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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA RIEMERGE LA CULTURA ORFICO-DIOMISIACA SECONDO LO STILE EPIGRAMMATICO DI CARATTERE PRIAPÉO E ABOSYNÉO ...

Lezione N.: 
16

Prof. Giuseppe Nibbi  La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica   20-21-22  febbraio 2013

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

RIEMERGE LA CULTURA ORFICO-DIOMISIACA SECONDO LO STILE EPIGRAMMATICO DI CARATTERE PRIAPÉO E ABROSYNÉO ...

     Siamo in viaggio – questo è il sedicesimo itinerario – sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”. Ed è sempre più difficile pensare che questo territorio sia [come sapete] un’area di confine, tuttavia, questo vasto spazio – che si dilata nel tempo per circa cinque secoli, dal I al V secolo d.C. – viene definito “area di confine” perché esso è diventato il laboratorio intellettuale in cui le indigeste parole dell’Età antica [conosciamo questo catalogo] vengono adoperate per produrre un distillato culturale [risultato di molti estratti filologici] che serve per mettere in moto il lungo processo di incubazione dei termini e delle idee che vanno gradualmente a determinare l’inizio dell’Età medioevale.

     Tra il territorio dell’Età antica e quello dell’Età medioevale non c’è, quindi [come ben sappiamo], una linea di confine ma si estende una vasta area nella quale s’incontrano significativi paesaggi intellettuali, e noi nel corso di questo viaggio, dopo esserci soffermate e soffermati a lungo dinnanzi al grande paesaggio dell’Età giulio-claudia [un’epoca che dura circa un secolo, dal 30 a.C., quando tutto il potere finisce nelle mani di Augusto, al 68 d.C., l’anno della morte di Nerone], abbiamo raggiunto lo scenario dell’Età dei Flavi, e gli imperatori della dinastia dei Flavi – Vespasiano, Tito e Domiziano – regnano dal 69 al 96 [per tutta la seconda metà del I secolo].

     In questo paesaggio intellettuale [dell’Età dei Flavi] abbiamo individuato e cominciato a studiare un tema importante che riguarda la formazione della “dottrina” del cristianesimo – cioè il passaggio dall’annuncio della “buona notizia” alla formulazione di una “dottrina” che disciplina questo annuncio –, di quella che si chiama l’ortodossia, la linea di pensiero [che è contenuta nel canone dei Libri ispirati, nella professione di fede comune e nell’ubbidienza ai vescovi nominati dalla comunità] a cui è obbligatorio aderire per essere fedeli alla “dottrina” cristiana.

     Abbiamo imparato che l’evento cristiano – la propagazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù”, la formulazione della “dottrina” che ne deriva e la costruzione della linea dell’ortodossia – non emerge dal nulla ma s’inserisce e trae alimento dalla cultura umana, dalla Storia del Pensiero, e il primo passo fondamentale in questo senso è stato fatto da un movimento intellettuale [piuttosto eterogeneo] che prende il nome di “tendenza conciliativa”: la conciliazione fa riferimento al rapporto virtuoso che si crea tra l’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù” e la cultura greca, la cultura delle Scuole ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche, gnostiche, neo-pitagoriche, neo-platoniche, neo-aristoteliche].

     I personaggi che appartengono alla “tendenza conciliativa [che possiedono la predisposizione mentale all’accordo, all’intesa, al patto, al compromesso, all’accomodamento]” – senza avere un programma ben definito – utilizzano le dinamiche della cultura greca per investire in intelligenza e questo investimento intellettuale favorisce, come sappiamo, la composizione dei testi delle Lettere di Paolo di Tarso [su cui abbiamo delle competenze], del testo del Vangelo secondo Marco [su cui abbiamo recentemente puntato l’attenzione] e poi delle Opere dei Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo] che ristudieremo prossimamente perché costituiscono un tassello fondamentale utile per capire i tratti che va assumendo la cultura tardo-antica con la nascita della Letteratura dei Vangeli.

     Sappiamo anche che non tutti, nella variegata area della predicazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù [del Vangelo,  euanghelon euanghelon]”, sono d’accordo a scendere a compromessi con la cultura greca e con la cultura umana in generale [pensano che nella persona e nella parola di Gesù Cristo ci sia tutta la Verità] e noi, a suo tempo, indagheremo anche in questo campo, il campo di quella che è stata chiamata la tendenza della “polemica intransigente” e incontreremo coloro che non vogliono accettare il condizionamento della cultura greca in merito alla formulazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù”, e noi documenteremo l’attività di questo movimento e dei suoi protagonisti quando avremo i materiali per poterlo fare e li troveremo in un’Età successiva a questa [nel corso del II secolo], in un altro paesaggio intellettuale che incontreremo strada facendo. Per il momento è ancora la correte “conciliativa” che, nell’ambito della predicazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù”, produce opere, pensiero, idee e dottrina, e sarà [come sapete] la corrente di “tendenza conciliativa” che darà forma all’ortodossia.

     Al termine dell’itinerario della scorsa settimana abbiamo detto che nell’Età dei Flavi [69-96], a Roma e nelle più importanti città dell’Impero, c’è un gran fiorire [ma si tratta di un fenomeno antico] di culti pagani perché più la crisi [politica, economica, sociale, culturale, morale] morde e più le persone sentono il bisogno di cercare una via di salvezza che possa consolare, e la via della salvezza la si cerca nell’ambito delle religioni misteriche [che proliferano da tempo - con il loro carattere magico e superstizioso - sul territorio dell’Ecumene ellenistica] eredi della grande tradizione orfico-dionisiaca [ancora ben radicata nelle campagne, in ambiente rurale, nei pagi] e anche il pensiero cristiano in formazione dovrà [come sappiamo] fare i conti con la figura di Dioniso [e torneremo su questo importante tema, che più volte abbiamo studiato].

     Questa considerazione che abbiamo fatto – che la via della salvezza la si cerca nell’ambito delle religioni misteriche, eredi della grande tradizione orfico-dionisiaca – è, per noi ora, motivo di riflessione in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché nell’Età dei Flavi la tradizione orfico-dionisiaca riemerge nella Letteratura latina in modo “provocatorio”: perché usiamo questo termine?

     Abbiamo già ricordato che, in ambito letterario, questi sono secoli in cui assistiamo alla grande crisi del teatro: il teatro aveva [e ha o, per lo meno, dovrebbe avere] la funzione di “provocare” una riflessione sul tema dell’etica nella società [una funzione catartica, scrive Aristotele], ma l’ideologia imperialista su cui si basa lo Stato romano non predilige l’esercizio della riflessione bensì privilegia le decisioni immediate e, quindi, non ama il genere teatrale. Per questo motivo ideologico sappiamo che a Roma le strutture teatrali sono sempre state ridotte al minimo, confinate nei recinti privati dei Circoli culturali, per far posto, in età imperiale, ai grandi anfiteatri dove concentrare le masse per svolgere le alienanti attività che fanno da corollario al “populismo” come le cruente cacce agli animali selvatici e i sanguinosi tornei dei gladiatori. Che caratteristiche ha la crisi del teatro in Età tardo-antica?

     La crisi del teatro in Età imperiale determina la scomparsa della commedia e il ritiro della tragedia nelle sale di lettura [Seneca scrive tragedie perché vengano lette piuttosto che rappresentate]. La forma teatrale che sopravvive è il mimo, tanto per la sua versatilità quanto per il minimo bisogno di strutture che richiede. La pantomima è la forma di spettacolo che riesce ancora a richiamare un certo numero di spettatori e che può dare una certa fama e anche una certa agiatezza agli interpreti più bravi. La pantomima è una forma di spettacolo che recupera la tradizione orfico-dionisiaca delle origini del teatro: un attore o un’attrice, al massimo due, mima l’azione scenica con movimenti del corpo e gesti delle mani, mentre un altro attore, o un piccolo coro [a volte è il pubblico che viene chiamato a partecipare svolgendo l’azione corale], canta il testo di un Libretto, la “fabula saltica [dal verbo latino saltare, danzare]”, accompagnato dalla musica di uno strumento. Poeti di fama come Lucano [lo abbiamo incontrato e abbiamo ricordato questo fatto] scrivono “fabulae salticae [Libretti per pantomime]” perché sono ben retribuite.

     Al riemergere della tradizione orfico-dionisiaca nella Letteratura latina fa da tramite anche la persistenza, nell’ambito della grave crisi generale del teatro, del genere della pantomima che mette in scena testi di carattere epigrammatico. Il testo epigrammatico ha la caratteristica di essere formato da una poesia che presenta brevemente una vicenda e i protagonisti della vicenda, e termina con una battuta conclusiva ironica, irridente, satirica, con l’uso di un linguaggio colorito che richiama il grottesco e l’osceno. La parola greca “epigramma” letteralmente significa “sopra [epì] la riga scritta [gramma]” come dire che si fa un commento “sopra le righe” – con acutezza, con acume, con vivacità, con prontezza, con brio, con sagacia – sui comportamenti umani che spesso sono grotteschi e indecenti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La parola greca “epigramma” richiama un ampio ventaglio di termini...  Quale di queste parole – acutezza, acume, vivacità, prontezza, brio, sagacia – vi piace di più e mettereste per prima accanto alla parola “epigramma”?...  

Scrivetela...

     La scorsa settimana abbiamo accennato al fatto che già nel testo del Satyricon ci sono molti riferimenti di carattere epigrammatico perché Petronio Arbitro va a pescare in quel grande e significativo serbatoio di “oscenità” che la cultura orfico-dionisiaca ha saputo creare per dare al sarcasmo della satira contro il potere [contro gli dèi] un peso maggiore e un’udienza più ampia.

     Per prendere il passo leggiamo adesso un frammento tratto dal Satyricon per puntare la nostra attenzione su un verbo di derivazione orfico-dionisiaca, di genere epigrammatico, che Petronio utilizza per dare vigore al testo.

LEGERE MULTUM….

Petronio Arbitro, Satyricon

… «Perché - chiese Quartilla - non ero forse più giovane di lei quando fui affascinata per la prima volta? Mi fulmini Giunone, se mi ricordo di esser mai stata vergine! Ho cominciato a pasticciare da piccola con i ragazzi della mia età, passando in seguito ai giovanotti, e così via via fino ad oggi, tanto che mi pare vada bene per me quel famoso proverbio secondo il quale chi comincia con l’alzare un vitello arriva a sollevare un toro».

     La signorina Quartilla è molto convincente [se leggete il Satyricon potete conoscerla meglio: è anche simpatica] e avete capito che il verbo “affascinare” corrisponde all’azione di “deflorare”: che significato assume la parola “fascino”? La tradizione ellenica orfico-dionisiaca riemerge nella Letteratura latina con il genere epigrammatico e introduce in essa una serie di termini significativi provenienti dal vocabolario greco, e tra questi termini si distingue la parola-chiave “fascino”. Questo termine si distingue, in Età antica, per merito dell’opera di una poetessa d’eccezione e poi, in Età tardo-antica, per la competenza di un autore il quale c’insegna che su questa parola, la parola “fascino”, non dobbiamo e non possiamo “cadere in fallo” ma dobbiamo aprire una riflessione. Chi sono questi autori e che tipo di gioco di parole ispira questo termine?

     La parola “fascino” è il perno intorno al quale gira – prima in Età antica e poi in Età tardo-antica – una corrente letteraria chiamata “priapèa” e, per essere precisi, dobbiamo dire che in questa corrente si agitano due anime: una [che possiamo chiamare] “veteropriapèa [legata alla gretta e oscena mentalità dei riti arcaici]” e un’altra chiamata “contropriapèa [in opposizione alla mentalità arcaica mediante un raffinato linguaggio poetico]. Quali sono le caratteristiche di questa corrente letteraria – e delle sue due anime – profondamente radicata nella cultura orfica-dionisiaca?

     Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo fare un’ampia riflessione: una riflessione che, a suo tempo [nel corso di più di un viaggio], abbiamo già fatto ma è necessario rinfrescare la nostra memoria, tenendo anche conto del fatto che non tutti sono in viaggio da anni. Nel prendere il passo ci domandiamo: che cos’è il “fascino”? A che cosa pensiamo quando sentiamo questa “affascinante” parola? Il “fascino” è una “benefica potenza di attrazione e di seduzione” che stimola attitudini positive? Oppure è un “malefico influsso” che imprigiona le persone e le spinge a sottomettersi, impotenti, ai voleri di altri? Che natura ha questa facoltà che chiamiamo “fascino”? È sempre una “benefica potenza di attrazione, un’opportunità”, oppure è sempre un “malefico influsso che imprigiona, una condizione sfavorevole”? Oppure possiede tutte e due queste caratteristiche – l’aspetto benefico e l’aspetto malefico – che si manifestano a seconda delle situazioni? …    Da dove proviene la parola “fascino”?

     La parola “fascino” è una parola greca [fascinos - fascinos  che entra nella cultura latina [fascinum] intorno al I secolo a.C., ed è un termine che noi pronunciamo senza nessun imbarazzo ma, dopo aver citato il testo del Satyricon, capiamo che questa parola porta con sé – nel suo significato – qualcosa su cui dobbiamo ragionare e, difatti, è una parola che è passata attraverso un complesso itinerario culturale di cui dobbiamo, senza equivoci, renderci conto. Se fossimo cittadine e cittadini dell’antica Ellade o della Roma imperiale qualche imbarazzo a pronunciare questa parola ci sarebbe: perché mai?

     Abbiamo detto che nella Roma imperiale, e in tutte le più importanti città dell’Eumene, c’è un gran proliferare di culti misterici e, tra questi, ci sono anche i cosiddetti “culti priapèi” e la parola “fascinos” è legata al culto – prima agricolo e poi teatrale – del dio Priàpo: un divinità che, nei secoli, ha sempre riscosso un certo successo anche perché è un controfigura di Dioniso. Chi è il dio Priàpo e che cosa sono i culti priapèi che, in Età imperiale, hanno inciso sulla Storia letteraria dell’Epoca tardo-antica? [E siamo, appunto, di fronte al paesaggio intellettuale dell’Età dei Flavi].

     Il culto di Priàpo è una delle tante versioni del mistero [rito] dionisiaco che, in Età tardo-antica, riacquista linfa vitale perché il personaggio di Dioniso entra in relazione [di contrasto e di attrazione] con la figura di Gesù Cristo [questo è un tema affascinante che abbiamo incontrato più volte nei nostri viaggi e che incontreremo ancora]. Il culto di Priàpo ha origine nel territorio della polis di Làmpsaco, che è un’antica città della Misia, una regione che si trova nel territorio dell’odierna Turchia a nord-ovest dell’Asia Minore. La polis di Làmpsaco oggi si chiama Làpseki e, come allora, è posta in posizione strategica sulla costa dell’Ellesponto, lo stretto dei Dardanelli – è il primo porto a nord dove si può traghettare sullo stretto dei Dardanelli – che mette in comunicazione il mar Egeo con il mar di Màrmara.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Potete andare – utilizzando una guida della Turchia o collegandovi alla rete – a fare una visita alla città natale di Priàpo e alla regione, intorno al mar di Màrmara, che ha una grande importanza storica, strategica e culturale: buon viaggio…

     Priàpo è il dio dei campi, il dio degli orti, delle vigne, il dio delle stalle, degli ovili, dei pollai, e – nella tradizione più diffusa – è figlio di Dioniso e di Afrodite, quindi si presenta come una figura tutta dedita all’amore, ma incline all’amore che tende a fecondare, a ingravidare, incline all’amore carnale. Priàpo [secondo la mentalità “veteropriapèa”] è espressione della materialità, dell’animalità, della sessualità intesa come penetrazione genitale e, probabilmente, ricordate che nel testo del Satyricon di Petronio […leggetelo!] il protagonista Encolpio [la voce narrante] viene reso impotente dal dio Priàpo per una colpa misteriosa che lui avrebbe commesso [questo mistero serve a Petronio per stimolare la comicità e per burlare la mentalità “veteropriapèa”]. L’immagine di Priàpo si presenta sfacciatamente come quella di un ometto brutto e un po’ deforme ma provvisto di un fallo ben dotato e ben eretto che mostra con ostentazione e l’archeologia ci ha restituito moltissimi oggetti che raffigurano Priàpo: statuette di terracotta e figure dipinte, spesso sui vasi. E abbiamo visto senz’altro raffigurazioni di questo tipo frequentando i musei [e la statuetta di Priàpo che circola nelle “cene eleganti”? Cultura?] !

     Ebbene, il fallo di Priàpo – così bene in vista – corrisponde, in greco, alla parola “fascinos - fascinos”, e in latino alla parola “fascinum”, quindi, in origine, la parola “fascino” designa il fallo di Priàpo! Ecco perché abbiamo detto che, questo termine, nella sua originale accezione filologica è un po’ imbarazzante da presentare.

     La statuetta di terracotta di Priàpo aveva una sua utilità: veniva esposta nei recinti, nelle stalle, nei pollai per propiziare la salute degli animali e la loro fecondità e poi, con la cristianizzazione delle campagne, l’effigie di Priàpo viene sostituita dall’immagine di Sant’Antonio [del maiale]. La statuetta di terracotta di Priàpo viene esposta nei campi e negli orti soprattutto per “allontanare” le calamità: le intemperie del cattivo tempo, gli insetti nocivi, i predatori e i ladri: e in che modo la statuetta di Priàpo, con il suo fallo prominente, viene usata come antifurto negli orti e nei pollai contro i ladri? Il deterrente è legato all’influenza magica maligna che viene attribuita alla statuetta e all’immagine del fallo di Priàpo attraverso lo straordinario potere della superstizione: i ladri [di solito erano maschi], rubando in un luogo protetto dal fallo [dal “fascinos”] di Priàpo, sono soggetti ad una terribile maledizione: «Se tu rubi qui, che tu possa diventare impotente!» [Forse anche Encolpio è stato coinvolto in un furto di galline? Petronio non lo scrive nel testo del Satyricon perché vuole che chi legge metta in funzione il proprio immaginario in proposito e ci rida sopra]. Allora queste cose – in virtù della superstizione – si prendevano molto sul serio, e il fallo di Priàpo, come antifurto, funzionava benissimo [poi sono arrivati gli allarmi, le porte blindate, i vigilantes ed è finita tutta la poesia].

     La parola greca “fascinos” ha soprattutto una storia di carattere letterario che ne determina l’evoluzione sul piano del significato e questa storia a noi interessa. Il processo di trasformazione del significato della parola “fascinos” va di pari passo con l’evoluzione del teatro. Nel teatro primordiale nasce un genere detto “priapèo”, un genere di carattere popolare, quasi tutto improvvisato di cui, di scritto, non ci rimane nulla. Del genere “priapèo” rimangono le citazioni – tutta una serie di battute – entrate nelle opere degli scrittori di teatro più importanti, soprattutto nei drammi di Euripide, nelle commedie di Aristofane e del commediografo latino Plauto che noi abbiamo incontrato nel viaggio dello scorso anno. I teatranti – circa 2500 anni fa – viaggiano sul carro di Tespi, si fermano nelle aree agricole della Grecia e della Magna Grecia – sostano nei villaggi, sulle aie. Sullo stesso carro – un carro particolare che, in greco, si chiama “scene scené” – viaggiano, mangiano, dormono, e allestiscono anche il palcoscenico per la rappresentazione. E la rappresentazione prevede – in quello che è stato chiamato il “genere priapèo” –che l’attore principale interpreti la figura di Priàpo, e ne viene fuori, già dal travestimento [tutto incentrato su un enorme fallo, ò fascinos], un personaggio comico, ridicolo e osceno, ma anche in possesso di una vena di malinconia, di nostalgia e di tristezza. La figura di Priàpo – e ricordiamoci che Priàpo è figlio di Dioniso – costituisce una variante del caprone [o tragos ò tragòs] e, questa figura, sul palcoscenico, viene ridicolizzata, viene burlata, viene presa in giro dal coro.

     Priàpo – nell’intento satirico che il teatro ha fin dall’inizio della sua storia – rappresenta l’individuo vittima dell’ignoranza che, per risolvere i suoi problemi, fa affidamento sulla superstizione, sulla magia, sulla scaramanzia. Insomma, piuttosto che far appello al proprio cervello, al proprio pensiero [o logos ò logos], Priàpo si affaccenda intorno al proprio fallo [o fascinos ò fascinos] credendolo un amuleto. Ne nasce una rappresentazione satirica, comica, scherzosa, oscena, ma anche malinconica, nostalgica e velata di tristezza, e questa rappresentazione priapèa costituisce il nucleo iniziale di quello che verrà chiamato il “dramma satiresco” e di quella che sarà chiamata poi, in tempi moderni, la “commedia degli equivoci” mentre, in Epoca tardo-antica [dove ci troviamo noi adesso], la rappresentazione priapèa riprende vigore – con il necessario aggiornamento del genere – nella pantomima.

     Quindi il significato della parola “fascino”, attraverso la mediazione culturale del teatro, si biforca: questo termine comincia a voler dire due cose diverse che convivono e si completano. Alla tradizione rituale agraria che vede nel fallo di Priàpo [ò fascinos] un amuleto per scacciare il malocchio [un oggetto esterno], si sovrappone la cultura satirica del teatro che invita a riflettere sul fatto che il destino dell’individuo dipende soprattutto dalla lucidità della sua mente, per cui il vero “amuleto [ò fascinos]” su cui la persona può contare è [un oggetto interiore] la “capacità di ragionare sulle cose [ò logos]”. Questa valenza interiore, nel tempo, è diventata preminente e ha occupato anche lo spazio esteriore del termine: oggi difatti, quando pensiamo al “fascino”, si pensa a tutt’altro che al “fallo di Priàpo” e la “fascinazione” è qualcosa di diverso da ciò che [in modo volutamente ironico] fa dire Petronio nel Satyricon alla signorina Quartilla. Pensiamo a come usiamo oggi la parola “fascino” e domandiamoci che cosa evoca in noi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Perché “qualcosa” o “qualcuno” vi affascina: quali caratteristiche deve avere una cosa o una persona per potervi affascinare?...

Bastano quattro parole per dare una risposta in proposito, scrivetele …

     La riflessione che abbiamo fatto sull’ambigua natura del termine “fascino”, con la quale abbiamo tentato di ridurre ai minimi termini un complicato problema semantico [di storia delle parole], non è terminata e, in proposito, è necessario un ulteriore e fondamentale ragionamento culturale nel quale sono coinvolti due importanti personaggi.

     Poco distante dalle coste della regione della Misia, nel mar Egeo settentrionale, dove nasce il culto di Priàpo, navigando verso sud, s’incontra l’isola di Lesbo [andate a osservare sull’atlante questa zona, potete utilizzare una guida della Grecia]. L’isola di Lesbo ha dato i natali ad un grande personaggio della cultura: la poetessa Saffo la quale ha fondato una Scuola dedicata esclusivamente alle fanciulle greche per le quali non era prevista una “educazione intellettuale” perché le donne, per il ruolo servile e subalterno che ricoprono nella società [secondo la mentalità “veteropriapèa”], non hanno bisogno di andare a scuola. Saffo contesta questa regola [nasce una poetica “contropriapèa”] e fonda una Scuola che si chiama “museo”: lo spazio delle Muse, il luogo delle Arti, e il programma educativo di questa Scuola contiene una forte reazione nei confronti della cultura fallica presente nei riti priapèi che si celebravano nella vicina regione della Misia e anche in tutta l’area egea e mediterranea.

     Saffo compie una rivoluzione culturale che determina un cambiamento di mentalità e anche un cambiamento di significato del termine “fascino”. Saffo, in modo provocatorio, con le sue composizioni poetiche, invita le donne a respingere il fallo di Priàpo che “ingravida con prepotenza senza neanche lasciare il tempo di predisporsi all’accoglienza” e utilizza il termine “fascinos” per dare il nome alla “corona dell’amore”, alla ghirlanda di fiori che gli amanti si donano e che rappresenta il simbolo del cerchio che delimita lo spazio all’interno del quale si esprime il corteggiamento: uno spazio e un tempo in cui si manifesta la predisposizione al consenso e all’accoglienza. E il corteggiamento – scrive Saffo – non consiste nell’esibizione del fallo ma è la cerimonia della manifestazione de “l’abrosyné”. Per tradurre la parola greca “abrosyne abrosyné” [parola-chiave della cultura orfico-dionisiaca creata da Saffo, che molte e molti di voi la conoscono] sono necessarie ben quattro parole italiane: la delicatezza, lo splendore, la grazia e il gusto. L’abrosyné è una situazione nella quale contemporaneamente si percepisce la delicatezza, si contempla lo splendore, si riceve la grazia e si assapora il gusto delle cose. Il termine “fascino”, con la Scuola [il museo] di Saffo, cessa di dare significato esclusivamente al fallo di Priàpo [ad un oggetto materiale ed esterno], per cominciare a designare un “oggetto sentimentale [interiore]”, per cui, il “fascino”, diventa l’espressione dell’abrosyné: la manifestazione della delicatezza, dello splendore, della grazia e del gusto.

     Secondo la poetica di Saffo il termine “fascino” designa la “corona dell’amore” che rappresenta “l’àmbito del corteggiamento” che, a sua volta, è il “luogo della poesia” e il luogo della poesia è la Scuola delle Arti, è il museo, è lo spazio dell’abrosyné e allora, di fronte a questa significativa riflessione, ci si deve domandare se il luogo che oggi chiamiamo il “museo” sia davvero lo spazio dell’abrosyné [la manifestazione della delicatezza, dello splendore, della grazia, del gusto] tenendo conto del fatto che il concetto di “museo” e il concetto di “fascino” dovrebbero compenetrarsi reciprocamente.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete visitato un museo che vi ha affascinato particolarmente?

Scrivete quattro righe in proposito…

     La Letteratura “priapèa” fa capolino a Roma e sul territorio dell’Impero in Età tardo-antica con il genere teatrale della pantomima e i Libretti delle pantomime [le Saturae salticae, come sappiamo] sono scritti con lo stile epigrammatico nel cui glossario il termine “fascino” ha un ruolo fondamentale tanto sotto l’aspetto grottesco e osceno [fascinum è il fallo di Priàpo] quanto secondo la feconda riflessione di Saffo [fascinum è la manifestazione della delicatezza, dello splendore, della grazia, del gusto].

     I testi delle pantomime non si sono conservati e con il titolo di Priapèe [dedicate al dio Priàpo] esiste una collezione di ottanta poesie latine raccolte nel I secolo a.C., d’argomento erotico, scherzoso, osceno, dove la parola “fascinum” corrisponde al fallo di Priàpo con tutto quello che comporta: l’esibizione di questo oggetto e la tensione verso la penetrazione. Questa raccolta di poesie non è considerata dalle studiose e dagli studiosi un’opera d’arte però rappresenta la vivace testimonianza del linguaggio e della letteratura popolare di un’epoca a cavallo tra l’Età antica e l’Età tardo-antica e se facciamo l’analisi dei testi di cui quest’opera si compone possiamo costatare che, anche in questo caso, emergono i termini del catalogo con cui comincia a finire l’Età antica: sonno e sogno, amore e odio, malattia e tormento, il trionfo della Morte.

     Il genere letterario priapèo diventa “classico” attraverso l’opera di uno scrittore vissuto nell’Epoca dei Flavi e nei primi anni dell’Epoca successiva ai Flavi: l’opera più importante che dà valore al genere letterario priapèo s’intitola Epigrammi ed è stata composta dallo scrittore di origine spagnola Marco Valerio Marziale. Prima di occuparci di Marziale e della sua opera, siccome il tema del teatro è emerso prepotentemente e continua ad essere presente nella nostra riflessione, non possiamo fare a meno di ricordare che la scorsa settimana abbiamo letto il primo capitolo di un romanzo che parla di teatro e del “fascino” delle persone che danno vita al teatro.

     Il titolo di questo romanzo [come sapete] è La diva Julia e [come abbiamo studiato la scorsa settimana] richiama anche il personaggio di Giulia Livilla che, in Età giulio-claudia, era soprannominata la “diva Julia”. La protagonista di questo romanzo – scritto da William Somerset Maugham e pubblicato nel 1937 – si chiama Julia Lambert [l’abbiamo conosciuta la scorsa settimana e adesso la incontriamo ancora] ed è una grande attrice [una diva] osannata dal pubblico e dalla critica. Julia Lambert è una donna affascinante che possiede un talento naturale così spiccato per la recitazione che può permettersi di ignorare ogni tecnica per imperniare la sua arte sul principio per cui non si deve “essere naturali” ma soltanto “sembrare naturali”, e questa sua disposizione alla finzione è in lei talmente interiorizzata da estendersi alla vita reale e, quindi, succede che i suoi sentimenti e le sue emozioni non sono mai autentiche ma sono “perfettamente e consapevolmente recitate” e questo fatto può dare soddisfazione ma può anche intristire.

     Maugham, nel testo di questo romanzo, affronta anche un tema pirandelliano [le opere di Pirandello sono in circolazione]: il tema della “disposizione alla finzione” e su questo argomento, che stimola l’ironia e produce comicità, già aveva riflettuto, con stile epigrammatico, Marco Valerio Marziale, in Età tardo-antica. Maugham introduce spesso nella sua prosa di carattere realistico elementi dello stile epigrammatico, inserisce nel contesto dei suoi romanzi brevi racconti in cui i protagonisti si esprimono in modo sarcastico per mettere in imbarazzo una persona la quale argutamente controbatte con una battuta ironica, irridente, satirica, usando un linguaggio metaforico colorito che richiama il grottesco e l’osceno. Il tema del teatro, lo stile epigrammatico, la questione della disposizione alla finzione, la riflessione sul concetto di fascino, ebbene, questi sono i motivi principali per cui il testo del romanzo intitolato La diva Julia ci accompagna ancora nell’itinerario di questa sera, quindi, leggiamone un brano.

LEGERE MULTUM….

Somerset Maugham,  La diva Julia

L’indomani Julia era a pranzo da Charles, il figlio del marchese di Dennorant, che aveva sposato un’ereditiera, Charles aveva ereditato una fortuna considerevole. Julia andava spesso ai pranzi che egli amava dare in casa sua.

Julia disprezzava in cuor suo le grandi dame e i nobili lord che vi incontrava, lei era una donna che lavorava, e un’artista, ma sapeva che questi contatti le erano utili. Grazie ad essi al teatro Siddons c’erano prime che i giornali definivano sfolgoranti, e le sue fotografie in mezzo a uno stuolo di aristocratici, ai ricevimenti di fine settimana, erano una buona pubblicità. Il fatto che lei chiamasse per nome almeno un paio di duchesse non aumentava la simpatia di qualche giovane primattrice per lei.

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     William Somerset Maugham, per tutta una serie di motivi che esulano dal tema della scrittura, non è mai stato particolarmente amato dalla critica “puritana” ma è stato stimato dalle lettrici e dai lettori più attenti e le sue opere meritano di essere lette. Chi è William Somerset Maugham? Il racconto della sua vita è sempre decisamente entrato nelle opere che ha scritto.

     William Somerset Maugham nasce a Parigi il 25 gennaio 1874 da genitori inglesi perché suo padre è un avvocato londinese che si occupa delle questioni legali dell’ambasciata britannica a Parigi, e anche suo nonno è un avvocato famoso mentre suo fratello maggiore si sta preparando a fare una carriera avvocatizia di successo e, quindi, si dà per scontato che anche lui debba seguire le loro orme ma le cose sono andate diversamente. Sua madre, Edith Mary, era malata di tubercolosi, una condizione per la quale i medici a quel tempo prescrivevano come rimedio la gravidanza e il parto, e il risultato è stato che William aveva tre fratelli maggiori che già frequentavano le scuole superiori in collegio quando lui aveva tre anni, tanto che è stato allevato come se fosse un figlio unico. Il parto non era una cura efficace per la tubercolosi e così Edith Mary muore all’età di 41 anni insieme al suo ultimo bambino neonato. La morte della madre è stata un trauma per William, e lui [lo racconta anche con ironia] ha tenuto la foto della mamma vicino al letto fino alla sua morte, a 91 anni.

     Due anni dopo la morte della madre muore anche il padre e William viene rimandato in Inghilterra per essere cresciuto dallo zio Henry che fa il Vicario nel Kent. Questo trasferimento è stato catastrofico per lui perché lo zio si rivela freddo ed emotivamente crudele e anche la Scuola reale di Canterbury, dove viene iscritto e dove trascorre l’anno scolastico, è per lui un vero inferno perché lo prendono in giro per via del suo cattivo inglese [la sua prima lingua era il francese] e per la statura bassa, che aveva ereditato dal padre e poi perché questa situazione di tensione lo fa diventare balbuziente, un disturbo che lo ha accompagnato per tutta la vita. In casa dello zio vicario William trascorre giornate noiose e soggette alla repressione perché non si deve perdere la calma, non si devono mostrare le proprie emozioni, e lui diventa un bambino tranquillo, riservato, molto curioso ma infelice e questo fatto lo porta a maturare una grande abilità, quella di fare osservazioni pungenti sulle persone che non gli piacciono, e queste osservazioni comincia a scriverle.

     A sedici anni [siamo nel 1890] William rifiuta di continuare a studiare alla Scuola reale di Canterbury e suo zio gli permette di andare in Germania dove studia letteratura, filosofia e tedesco all’Università di Heidelberg. Quando torna in Inghilterra lo zio gli trova un posto in un ufficio di contabilità, poi però – incoraggiato da un medico amico di famiglia – William s’iscrive al Collegio reale di Londra dove studia medicina e dopo cinque anni comincia a dedicarsi alla professione medica, intanto continua a scrivere pagine autobiografiche e racconti. Facendo il medico nei sobborghi di Londra, luoghi piena di vita, entra in contatto con gente di umile estrazione sociale e vede queste persone nei momenti di più grande ansia e tensione della loro vita: vede come costoro muoiono, come sopportano il dolore, come si misurano con la speranza, con la paura e con il sollievo, e si rende conto di come la sofferenza corroda i valori umani, si rende conto di come la malattia amareggi e inasprisca le persone e, quindi, diventa un grande osservatore della “vita nuda e cruda” e può descrivere un’ampia gamma di emozioni umane.

     Tutte le sere scrive fino a tardi e la piccola casa dove abita è piena di quaderni contenenti decine di racconti e nel 1897 decide di presentare a un editore il manoscritto di un romanzo che s’intitola Liza di Lambeth. Il testo di questo romanzo racconta la storia di un adulterio avvenuto nell’ambiente della classe operaia, e delle sue conseguenze. William ha tratto ispirazione dalle sue esperienze di medico, quando faceva l’ostetrico a Lambeth, il quartiere più degradato di Londra. Il romanzo, scritto in stile realista [e noi conosciamo la letteratura del “verismo-naturalismo”], viene pubblicato e la prima edizione va esaurita in poche settimane e questo fatto convince Maugham ad abbracciare la carriera letteraria, una carriera che è durata sessantacinque anni.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il romanzo-breve “Liza di Lambeth” di William Somerset Maugham merita di essere letto e lo trovate in biblioteca…

     La notorietà di Maugham cresce vertiginosamente quando comincia ad essere mess in scena la sua produzione teatrale: a lui, fin da ragazzo, è sempre piaciuto “scrivere sceneggiature” e questo esercizio fa sì che lui maturi delle competenze in questo campo e nel 1907 la sua commedia intitolata Lady Frederick ottiene uno straordinario successo e l’anno seguente quattro sue commedie vengono rappresentate contemporaneamente a Londra e la rivista Punch pubblica una vignetta in cui Shakespeare si morde le unghie nervosamente mentre guarda i cartelloni teatrali.

     La sua celebrità cresce a livello europeo quando viene pubblicato nel 1915 il romanzo, decisamente autobiografico [“Non è un’autobiografia ma un romanzo autobiografico”, scrive Maugham], intitolato Schiavo d’amore [il titolo originale è “Schiavitù umana”]. La critica “puritana” stronca quest’opera mentre un influente e sempre severissimo critico, Theodore Dreiser, presenta questo romanzo come un’opera geniale e la paragona a una Sinfonia di Beethoven. Questa spinta ha prodotto un grande interesse per questo testo che è stato tradotto in molte lingue e non ha mai smesso di essere ristampato. Schiavo d’amore è un romanzo che molte scrittrici e molti scrittori hanno spesso citato nelle loro opere e una delle citazione più famose è quella che compare ne Il giovane Holden di J. D. Salinger [1951]: ebbene, il giovane Holden [che è un ragazzo disadattato ma ha il pregio di essere un lettore] dice di aver letto Schiavo d’amore e che il romanzo gli è piaciuto, ma non avrebbe mai fatto una telefonata al suo autore. Perché Salinger fa questa affermazione che, sebbene suoni come un apprezzamento positivo, risulta un po’ inquietante?

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Richiedete in biblioteca il romanzo “Schiavo d’amore” di William Somerset Maugham e leggetelo e poi deciderete se fare o non fare una telefonata all’autore…   

     Quando nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale Maugham è un autore famoso ed troppo vecchio per essere chiamato alle armi ma partecipa in Francia nelle file della Croce rossa britannica come autista di ambulanza in un gruppo di ventitré scrittori tra cui Ernest Hemingway ed è in questa occasione che incontra Gerald Haxton, un giovane americano, un californiano di San Francisco, che diventa suo compagno inseparabile e suo amante fino al 1944, l’anno della morte di Haxton.

     Maugham ha coltivato una relazione affettiva con una signora che si chiama Syrie, la quale è stata, negli anni venti, una famosa decoratrice d’interni e, quando lei ottiene il divorzio da un precedente matrimonio [era sposata con un facoltoso magnate farmaceutico anglo-americano], i due si sposano e avranno una figlia che si chiama Liza, ma questa esperienza matrimoniale – complicata dai frequenti viaggi all’estero di lui sempre accompagnato dal suo compagno Gerald Haxton e dal carattere libertario di lei – è stata piuttosto tempestosa e i due divorziano nel 1927.

     Maugham, a partire dagli anni Venti, compie frequenti viaggi soprattutto in estremo oriente che gli offrono il materiale per alcuni libri significativi tra cui La luna e sei soldi [1919] basato sulla vita di Gauguin, il grande pittore e Il velo dipinto [1925] che è diventato, nel 1934, un ormai introvabile film con Greta Garbo. All’inizio degli anni Venti scrive una decina di commedie, tutte di successo, tra cui Il cerchio [1921] e Ad est di Suez [1922].

     Durante la prima guerra mondiale Maugham ha lavorato per il servizio segreto britannico [l’agenzia M16] e da questa esperienza – visto che non perde mai l’occasione di trasformare la vita vera in Letteratura – nasce una raccolta di brevi racconti che s’intitola Ashenden l’inglese [1928] il cui protagonista è un agente segreto raffinato, sofisticato, solitario che ha ispirato a Ian Fleming la serie di James Bond. Nel 1928 Maugham compra Villa Mauresque, una tenuta di dodici acri a Cap Ferrat sulla Costa Azzurra nel sud della Francia, che diventa la sua residenza abituale e uno dei grandi salotti letterari degli anni Venti e Trenta.

     Nel 1928 pubblica Lo scheletro nella credenza che è il suo romanzo preferito e più ambizioso e nel 1932 raccoglie una serie dei suoi racconti brevi in un volume intitolato Pioggia e altri racconti: questo volume è stato tradotto per la prima volta in italiano da Elio Vittoriani.

     Nel 1939 scoppia la seconda guerra mondiale e quando nel 1940 la Francia viene occupata dai nazisti Maugham lascia la Costa Azzurra e si rifugia negli Stati Uniti. Lo scrittore, ormai sessantaseienne, va a vivere vicino a Hollywood dove scrive le sceneggiature per i film tratti dai suoi più celebri romanzi: ne verranno girati un certo numero. Il governo britannico gli chiede di scrivere dei discorsi patriottici in favore delle democrazie europee che combattono il nazismo e poi di operare in modo da convincere l’amministrazione statunitense ad entrare in guerra.

     Gerald Haxton muore nel 1944 e Maugham torna in Inghilterra e poi, nel 1946, torna in Francia nella sua casa a Cap Ferrat dove, tra un lungo viaggio e l’altro, vive fino alla morte avvenuta nel dicembre del 1965.

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Se consultate una guida della Francia o vi collegate alla rete potete fare un’escursione a Saint Jean Cap Ferrat e dintorni, buon viaggio...  

     E ora torniamo sul nostro specifico itinerario: stavamo riflettendo sul fatto che in Età tardo-antica [è qui che ci troviamo, all’Epoca dei Flavi] riemerge sul territorio dell’Ecumene la cultura orfico-dionisiaca secondo lo stile epigrammatico di carattere priapèo e abrosynèo e abbiamo analizzato il significato di queste due termini significativi all’inizio dell’itinerario. Il genere epigrammatico di carattere priapèo e abrosynèo diventa “classico” attraverso l’opera di uno scrittore vissuto nell’Epoca dei Flavi e nei primi anni dell’Epoca successiva ai Flavi: questo scrittore, di origine spagnola, si chiama Marco Valerio Marziale ed è il compositore degli Epigrammi.

     Gli Epigrammi di Marziale non è un’opera di facile lettura e per capirla è necessario conoscere il significato delle principali parole-chiave che questo testo contiene: a cominciare dalla parola “fascino”. L’opera di Marziale, innanzi tutto, è servita alle studiose e agli studiosi di Storia per completare la conoscenza dell’epoca degli imperatori Flavi [Vespasiano, Tito e Domiziano] e dell’inizio dell’epoca degli imperatori d’adozione [il primo è Nerva]. Negli Epigrammi di Marziale emerge il quadro di un’epoca in cui la decadenza dell’Impero è già ad uno stadio avanzato. Marziale parla di sé e dei suoi ideali, dei suoi gusti letterari, delle sue aspirazioni: il primo protagonista della sua opera è lui che analizza se stesso.

     Negli Epigrammi Marziale satireggia, senza fare del moralismo, sul mondo in cui vive, in cui sbarca il lunario, e critica, con feroce ironia e sottile comicità, le contraddizioni di questo mondo, però lui riconosce e confessa di essere completamente coinvolto in uno stile di vita che lui non è in grado di cambiare: è lucidamente assuefatto, consapevolmente perso in una realtà alienante che è diventata la caratteristica sostanziale della Roma del I secolo, con i suoi vizi, le sue incoerenze, i suoi contrasti, la sua violenza. Marziale si pone il problema di come evadere da questa situazione ma le vie d’uscita presuppongono coraggio e scelte troppo drastiche: il sistema d’evasione che Marziale sceglie – anche come mezzo di sussistenza – è la poesia, sono gli Epigrammi e, ancora una volta, la scrittura poetica si dimostra strumento di un’efficacia straordinaria. In questo stato d’animo di “lucida assuefazione” sta la grande modernità dell’autore degli Epigrammi perché la cittadina e il cittadino contemporaneo “che riflette” si trova spesso a condividere la condizione psicologica di Marziale: è fortemente critico perché riconosce che questa società, in molti dei suoi aspetti, fa schifo [sordide, turpiter], è oscena ma, contemporaneamente, si rende anche conto di esserne parte integrante, di partecipare tragicamente alla sua oscenità «senza poter trovare – scrive Marziale – un àmbito dignitoso, decoroso, meritevole per potersi esiliare». Da quale “mondo” vorrebbe esiliarsi Marziale?

     I dati anagrafici di Marco Valerio Marziale non sono precisi, sappiamo che è nato tra il 38 e il 51 ed è morto tra il 102 e il 104. Marziale ha scritto gli Epigrammi che sono un’opera complessa composta da 1561 versi [soprattutto distici elegiaci] divisi in 15 libri.

     Da quale “mondo” vorrebbe esiliarsi Marziale? L’ambiente in cui a Roma vive Marziale è quello dei clientes, dei parassiti, dei ladri, dei bevitori, delle cortigiane senza scrupoli, dei disabili costretti a mendicare, dei finti filosofi, dei piccoli truffatori. Nella descrizione di questi personaggi Marziale ricerca l’effetto comico, scherzoso e, naturalmente, anche l’effetto osceno in chiave priapèa, e una delle parole-chiave [la più importante] che caratterizza gli Epigrammi di Marziale è la parola “fascinum” che lo scrittore utilizza abbondantemente nella sua opera poetica secondo il significato veteropriapèo per cui il termine “fascinum” designa l’oggetto fallico, e non solo il fallo di Priàpo nella sua funzione di amuleto, ma anche tutte le parti del corpo che possono essere nominate nell’ambito della sessualità come strumenti per provocare l’ironia, la comicità e l’oscenità.

     Invece, in un certo numero di Epigrammi, Marziale esalta le virtù “estetiche” alle quali vorrebbe aspirare: la delicatezza, lo splendore, la grazia, il gusto, la cortesia, l’eleganza, la finezza, la distinzione e qui, quando usa il termine “fascinum”, fa riferimento alla “ghirlanda floreale [l’area dell’abrosyné]” descritta da Saffo e, quindi, invita chi legge a fare una riflessione di carattere estetico [a domandarsi: “che cos’è l’armonia?”]. Ogni persona – scrive Marziale [Marziale coltiva il pensiero del “pessimismo riflessivo” tipico dell’Età tardo-antica] – aspira senz’altro al “fascinum-abrosinèo” dato dalle virtù estetiche che rendono più bella e qualitativamente migliore la vita, ma poi, soprattutto per responsabilità personale [e lui se ne assume la responsabilità], il destino della persona è quello di dover subire il “fascinum-priapèo” che riserva una vita dal tasso qualitativo molto basso, e «sono costretto a dire – scrive Marziale – quasi quotidianamente: che vita grama mi tocca fare!». E allora, per lo meno – scrive Marziale –  visto che alle persone tocca fare una “vita grama”, prendiamo dalla metafora poetica del “fallo di Priàpo [con annessi e connessi]” quello che ci può essere di giocoso, di festoso, di vivace, di brioso, di spiritoso, di spassoso, di gradevole, di buffo, di burlesco, di farsesco, di umoristico, e ridiamo, seppure amaramente, alla faccia della nostra sorte, della nostra vita grama. La vita agra delle persone, per Marziale, è in buona parte voluta: per viltà, per ignavia, per paura, per disattenzione, per pigrizia, per indolenza, per poltroneria, per noncuranza, per negligenza, per ignoranza.

     Gli Epigrammi più belli – veri e propri pezzi di bravura descrittiva, esercizi “estetici” permeati di malinconia e di nostalgia – sono certamente quelli in cui Marziale, per trovare “consolazione”, descrive il paesaggio rievocando la sua terra d’origine, la Spagna Tarragonense [la Spagna Tarragona]. Marziale è nato a Bìlbilis, che corrisponde all’odierna cittadina di Calatayud, nella regione dell’Aragona e, quindi, cogliamo l’occasione per fare un breve viaggio virtuale nella penisola Iberica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Spagna e sulla rete fate una visita alla cittadina di Calatayud che conserva una traccia dei resti romani dell’antica Bìlbilis e poi conserva i monumenti della cultura araba dell’ VIII secolo [il castello, la torre] e poi conserva le chiese del medioevo cristiano: la chiesa più importante, Santa Maria la Mayor, era l’antica moschea e possiede un pregevole portale di scuola francese, quindi, le culture – araba, ispanica e francese - s’intrecciano dando significativi risultati estetici e questo fatto merita una riflessione

Buon viaggio… 

     La poetica di Marziale mette in evidenza che c’è il “fascino priapèo”, legato alla ritualità del dio Priàpo, con caratteristiche dionisiache, che spinge a comportamenti materiali e animaleschi, e c’è il “fascino abrosynèo”, legato alla cultura di Saffo e al concetto dell’abrosyné con caratteristiche intellettuali, che stimola comportamenti artistici. Il “fascino priapèo” contiene un potente influsso di carattere dionisiaco che porta a mettere in evidenza tutto ciò che è vita nell’individuo. Il “fascino abrosynèo” contiene una potenza di attrazione e di seduzione la quale stimola nell’individuo attitudini artistiche: tutto ciò che è rappresentazione della vita.

     Il “fascino”, per essere tale, ha bisogno di entrambi i fattori: il priapèo e l’abrosynèo e Marziale incarna la figura dell’artista che si dibatte tra questi due elementi contrastanti che creano un conflitto spesso inconciliabile tra l’arte e la vita. Marziale ha 24 anni quando lascia Bìlbilis [dove è nato verso il 40] e arriva a Roma per cercare fortuna. Marziale entra in contatto con Seneca, il più autorevole tra i suoi connazionali, da cui riceve appoggio e aiuto economico, frequenta insieme a Lucano [suo conterraneo] la casa dei Pisoni dove si raccoglie l’opposizione a Nerone ma, nel 65, tanto Seneca quanto Lucano [e molti altri], coinvolti nella fallimentare congiura dei Pisoni si tolgono la vita per “non respirare la stessa aria del tiranno”. Marziale, nel corso della grande repressione neroniana, che è un illustre sconosciuto, se la cava, ma rimane senza sostegno e deve vivere con fatica [in modo sobrio e precario] e con umiliazione la condizione del “poeta-cliente”, accettando suo malgrado, ma con dignità, gli obblighi di questa condizione di servilismo.

     Marziale arriva ad avere successo, un successo che, però, non comporta mai grandi riconoscimenti sul piano economico: non esistendo, a quel tempo, il diritto d’autore, il poeta non ha alcun guadagno dalla vendita delle proprie opere e con Marziale si inaugura il modello del poeta squattrinato, del perdente di successo, magari famoso ma povero, indigente, emarginato.

     E ora facciamo un assaggio dagli Epigrammi di Marziale. Leggiamo un frammento del Marziale priapèo: gli Epigrammi in cui si manifesta il “fascino priapèo”, di tono scandaloso, sono la stragrande maggioranza, c’è solo l’imbarazzo della scelta.

LEGERE MULTUM….

Marco Valerio Marziale, Epigrammi  Libro XI

Amo, mia cara, le liete notti che si prolungano continuando a bere vino:

tu bevi solo acqua e poi ti alzi in fretta, malinconica, vuoi far l’amore al buio:

a me piace giocare sotto la lucerna, mi piace che la luce ti possa penetrare dappertutto.

Tu ti vuoi per forza nascondere in fasce, in tuniche, in scure camicie,

per me, a letto, nessuna donna è mai nuda abbastanza.

Adoro i baci che imitano i baci delle tenere colombe: i tuoi baci, mia cara,

sono come quelli che si danno alla nonna sdentata, la mattina.

Non giochi all’amore con i gesti, con le dita e neppur

con le parole, ti avvicini come un vecchio sacerdote che prepara un mesto sacrificio.

Tutte le volte che, a Troia, Andromaca sedeva a cavallo di Ettore, tutti gli abitanti

del palazzo, servitù compresa, partecipavano a questo bel torneo di pace e di delizia.

A Itaca, in quel letto d’ulivo, anche se Ulisse russava, la perseverante Penelope teneva la mano,

sempre pronta e delicata, sul fascino rilassato di Priàpo.

Se ti piace essere sempre così seria, mia cara, fai pure Lucrezia, ma di giorno,

di notte almeno, ti prego, vorrei che tu ti tramutassi in Laide

e tu scoprissi in te il riso, i gesti e il gusto di una avvenente cortigiana.

     Marziale è capace di trasformare lo “stile scandaloso [tra virgolette]” in raffinato capolavoro. E ora leggiamo un frammento del Marziale abrosynèo, la famosa ode al Libro che sta scrivendo: gli Epigrammi in cui si manifesta il “fascino abrosynèo”, quelli di carattere descrittivo, non sono meno accattivanti.

LEGERE MULTUM….

Marco Valerio Marziale, Epigrammi  Libro X

O mio libretto, mentre ti sto scrivendo, vola sulle ali di questi miei pensieri,

vola fino al vasto mare, e poi naviga con il favore benigno delle onde.

Va’ verso la rocca Tarragona, correndo agile, spinto da propizio vento: là verrà a prenderti un carro

e, dopo aver cambiato carrozza cinque volte, vedrai le forti mura di Bìlbili, la mia città,

con le sue torri slanciate verso il cielo, che sono belle come le gambe di Lacinia,

quando balla, con eleganza, sul rialzo del tempio di Afrodite.

Tu vuoi sapere perché ti mando sulle ali di questi pensieri, mentre ti sto scrivendo,

o mio libretto? Ti mando a salutare i miei amici, pochi, ma di vecchia data, visti l’ultima volta,

più di trent’anni fa, per ricordare che sono iberici figli, come me.

Ti mando a contemplare le colline tarragone, dipinte con tutte le tonalità del giallo,

sono belle, turgide e rotonde, come i seni ondeggianti di Lecinia, quando balla,

con gusto, sul rialzo del tempio di Afrodite. Ti mando a contemplare i fiumi tarragoni,

con tutte le tonalità del blu, scorrono rapidi, limpidi e invitanti,

come gli sguardi degli occhi di Licinia, quando balla, nello splendore,

sul rialzo del tempio di Afrodite. Ti mando a contemplare le notti tarragone che

non hanno la tonalità del buio perché la via lattea tutto illumina: imbocca,

o mio libretto, questa strada con passo gradevole e privo di preoccupazioni.

Addio, compagno dei pensieri, un favorevole vento ha aperto il porto,

come Lucinia si apre con piacere, quando balla, sul rialzo del tempio di Afrodite.

     Credo sia doveroso rendere giustizia a Marziale che è stato spesso, nel corso dei secoli, accusato di oscenità: che cosa dovremmo dire di fronte a tante manifestazioni che vediamo intorno a noi! Ma la nostra bussola è l’alfabetizzazione culturale e funzionale che ci insegna a coltivare un “pensiero lungo, alto ed esteso”.

     Avete notato come Marziale gioca, di volta in volta, con il nome di questa fanciulla: Lacinia, Lecinia, Licinia e Lucinia, presentandola con diverse sfaccettature, a seconda delle circostanze culturali, facendone un modello intellettuale. Marziale – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – sottopone alla nostra riflessione un’interessante esercitazione filologica che dobbiamo capire: il nome della fanciulla cambia in funzione della situazione mitica che rappresenta. Lacinia è la figura mitica di una fanciulla che ha partecipato alla difesa delle antiche mura di Roma al tempo leggendario dei re e qui Marziale ne parla per rafforzare l’immagine delle mura della città di Bìlbilis. Lecinia è la figura mitica di una fanciulla che – secondo una tradizione tragica – ha allattato Dioniso neonato e qui Marziale ne parla per rafforzare l’immagine delle colline simili a seni rotondi, turgidi e fecondi. Licinia è la figura mitica di una fanciulla che ha risalito un fiume impetuoso, a nuoto, dalla foce alla sorgente e qui Marziale la cita per rafforzare l’immagine dei fiumi. Lucinia è la figura mitica di una fanciulla che rappresenta la personificazione della Via lattea, un agglomerato di stelle che illumina il cammino notturno, che dona luce all’ispirazione di cui il poeta ha bisogno per esprimere i suoi pensieri.

     Non è facile leggere gli Epigrammi di Marziale senza possedere le necessarie chiavi di lettura e, in questa poesia, più che l’aspetto osceno – che è certamente quello di comprensione più immediata – prevale l’aspetto filologico dato dai riferimenti culturali che, se riusciamo ad afferrarli, sono i più godibili, quelli che procurano il sottile piacere del testo. Sul gioco poetico delle variazioni su un nome – come abbiamo visto in questo Epigramma di Marziale [Lacinia, Lecinia, Licinia e Lucinia] – che rappresentano una serie di sfaccettature mitiche, ha scritto una pagina significativa un importante intellettuale contemporaneo che si chiama Walter Benjamin. Ebbene, Walter Benjamin ci dà un suggerimento, nelle sue Riflessioni sulla pittura:  Benjamin ci invita a osservare quando Pablo Picasso, il grande pittore che tutti conosciamo, dipinge più volti di donna sullo stesso volto di donna. Non è difficile rintracciare un’immagine di una [sono tante] di queste opere. Scrive Walter Benjamin: leggiamo questo frammento.

LEGERE MULTUM….

Walter Benjamin, Riflessioni sulla pittura

Pablo Picasso raffigura la ricerca mitologica sui nomi, più volte attuata da Marziale nei suoi Epigrammi Tutti gli artisti delle avanguardie del primo Novecento hanno amato gli Epigrammi di Marziale e imitato anche la figura del poeta mendicante.

     Ora – attraverso Marziale, su suggerimento di Walter Benjamin – osserviamo questa fanciulla in tutte le sue sfaccettature pensando che, senza l’applicazione della “sapienza poetica”, non avrebbe corpo, e, senza il linguaggio mitico non avrebbe forma neppure l’affascinante territorio tarragonese.

     Lacinia, Lecinia, Licinia, Lucinia balla sul “rialzo del tempio di Afrodite”: che cos’è questo “rialzo del tempio di Afrodite”? È un modo molto elegante, una raffinata metafora abrosynèa, per rappresentare il “fallo di Priàpo”, per evocare il “fascinum”. Il “rialzo del tempio di Afrodite” è una significativa idea poetica in cui Marziale crea l’intreccio tra un contenuto priapèo e una forma abrisynèa insegnandoci che c’è una bella differenza tra la trivialità e la raffinatezza nel dare un nome a particolari oggetti.

     Per portare a termine la nostra incursione nella filologia degli Epigrammi di Marziale, che rivelano come la cultura orfico-dionisiaca si risvegli poeticamente in Età tardo-antica, non possiamo fare a meno di compiere un viaggio nel territorio tarragonese: Marziale esalta la rocca Tarragona, le colline tarragonesi, i fiumi tarragonesi, la notte tarragonese. Tarragona è una bellissima città sulla costa mediterranea che presenta tre livelli architettonici esemplari ben visibili: c’è la città romana [resta il grande anfiteatro in faccia al mare], c’è la città visigota [resta la basilica romanica visigota costruita nel V secolo dentro l’anfiteatro romano, con lo stesso materiale] e c’è la città medioevale [c’è la cattedrale iniziata nel 1171, con uno stupendo chiostro].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Spagna e collegandovi alla rete potete visitare la città di Tarragona che era il capoluogo [“tarraco” significa “capitale”] della regione del nord-est iberico ai tempi di Marziale… Buon viaggio

     Un fatto di notevole importanza sul “territorio poetico e filosofico dell’Età tardo-antica” è l’incontro-scontro tra l’antica cultura rituale orfica incentrata sulla figura di Dioniso [che comincia ad essere fagocitata] e la nuova cultura che si sviluppa sulla scia della predicazione evangelica incentrata sulla figura di Gesù Cristo [che si sovrappone alle culture preesistenti]. Questo confronto crea una straordinaria trama filologica che vede come primi grandi tessitori i cosiddetti Padri Apostolici che noi incontreremo tra due itinerari, non nel prossimo perché nel prossimo itinerario ci dobbiamo occupare di “eloquenza”. Perché [ha già scritto Cicerone] l’eloquenza è il più importante strumento per acquisire l’attitudine all’onesta? [Tema di straordinaria attualità]. Chi fa questa affermazione e in quale contesto viene fatta questa affermazione?

     Per rispondere a queste domande è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come lo stile epigrammatico] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “errante” per invitarci ad investire in intelligenza.

     Il viaggio continua…

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 22, 2013