua delle sorgenti del fiume Stige su un’ardua cima, e infine di recarsi all’Inferno, da Proserpina, per avere un vasetto di prezioso cosmetico. Ma tutto il creato aiuta Psiche, dall’umile canna a una torre, che parlano e le insegnano come uscire da tali prove. Avuto il vasetto del cosmetico, Psiche pensa di adoperarne un poco per piacere al suo Cupido. Ma l’unguento la immerge in un sonno mortale. Senonché Cupido, non tollerando l’assenza di Psiche, la ritrova e la risuscita, e mentre ella riprende la strada per portare il dono di Proserpina a Venere, egli vola verso Giove e gli chiede di consentire al suo matrimonio con Psiche. Giove non resiste alla preghiera di Cupido, come non ha mai resistito agli assalti di lussuria con cui il giovane procace s’è spesso fatto gioco di lui; riunisce gli Dei e annuncia che, volendo frenare il giovane Cupido col matrimonio, darà il suo assenso alle nozze. Inviato Mercurio a rilevare Psiche, Giove le offre un bicchiere d’ambrosia che la farà immortale. Si celebrano le nozze e si banchetta splendidamente. Da Amore e Psiche nacque poi una figliuola chiamata Voluttà.

     Questa favola è un gioiello della fantasia alessandrina e il mito che contiene è stato assorbito dalla simbolistica cristiana per i suoi significati allegorici e spirituali e presta molti tratti a note leggende medievali come quelle di Lohengrin, della bella Melusina, di Cenerentola, ma l’elenco dello Opere che traggono ispirazione da questa “favola” riempie molte pagine.

     Il racconto allude passo per passo ai misteri di Iside utilizzando le figure delle divinità olimpiche: l’elemento satirico e quello mistico s’intrecciano. Venere, gelosissima perché la sua bellezza viene oscurata da quella di Psiche, manda sulla terra Cupido [Eros] affinché colpisca la fanciulla con una delle sue frecce per punirla ma Cupido s’innamora di lei e questo fatto rappresenta la caduta del divino nella materia ed è anche la prova che la divinità [Eros] può aiutare l’anima [Psiche] a riprendere la via del ritorno verso la patria ultraterrena. Le tappe di questo ritorno [in greco “epistrophe epistrophé”] sono rappresentate dalle cerimonie di iniziazione al culto di Iside: un oracolo chiama Psiche alle nozze con Cupido e questo rito viene descritto come un atto di morte: una morte in funzione della rinascita. Cupido chiede a Psiche la discrezione assoluta verso le sorelle: Psiche giura perché la segretezza è un obbligo per tutti coloro che entrano nella comunità dei misteri [nel culto esoterico]. Le sorelle di Psiche simbolizzano i profani, e i veri parenti dei “misti [gli iniziati]” sono i loro fratelli e sorelle di fede. Ma Psiche viola il giuramento e si lascia indurre dalle sorelle ad osservare lo sposo di notte, e la curiosità peccaminosa è fatale a Psiche [come lo è per Lucio] e il dio si separa da lei.

     La scena della lampada ha carattere misterico: la visione del dio – rappresentato su un’icona tenuta nascosta – è la fase finale del rito di iniziazione che procura la massima felicità all’Anima e, dopo la cerimonia, la persona iniziata deve ritornare nel mondo e continuare a cercare il dio, a cercare i segni  dell’Amore universale. La missione di Psiche è quella di cercare lo sposo superando le prove a cui deve sottoporsi che rispecchiano quelle dell’iniziazione ai misteri di Iside, e solo in apparenza Venere [sotto il cui velo traspare Iside] rivolge la propria collera contro Psiche perché in realtà le prove servono a rendere possibile la sua riunificazione con Cupido [con Eros] e l’attuazione dell’Amore universale. Psiche [l’Anima] cerca lo sposo [Eros] come la dea Iside ha cercato Osiride, il suo sposo: secondo l’antica religione egizia contaminata dalla cultura greca-ellenistica.

     I misteri di Iside hanno una loro teologia, in parte mutuata dal “mito di Iside” e in parte dai “miti di Platone”. Ma che cosa racconta l’antico mito di Iside? Il mito di Iside ha dato spunto alla creazione di un gran numero di racconti, con molte varianti, ma alla base di tutte le narrazioni c’è un catalogo di elementi comuni che dobbiamo conoscere.

     La dèa Iside [l’incarnazione della luna] è sposata con il saggio dio Osiride [il sole], il re d’Egitto che ha un perfido rivale: suo fratello Seth [Tifone, l’Asino]. La sposa di Seth Nephthys s’innamora di Osiride e gli fa delle proposte che Osiride respinge. Di qui la gelosia di Seth per Osiride e un giorno, mentre Osiride è a caccia, Seth si trasforma in un cinghiale, attacca Osiride e lo uccise. Quando Iside sa della morte dello sposo parte alla ricerca del cadavere e quando lo trova vi si getta sopra e lo bacia appassionatamente e il bacio infonde energia all’anima di Osiride: il suo corpo rimane esanime ma l’elemento divino che è in lui trapassa nell’aldilà dove Osiride inizia a vivere come re dei morti. A Iside appare in sogno lo sposo che le svela come sia stato ucciso, e intanto Seth rivendica il trono e la mano di Iside, lei finge di accettare la proposta, lo invita a cena, lo fa bere e lo acceca. Ucciderlo non era possibile in quanto Seth incarna il Male che continua ad esistere sulla terra.

     I misteri di Iside hanno una loro teologia in parte mutuata dal “mito di Iside” [ne conosciamo gli elementi di base] e in parte dai “miti [dai bellissimi racconti]” che Platone ha scritto nei suoi Dialoghi per spiegare i punti salienti del suo pensiero. I cultori della dottrina di Iside utilizzano il racconto platonico per ribadire che l’anima non è saldamente vincolata al corpo, ma vi è precipitata dalle regioni dell’aldilà e deve tentare di sciogliersi dal corpo per ritornare al suo creatore. La causa della caduta risiede nella bellezza del corpo terreno alla cui vista l’anima s’è infiammata d’amore ed è questo amore che spinge l’anima a penetrare nel corpo. Solo dopo le molte peripezie della vita terrena essa potrà liberarsi del corpo e ritornare all’origine e, per fare questo, ha bisogno di seguire i riti di una religione misterica, i misteri di Iside.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Come si fa a non scrivere quattro righe a proposito della luna?

Scrivetele

     Il cristianesimo per imporsi dovrà incorniciare la sua dottrina con elementi liturgici mutuati dai culti delle religioni misteriche. Iside non può sconfiggere Seth che rappresenta il Male, il quale, accecato, continua a sussistere sulla terra, ed è dal finale del “mito di Iside” che deriva l’attributo più filosofico della luna: l’indifferenza, l’impassibilità nei confronti del male.

     Giacomo Leopardi ha utilizzato anche, ad arte, la metafora poetica della “luna indifferente” [che è un bene comune in funzione dell’apprendimento permanente] per esprimere la sua idea di “pessimismo cosmico”, e Trilussa [il poeta Carlo Alberto Salustri] lo ha imitato.

LEGERE MULTUM….

Trilussa, Lupi e Agnelli

Er Somaro e la Luna

C’era ‘na vorta un Somaro, in mezzo a un prato,

che rajava a la Luna. Passò un Gatto:

- Lascila perde! - disse - Che t’ha fatto?

Perché te guarda? Quanto sei ridicolo!

La Luna guarda tutti, ma nun bada

a quelli che s’ammazzeno pe’ strada.

... continua la lettura ...

     Platone non avrebbe sopportato che i suoi “miti” fossero interpretati in termini sacrali ed è appunto per “liberare” le idee di Platone dall’egida mistica e religiosa che compare, sul territorio dell’Età tardo-antica, una delle correnti filosofiche più importanti di tutta la Storia del Pensiero Umano: il Neoplatonismo.

     Ci vediamo ad Alessandria tra quindici giorni dove c’è una persona che – tra decine di Scuole rinomate e costose – non ne trova una che lo soddisfi. Chi è e che cosa cerca questa persona?

     Per rispondere a queste domande la Scuola è qui e, dopo la riflessione sul “ritorno alla democrazia [il 25 aprile]” e sul “diritto-dovere al lavoro [il 1° maggio]”, si riparte [mercoledì 8, giovedì 9, venerdì 10 maggio] per l’ultima fase del nostro viaggio…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 19, 2013