Autorizzazione all'uso dei cookies

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA SI SVILUPPA L’IDEA DI UNA “NUOVA FIORITURA” ...

Lezione N.: 
28

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica       18-19-20  maggio  2016

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

SI SVILUPPA L’IDEA DI UNA “NUOVA FIORITURA” ...

     Questo è il ventottesimo itinerario [il terzultimo] del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica”.

     Abbiamo incontrato in queste ultime settimane Francesco Petrarca che viene universalmente considerato “l’umanista per eccellenza”, il capostipite di quello che è stato chiamato “l’Umanesimo filologico” perché, come abbiamo detto al termine dell’itinerario della scorsa settimana in versi cinquecenteschi, Francesco Petrarca è consapevole «ché l’intelletto abbisogna di linfa / per poter svelar l’arcano dato di quante sfumature per ciascuno verbo / il Creator del Mondo abbia creato».

     E poi tenendo conto del versetto del Talmud ebraico dove si legge: «Dio ha detto una parola e io ne ho sentito due: in ogni parola ci sono settanta [innumerevoli] sfumature diverse e la più attesa è la settantunesima …», c’è la consapevolezza, chiaramente presente nel pensiero di Petrarca, che l’interpretazione dei grandi apparati culturali della Storia del Pensiero Umano [Petrarca fa riferimento all’Antico Testamento, ai Classici greci e latini, alla Letteratura dei Vangeli, ma ci sono anche il Libro del Corano, i Libri dei Veda indiani, il Tao Te Ching cinese, l’Avesta di Zaratustra] non può prescindere da un quadro di riferimento dato da cinque parole-chiave significative: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia, e il movimento dell’“Umanesimo filologico” vorrebbe disegnare la realtà tenendo conto di queste idee-guida.

     C’è da dire che il movimento dell’“Umanesimo filologico” è riuscito [purtroppo] in minima parte ad incidere sul piano sociale e politico, e Francesco Petrarca - che predica la pace e s’impegna in diplomazia, ma viene ignorato, tutt’al più tollerato, da chi ha in mano il potere basato sulla forza delle armi - lui ne è consapevole e lascia una significativa testimonianza di questa sua consapevolezza politica soprattutto nella famosa Canzone all’Italia, composta a Parma nel 1345, dove si rivolge a Dio [Rettor del cielo] perché faccia rinsavire i potenti padroni delle Signorie italiane in modo che cessino di farsi la guerra e trovino un accordo per dare all’Italia la dignità di uno Stato in modo che non sia più schiava degli stranieri: questo appello, che circa cinquecento anni dopo diventa uno dei vessilli del Risorgimento, rimane inascoltato. Citiamo solo alcuni versi di questa canzone, la 16°, che trovate nel Canzoniere e sulla quale potete puntare la vostra attenzione leggendola interamente.

LEGERE MULTUM….

Francesco Petrarca, Canzoniere  Canzone 16°

Italia mia, benché il parlar sia indarno [sia inutile, non serva a niente]

a le piaghe mortali [a medicare le tue ferite]

che nel bel corpo tuo sì spesso veggio,

piacemi almen che i miei sospir [mi piace pensare che i miei sospiri] sian quali

spera il Tevero e l’Arno e ‘l Po,

dove doglioso e grave or seggio [dove mi trovo, a Parma, triste e addolorato].

Rettor del cielo, io cheggio [o Dio, ti chiedo]

 che la pietà che ti condusse in terra

ti volga al tuo diletto almo [fertile] paese:

vedi, segnor cortese [misericordioso],

di che lievi cagion che crudel guerra [da quali futili cause scaturiscono guerre crudeli]

.....

Canzone, io t’ammonisco

che tua ragion cortesemente dica …

.....

Proverai tua ventura [sarai accolta bene da pochi]

tra magnanimi pochi a chi il ben piace;  di’ lor: «Chi m’assicura?

I’ vo gridando: Pace, pace, pace» …

     Bastano questi pochi versi per capire la lungimiranza degli “umanisti” [in primis il Petrarca] che, nonostante le loro buone ragioni, non riescono ad incidere sul piano politico e, quindi, rivolgono la loro attenzione al territorio dell’intimità, e c’è da domandarsi se la figura della “donna amata non disponibile” sia, secondo un già collaudato modello poetico provenzale, anche la metafora di una società unita e solidale non realizzata.

     Francesco Petrarca viene universalmente considerato il più importante “umanista” della Storia della cultura internazionale soprattutto perché rivolge la sua attenzione all’intimità della persona nell’ambito del sentimento più eloquente, quello amoroso. Petrarca, nel Canzoniere [la raccolta di poesie d’amore più significativa della Storia della Letteratura Universale] è stato capace di proporre una vasta gamma di sentimenti presentandoli nelle loro più svariate sfumature e ha creato il glossario universale del moderno lessico amoroso, e dal “linguaggio petrarchesco” è difficile prescindere. Il termine “sfumatura” nel Canzoniere è una gradazione, un’intonazione, una tonalità con la quale il poeta dà forma ad un vero e proprio “universo sentimentale” che ha inciso sulla Storia del Pensiero Umano.

     Come abbiamo preannunciato la scorsa settimana, sulla poesia del Canzoniere possiamo fare adesso solo una breve spigolatura [possiamo proporre una semplice raccolta di versi] senza commentarli nei particolari in modo che, volendo, utilizzando il volume del Canzoniere o navigando in rete, possiate fare una lettura particolareggiata di ciò che ora viene proposto.

     Come ben sappiamo, la figura che vive immortale nella poesia di Petrarca è quella di Laura [e la scorsa settimana ci siamo documentate e documentati su questo personaggio per quel poco che se ne sa]. Il Canzoniere raccoglie il lavoro poetico in cui Francesco si è impegnato per oltre trent’anni, e lo scenario del trentennale rapporto ideale tra Laura e Francesco è quello dell’incontaminata bellezza di Valchiusa, la valle dominata dalle sorgenti del fiume Sorga: «Mira ‘l gran sasso donde Sorga nasce» [e se non avete ancora visitato le Terme di Valchiusa - utilizzando la guida della Francia e la rete - siete sempre in tempo a farlo]. Dai versi del Canzoniere emerge che a Valchiusa Francesco ha tentato invano di liberarsi dell’amore non ricambiato di Laura ma non è riuscito a dimenticarla, anzi, in quell’ambiente così bello dal punto di vista naturalistico cresce il desiderio dell’oggetto amato [ed è un sentimento che, probabilmente, tutti abbiamo provato e questo - il rapporto tra la bellezza della Natura e l’oggetto amato - è diventato con Petrarca un vero e proprio genere letterario]. Questo stato d’animo, con tutte le sue sfumature, lo possiamo cogliere, per esempio, nel sonetto 257° [Valle, che de’ lamenti miei se’ piena], anche se noi sappiamo che a Valchiusa non è che Francesco viva lamentandosi in continuazione, ha anche avuto modo di distrarsi. In questo sonetto - del quale leggiamo undici versi - Francesco descrive la ricchezza naturalistica della Valchiusa che si pone in netto contrasto col fatto che Laura non c’è e, quindi, prevale la malinconia e domina il dolore che procura questa assenza.

LEGERE MULTUM….

Francesco Petrarca, Canzoniere  Sonetto 257°

Valle, che de’ lamenti miei se’ piena,

fiume, che spesso del mio pianger cresci,

fere selvestre, vaghi augelli e pesci,

che l’una e l’altra verde riva affrena [contiene];

Aria, de’ miei sospir calda e serena,

dolce sentier, che sì amaro riesci,

colle che mi piacesti, or mi rincresci,

ove ancòr per usanza Amor mi mena;

ben riconosco in voi l’usate forme

non, lasso, in me che da si lieta vita

son fatto albergo d’infinite doglie.

     Francesco racconta - nei termini mitici del linguaggio poetico, nel sonetto 69° - che la bellezza di Laura lo ha folgorato nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, il venerdì santo [il 6 aprile] del 1327, e il ricordo di quel momento riaffiora quando rivede Laura nello stesso luogo un po’ di anni dopo e, sebbene sia invecchiata, Francesco non stima di meno la sua bellezza: leggiamo dieci versi di questo sonetto.

LEGERE MULTUM….

Francesco Petrarca, Canzoniere  Sonetto 69°

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi

che ‘n mille dolci nodi gli avolgea

e ‘l vago lume oltra misura ardea

di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi.

 

Non era l’andar suo cosa mortale

ma d’angelica forma, e le parole

sonavan altro che pur voce umana;

uno spirto celeste, un vivo sole

fu quel ch’io vidi, e se non fosse or tale,

piaga per allentar d’arco non sana

[la ferita non si rimargina per quanto s’allenti l’arco che l’ha prodotta].

     Francesco viaggia in giro per l’Europa, ma la percezione di Laura è sempre presente in lui e la sua immagine lo insegue e, quindi, il Canzoniere è un diario che diventa un vero e proprio modello poetico, un diario che contiene la storia di un amore esplicitamente terreno, che non si esaurisce con la morte di lei, ma si trasferisce, in modo più struggente, in una dimensione metafisica, diversa però dal Paradiso in cui Dante colloca Beatrice. Laura appare a Francesco nei suoi sogni, ancora bellissima e seducente, ma questa  non è una consolazione, è un surrogato di consolazione, perché la sua morte [e nonostante Francesco sia uomo di fede non è incline a farsi delle illusioni] ha lasciato «senza sole il mondo, oscuro e freddo, e senza fiori i prati».

     E il sentimento amoroso, in questa situazione “terrena”, si manifesta in tutte le sue gradazioni e, di conseguenza, Francesco avverte ovunque la impalpabile presenza “materiale” di Laura, soprattutto quando, solo e pensoso, se ne va in giro per i campi, come scrive nel sonetto 28°, per fare in modo che nessuno se ne accorga che sta soffrendo per un amore che, sebbene non ricambiato, dura oltre la morte e, per quanto percorra vie selvagge e solitarie, non riesce a pensare ad altro.

LEGERE MULTUM….

Francesco Petrarca, Canzoniere  Sonetto 28°

Solo e pensoso i più deserti campi

vo mesurando a passi tardi e lenti,

e gli occhi porto per fuggire intenti

ove vestigio uman la rena stampi

[fuggo ogni luogo segnato da piede umano].

Altro schermo [riparo] non trovo che mi scampi

dal manifesto accorger delle genti,

perché negli atti d’allegrezza spenti

di fuor si legge com’io dentro avvampi;

sì ch’io mi credo omai che monti e piagge 

e fiumi e selve sappian di che tempre

sia la mia vita ch’è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge

cercar non so, ch’Amor non venga sempre

ragionando con meco, et io con lui.

     Laura gli appare nella bellezza in un paesaggio ravvivato sempre da un’eterna primavera, ma, nonostante questa atmosfera appaia incantata e irraggiungibile, tuttavia Laura è sempre descritta come una donna vera, la cui bellezza lo turba, ed è oggetto di desiderio e di insoddisfatta passione e questo atteggiamento “umanizza” in modo decisivo il testo del Canzoniere. Francesco si augura, prima di morire, che Laura, almeno per un giorno, lo possa amare e sogna di trascorrere con lei una notte, ma sa che non gli sarà concesso questo privilegio, e lui deve accontentarsi di raffigurarsela come se stesse dentro ad un sogno, e come se lei fosse al centro di uno splendido quadro, in modo da creare, con le parole, straordinarie immagini di bellezza e di grazia [se guardate le Opere di Botticelli si capisce che ha letto il Canzoniere] e, come esempio, non si può non fare quello di una delle canzoni più celebri di tutto il repertorio poetico universale: la canzone 14° intitolata Chiare fresche e dolci acque: basta leggerne i primi sette versi.

LEGERE MULTUM….

Francesco Petrarca, Canzoniere  Canzone 14°

Chiare fresche, e dolci acque

ove le belle membra

pose colei che sola a me par donna,

gentil ramo, ove piacque,

con sospir mi rimembra,

a lei di fare al bel fianco colonna;

erba e fìor che la gonna

leggiadra ricoverse

co l’angelico seno;

aere sacro sereno

ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse;

date udienza insieme

a le dolenti mie parole estreme.

     Chissà, forse Laura sarebbe davvero comparsa nel luogo dove Francesco l’aveva vista un giorno alle sorgenti del fiume Sorga e, se questo non avviene, c’è la poesia: quello straordinario linguaggio che “dà un significato a ciò che non si realizza facendolo diventare eterno” e allora Francesco pensa che, se Laura dovesse comparire in quei luoghi benedetti, scoprirebbe con dolore che lui è ormai nella tomba, sotto una pietra, ridotto in polvere e, di conseguenza, lei, ispirata dall’amore, piangendo, chiederà per lui misericordia al cielo, come si legge in un successivo passo sempre della canzone 14°.

LEGERE MULTUM….

Francesco Petrarca, Canzoniere  Canzone 14°

Dai bei rami scendea,

dolce ne la memoria,

una pioggia di fìor sovra ‘l suo grembo,

ed ella si sedea

umile in tanta gloria,

coverta già dell’amoroso nembo;

qual fior cadea sul lembo,

qual sulle trecce bionde,

ch’oro forbito e perle

eran quel dì a vederle;

qual si posava in terra e qual su l’onde,

qual con un vago errore

girando parea dir: Qui regna Amore.

     Purtroppo, però, tocca a Francesco dover piangere la morte di Laura. E il riferimento poetico più acclamato sulla morte di Laura [che molto probabilmente è stata una delle tantissime vittime dell’epidemia di peste del 1348] lo si trova in alcuni versi - famosissimi - dei Trionfi, l’altra opera in volgare di Petrarca.

     L’immagine di Laura viene colta nella pacata e struggente compostezza della morte ma, da questa dolcezza, emerge una ribellione nei confronti delle illusioni che ci si fanno per riuscire a sopportare la tragica realtà del distacco.

     Sono tutti d’accordo, le pensatrici e i pensatori del ‘900, nel dire che qui, alla fine dell’autunno del Medioevo in età Umanistica, viene messo un seme nel grembo della poesia, un seme dal quale germoglierà l’esistenzialismo moderno.

     Leggiamo questi sette versi-chiave da il Trionfo della morte.

LEGERE MULTUM….

Francesco Petrarca, Trionfi

Pallida no ma più che neve bianca

che senza venti in un bel colle fiocchi,

parea posar come persona stanca:

quasi un dolce dormir ne’ suoi belli occhi,

sendo lo spirto già da lei diviso,

era quel che morir chiaman gli sciocchi:

morte bella parea nel suo bel viso.

     Sì, con la morte si riposa in pace, ma la morte non ci fa belle, non ci fa belli: solo le persone sciocche possono pensare che la morte debba essere accettata come “bella” [visto che riduce “in poca polvere che nulla sente”], ed è disumano il non ribellarsi e il non riflettere che la vita è una sequela di distacchi non eludibili, e questo concetto “esistenzialista” della “fine” che inaridisce il canto e insidia la vena poetica [dove “la cetra è rivolta in pianto”] emerge nei versi del sonetto, il 248°, con cui concludiamo questa doverosa spigolatura petrarchesca.

LEGERE MULTUM….

Francesco Petrarca, Canzoniere  Sonetto 248°

Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente,

e le braccia e le mani e i piedi e ‘l viso,

che m’avean sì da me stesso diviso,

e fatto singular [diverso] da l’altra gente;

le crespe chiome d’or puro lucente

e ‘l lampeggiar de l’angelico riso

che solean fare in terra un paradiso

poca polvere son che nulla sente.

Or sia qui fine al mio amoroso canto,

secca è la vena dell’usato ingegno [dell’ispirazione]

 e la cetera mia rivolta in pianto.

     Il testo del Canzoniere è stato sottoposto nei secoli all’indagine di molte discipline, umanistiche e scientifiche. Nel secolo scorso sono state soprattutto le studiose e gli studiosi di psicoanalisi ad occuparsi di quest’opera perché in un alto numero di versi la figura di Laura viene ad assumere un carattere “materno”. Eletta Canigiani, la madre di Francesco, è un figura “forte” e lo si capisce da quel poco che di lei ha scritto il poeta nella sua autobiografia: lui parla pochissimo della madre, non dice nulla sul fatto che suo padre, ser Petracco, ha avuto un figlio [Iacopo] da un’altra donna e non rivela la vera ragione per cui la madre da Arezzo, con Francesco neonato, si trasferisce dai nonni all’Incisa, dove Francesco vive da bambino, e questa esperienza, secondo Sigmund Freud [che si è fatto tradurre il testo del “Canzoniere” in tedesco da ben quattro traduttori diversi, due maschi e due femmine per poter valutare bene tutte le sfumature lessicali], avrebbe generato in Francesco un forte [non un normale] complesso di Edipo [avrebbe voluto possedere la madre, accoppiarsi con la madre in età infantile, prendere il posto del padre accanto alla madre] e, in conclusione, si è pensato che Francesco individui [inconsciamente] in Laura la figura della madre.

     Abbiamo letto un’ottantina di versi dal Canzoniere di Petrarca e abbiamo fatto una serie di considerazioni anche per poter continuare la lettura del romanzo Il gabbiano di Sándor Márai, redatto nel 1943, che ha un taglio decisamente petrarchesco per ammissione stessa dello scrittore, traduttore dell’Opera di Petrarca in ungherese.

     Quando la giovane donna finlandese, di nome Unica Onda [Aino Laine], entra - dopo aver chiesto udienza per ottenere un permesso di soggiorno - nell’ufficio del consigliere di Stato ungherese lui rimane sconcertato perché questa bella ragazza è la copia di colei, Ilona, che lui ha amato anni prima e che, forse, si è uccisa per amore di un altro, per amore del suo trasandato e vecchio professore di chimica. Il consigliere di Stato - che ha appena preparato il documento, da far firmare al ministro, che decreta l’entrata in guerra dell’Ungheria - non vuole staccarsi da questa persona, da questa unica onda, nonostante lui sia nei suoi confronti molto sospettoso: chi l’avrà mandata, si domanda, chi avrà mandato il “duplicato di Ili” a turbarlo, a spiarlo? Lui la invita all’Opera, lei accetta, ma, all’uscita dal palazzo ministeriale, non vuole essere accompagnata, gli dice che s’incontreranno direttamente a teatro e che lei vuole attraversare da sola il Danubio. siamo a Budapest, mentre i gabbiani, in cerca di cibo [qualcuno li nutre e butta loro del pane] volano lambendo il ponte: è ancora l’ora di pranzo e lui, un po’ risentito, entra - per mangiare qualcosa - in un locale molto animato dove sedeva spesso con Ili, e lì è costretto a ripensare e a riflettere [come abbiamo letto la scorsa settimana] sul suo complesso rapporto con Ilona, sulla tragica e misteriosa fine della ragazza [avvelenatasi con l’acido prussico], sul rapporto tra lei e il padre farmacista [anche la madre di lei si è suicidata], su quello strano personaggio che è il professore di chimica che lei forse ama e che è tutto preso, invece, dalla passione per la sua disciplina: l’alto dignitario ministeriale è chiamato a riflettere sulla guerra, sulla vecchiaia, sul significato delle relazioni umane, dell’idea di somiglianza e sul valore delle sfumature perché ogni persona è una sfumature, una tonalità, un’intonazione diversa dell’unico modello umano, e perché - si domanda con grande amarezza - questa radice comune non facilita ma complica la convivenza tra persone e Stati?

     I temi petrarcheschi - rivisitati con pensiero contemporaneo - affiorano inesorabili, con tutta la loro drammaticità esistenziale, nella prosa carezzevole e crudele di Sándor Márai, e allora - senza essere legati alla trama che ha poca importanza nei romanzi di questo scrittore - leggiamo queste tre pagine. Il consigliere di Stato, dopo aver ricordato tutta una serie di avvenimenti, esce dal locale e torna a casa ma la sua mente non smette di riflettere attanagliata, per giunta, dall’emicrania di cui soffre.

LEGERE MULTUM….

Sándor Márai, Il gabbiano

Per strada lui ferma una vettura e torna a casa. Sono le due e mezzo; se prende subito un antidolorifico, si corica nella stanza al buio, riposa immobile per un’ora, forse l’emicrania gli passa, e per le quattro sarà senz’altro in ufficio. Deve consegnare la relazione al ministro. Che parola semplice, relazioneDi lì a sera l’intero meccanismo si metterà in moto. Viene accolto dalla governante, senza dire una parola le porge soprabito e cappello, entra nell’appartamento, chiede un bicchiere d’acqua e nient’altro. E ordina che il telefono sia staccato fino alle tre e mezzo. La stanza è tiepida. Si avvia verso la camera da letto, ma strada facendo si ferma davanti alla scrivania. Si china verso il ritratto di Ili. Con entrambe le mani solleva l’immagine incorniciata, e strizzando gli occhi la osserva attentamente. Lei sedeva qui, sul davanzale della finestra aperta, quando aveva scattato la fotografia. Indossava un abito a quadretti e guardava giù verso la piazza, con i guanti in mano.

... continua la lettura ...

     Per un certo verso il Trecento - in particolar modo nella sua seconda metà - è stato anche un secolo “infernale” e questo termine lo utilizziamo in particolar modo in riferimento ad un avvenimento che dal 1378 al 1449 caratterizza la storia della Chiesa e della cristianità, divisa tra Roma ed Avignone.

     Francesco Petrarca muore nel luglio del 1374 e la lezione che lascia agli intellettuali che vengono dopo di lui è incentrata sul concetto della “laicità” ed è significativo il fatto che a raccogliere l’eredità culturale di Petrarca, e a svilupparla con fedeltà creativa, siano stati, invece che dei chierici o dei monaci, dei laici, delle persone variamente impegnate nella vita civile, protese anche a realizzare i valori del Vangelo [uguaglianza, giustizia, pace, solidarietà e misericordia] ma senza coltivare l’impulso di fuggire dal mondo e desiderosi di non essere asserviti alle gerarchie ecclesiastiche, così come ha fatto Petrarca rifiutando cariche di potere che, secondo lui, non avevano ragione di esistere nella Chiesa.

     Questa nuova categoria di intellettuali - ai quali è stato dato il nome di “umanisti” perché cercano e propongono una nuova “humanitas”, una dimensione capace di armonizzare in sé tanto il fine ultraterreno [curando la propria anima immortale] quanto quello mondano [preoccupandosi di dare un buon governo alla città] -, seguendo l’insegnamento del Petrarca, coltiva, con sempre maggiore determinazione, l’idea di conciliare l’umanità del Vangelo con l’umanità dell’antichità classica perché i principi basilari sono gli stessi [uguaglianza, giustizia, pace, solidarietà e misericordia] e, quindi, la categoria degli “umanisti” coltiva la passione, che già ha avuto Petrarca, per il ritrovamento dei testi delle Opere dei Classici che sono stati conservati soprattutto nelle polverose biblioteche delle abbazie.

     A questo proposito, “la disciplina filologica” [la Filologia] si specializza [diventa una vera e propria scienza] perché molto spesso, essendo stati questi testi depositati in locali fatiscenti, devono essere restaurati e ricostruiti tenendo conto nel modo più fedele della loro autenticità. Si comincia anche a capire che molti testi sono stati manomessi o dall’imperizia o dalla malizia degli amanuensi e, quindi, ridare il significato più autentico alla parola che è stata manipolata vuol dire riscoprire l’intenzione vera dell’antico scrittore e, dunque, la sua vera umanità, il suo reale universo culturale e la sua capacità - da imitare - nell’investire in intelligenza. Si prende atto da parte degli umanisti che in molti monasteri, e sotto l’egida dei tribunali dell’Inquisizione, le Opere classiche dei poeti e dei filosofi dell’antichità sono state spesso “corrette” per uniformarle al pensiero dell’ortodossia clericale svuotandoli di quella “umanità laica” [secondo la quale “bisogna fare il bene perché è ragionevolmente utile fare il Bene per la sua positiva ricaduta sociale”, tanto per citare Cicerone e Virgilio, autori prediletti dal Petrarca], che ora, nella nuova stagione dell’Umanesimo, viene ricercata come un modello da imitare per far crescere la qualità della vita terrena senza nulla detrarre all’ispirazione cristiana, anzi, come un arricchimento per una più corretta e attuale interpretazione della Letteratura dei Vangeli.

     Ed è così che la Filologia viene ad assumere un vero e proprio significato filosofico, e diventa essa stessa una Filosofia perché si propone come strumento di interpretazione della realtà - visto che la realtà esiste solo quando abbiamo a disposizione “le parole” per descriverla [in principio è la Parola] - e, quindi, gli umanisti sono filosofi che utilizzano la Filologia per mettere in discussione tutti i sistemi dogmatici [le metafisiche autoritarie] in nome del primato della volontà operosa, della saggezza morale e civile e dell’impegno politico per cercare di ben amministrare la città.

     Questo nuovo orientamento dello spirito si afferma soprattutto in una città come Firenze che, nei suoi ordinamenti e nelle sue attività produttive, ha creato, in anticipo sulle altre, le condizioni perché si sviluppi a pieno titolo il movimento dell’Umanesimo e proprio in questa città comincia a circolare un termine che sintetizza “quel qualche cosa di nuovo che sta avvenendo”, l’approssimarsi di una “nuova stagione”, ed è la parola “fioritura” [uno dei termini che possiede il maggior numero di sfumature nel Canzoniere del Petrarca: efflorescenza, nascita, crescita, apparizione, abbondanza, ricchezza, pienezza, rigoglio, diffusione, abbellimento, ornamento, eleganza]. Nasce con la diffusione di questa parola-chiave - “fioritura” - l’Umanesimo filologico a Firenze? Non è che si possa fare in senso assoluto un’affermazione di questo genere, però, su alcuni avvenimenti dobbiamo riflettere perché ci fanno capire che in questa città c’è la consapevolezza, da parte di saggi amministratori, che sta fiorendo una “nuova epoca” della quale farsi, per primi, paladini [novella fioritura fiorisce in Fiorenza].

     L’oggetto che a Firenze ci aiuta a capire questo fatto è una colonna [oggetto “classico” per eccellenza], la Colonna di San Zanobi, che come ben sapete si trova in Piazza San Giovanni davanti alla porta nord del battistero. Questa Colonna [oggi dal fusto di granito] è stata eretta nel punto in cui tradizionalmente è avvenuto il miracolo dell’olmo fiorito di San Zanobi [nella Letteratura latina l’olmo rappresenta l’unione amorosa, la solidarietà, l’amicizia, la protezione].

     La tradizione racconta che il 26 gennaio del 429 circa le spoglie del Santo Patrono [il vescovo San Zanobi] vengono portate in processione nella nuova Cattedrale di Santa Reparata e, al passaggio delle reliquie, un olmo spoglio e secco, perché siamo in pieno inverno, fiorisce miracolosamente. Quando l’olmo si secca definitivamente l’albero viene sostituito da una colonna votiva che, periodicamente, viene portata via dall’Arno quando esonda, insomma, l’oggetto è qualcosa di precario fino a quando il primo gennaio del 1375 [Petrarca è morto da sei mesi] diventa cancelliere del Comune di Firenze un certo Coluccio Salutati - il principale esponente del movimento degli umanisti fiorentini che si rifanno alla lezione di Petrarca - il quale per il 26 gennaio 1375 [giorno del miracolo] fa innalzare come primo provvedimento pubblico una nuova Colonna di San Zanobi sul cui busto viene posta un’iscrizione che, apparentemente ha un valore religioso [racconta il miracolo], ma in realtà esalta il fatto che a Firenze è in corso “la fioritura di una nuova epoca”: ebbene [che dire?], possiamo affermare che il 26 gennaio 1375 inizia l’Umanesimo filologico, possiamo dire che il Medioevo è finito? Dobbiamo essere cauti come sempre nel dare delle definizioni, certo che questa è una mossa da grande amministratore che interpreta lo spirito del tempo, e Coluccio Salutati lo incontreremo a breve.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate in Piazza San Giovanni, davanti alla Colonna di San Zanobi [che è stata rimaneggiata molte volte in questi secoli], a rendere omaggio al termine “fioritura” e domandatevi: che cosa mi fa venire in mente il termine “fioritura”?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Il termine “fioritura”, in linea di massima, orienta il nostro pensiero verso qualcosa di positivo e allora perché poco fa abbiamo detto che, per un certo verso, il Milletrecento - in particolar modo nella sua seconda metà - è stato anche un secolo “infernale”? Il riferimento riguarda un avvenimento che dal 1378 al 1449  ha caratterizzato, in termini drammatici [articolandosi in due fasi], la storia della Chiesa e della cristianità, divisa tra Roma ed Avignone. Questo avvenimento ha contribuito a dare un maggiore risalto alla “laicità” che si presenta come un valore rispetto alla crisi, sempre più evidente, del “potere temporale di carattere religioso” che contrasta ormai chiaramente con l’ideale evangelico ma: che cosa succede in seno alla cristianità? Assistiamo - se vogliamo usare una battuta - al “miracolo della moltiplicazione dei papi” [mentre chi governa la Chiesa si dovrebbe occupare piuttosto della moltiplicazione dei pani e dei pesci]. Ma veniamo al dunque: partiamo dalla Colonna di San Zanobi [nel 1378] per compiere un tragitto a vasto raggio che ci riporta qui [nel 1419], e per essere precisi il nostro cammino si conclude in Battistero.

     Dal 1378 al 1449 il mondo della cristianità è in subbuglio a causa di un tragico avvenimento [che si divide in due fasi] che prende il nome di “scisma d’Occidente”: il temine “scisma” significa “separazione” e noi, questa sera, ci occupiamo della prima fase di questo avvenimento fino al 1417 [la seconda fase fa già parte di un altro viaggio].

     Nel 1377 il papa Gregorio XI [Pierre Roger de Beaufort] decide di riportare a Roma da Avignone la curia pontificia, ed è [dopo circa settant’anni] un’operazione non facile da fare perché i Francesi, e gli Avignonesi in particolare, non vogliono che questo trasferimento avvenga e pongono molti ostacoli. Per giunta a Roma i legati pontifici [che sono tutti uomini arroganti e hanno il compito di presidiare la basilica di San Pietro] non gradiscono che il papa torni perché perdono un incarico di prestigio, inoltre le più importanti città di quello che era lo Stato pontificio [come Bologna, Perugia, Cesena] si sono rese indipendenti e vogliono mantenere la loro autonomia, ma Gregorio XI s’impone, sollecitato anche da Santa Brigida e da Santa Caterina, e, dopo aver condotto tutta una serie di trattative, il 17 gennaio 1377 fa il suo ingresso solenne in Roma, ma l’anno seguente muore.

     Il conclave del 1378 è assai tumultuoso perché il collegio dei cardinali è composto prevalentemente da francesi [11 su 16] e il popolo romano è in tumulto [la folla minacciosa urla “Romano lo volemo o almeno Italiano”] temendo che, con l’elezione di un papa francese, la curia sarebbe tornata ad Avignone e, sotto la pressione popolare viene eletto l’arcivescovo di Bari, il napoletano Bartolomeo Prignano che prende il nome di Urbano VI [un papa che decide di chiamarsi Urbano ha tutta l’intenzione di rimanere nell’Urbe] e Urbano VI ha l’intenzione di dare inizio ad una riforma [vuole riromanizzare la Chiesa e forse non è propriamente un obiettivo di carattere pastorale]: impone, a cominciare dagli ecclesiastici, una severa disciplina ispirandosi allo stile di vita degli ordini monastici e questo non piace ai cardinali che lo hanno eletto abituati ai privilegi della corte di Avignone per cui i porporati francesi approfittano di questo malcontento e si spostano a Napoli presso la regina Giovanna d’Angiò [filofrancese] e poi, riuniti a Fondi - la bella cittadina lungo la via Appia, sul lago omonimo, ai piedi dei monti Aurunci, in provincia di Latina - eleggono un secondo papa accampando la scusa che Urbano VI sarebbe stato eletto per violenta ingerenza popolare.

     Fondi è una bella cittadina [di circa 30 mila abitanti] di origine romana, ed è uno dei punti del quadrilatero che comprende anche Formia, Gaeta e Terracina. Fondi conserva la cinta muraria romana del I secolo a.C. C’è il Duomo di San Pietro sorto su resti romani nel XII secolo e la poderosa costruzione del Castello [dove si è svolto il conclave dei cardinali dissidenti francesi nel 1378] accanto al quale si trova il Palazzo del Principe che presenta un insieme di elementi architettonici angioino-durazzeschi e gotico-catalani molto interessante da osservare. Il mare si trova a soli 15 chilometri e, sul litorale tirrenico, c’è il Lido di Fondi, che si sviluppa lungo la via Flacca, dove si può frescheggiare in una delle vaste pinete e poi, dopo aver attraversato le dune sabbiose, si può [lontano dai pasti] fare il bagno.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida del Lazio e navigando in rete fate una visita a Fondi e dintorni... Buon viaggio...

     Chi è il secondo papa eletto dai cardinali francesi dissidenti, riuniti in conclave a Fondi? I cardinali francesi, riuniti in conclave a Fondi, eleggono papa Roberto di Ginevra, vescovo di Cambrai, che prende il nome di Clemente VII, un uomo d’armi più che di chiesa, appartenente ad un’influente famiglia imparentata con le principali case regnanti d’Europa.

     Urbano VI lo condanna come antipapa, ma a favore di Clemente VII si schierano la Francia, il Regno di Napoli, l’Aragona, la Castiglia, la Navarra e la Scozia, mentre a favore di Urbano VI, oltre al popolo romano e agli ordini monastici, si schiera l’Inghilterra, si schierano i feudatari tedeschi dell’Impero e gli Stati italiani: [uno scisma di questa portata] una divisione del genere nella cristianità occidentale  non si era mai verificata.

     Clemente VII [l’antipapa], forte dei suoi appoggi, ignora la condanna del papa di Roma e si stabilisce ad Avignone nel palazzo dei papi che è ancora perfettamente attrezzato per ospitare la curia papale e, a questo punto, la separazione è in atto: inizia lo scisma d’Occidente e, da questo momento, dal 1378, ci sono due papi in scena, uno a Roma [che si considera papa legittimo] e uno ad Avignone [che si considera legittimo antipapa], ciascuno con i suoi preti, i suoi vescovi e i suoi riti.

     Alla morte di Urbano VI, nel 1389, a Roma, nel conclave vaticano, viene eletto il cardinale napoletano Pietro Tomacelli che prende il nome di Bonifacio IX e ribadisce di essere il papa legittimo. Alla morte di Clemente VII, nel 1394, ad Avignone, dal conclave avignonese, viene eletto il cardinale spagnolo Pietro Martinez de Luna che prende il nome di Benedetto XIII e conferma di essere il legittimo antipapa [si stabilizza l’idea che la cristianità può avere due papi].

     I vari tentativi di conciliazione falliscono tutti e, quindi, a Roma quando muore Bonifacio IX gli succede Innocenzo VII [Cosimo Gentile Migliorati di Sulmona che regna dal 1404 al 1406] e poi Gregorio XII [Angelo Carrer di Venezia che regna fino al 1417] mentre ad Avignone continua a pontificare il più longevo Benedetto XIII [fino al 1422].

     Però nel 1409 succede un fatto sul quale dobbiamo puntare l’attenzione perché, tanto nel collegio di Roma quanto in quello di Avignone, c’è un gruppo di cardinali scontenti per questa scandalosa situazione: questi due gruppi si uniscono e formano una corrente che persegue una linea di riconciliazione. Difatti, per sanare questa dolorosa e scandalosa frattura, si riunisce un concilio a Pisa nel 1409 che depone i due papi - il romano Gregorio XII [il veneziano Angelo Carrer] e l’avignonese Benedetto XIII [lo spagnolo Pietro Martinez de Luna] - e al loro posto i padri conciliari [credendo di aver trovato un accordo] nominano un papa terzo: il cardinale Petros Philargis di Candia [così  i Veneziani chiamavano all’isola di Creta] il quale prende il nome di Alessandro V e avrebbe dovuto essere l’unico papa legittimo.

     L’accordo dura mezza giornata perché i due detronizzati, spinti dai loro sostenitori, negano la validità del concilio, negano di essere decaduti e così, invece di due papi, ce ne sono tre. Alessandro V, il papa di origine cretese eletto dal concilio di Pisa - quello che dovrebbe essere il papa legittimo -, è un uomo mite, molto timoroso, e non si sa imporre e per questo gradisce l’invito che riceve da parte dell’arcivescovo di Bologna: un cardinale molto deciso che s’incarica di proteggerlo e di guidarlo, e il buon Alessandro V si fida di lui. Il “tutore” del papa [il cardinale arcivescovo di Bologna] si chiama Baldassarre Cossa [ed è una nostra vecchia conoscenza che a volte ritorna perché spesso i filibustieri riescono a fare la Storia]. Il cardinale Baldassarre Cossa [come molte e molti di voi sanno] è un “ex corsaro” e ha un piano “piratesco” da perseguire.

     Il cardinale Baldassarre Cossa [dobbiamo rinfrescarci la memoria] è nato a Napoli [nel 1370 circa] e oggi [come molte e molti di voi sanno] è nostro concittadino: possiamo anche andarlo a trovare e abita [se così si può dire] nei pressi della Colonna di San Zanobi. Il cardinale Baldassare Cossa è chiamato comunemente “il pirata” nella Storia della Chiesa perché ha lavorato come corsaro nella acque del Mediterraneo, ed è stato spesso alleato e capo di gruppi di pirati saraceni impegnandosi con grande perizia nel depredare le navi mercantili dei cristianissimi Stati europei. È stato denominato dagli storici ecclesiastici [un po’ comicamente] un “uomo di larga coscienza”, che è abilissimo a maneggiare la spada, e a comandare. Quando come “pirata” va in pensione [ci va presto perché il suo è un lavoro usurante], con il capitale che ha messo da parte, decide - con grande oculatezza - di comprare un titolo [costoso ma ben quotato in borsa] quello di cardinale: c’è un florido mercato dei “titoli” perché la curia romana ha sempre più bisogno di risorse , e [come sapete] si vendevano anche le indulgenze. Naturalmente Baldassarre Cossa, come cardinale, fa subito carriera: diventa legato pontificio a Bologna, una città che, come Firenze, ha sempre dato del filo da torcere a Roma, e lì ci vuole anche un uomo che abbia una formazione militare.

     Il mite [e un po’ sprovveduto] Alessandro V si sente tranquillo accanto ad un tipo così energico come Baldassarre Cossa: prende coraggio e inizia a governare la Chiesa da papa legittimo ma - sebbene sia in buona salute - non campa a lungo perché muore improvvisamente l’anno dopo la sua elezione, nel 1410. Raccontano le cronache che una sera il papa, a cena, mangia i funghi [è un classico] e, sapete come succede, i funghi sono un prodotto ambiguo, e pensare che li aveva raccolti personalmente Baldassarre Cossa, a scanso di equivoci, e li ha mangiati anche lui [come sono abili i pirati - o dovremmo dire i cardinali? - a crearsi un alibi!]. Baldassarre Cossa ha già lavorato con impegno a tessere la sua rete: minaccia i pusillanimi, tratta con i potenti, paga tangenti, ricatta i cardinali che hanno [quasi tutti] qualcosa da nascondere e, dopo i funerali di Alessandro V, il conclave, riunito a Pisa, lo elegge papa e lui prende il nome di Giovanni XXIII e si stabilisce a Bologna.

     A questo punto entra in scena l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo il quale è assai disgustato dalla situazione che si è venuta a creare [deve farsi incoronare imperatore dal papa ma ce ne sono tre e non sa quale sia quello buono!] e sa benissimo, attraverso i suoi informatori, chi è Baldassarre Cossa e considera il fatto che sia stato eletto papa un vero scandalo. Sigismondo, che è persona illuminata ed energica, sta al gioco del papa-pirata e si fa incoronare da lui [a Bologna] re dei Romani [e Cossa crede di avere in pugno l’imperatore] ma a Sigismondo questa carica dà la possibilità di intromettersi negli affari della Chiesa e chiede che venga convocato un concilio a Costanza per mettere fine alla tragedia dello “scisma in Occidente”: ci sono tre papi in carica [Giovanni XIII a Bologna, Benedetto XIII ad Avignone e Gregorio XII a Roma].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Germania e navigando in rete fate una visita alla città di Costanza [Konstanz, ha circa 75 mila abitanti] sulle rive del Lago omonimo che è un prezioso spicchio di riviera ai piedi delle Alpi... Visitate gli interessanti monumenti di questa città, compreso il “fondaco mercantile” in cui si sono svolte le varie fasi del concilio... Buon viaggio...

     Baldassarre Cossa [alias papa Giovanni XXIII] cerca di opporsi alla convocazione di questo concilio indetto dall’imperatore Sigismondo, lui non ci vorrebbe andare sulle rive del lago di Costanza, è preoccupato, e dichiara: «Lì si pigliano le lepri [sono abili a costruire trappole per catturar le lepri]». Ma Baldassarre Cossa ha il carattere di un giocatore d’azzardo e quindi - dopo aver firmato la Bolla di convocazione - parte alla volta di Costanza fiducioso di poter imporre la sua autorità di papa legittimo contando sull’omertà di tutti quelli che ha corrotto e sull’appoggio del duca d’Austria [che rivaleggia con Sigismondo] ma a Costanza, nel 1414, le cose vanno diversamente: i padri conciliari votano a grande maggioranza [la Tesi di Sigismondo] per la decadenza dei tre papi in carica.

     Il concilio di Costanza [che inizia nel 1414] per Baldassarre Cossa, come temeva, diventa una trappola [preparata dall’imperatore Sigismondo] perché interviene contro di lui la magistratura imperiale che ha raccolto un nutrito dossier di pesanti accuse nei suoi confronti [con prove inequivocabili suffragate da una cinquantina di testimoni attendibili]: sono settantadue i capi di imputazione contro di lui, poi ridotti a cinquantaquattro. Baldassarre Cossa è accusato di simonia, di fornicazione, di adulterio, d’incesto, di sodomia, di negazione dell’esistenza dell’anima, di furto e di assassinio [l’assassinio di papa Alessandro V].

     Come si giustifica l’accusa di incesto? Si giustifica col fatto che Cossa aveva una decina di figli e una quindicina di figlie [dal 1400 al 1700 i cardinali sono sempre stati una categoria molto prolifica]. Dicono le cronache giudiziarie [e qui si rasenta la comicità e l’ingresso nel territorio delle leggende metropolitane] che in un anno Cossa avrebbe sedotto duecentoventi tra nubili, maritate, vedove e monache: una al giorno, se escludiamo la quaresima, le domeniche e le altre feste comandate [era pur sempre un cardinale e doveva rispettare le regole del calendario liturgico].

     Ma prima di essere arrestato Baldassare Cossa riesce a fuggire dalla “trappola” di Costanza: scappa in sella ad un ronzino vestito da mendicante approfittando di un torneo organizzato fuori città in onore dei padri conciliari, nella notte tra il 20 e il 21 maggio del 1415. Scatta immediatamente il sistema di allarme ma Cossa, che ha l’agilità di un “pirata”, riesce a farla franca e a rifugiarsi presso un suo amico di avventure, Federico, duca del Tirolo che lo tiene ben nascosto nei suoi molti castelli. Il concilio di Costanza non solo licenzia Giovanni XXIII come anti-papa ma lo condanna in contumacia come simoniaco, dissipatore di beni ecclesiastici, amministratore [spirituale e temporale] infedele della Chiesa.

     Ma l’aria montana del Tirolo ha un effetto miracoloso su Baldassarre Cossa, il quale comincia a pentirsi dei suoi numerosi peccati tanto che quando viene catturato dal conte palatino e consegnato al nuovo unico papa, Martino V [Oddo Colonna], eletto a Costanza nel 1415, si mostra talmente pentito [o, per lo meno, così sembrava] che ottiene il perdono dal papa che gli lascia anche la porpora cardinalizia: è l’anno 1417 e, con questo fatto, la prima fase dello “scisma d’Occidente” può considerarsi conclusa.

     Baldassarre Cossa - il cui nome da papa, Giovanni XXIII, è stato riscattato dopo cinque secoli da Angelo Giuseppe Roncalli [ma non se ne è parlato molto nel 1958] - ha trascorso l’ultima parte della sua vita a Firenze.

     Il nuovo papa Martino V [Oddo Colonna, saggio e abile diplomatico] non può da Costanza tornare [per tutta una serie di motivi logistici e di sicurezza] subito a Roma [divenuta “una città da mandriani” e, per giunta, ad Avignone c’era sempre Benedetto XIII a fare l’antipapa ma con poco seguito] e, quindi, Martino V si ferma due anni a Firenze [1419-1420]. Baldassarre Cossa viaggia insieme al papa - che lo ha perdonato ma lo tiene sotto controllo - e muore a Firenze nel 1419 e il papa incarica uno scultore, Donatello, il quale [sublime ingiustizia dell’arte] crea un formidabile monumento funebre [con la collaborazione di Michelozzo], e così Baldassarre Cossa [certe cose capitano solo ai pirati] ha avuto anche l’onore di essere sepolto nel Battistero di Firenze, uno dei più celebri e visitati monumenti del mondo, con vista sulla Colonna di San Zanobi.

     Se fate una visita [potete anche utilizzare la rete ma il “bel San Giovanni” ce l’abbiamo in casa] a Baldassarre Cossa vi farà capire [in qualche modo] di essere molto lusingato perché sono pochissime le persone, tra le moltissime che visitano ogni anno questo monumento, a sapere chi sia questo personaggio “dalla larga coscienza”. Viene da pensare che non meriterebbe di essere sepolto in un luogo così importante ma ha comunque il merito, anche se involontario, di far risaltare il nome e l’opera di Donatello e di Michelozzo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a osservare il monumento funebre dell’antipapa-pirata Baldassarre Cossa e vi accorgerete che sta un po’ scomodo ma, visto che lo abbiamo perdonato, un po’ di penitenza la deve pur fare…

     A questo punto siamo tornati da dove eravamo partiti e qui ci aspetta Coluccio Salutati, con il quale faremo due chiacchiere la prossima settimana. Ora terminiamo questo itinerario leggendo ancora una pagina da Il gabbiano di Sándor Márai che, citando Dante e Petrarca, fa riflettere il protagonista del suo romanzo sul concetto spaventoso, per lui in questo momento, della “somiglianza” e su quello naturale e mirabile della “fioritura”, e la parola-chiave “fioritura” non ha, forse, improntato l’itinerario di questa sera?

LEGERE MULTUM….

Sándor Márai, Il gabbiano

Adesso lui deve far chiamare una vettura, perché il ministro lo attende a minuti. E la terra ruoterà ruoterà insieme ai vivi e ai morti, e in un mondo che è intimo e fatalmente familiare, da qui a domani tutto cambierà in modo sinistro. Oggi si sono aperti i cancelli dell’inferno, pensa, e sorride sarcastico di questa poetica immagine retorica. Ma il brivido freddo che percorre il suo corpo lo avverte che tale immagine, pur se retorica, dice qualcosa, come è stato per Dante e per Petrarca, che può essere pathos ma anche verità. È come se tutto si fosse deformato: la pace non è più pace, e i morti con una strana smorfia beffarda e crudele tornano a vivere su questa terra. La realtà mostra il suo nuovo volto e questo volto è di un’inquietante familiarità. Be’, rassegnati, pensa; e come in preda a una vertigine, si abbandona all’estasi oscura di questo desiderio e di questi minuti. Adesso sta vivendo davvero, con più foga, in maniera più profonda e avventurosa di quanto non gli sia mai capitato in vita sua

... continua la lettura ...

     A quanto pare Ili non vive e non muore in un unico esemplare al mondo - esiste il modello che di tanto in tanto, da una Ili all’altra, qui o in Finlandia, si replica e si incarna. Benché sia quasi oltraggioso, bisogna rassegnarsi al fatto che Dio si è inventato un modello unico che non è certo un inno al nostro valore, e dal modello ormai collaudato in principio scaturiscono infinite e varie sfumature. Pertanto è come se esistessero milioni e milioni di gemelli che non sono nati dallo stesso utero ma, a essere più precisi, da due corpi materni distinti, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Somiglianza, che parola spaventosa; vengono i brividi a sentirla. Tutto ciò che è destino è contenuto in questa parola, parola diabolica che getta una luce nell’abisso, nella tremenda officina in cui giacciono le forme ancestrali dell’esistenza umana, miliardi e miliardi di larve. L’essere umano è impotente per quel che riguarda il proprio corpo. Soltanto l’anima disputa con Dio.

     Be’, le cose sono andate così, con Ili. È ritornata? Tutto sommato è un fenomeno naturale, sebbene spaventoso. Come in un prato tanti fiori sbocciano e, sebbene siano uno diverso dall’altro, sono tuttavia il risultato della stessa fioritura. Spesso - ci ricorda Sándor Márai con il suo solito sarcastico acume - sono paradossali i risultati della stessa fioritura [della creazione].

     Dove vogliamo andare a parare in conclusione? Se fate una visita a Baldassarre Cossa vi farà capire [abbiamo detto] di essere molto lusingato perché sono pochissime le persone, tra le moltissime che visitano ogni anno il “bel San Giovanni”, il Battistero di Firenze, a sapere chi sia questo personaggio e allora lui, per non annoiarsi, si è dato alla lettura e ha scoperto anche un poeta che si chiama Carlo Alberto Salustri [1871-1950] che tutti conosciamo con lo pseudonimo di Trilussa, uno scrittore che ammira molto Francesco Petrarca. Ebbene, Baldassarre Cossa si è molto immedesimato in una poesia di Trilussa, l’ha imparata memoria e, alle persone che lo riconoscono, la recita volentieri e questo ci fa capire che non si è ancora pentito del tutto, ancora cerca giustificazioni. Questa poesia s’intitola L’Amore e l’Odio, ascoltatela:

LEGERE MULTUM….

Trilussa, L’Amore e l’Odio

L’Amore disse all’Odio

- Hai fatto un bel lavoro!

Per via di te gli uomini

s’ammazzano tra loro.

... continua la lettura ...

     Se Lucifero è un angelo, anche un pirata può diventare papa? Baldassarre Cossa cerca ancora giustificazioni.

    Spesso - ci ricorda Sándor Márai con sarcastico acume - sono paradossali i risultati della stessa fioritura [della creazione]. Petrarca, pur non essendo propriamente un magister, ha fatto Scuola e chi sono i suoi discepoli? Coluccio Salutati [che è già qui con noi], Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla e Nicola Cusano. Anche se ognuno di loro lavora per conto proprio costoro hanno fatto fiorire il grande giardino “della [cosiddetta] Compagnia degli Umanisti”. Li incontreremo la prossima settimana nel corso della penultima Lezione di questo lungo viaggio.

     I membri della “la Compagnia degli Umanisti” - ciascuno con il proprio carattere - si sono domandati: che cos’è la cultura? La cultura - hanno risposto - è un viaggio senza fine alla scoperta della propria ignoranza perché [per innata spinta metafisica…] la persona non perde mai la volontà d’imparare [e voi siete la testimonianza vivente di questo fenomeno metafisico].

     La Scuola è qui e questo viaggio non è ancora finito: non perdete il penultimo itinerario…

 

 

Domanda di Iscrizione all’Associazione

 

 

Nome e Cognome .............................................................................................................................................

 

Indirizzo ................................................................................................................................................................

 

Cap. .............................               Città ..................................................           Prov. ...........................

Luogo e data di nascita ...............................................................................................................................

Telefono .......................................   Cellulare .............................................      Fax ..............................

E-mail .......................................................................................................................................................................

Attività svolta ...................................................................................................................................................

 

Dall’Articolo 3 dello Statuto: «L’Associazione ha come obiettivo quello di offrire alla generalità dei cittadini italiani e stranieri l’acquisizione del diritto all’apprendimento permanente così come è stato sancito dalla Costituzione italiana, dal trattato di Lisbona e dalle direttive emanate dalla Comunità Europea. ... 

Per perseguire tale finalità l’Associazione - in accordo con altre associazioni e con gli Enti Locali - si propone di promuovere nella Scuola pubblica previa parere favorevole dei Consigli d’Istituto e in qualunque altra struttura idonea [biblioteche, case del popolo, circoli culturali, centri commerciali, ospedali, istituti carcerari, ecc.] attività di Alfabetizzazione funzionale e culturale sotto forma di Percorsi didattici predisposti secondo idonei programmi». ...

 

Chiedo di entrare a far parte dell’Associazione “Articolo 34” e mi impegno a rispettarne lo Statuto e i regolamenti.

 

 

Data ....................................................                 Firma ......................................................................

 

 

La domanda va inviata alla presidente dell’Associazione Cristina Tozzi al seguente indirizzo: chicchi29@hotmail.it

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 20, 2016