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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA AL TERMINE LOGOS SI SOVRAPPONE IL NOME DI GESÙ CRISTO ...

Lezione N.: 
20

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica 20-21-22  marzo 2013

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

AL TERMINE LOGOS SI SOVRAPPONE IL NOME DI GESÙ CRISTO ...

     Con il ventesimo itinerario di questo viaggio, che ci ha permesso di attraversare già più dei due terzi del “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”, ci accingiamo a celebrare la Pasqua, e l’avvenimento pasquale, che la liturgia ci propone, rievoca dei fatti – la passione, la morte, la risurrezione di Gesù di Nazareth – che sono avvenuti proprio in Età tardo-antica, al tempo di Tiberio.

     La scorsa settimana – su quest’ampia area di confine tra l’Antichità e il Medioevo – abbiamo fatto tappa di fronte al paesaggio intellettuale de “l’Età degli imperatori d’adozione” e abbiamo osservato lo scenario del primo periodo di quest’Epoca, dal 96 al 117, che è il momento del principato di Cocceio Nerva e di Ulpio Traiano.

     Questa sera ci troviamo ancora di fronte a questo scenario sul quale [come sappiamo] emergono due temi significativi: uno di carattere letterario che riguarda la condizione esistenziale che pervade il territorio del tardo-antico e che, tutt’oggi, chiamiamo la “malora”, e stiamo riflettendo su questo concetto antropologico in funzione della didattica della lettura e della scrittura [secondo la natura del nostro viaggio] in compagnia di uno autore contemporaneo che si chiama Beppe Fenoglio [che abbiamo incontrato da vicino la scorsa settimana], del quale stiamo leggendo il testo del suo breve romanzo [pubblicato nel 1954] intitolato La Malora: questa sera, attraverso le pagine che leggeremo, siamo invitate e invitati ad un matrimonio, che si presenta come un avvenimento combinato e contrattato proprio come accadeva in Epoca tardo-antica.

     Il secondo tema, che emerge dal paesaggio intellettuale che contiene lo scenario del primo periodo de “l’Epoca degli imperatori d’adozione [l’Età di Nerva e di Traiano]”, corrisponde ad un importante argomento [di cui conosciamo diversi aspetti]: il tema della fioritura della Letteratura dei Vangeli, uno degli avvenimenti culturali più importanti non solo dell’Epoca tardo-antica ma di tutta la Storia del Pensiero Umano.

     Sappiamo che l’evento evangelico non nasce dal nulla e l’ortodossia del cristianesimo si sviluppa in Epoca tardo-antica in rapporto con la cultura greca per opera di un movimento intellettuale al quale è stato dato il nome di “tendenza conciliativa”: una corrente di pensiero che tende ad attuare l’integrazione tra la cultura ebraica dell’Antico Testamento, la nuova cultura evangelica e la filosofia greca [le forme presenti nella nostra mente sono state determinate, soprattutto, da questa operazione culturale]. Sappiamo anche che tra coloro i quali hanno dato sviluppo intellettuale alla “tendenza conciliativa [che hanno dimostrato di possedere la predisposizione mentale all’accordo, all’intesa, al patto, al compromesso, all’accomodamento]” ci sono i Padri Apostolici [Clemente, Policarpo e Ignazio]: tre personaggi [Clemente e Policarpo li abbiamo già incontrati nelle scorse settimane] che tracciano idealmente una linea – la linea, così detta, del “radicamento culturale dell’evangelizzazione” – e questa linea corrisponde ad una strada che unisce tre città fondamentali per la nascita e per la diffusione del Cristianesimo: la prima evangelizzazione [e l’incubazione della Letteratura dei Vangeli: canonica, apocrifa ed enciclica] si sviluppa lungo la strada che va da Antiochia [oggi è la città turca di Antakya] a Smirne [oggi è città turca di Izmìr] fino a Roma. Su questa strada – anch’essa lastricata con le parole-chiave con cui comincia a finire l’Età antica [la patria e l’esilio, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, il trionfo della morte e la speranza della risurrezione] – viaggiano [insieme alle persone o per lettera] le idee-cardine che hanno dato forma e contenuto alla dottrina della Chiesa e all’ortodossia cristiana.

     Questa sera la strada che da Antiochia, attraverso Smirne, porta a Roma, la percorreremo per intero insieme ad Ignazio di Antiochia, il terzo Padre Apostolico che stiamo per incontrare, ma prima dobbiamo andare al matrimonio di Ginotta Rabino e, insieme ad Agostino – il giovane protagonista del romanzo La Malora di Beppe Fenoglio – dobbiamo partecipare, per mezzo di questo straordinario veicolo che è la lettura, al pranzo di nozze “per allungare [così ci ha detto Agostino la scorsa settimana] una buona volta le gambe sotto una tavola che merita”.

     Fenoglio, in questo testo di carattere “epico”, descrive, con grande realismo, come le donne vengano sfruttate fino all’esaurimento di ogni energia e come rappresentino l’anello forte che tiene insieme questa società investita dalla “malora” e, paradossalmente, come vengano spesso identificate loro medesime con la “malora” stessa anche se sono le uniche a saper governare i complicati rapporti umani in un ambiente avaro di sentimenti e affettivamente povero dove i matrimoni vengono combinati e contrattati dai sensali e dove gli sposi, quasi sempre, s’incontrano per la prima volta il giorno del matrimonio e poi la sposa deve abbandonare la propria casa e la propria famiglia con la quale non avrà più rapporti se non molto occasionali.

     Sembra che Ginotta – la quale ha più di un pretendente – sia destinata a sposare un giovanotto che si chiama Amabile: i due si conoscono, vivono nella stessa zona e sono consenzienti ma le trattative sulla consistenza della dote, richiesta dalla famiglia dello sposo, non vanno a buon fine e sarà proprio la ragazza, in ultima istanza, a definire il suo valore al ribasso per accontentare suo padre. E ora leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Beppe Fenoglio, La Malora

Non capitò più niente di straordinario, se non che si sposò Ginotta. Noialtri ci sognavamo quella data perché avremmo una buona volta allungato le gambe sotto una tavola che meritava. Come tutti su quella langa, io facevo Amabile l’uomo di Ginotta. Difatti i suoi di lei avevano dato licenza al sensale di quello d’Agliano e solo più il sensale d’Amabile si faceva vedere al Pavaglione, ma erano le sue ultime visite; era già un po’ di feste che dopo messa Amabile accompagnava Ginotta davanti a noi dalla chiesa fino al bivio del Pavaglione e la sera che noi tornavamo da Cappelletto da veder giocare i forti al pallone Ginotta non mancava mai di domandarci se Amabile aveva vinto o perso, perché Amabile era il capo d’una delle quadriglie.

... continua la lettura ...

     Agostino Braida, la voce narrante del romanzo La Malora, non racconta più nulla di Ginotta Rabino e noi speriamo che sia stata una sposa felice e ora, a proposito di “spose”, stiamo per fare conoscenza con Ignazio di Antiochia, e per quale ragione colleghiamo il nome del Padre Apostolico Ignazio con il termine “sposa”?

     Dobbiamo ricordare che il primo nucleo di “sentenze” riguardanti la Letteratura dei Vangeli e il primo catalogo di parole-chiave significative che costituiscono la struttura di base della “dottrina cristiana” prendono forma ad Antiochia: Antiochia è la città “madre” del Cristianesimo. La Chiesa – secondo la Tradizione – nasce ad Antiochia [e il testo degli Atti degli Apostoli, al capitolo 11, afferma che i “cristiani” sono stati chiamati così per la prima volta in questa città] ed è ad Antiochia che prende corpo la significativa metafora che costituisce la prima definizione della Chiesa, ed è proprio Ignazio a coniare questa allegoria nel testo di una sua Lettera, parafrasando il Libro biblico del Cantico dei Cantici: «La Chiesa è la sposa di Cristo», ed ecco perché colleghiamo il nome di Ignazio con il termine “sposa”.

     Ignazio, secondo la Tradizione, è stato vescovo di Antiochia dall’anno 70 [l’anno in cui l’imperatore Tito ordina la distruzione del Tempio di Gerusalemme e molti giovani ebrei, combattenti nella guerra giudaica, si rifugiano ad Antiochia] all’anno 107 e, prima di incontrarlo da vicino, noi dobbiamo puntare la nostra attenzione sulla città di Antiochia.

     Antiochia oggi è una città turca che si chiama Antakya e, anche se conserva poco del suo antico splendore, merita di essere visitata: la città è stata fondata sulle sponde del fiume Oronte nel 301 a.C. da Seleuco I Nicatore, il figlio di uno dei generali [i diadochi] di Alessandro Magno [i diadochi, dopo la morte di Alessandro nel 322 a.C., si sono fatti la guerra per anni e poi hanno diviso l’enorme territorio conquistato dal condottiero macedone in quattro grandi Regni – di Macedonia, d’Egitto, di Siria e di Pergamo – contornati da tanti Staterelli]: ebbene, Seleuco I Nicatore ha dato a questa città il nome di Antiochia in onore di suo padre Antioco. La città di Antiochia è stata fondata per essere la capitale del regno di Siria, la sede della monarchia ellenistica dei Seleucidi e, dal II secolo a.C., è diventata un centro d’affari molto importante sotto la gestione dei mercanti greci ed ebrei. Ad Antiochia è anche sorta la terza grande Biblioteca ellenistica dopo quella di Alessandria e di Pergamo. Questa città è arrivata ad avere più di cinquecentomila abitanti perché – soprattutto dopo la conquista romana [133 a.C.] – diventa il primo centro di raccolta della migrazione di manodopera da sud verso nord.

     Ed è proprio ad Antiochia che, in Età tardo-antica [alla metà del I secolo], si forma e si sviluppa il movimento dei cosiddetti “cristiani-ellenisti” che svolge un ruolo di primo piano nella diffusione della “buona notizia” della risurrezione di Gesù. I cosiddetti “cristiani-ellenisti” [la prima generazione di Cristiani propriamente detti] sono dei giovani Ebrei che, per mancanza di lavoro, migrano dalla terra di Canaan verso nord, verso le città ellenistiche e, quindi, cominciano a parlare il greco della koiné e sentono anche la necessità di svecchiare la cultura – troppo rigida e clericale – dell’Ebraismo. Sappiamo che la diaspora ebraica [la dispersione degli Ebrei sul territorio dell’Ellenismo] è in atto da circa cinque secoli e in tutte le città [da Antiochia fino a Roma] sono sorte delle Sinagoghe [in ebraico “Bet ha-Knesset”, “casa dell’assemblea”] e sono proprio questi migranti di ultima generazione che portano nelle Sinagoghe [prima di tutto ad Antiochia] la “buona notizia” della predicazione, della passione, della morte e della risurrezione di quel rabbi che si chiama Gesù di Nazareth [che aveva anche predetto la distruzione del Tempio]:  questo  messaggio “di salvezza e di liberazione” trova udienza perché nelle comunità ebraiche della diaspora [come sappiamo, avendolo studiato a suo tempo] esiste un movimento riformatore che si è messo in moto da tempo sulla scia della cultura ellenistica e che ad Alessandria ha promosso la traduzione in greco [la cosiddetta traduzione dei Settanta] dei testi biblici [e abbiamo studiato nei particolari questo avvenimento nel Percorso dell’anno 2007-2008, e potete rileggervi e riascoltare i testi di quelle Lezioni collegandovi ai nostri siti].

     Questi migranti – i cosiddetti “cristiani-ellenisti” – portano ad Antiochia [che è, come abbiamo detto, il primo grande avamposto del movimento migratorio verso nord-ovest] la “notizia della risurrezione” e narrano i primi eterogenei “racconti” sulla figura di Gesù di Nazareth, ed è così che l’evento evangelico oltrepassa la ristretta cerchia del giudaismo-palestinese e si sviluppa, tradotto in greco, secondo i parametri della cultura ellenistica.

     Sappiamo che i “cristiani-ellenisti” di Antiochia – per aver preso questa iniziativa [ed è Paolo di Tarso, come abbiamo studiato a suo tempo, ad informarci nel suo Epistolario] – si mettono anche in urto con gli Apostoli [con Pietro e con Giacomo “il fratello del Signore”] i quali, a Gerusalemme, ritengono di aver ereditato loro il messaggio di Gesù e vogliono annunciarlo senza allontanarsi dal Tempio. Pietro e Giacomo “il fratello del Signore” considerano [ed è Paolo che c’informa in proposito] un gesto sacrilego quello di contaminare la parola ebraica [aramaica] di Gesù con il linguaggio blasfemo dell’Ellenismo: Gesù è venuto [così pensano gli Apostoli] per “ricostituire il Regno d’Israele” non per portare un messaggio di salvezza universale sul territorio dell’Ecumene governato dai Romani. Queste due differenti visioni contrapposte – la visione localistica di “quelli di Gerusalemme [come provocatoriamente li chiama Paolo]” e la visione ecumenica di quelli di Antiochia – creano uno strappo insanabile e, agli albori del II secolo in Epoca tardo-antica, nasce l’esigenza culturale di “ricucire questo strappo” quando la “buona notizia [il vangelo]” si è ormai diffusa sul territorio dell’Ecumene [da Antiochia a Smirne, da Smirne a Roma]: ormai i protagonisti [Pietro, Giacomo “il fratello del Signore” e Paolo] di questa “rottura” sono morti e a Gerusalemme della storia di Gesù di Nazareth non ne rimane che un’eco debolissima.

     Della “ricucitura dello strappo” in termini culturali – secondo i parametri della cultura greca e secondo lo spirito d’integrazione – se ne occupano i Padri Apostolici con le loro Opere soprattutto di carattere epistolare. Sappiamo che l’opera esemplare sulla “ricucitura dello strappo” in termini culturali tra Apostoli cananei [Pietro, Giacomo “il fratello del Signore”] e Discepoli ellenisti [Paolo] è il testo degli Atti degli Apostoli confezionato dalla Scuola ellenistica di Clemente Romano: secondo il testo degli Atti la Chiesa di Antiochia nasce con l’approvazione di Gerusalemme, con il benestare di Pietro tramite la figura di Barnaba che, insieme a Paolo, risulta essere il principale mediatore tra gli Apostoli rimasti a Gerusalemme e i cosiddetti “cristiani-ellenisti”: questo passo strategico lo possiamo leggere nel capitolo 11 degli Atti degli Apostoli dal versetto 19 al versetto 30. Il fatto è che Paolo di Tarso, nelle sue Lettere, racconta tutta un’altra storia: la storia drammatica e realistica – che lui ha vissuto in prima persona – dell’insanabile disputa e della irreparabile rottura tra “quelli” di Gerusalemme e i “cristiani-ellenisti” di Antiochia.

     Ed ecco che nel testo degli Atti – di fronte a questa situazione di dolorosa lacerazione – emerge il sapiente ruolo di mediazione di Clemente Romano: se nel capitolo 11 degli Atti degli Apostoli puntiamo la nostra attenzione sulla seconda parte del versetto 26 [fate questo esercizio di ricerca] noi comprendiamo bene che, mentre da una parte si tesse l’apologia dell’armonia che s’instaura tra tutti i membri della ipotetica originaria Chiesa di Gerusalemme [i discepoli di Gesù formano un gruppo che s’identifica completamente con la cultura dell’ebraismo], dall’altra si vuole mettere in evidenza, senza finzioni, una precisa realtà storica, ed è per questo che nel versetto 26 si legge: «Proprio ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani». Con questa affermazione il testo degli Atti degli Apostoli – che è il testo del proto-catechismo cristiano – vuole alludere al fatto inequivocabile che ad Antiochia [non a Gerusalemme] è nato il Cristianesimo: è ad Antiochia che è nata la Chiesa “sposa di Gesù Cristo” così come scrive Ignazio invitando “all’unità”.

     Antiochia è la città dove viene cristianizzato Paolo di Tarso [Shaul Tarsensis] e da dove lui parte per viaggiare sul territorio dell’Ecumene. La città di Antiochia è la prima ad essere chiamata “metropolitica” cioè la “città della chiesa-madre” e, quindi, il vescovo di Antiochia ha avuto un grande ascendente su tutta la cristianità delle origini.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una visita ad Antakya utilizzando la guida della Turchia e collegandovi alla rete e poi leggete il capitolo 11 degli Atti degli Apostoli dal versetto 19 al versetto 30…

     E adesso per entrare in contatto con Ignazio, il più celebre dei vescovi di Antiochia, è necessario raccontare una storia che è entrata a far parte della Tradizione.

     Nei primi mesi dell’anno 107, mentre tutto l’impero romano celebra la vittoria definitiva dell’imperatore Traiano sui Daci [e questa è un’altra storia di cui abbiamo già parlato], una strana comitiva viaggia dalla Siria verso Roma. Questa comitiva è formata da un plotone di dieci duri soldati romani, armati di tutto punto [“teste di cuoio”, diremmo oggi] i quali stanno svolgendo una missione speciale: hanno ricevuto l’ordine di trasferire nella capitale un “pericoloso” prigioniero che si chiama Ignazio ed è il vescovo della comunità cristiana di Antiochia. Quando il comandante e i soldati di questo plotone arrivano nel carcere di Antiochia e vedono il “pericoloso prigioniero” da tradurre a Roma rimangono sconcertati perché si trovano di fronte un mite uomo anziano, di bassa statura, un po’ curvo e un po’ claudicante che si mostra subito a loro come una persona dolce e simpatica, piena di spirito, la quale, non solo non oppone resistenza, ma parla con pacatezza e sorride sempre bonariamente e chiama “cari fratelli” questi nerboruti soldati delle forze speciali. Ignazio, il vescovo di Antiochia, è stato condannato a morte per “ateismo [non vuole riconoscere che nella persona dell’imperatore vi sia una natura divina]” e per “lesa maestà”, e la puntigliosa magistratura romana prevede per questo reato la condanna “ad bestias” [ad essere sbranati dalle belve]”, e la condanna deve essere eseguita nel circo davanti all’autorità “religiosa” [il Pontefice Massimo]che attribuisce alla figura dell’imperatore un carattere “divino”: il Cristianesimo dei Padri Apostolici – e questo concetto Ignazio lo ha anche messo per iscritto – non si presenta come una “religione” ma come una “convinzione [una fede]” basata sul principio che “tutti gli uomini sono stati creati uguali” e non si debba fare di nessun uomo un “idolo” e, difatti, il “Signore ” [Kyrios] dei Cristiani non è un “dio ” [un divo da idolatrare] ma è il Figlio di un Padre che dispensa “bontà e misericordia” e, piuttosto che essere adorato, chiede di essere amato attraverso il “prossimo”.

     Il viaggio di Ignazio da Antiochia a Roma è, prima di tutto, la metafora della lunga marcia dell’evangelizzazione dalla periferia al cuore dell’impero ed è un viaggio straordinario perché, al passaggio di Ignazio di paese in paese, tutti i membri delle comunità cristiane si muovono per andarlo a salutare, per vederlo, per parlargli, per chiedergli consigli e queste scene di affetto e di commozione si rinnovano giornalmente e, secondo la Tradizione, strada facendo, anche i suoi custodi in armi [che Ignazio chiama confidenzialmente i miei “leopardi”] si convertono. Lungo il percorso Ignazio vuole manifestare la sua riconoscenza anche a coloro che non sono potuti venire di persona a salutarlo e così, cammin facendo, scrive anche quattordici Lettere e sette di queste Lettere sono considerate autentiche. Ignazio scrive alla comunità di Efeso, di Magnesia, di Tralli, di Roma, di Filadelfia, di Smirne e, poi, scrive a Policarpo pregandolo di scrivere lui alle altre Chiese perché Ignazio non ce l’avrebbe fatta a scrivere a tutti: con questo si vuole affermare che il Cristianesimo, all’inizio del II secolo, ha già conquistato una vasta popolarità.

     Le sette Lettere di Ignazio di Antiochia [alla comunità di Efeso, di Magnesia, di Tralli, di Roma, di Filadelfia, di Smirne e a Policarpo] sono state raccolte, conservate e trascritte e costituiscono l’Epistolario cristiano più antico e autorevole dopo quello di Paolo di Tarso e non si possono leggere queste Lettere senza restare colpiti dal loro stile spontaneo, commosso, ed è doveroso che la Scuola ne consigli la lettura. L’Epistolario di Ignazio di Antiochia è una significativa opera di “sapienza poetica e filosofica di Età tardo-antica” ed è anche un importante esempio di Letteratura dell’Umanesimo e ha, quindi, un posto di rilievo nella Storia del Pensiero Umano.

     Non c’è in queste Lettere una grande perfezione formale ma il linguaggio è diretto, è di carattere popolare, ed è energico e appassionato, ed è dotato di una particolare carica spirituale proveniente da una profonda riflessione esistenziale. Nell’Epistolario di Ignazio di Antiochia s’incontra uno scrittore dalla forte personalità che non cita esplicitamente né l’Antico Testamento né la Letteratura dei Vangeli [che, peraltro, è in via di formazione] ma edifica un messaggio di salvezza secondo lo spirito ecumenico operando per l’integrazione tra la cultura ebraica, la cultura evangelica e la cultura greca.

     Le Lettere di Ignazio di Antiochia contengono le parole-chiave e le idee-cardine [i grandi temi esistenziali dell’autorità, del tempo, della giustizia , della libertà, il concetto di Dio, la definizione del Cristo della fede] così come le ha elaborate ed espresse Paolo di Tarso nel suo Epistolario e questo significa che i temi contenuti nelle Lettere di Paolo [circa quarant’anni dopo la sua morte] hanno ormai costituito [in particolare nelle Ekklesìe di Antiochia, di Smirne e di Roma] una “base intellettuale” su cui, all’inizio del II secolo, si va costruendo, attraverso le Opere dei Padri Apostolici, la “dottrina” della Chiesa.

     Nelle Lettere di Ignazio di Antiochia il tema dominante è quello dell’unità tra i credenti, una “unità” che si realizza [secondo Ignazio] nell’esprimere dei sentimenti collettivi e con uno stile di vita comune … «Dilette sorelle e cari fratelli [scrive Ignazio in tutte le sue Lettere] vivete con ardore eroico, con intrepido entusiasmo, con totale umiltà uniti al vostro vescovo che deve assistervi nella fede e deve mantenersi con il proprio lavoro».

     L’Epistolario di Ignazio ha avuto una vasta diffusione ed è stato tradotto, oltre che in latino, in lingua siriaca, armena e copta. In Età tarda-antica i Padri Apostolici sono consapevoli che la Chiesa, materialmente, non nasce intorno ad un “messia” che viene lasciato solo e non nasce intorno agli Apostoli che rimangono ancorati al Tempio di Gerusalemme [come apprendiamo dalle Lettere di Paolo]. La Chiesa non nasce neppure intorno a Paolo di Tarso che viaggia e scrive Lettere per animare “piccoli gruppi di opinione”. La Chiesa nasce e si sviluppa, dopo il I secolo, intorno alle figure dei “vescovi [dei pastori]” a cominciare dai Padri Apostolici che animano le principali Chiese delle origini [Antiochia, Smirne, Roma].

     Ed è proprio Ignazio di Antiochia che, nelle sue Lettere, costruisce [come abbiamo già letto] il ruolo del “vescovo”, scrive Ignazio: «Il vescovo [il pastore, e con questa parola Ignazio richiama il Libro di Amos secondo cui il profeta non può che essere un pastore], eletto dalla sua comunità, diventa l’espressione materiale, spirituale, culturale della comunità stessa e diventa il perno della vita cristiana sotto ogni aspetto, è il centro dell’unità, è la garanzia della presenza di Cristo, è la guida per la realizzazione della solidarietà sulla terra come ci chiede il Padre nostro che è nei cieli».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Abbiamo ricevuto quasi tutte e tutti noi il sacramento della Cresima che ci è stato impartito da un Vescovo: avete un ricordo del Vescovo che vi ha cresimate e cresimati?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Il testo della Lettera ai Romani di Ignazio di Antiochia – inviata molto probabilmente al vescovo di Roma Alessandro [Alessandro I, papa dal 105 al 115] – è bello e commovente e noi ne leggiamo un frammento: Ignazio ammonisce i suoi confratelli romani a non intercedere per lui presso l’imperatore perché vuole seguire fino in fondo l’esempio di Gesù.

LEGERE MULTUM….

Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani

Dilette sorelle e cari fratelli, vi scrivo da Smirne nove giorni prima delle calende di settembre [il 24 agosto] per comunicarvi il mio timore che voi possiate intervenire presso l’imperatore per evitarmi la morte: vi prego, non lo fate! E se, arrivato presso di voi, fossi preso da qualche sbandamento per aver salva la vita, non ubbiditemi ma ubbidite a quanto vi scrivo. Io credo che per me sia più conveniente il martirio e sono fiero di essere stato eletto a seguire l’esempio di Cristo: solo quando del mio corpo non rimarrà sulla terra nessuna traccia, la mia anima potrà assumere in cielo la sua vera e più alta natura, la stessa natura divina del Logos [il Sommo Bene] che per noi è Cristo risorto. Mi si conceda quindi di seguire l’alta via alla quale, per volere del cielo, sono stato destinato che è l’unica via possibile di salvezza: sulla terra siamo in esilio, la nostra patria è il cielo e con sentimento sincero e profondo v’invito a credere a ciò che vi dico.

     In questo frammento della Lettera ai Romani di Ignazio di Antiochia – databile all’anno 107 – ci sono almeno tre idee di grande interesse: l’idea che la vita terrena corrisponde all’esilio, l’idea che la patria è il cielo e l’idea che la figura di Cristo risorto corrisponde a quella del Logos che coincide con il concetto di Sommo Bene nel pensiero epicureo, stoico e neoplatonico.

     Prima di commentare queste idee, in particolare l’ultima [sul tema del Logos], riprendiamo la citazione, dal brano che abbiamo letto in precedenza, in cui Ignazio dichiara che “il vescovo deve mantenersi con il suo lavoro”, e Ignazio, a questo proposito, riprende il pensiero di Paolo di Tarso su questo argomento [Paolo polemizza aspramente con chi dice che lui si farebbe mantenere], e noi prendiamo spunto da questa citazione per proseguire nella lettura di alcune pagine del romanzo La Malora dove Beppe Fenoglio fa riflettere Agostino sull’anacronistica esistenza di parroci benestanti e di giovani preti che, al servizio di questi parroci, fanno la fame e cercano lavoro in campagna come don Pino: di fronte a questa situazione, Agostino pensa che non sia poi così tanto conveniente – come tutti dicono – per suo fratello Emilio farsi prete, e ne parla con lui ma Emilio è troppo stanco ed è già troppo ammalato per fare progetti a lunga scadenza.

     Fenoglio affronta le vicende che racconta senza fare polemica, quasi con imperturbabilità, riducendo all’essenziale la narrazione dei fatti, dei sentimenti, delle sensazioni e questo stile rende ancor più efficace la sua denuncia nei confronti della povertà generata dall’egoismo di chi non vuole né sa condividere sebbene questa società appaia permeata di cristianità, e l’egoismo [anche dei poveri che, invece di allearsi, si fan la guerra tra loro sperando invano di arricchirsi come Tobia Rabino] porta a sfruttare oltre ogni misura il lavoro delle donne le quali, sebbene siano le più fedeli religiosamente, sono tuttavia [ci fa notare ironicamente lo scrittore] più vittime della “malora” che salvaguardate dalla “provvidenza”. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Beppe Fenoglio, La Malora

Avessi avuto solo le mie miserie, ma mi si aggiunse un cruccio per Emilio, e senza che mio fratello c’entrasse lui direttamente; fu il prete giovane di Trezzo a farmi star male per Emilio. Una mattina che ero al pozzo a tirare un rosario di secchi d’acqua, lui capitò sull’aia e mi disse di chiamargli la mia padrona. Io lo conoscevo per averlo già visto allo sposalizio di Ginotta e perché era lui che tutte le feste ci faceva piantar lì di giocare al pallone per mandarci a vespro, e gliela chiamai fuori.

... continua la lettura ...

     Nel brano della Lettera ai Romani di Ignazio, che abbiamo letto poco fa, il vescovo di Antiochia scrive: «…la mia anima potrà assumere in cielo la sua vera e più alta natura, la stessa natura divina del Logos [il Sommo Bene] che per noi è Cristo risorto». L’idea, formulata da Ignazio, che la figura di “Cristo risorto” corrisponde a quella del Logos [a quella del Sommo Bene secondo il pensiero epicureo, stoico e neoplatonico] ci fa allungare il passo verso un nuovo paesaggio intellettuale dove possiamo incontrare un personaggio che abbiamo già evocato la scorsa settimana [il principale ideologo della tendenza conciliativa]: il filosofo platonico Giustino di Efeso che ha saputo coniugare il tema ellenistico del Logos con l’evento evangelico.

     Il periodo in cui vive Giustino di Efeso [100-165 circa] coincide con la cosiddetta Età degli Antonini [117-192] – e noi, in questo momento siamo arrivati di fronte al “paesaggio intellettuale dell’Età degli Antonini” – che, secondo l’unanime giudizio delle studiose e degli studiosi, è stato il periodo più florido della storia dell’Impero romano e si è meritato il titolo di “secolo illuminato”. Giustino conosce tre imperatori di questa Età, Elio Adriano, Antonino il Pio e Marco Aurelio e agli ultimi due rivolge i suoi scritti apologetici. Questi tre imperatori hanno cercato di dare all’enorme Stato romano un periodo di relativa pace [ormai la guerra era sistematica], di affrontare la crisi economica [riescono a rimandare il fallimento dello Stato] e di incrementare la cultura [se non altro sono degli intellettuali che credono nel valore pedagogico dello studio].

     Il primo degli Imperatori dell’Età degli Antonini [117-192], lo spagnolo Publio Elio Adriano [117-138], si è domandato fin da giovanissimo che senso abbia avuto la smania di conquista, l’aver favorito la formazione di una mentalità predatoria e la creazione di uno Stato così vasto e difficilmente governabile, e comincia a pensare che questo mastodontico apparato andrebbe dismesso: ma come fare? Dopo la pausa pasquale Publio Elio Adriano, in funzione della sapienza poetica e filosofica, ci dedicherà un po’ del suo tempo e, quindi, lo rincontreremo.

     Il successore di Adriano, Antonino il Pio [138-161], governa per più di vent’anni impegnandosi a mantenere la pace, manifestando tolleranza nei confronti dei Cristiani: a lui è indirizzata la prima Apologia di Giustino di Efeso.

     Gli succede Marco Aurelio [161-180] che è passato alla storia come l’imperatore-filosofo, ed è stato un uomo virtuoso e sapiente, coerente con i principi della filosofia stoica, il quale ha operato per la rinascita dell’antica cultura greca ma non è riuscito a fermare la disgregazione dell’antico mondo pagano sul quale il Cristianesimo si sta inesorabilmente sovrapponendo. Marco Aurelio è ancora profondamente convinto che il pensiero stoico sia in grado di insegnare il dovere morale e di offrire un modello che dia un senso all’esistenza. I principi dello stoicismo di Marco Aurelio si identificano con molti precetti evangelici e, malgrado questo, lui trova nell’atteggiamento dei Cristiani, che affrontano la morte per testimoniare e per propagandare la loro fede, qualcosa di teatrale rispetto allo stoicismo che predica di “vivere appartati senza apparire”. Marco Aurelio si rifà al principio che la persona deve vivere secondo natura e secondo ragione e, quindi, non capisce l’irrazionalismo dei Cristiani, non comprende ciò che supera la ragione. Giustino – che, come filosofo, suscita l’ammirazione e il rispetto dell’imperatore [Giustino dedica a Marco Aurelio la sua seconda Apologia] – viene martirizzato proprio durante l’impero “illuminato” di Marco Aurelio.

     Marco Aurelio dimostra di essere una persona “illuminata” scrivendo un’opera significativa che troviamo pubblicata, a seconda della edizioni, con titoli diversi: A se stesso o Pensieri o Ricordi. Quest’opera è una raccolta di aforismi sullo stile di Lucio Anneo Seneca e di un altro importante maestro di pensiero che, a breve, incontreremo: è un diario che contiene la testimonianza diretta di una persona colta di Età tardo-antica alla ricerca di sé e del Divino, e che riflette sul valore dello spirito, sul valore del presente, sul dovere, sulla libertà interiore, sull’accettazione del proprio destino, sull’agire per il bene comune. Questa persona è in ansia perché il momento storico è difficile: la crisi economica è irreversibile, i popoli germanici stanno ormai penetrando nei confini dello Stato, il Cristianesimo vincente mette a repentaglio le Istituzioni religiose pagane e gli interventi persecutori della Magistratura romana contro i cristiani, che vanno a morire con entusiasmo [come Giustino] lo fanno cadere nell’angoscia, gli fanno perdere l’imperturbabilità e insinuano nella sua coscienza un profondo senso di colpa.

     Marco Aurelio, con spirito illuminato, vagheggia uno Stato umanistico in cui tutti possano godere di libertà civili e politiche, senza discriminazioni, ma questo progetto non riesce a realizzarlo se non in minima parte e il testo della sua opera – che non deve essere pubblicato – contiene una sincera e malinconica meditazione sulla sconfitta e diventa una toccante confessione rivolta alla propria coscienza. I brani più interessanti sono quelli che contengono gli scoppi di indignazione, il malumore, la tragica malinconia di una persona sola che ama la filosofia, che vorrebbe la pace e che è costretta a fare la guerra per la salvezza di uno Stato i cui confini sono ormai indifendibili: dai pensieri di Marco Aurelio si percepisce in modo inequivocabile la crisi inconvertibile di un mondo. Marco Aurelio propone i valori più alti dell’eredità greco-romana: la ragione, la virtù, la bellezza, la pietas e le pagine della sua opera diventano quelle di un breviario spirituale che parla a ciascuno in ogni tempo. Giacomo Leopardi che [per divertimento] ha tradotto quest’opera l’ha definita il “vangelo dei pagani”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Richiedete in biblioteca A se stesso o Pensieri o Ricordi di Marco Aurelio e leggetene qualche pagina: ne leggeremo un frammento strada facendo, fra tre settimane…

A Roma, sulla Piazza del Campidoglio, c’è la più celebre e la più bella statua equestre che ci sia pervenuta dal mondo antico, è in bronzo dorato e raffigura l’imperatore Marco Aurelio: sulla rete ne trovate l’immagine, andate ad osservarla...

     Che cosa fa paura del Cristianesimo alle autorità romane che erano, fondamentalmente, tolleranti verso tutte le religioni? Fa paura che il Cristianesimo non si presenti come una religione ma come un fenomeno politico che propone una “buona notizia” che fa nascere una speranza di liberazione che si diffonde non solo tra il proletariato ma anche nell’ambiente militare, imperiale e intellettuale. La diffusione del Cristianesimo è dovuta ad una serie di fattori: la semplicità del messaggio cristiano, la coerenza delle comunità primitive in fatto di solidarietà nei confronti del prossimo, la testimonianza di amore fraterno, la fermezza nelle persecuzioni con l’eroismo dei martiri che fa nascere la Letteratura apologetica. Le principali cause delle persecuzioni contro i Cristiani, che continuano anche con gli imperatori “illuminati”, sono: il rifiuto del culto dell’imperatore [l’accusa è di ateismo e di lesa maestà], le voci calunniose e fantastiche [si vocifera sul cannibalismo dei Cristiani che mangiano il corpo e bevono il sangue di Gesù, sulle cene tiestee a base di carne umana], e poi c’è l’accusa di disubbidienza civile e di anarchia [il Cristianesimo è un movimento d’opinione che predica l’esilio terreno e indica il cielo come patria].

     In questo clima di forte tensione – che caratterizza il “paesaggio intellettuale dell’Età degli Antonini” – incontriamo Giustino di Efeso. Giustino di Efeso è il più importante dei Padri Apologisti greci, è nato nella colonia romana di Flavia Neapolis, fondata [in onore di Vespasiano] sulle rovine dell’antica Sichem [o Sicar], in Samaria [oggi Nablus, nei Territori Palestinesi]. La città di Sichem viene citata nel Libro della Genesi [al capitolo 12, dove il protagonista è Abramo] e nel Libro di Giosué [al capitolo 24] e compare nel testo del Vangelo secondo Giovanni [al quarto capitolo] dove presso il “pozzo di Giacobbe” Gesù incontra la Samaritana.

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Leggeteli questi tre capitoli – il capitolo 12 del Libro della Genesi, il capitolo 24 del Libro di Giosuè e il capitolo 4 del Vangelo secondo Giovanni - per fare un esercizio di esegesi [di lettura attenta per mettere in evidenza un oggetto specifico: in questo caso la città di Sichem]…

     Giustino c’informa che suo padre si chiamava Prisco [è un nome latino] e suo nonno Baccheio [è un nome greco] e da ciò si può dedurre che la sua famiglia fosse composta da coloni giunti in Palestina dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 ad opera di Tito. Giustino dichiara di non conoscere l’ebraico, di non essere circonciso e di aver ricevuto un’educazione greca. Nel Prologo del Dialogo con Trifone [che abbiamo studiato la scorsa settimana] Giustino narra di aver peregrinato da una scuola filosofica all’altra [Stoicismo, Aristotelismo, Pitagorismo e Platonismo] e di essersi, infine, convertito al Cristianesimo a causa dell’impressione ricevuta dall’eroismo dei martiri e per gli ammonimenti ricevuti [sulla spiaggia del lungomare di Efeso] da Policarpo vescovo di Smirne. Giustino si trasferisce a Roma intorno al 148, vi fonda una Scuola e vive fino alla morte presso le “Terme di Mirtino” da identificare, forse, con una località della via Tiburtina. Il martirio di Giustino, secondo la testimonianza del suo allievo Taziano, è stato provocato da una denuncia del filosofo cinico Crescente, che Giustino menziona nella seconda Apologia. La condanna a morte viene eseguita nel 165 per decapitazione, per ordine del Prefetto Giunio Rustico, mentre governa Marco Aurelio, e si pensa che sia stato sepolto nella catacomba di Priscilla a Roma.

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Con la guida di Roma e attraverso la rete potete visitare la catacomba di Priscilla...

     Giustino è un filosofo di formazione platonica che attribuisce il concetto del Logos [la Parola di verità, il Pensiero divino, il Sommo Bene degli Epicurei, degli Stoici, dei Neopitagorici, dei Neoplatonici] alla figura di Gesù Cristo. Secondo Giustino Gesù Cristo è l’incarnazione storica del Logos e con questa affermazione la figura di Gesù diventa comprensibile nell’ambito della filosofia greca e succede che nella maggior parte delle Opere di cultura ellenistica al termine Logos si può sovrapporre il nome di Gesù Cristo dando a questi scritti una natura diversa da quella originale.

     Naturalmente questa interpretazione viene considerata un esproprio da parte dei filosofi greci del tempo che reagiscono con una serie di opere di contrasto, e le più significative sono: il Discorso contro i Cristiani del rètore Frontone di Cirta, precettore di Marco Aurelio, De morte Peregrini [la morte di Peregrino] una beffarda satira di Luciano di Samosata che ridicolizza sull’amore fraterno dei Cristiani e sul loro disprezzo per la morte, Discorso vero uno scritto polemico del filosofo platonico Celso, pubblicato nel 178, che accusa Cristo di essere stato un impostore, un mago e un mistificatore. A queste opere rispondono, in toni accesi, gli autori Apologisti cristiani e la polemica prosegue in modo sempre più aspro nel terzo e nel quarto secolo, ma questa è un’altra storia su cui rifletteremo a suo tempo.

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La parola “apologia” significa “esaltazione” ma anche “difesa”: avete recentemente, o in passato, dovuto difendere qualcuno?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Giustino attribuisce il concetto del Logos [la Parola di verità, il Pensiero divino, il Sommo Bene degli Epicurei, degli Stoici, dei Neopitagorici, dei Neoplatonici] alla figura di Gesù e questa operazione culturale la compie ispirando in modo decisivo un testo fondamentale della cultura tardo-antica: il Prologo del Vangelo secondo Giovanni [Kata Ioannin]. Il Vangelo secondo Giovanni [una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano] è uno dei testi-chiave della “tendenza conciliativa” tra la cultura ebraica, la cultura evangelica e la filosofia greca. Tutte e tutti noi conosciamo a memoria più di un versetto del Prologo del Vangelo secondo Giovanni.

     Il Prologo del Vangelo secondo Giovanni [capitolo 1 versetti 1-18] è un capolavoro letterario attribuito a Giustino di Efeso che è stato scritto intorno al 150 e inizia con la famosa frase: «En arché en ò Logos, In principio c’era il Logos, la Parola [il Verbum], il Pensiero di Dio» che s’incarna in Gesù [nel Cristo della fede] con lo stesso procedimento con cui le Idee di Platone danno la “forma” [per opera del demiurgo] agli oggetti e alle persone, come viene descritto nel testo del dialogo platonico intitolato Timeo che più volte abbiamo incontrato strada facendo in questi anni [Il Timeo è il libro che Platone tiene in mano nella Scuola di Atene di Raffaello, ricordate quel viaggio? Ne riparleremo a maggio].

     Le studiose e gli studiosi definiscono il Prologo del Vangelo secondo Giovanni [e circa 500 saggi si occupano di questo brano di Letteratura tardo-antica] lo “spazio della ricomposizione delle contraddizioni esistenti tra due visioni del mondo molto diverse come quella ebraica e quella greca”: far conciliare queste due culture è stata un’operazione intellettuale straordinaria anche perché lo “spianare le contraddizioni [il ricomporre le aporie]” non significa “omologare il pensiero” ma significa fare un esercizio filologico [utilizzare bene le parole] per “mettere in comunione la diversità, la varietà, la molteplicità, la complessità”.

     Facciamo, in proposito, un esempio che riguarda il tema delicatissimo dell’incarnazione di Gesù. Il versetto 14 del Prologo del Vangelo secondo Giovanni [Capitolo 1, v. 14] ci permette di comprendere che cosa significhi costruire un testo che favorisca l’incontro e il processo di integrazione tra la cultura dell’ebraismo e quella dell’ellenismo: questo versetto in greco suona «Ò Logos sarx eghenièto» e in latino [nella versione di Gerolamo che conoscete] dice: «Et Verbum caro factum est», ebbene – siccome i termini “Parola [Logos, Vebum]” e “carne [sarx, caro]” possono essere entrambi soggetti –, la traduzione è «la Parola si è fatta carne» ma, contemporaneamente, è anche «la carne si è fatta Parola»: quindi il testo di questo versetto risolve in modo logico [perché la sostanza del Logos rimane intatta] la delicatissima questione sul tema dell’incarnazione di Gesù perché il testo di Giustino mette in evidenza il fatto che Gesù sia un “essere umano [e difatti, secondo la cultura ebraica Gesù è un rabbi che è stato adottato da Dio per rivelare la Parola divina e, in questo caso, «la carne si è fatta Parola»]” ma afferma, contemporaneamente, che Gesù è un “essere di natura divina [secondo la cultura platonica per cui Gesù è l’incarnazione della Parola divina, è il Logos che, in principio, era presso Dio e, in questo caso «la Parola si è fatta carne»]”. Siamo nel difficile ma si capisce che ci troviamo di fronte ad un significativo intreccio filologico sul quale è necessario riflettere in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete o rileggete il Prologo del Vangelo secondo Giovanni, il brano compreso nei primi diciotto versetti del capitolo primo…  Ora è il momento adatto per fare questo esercizio: c’è una frase – in questi 18 versetti - che attira particolarmente la vostra attenzione?…    

Sceglitela e scrivetela...

     E ora, per concludere, celebriamo la Pasqua utilizzando ancora due pagine da La Malora di Beppe Fenoglio dove l’idea della “risurrezione” sprigiona la sua luce nel momento in cui, con la “parola [Logos, Verbum]” due persone prefigurano il loro rapporto amoroso come se fosse “una luce che risplende nelle tenebre” secondo la prima parte del versetto 5 del Prologo del Vangelo secondo Giovanni: una parola [Logos, Verbum] utilizzata dai protagonisti con grande impegno umano per valorizzare il lato “carnale” della vita.

     Nella casa dei Rabino – in aiuto della moglie di Tobia che è spossata dal lavoro – arriva la “servente”: una ragazza che si chiama Fede e che fa nascere una speranza nel cuore di Agostino.

LEGERE MULTUM….

Beppe Fenoglio, La Malora

La servente arrivò prima dello sperato: veniva dalla langa di Castino ed era ancora parente di Tobia, quantunque parentela passata sul raspo; si chiamava Fede e andava per i diciotto anni.

Siccome per questa ragazza io avevo allora un pallino in un’ala, si potrebbe credere che ancora adesso io la faccia meglio di quel che fosse, eppure è la verità che era una ragazza piena di finezza, che sapeva fare e figurare meglio di tutte le ragazze che c’eravamo abituati noi. Lei poteva stare per delle ore al fornello e poi voltarsi pulita come se in tutto quel tempo non avesse fatto che la signora, si muoveva sui suoi zoccoli senza mai sbatacchiarli, e la sua voce aveva più d’un tono, come la voce delle donne d’Alba.

... continua la lettura ...

     Il profumo della Risurrezione – come quello dell’acqua d’odore che la domenica emana dai capelli di Fede – è il profumo della speranza.

     Se continuate a leggere questo romanzo scoprirete che la “malora” farà separare Agostino e Fede, ma per Agostino – che per questa ragazza aveva allora “un pallino in un’ala” – sarà comunque un’esperienza assimilabile ad una “risurrezione” perché rafforza in lui la speranza: Agostino ha comunque pregustato la “buonora” in sintonia con il versetto 5 [ne abbiamo letto poco fa la prima parte] del Prologo del Vangelo secondo Giovanni che dice “Quella luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”.

     Gregorio Magno, papa dall’anno 590, ha redatto – nel secondo Libro dei suoi Dialoghi – la Regola di San Benedetto che si sintetizza nella frase: “Ora, labora et cura [prega, lavora e studia]” . La Regola benedettina [comincia qui il Medioevo? È una delle numerose ipotesi, e nel prossimo viaggio ne parleremo] è un programma politico che ha promosso il movimento delle abbazie: uno straordinario fenomeno che ha salvato l’Europa [ha fatto risorgere l’Europa] dal terribile degrado creato dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente. Gregorio ha scritto nei suoi Dialoghi:

LEGERE MULTUM….

Gregorio Magno, Dialoghi

La luce che risplende nelle tenebre dell’ignoranza è lo studio e chi studia comincia a risorgere.

     Ebbene, in armonia con una voce così autorevole, la Scuola non può far altro che augurare a tutte e a tutti voi una buona Pasqua di “studio” [studium et cura] perché “studiare” [prendersi cura della propria anima, del proprio intelletto e, di conseguenza, del proprio corpo] è un gesto pasquale per eccellenza, auguri.

     Il viaggio continua tra quindici giorni…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 22, 2013