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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA A OXFORD SI SVILUPPA LA TENDENZA NATURALISTICO-SPERIMENTALE ...

Lezione N.: 
4

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica       28-29-30  ottobre  2015

Roberto Grossatesta - Londra, British Library

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL'ETA' UMANISTICA

A OXFORD SI SVILUPPA LA TENDENZA NATURALISTICO-SPERIMENTALE ...

 

   Siamo già al quarto itinerario del nostro viaggio di studio e, dalla scorsa settimana, dopo aver celebrato il tradizionale “rituale della partenza”, abbiamo preso decisamente il passo sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” e dobbiamo riflettere [brevemente, ma obbligatoriamente] su questa denominazione: siamo entrate ed entrati, metaforicamente parlando, in una grande “foresta” che rappresenta - a detta delle studiose e degli studiosi di filologia - una vasta area denominata “pre-umanistica” che precede lo spazio dell’Umanesimo propriamente detto, quindi dobbiamo specificare che il territorio che ci accingiamo ad attraversare da ora al giugno del prossimo anno si compone di due grandi porzioni: quella cosiddetta “pre-umanistica [che, dal punto di vista temporale, comprende i secoli XIII e XIV, il 1200 e 1300]” e quella “umanistica propriamente detta o pre-moderna [che dura per tutto il XV secolo, il 1400].

   Sappiamo poi - a proposito di denominazioni - che, con il XIII secolo, inizia un periodo che è stato chiamato “l’autunno del Medioevo ” [una stagione che non dura tre mesi ma circa tre secoli]. In questo momento - mentre “l’autunno del Medioevo” sta iniziando - noi ci troviamo di fronte ad un vasto “paesaggio intellettuale” che è stato denominato “della Scolastica empirica [o naturalistico-sperimentale]”.

   Che cosa c’è di interessante da osservare all’interno di questo scenario? Gli argomenti che emergono in questo scenario sono molti, sono complessi e caratterizzati da alcuni aspetti paradossali e voi sapete che il “paradosso” è un motore intellettuale e corrisponde ad una contraddizione, ad una aporia, e l’“aporia” - come abbiamo puntualizzato la scorsa settimana - è uno degli elementi fondamentali del sistema dialettico e senza dialettica non c’è vitalità culturale; quindi, cercheremo di procedere con ordine, coltivando le azioni del  conoscere, del capire e dell’applicare.

   Sapete che ci troviamo a Oxford e sapete anche che la Biblioteca dell’Università di Oxford è da considerarsi metaforicamente come una grande “foresta intellettuale” che si presta ad essere esplorata. A questo proposito: chissà quali sono le sensazioni che sta provando il signor Tiburius - il protagonista del romanzo intitolato Il sentiero nel bosco di Adalbert Stifter che stiamo leggendo - al suo risveglio dopo aver esplorato, a suo rischio e pericolo, la foresta nella quale si è perduto ma nella quale si è anche ritrovato? Lo vedremo strada facendo, ora siamo a Oxford, la città che si trova al centro del “paesaggio intellettuale” che dobbiamo visitare.

   A Oxford come sappiamo nel 1228 emigra da Parigi un gruppo di frati francescani appartenenti alla corrente degli “spirituali ” in fuga perché invisi al vescovo parigino custode dell’ortodossia e - dopo essere stati accolti e istruiti dal cancelliere dell’Università - contribuiscono a fondare uno “studium ” [una facoltà] per dedicarsi soprattutto ad indagare sui fenomeni della Natura fisica: come sapete, il cancelliere della Scuola di Oxford è l’intellettuale francescano Roberto Grossatesta, che ben conosciamo già dal viaggio scorso. L’Università inglese di Oxford in questo momento [all’inizio del XIII secolo] si giova del fatto di essere più periferica rispetto a quelle del continente e, quindi, può godere di una maggiore libertà di orientamento e di contatti culturali, e a Oxford, nonostante la proibizione di Roma, le Opere di Aristotele [la Fisica e la Metafisica] hanno libera circolazione e vengono adottate come libri di testo molto prima che altrove.

 

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una visita a Oxford utilizzando una guida della Gran Bretagna e navigando in rete… Oxford oggi è una città [con circa 119 mila abitanti] che conserva la sua struttura medioevale ma tutti i monumenti - dalla cattedrale agli edifici “scolastici” - sono stati ristrutturati a partire dal 1600, buon viaggio…

 

   Come abbiamo già detto la scorsa settimana lo sviluppo che ha avuto l’Università di Oxford lo si deve ad un personaggio che conosciamo: l’intellettuale francescano Roberto Grossatesta che è stato un valente cancelliere dell’ateneo oxfordiano fino al 1253 [quando muore dopo essere stato scomunicato ingiustamente] ed è considerato l’anticipatore della corrente che ha preso il nome di  “Scolastica empirica [o Scolastica naturalistico-sperimentale]”.

   Grossatesta agisce tanto come magister scolastico [e conosciamo il suo pensiero in proposito] quanto come esegeta [e, in questo importante ruolo, non lo conosciamo ancora] e, quindi, insieme a lui prediamo il passo sull’itinerario di questa sera.

   Roberto Grossatesta - con le sue Lezioni sul tema della “luce” [un argomento che abbiamo studiato nella primavera scorsa] - sposta l’interesse degli studenti di Oxford su quel settore della Fisica che si chiama Ottica: una disciplina che dimostra come la luce sia simile ad una materia sottilissima, poco più spessa dell’aria, che si diffonde in continuazione finché non incontra qualcosa che la blocca; se poi la luce non incontrasse nulla che ne ferma il cammino si diffonderebbe all’infinito, afferma Grossatesta, fino a raggiungere i confini dell’Universo e anche, sostiene Grossatesta, il corpo stesso di Dio [se la luce è un filo conduttore tra Dio e la persona può esserlo anche tra la persona e Dio]. Quindi, fa sperimentare ai suoi studenti tutti i modi, reali e metaforici, in cui la luce si può manifestare, e questa pratica mette al centro l’esperienza [“il fare esperienza” che, in greco, corrisponde al termine “episteme”] e, di conseguenza, l’attività intellettuale diventa soprattutto un esercizio di interpretazione dei fenomeni [dal verbo greco “ermeneuō”]. Roberto Grossatesta descrive l’esperienza fatta [l’epistemologia] e riporta i risultati dell’interpretazione dei fenomeni [l’ermeneutica] nella sua famosa opera intitolata De luce [Sulla luce] che è il primo trattato di Fisica dove il mistero della Creazione viene spiegato facendo ricorso all’Ottica [e, come nel pensiero di Aristotele, è la Fisica a fare da supporto alla Metafisica con un ragionamento condotto “a posteriori”, partendo dall’esperienza].

   Grossatesta sviluppa l’argomento iniziando la sua riflessione dalla cosmogonia del Libro della Genesi dove il tema fisico della “luce” emerge in un contesto metafisico: la luce, spiega Grossatesta, si presenta come il primo tramite tra la fisica e la metafisica [se la luce parte da Dio indirizzandosi verso la persona ecco che anche la persona seguendo la luce può pensare a Dio]. La luce originaria [lux in latino, phos in greco] è, afferma Grossatesta, la prima forma creata e, in quanto tale, è la prima “corporeitas ” [il primo fenomeno corporeo] come si legge nell’incipit del primo capitolo del Libro della Genesi ai versetti 3 e 4: «In principio Dio creò il cielo e la terra. Il mondo era vuoto e deserto, le tenebre coprivano gli abissi e un vento impetuoso soffiava su tutte le acque. Dio disse “Sia la luce!”. E la luce apparve. Dio vide che la luce era bella e separò la luce dalle tenebre». Roberto Grossatesta prende atto della valenza sacra del testo biblico però non si ferma a fare un’esegesi in chiave religiosa ma vuole portare il tema della “luce” sul piano della Fisica e dell’Ottica, e ribadisce che la “luce” è una sostanza corporea finissima, portatrice di forze e dei loro effetti, che si moltiplica e si diffonde nella materia. «Tutto è venuto dalla luce, scrive Grossatesta, generandosi, per così dire, da sé in tutte le direzioni, come da un punto di luce, nello stesso istante, può generarsi un’intera sfera luminosa». «Attraverso un processo di rarefazione e di condensazione, scrive Grossatesta, nascono le sfere trasparenti della “regio caelestis”, [dell’Universo] nella quale sono incastonati [secondo la concezione astronomica medievale tolemaica], i pianeti quali punti eccellenti di luce, e le sfere del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra».

   Il cosmo, secondo Grossatesta, nasce dunque “dall’autodiffondersi della luce per mezzo della sua stessa moltiplicazione” e la luce, scrive Grossatesta, è formata da atomi sottilissimi che partecipano alla generazione dell’Universo, e questo “atomismo dinamico”, descritto nel trattato De luce, è diventato motivo di riflessione per i pensatori moderni e contemporanei, e questa riflessione ha portato, nel campo della Fisica, ad identificare la materia con l’energia.

 

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’espressione “fare luce” corrisponde allegoricamente alla scoperta di un fatto, di una situazione, di un avvenimento inaspettato, che suscita meraviglia  Vi è capitato di venire a conoscenza di un fatto, di una situazione, di un avvenimento che non pensavate potesse avere i risvolti su cui avete “fatto luce”?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Di fronte all’espressione “fare luce” - in funzione della didattica della lettura e della scrittura - dobbiamo aprire una piccola parentesi seguendo la scia di un libro che s’intitola Gesù, fate luce, opera dello scrittore Domenico Rea.

   Lo scrittore Domenico Rea - nato a Napoli l’8 settembre 1921 e morto, sempre a Napoli, nel 1994 - era figlio di Giuseppe un ex carabiniere, per incompatibilità con il regime fascista, e di una levatrice, Lucia Scermino, il vero sostegno economico della famiglia; Domenico aveva due sorelle, Raffaella e Teresa, nate prima di lui. Nel 1924 la famiglia Rea si trasferisce a Nocera Inferiore, una cittadina alle pendici dei Monti Lattari e luogo d’origine del padre e qui Domenico, da bambino,  vive un’infanzia libera, aperta alle esperienze della strada e della campagna, ed è anche molto bravo a Scuola, ha una forte volontà di apprendere e notevoli attitudini per lo studio: in particolare ama scrivere e il suo maestro vorrebbe che frequentasse il ginnasio e invece, dopo le elementari, va all’avviamento professionale. Vive un bel periodo di libertà e spesso accompagna il padre che è diventato venditore ambulante nelle fiere dei paesi campani dove incontra la Letteratura perché ci sono le bancarelle [almeno una] con i libri dai quali è attratto e, siccome è senza soldi [suo padre non può certo spendere in libri], li ruba: un giorno da un carretto, durante la fiera a Salerno, ruba le Operette morali di Giacomo Leopardi e il primo volume della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis. Da questo momento, da adolescente, Domenico Rea inizia a leggere accanitamente e la sua erudizione diventa vastissima perché scopre che a Nocera Inferiore c’è una biblioteca che lui comincia a frequentare assiduamente e lì incontra degli interlocutori che lo vedono scrivere, e leggono ciò che scrive, e si rendono conto del suo talento: il primo è il frate francescano [i francescani non sono solo a Oxford] Angelo Iovino, un intellettuale che gli trasmette la passione per i novellieri trecentisti, poi incontra lo psichiatra Marco Levi Bianchini, amico di Sigmund Freud, e poi Luigi Grosso, uno scultore anarchico confinato dal regime fascista a Nocera e anche Pasquale Lamanna, raffinato letterato, che insegna al liceo di Castellammare. Domenico Rea inizia a fare lo scrittore riempiendo, dal 1937 al 1940, quattordici quaderni e un notevole numero di fogli sparsi che sono conservati al “Centro di ricerca per la tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. Su Domenico Rea e sulle sue Opere noi potremmo dire ancora molte cose ma dobbiamo far sì che questa parentesi non sia molto ampia anche perché potete ampliarla per conto vostro.

 

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca e navigando in rete proseguite nella conoscenza di Domenico Rea, scoprite e richiedete i suoi romanzi che sono tutti particolarmente coinvolgenti…

 

   Noi adesso puntiamo l’attenzione [per conoscere, per capire, per applicare] sul libro intitolato Gesù, fate luce che è una raccolta di dodici racconti pubblicata per la prima volta nel 1950. Questi racconti sono ambientati a Napoli e provincia, nel periodo tra la caduta del fascismo e la partenza degli Alleati anglo-americani dal Sud. Sono storie che parlano di un’umanità sofferente e molto affaticata, colta nella sua quotidianità [c’è la coppia che litiga in modo scomposto, il tipo che sbarca il lunario facendo il finto-zoppo, c’è il mendicante che sfama i suoi rubando dalla cantina di un convento, c’è il contadino che coltiva una passione selvaggia e rovinosa per una sua coetanea, e così via]. Domenico Rea riesce sempre, secondo lo stile di Euripide, a far procedere ogni suo racconto sulla linea sottile del confine che c’è tra il tragico e il comico.

 

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Richiedete in biblioteca “Gesù, fate luce” di Domenico Rea e leggetene qualche pagina  perché, nonostante siano passati sessantacinque anni, in questi racconti non manca l’attualità ...

 

   E ora leggiamo solo l’incipit di Gesù, fate luce per implementare questo esercizio.

 

LEGERE MULTUM….

Domenico Rea, Gesù, fate luce

Il convento di suore delle figlie di *** di un paese molto vicino al nostro è un incantevole luogo di felicità cristiana. Si trova tra un famoso colle e il mare che riverbera sul convento una luce celestiale. La fabbrica del palazzo è di quattro piani, con altri piccoli stabili d’intorno, con finestre senza inferriate e senza alcuna altra difesa contro l’esterno. Le monache che lo abitano hanno un’uniforme azzurro-marina, sormontata dalla candida cornetta, che è una cuffia inamidata e ad ali. Sotto le cornette i volti delle suore sono papposi e rubicondi come quelli descritti nel Decamerone; con la differenza che le attuali sorelle sono virtuose e trascurarono i beni del mondo e, molte di esse, anche il titolo di principessa, per votarsi alla preghiera e all’assistenza dei bambini e dei vecchi: di un prossimo cioè che, in quella città, molte volte è coperto di stracci. di pidocchi camminatori e che impara a dire le più onomatopeiche bestemmie prima di papà e mamma.

 

   Perché abbiamo aperto questa breve parentesi? Perché Roberto Grossatesta il concetto legato all’espressione “Gesù, fate luce” lo ha, in un certo senso, fatto suo sul piano esegetico: che cosa significa? Significa che Roberto , da eminente grecista, ha tradotto e interpretato il testo del Vangelo secondo Giovanni cogliendo un aspetto sul quale paradossalmente, secondo lui, non era mai stata fatta abbastanza luce a cominciare proprio dall’indagine filologica sul termine stesso, “luce”, che, in greco, viene espresso con due parole che ne precisano la natura: quella fisica e quella metaforica.

   Ma prima di procedere in questa direzione [accompagnati dal Grossatesta esegeta] è nostro dovere accertarci che il signor Tiburius stia bene: ormai ci è stato affidato. Lo abbiamo lasciato addormentato una settimana fa: era stanchissimo e timoroso di ammalasi dopo aver vissuto l’esperienza di essersi perduto nella foresta nella quale si è incamminato attratto dal fascino boschivo. Questa avventura, in cui Tiburius è passato dalla luce alle tenebre e dalle tenebre alla luce, vissuta a stretto contatto con la Natura fisica ha fatto risvegliare tutti i suoi sensi, e poi l’incontro casuale con un taglialegna che lo ha sostenuto ed accompagnato gli ha fatto capire quali possono essere le potenzialità positive della Natura umana [chi lavora impara ad essere solidale, il lavoro genera solidarietà verso il prossimo]. Quindi leggiamo.

 

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Il sentiero nel bosco

Quando il signor Tiburius si svegliò, era giorno fatto. Il sole entrava nella camera e il tepore del letto era infinitamente confortevole. Alla fine si riscosse, tuttavia, e prese a controllare se qualcosa gli faceva male. Avendo dormito, non sapeva se avesse sudato o meno; la testa non gli doleva, il petto nemmeno, lo stomaco era in salute - dava soltanto segni di una grande fame - e le braccia erano rilassate, senza crampi né stiramenti. Il signor Tiburius prese l’orologio accanto al letto e gli diede un’occhiata. Erano le dieci, e l’ora del siero di latte già passata da tempo. Anche in fatto di bagni era sempre stato più mattiniero, ma quel giorno poteva ben tardare. Si stirò, mosse i piedi ed ecco, i piedi sì gli facevano terribilmente male, soprattutto sul dorso, ma non si trattava della manifestazione dolorosa di una malattia - questo gli fu subito chiaro -, bensì di stanchezza, che nell’ozio aveva persino qualcosa di voluttuoso.

Rimase ancora disteso, tranquillo. Crogiolandosi a quel modo sotto le coperte, non riuscì a reprimere una piccola gioia maligna al pensiero di aver mancato, dormendo, la cura del siero di latte. Guardava la finestra, e il bel telaio a crociera che ne incorniciava i vetri, guardava i fregi dipinti alle pareti, e gli oggetti intorno.

Alla fine si decise a suonare. Entrò Mathias, il domestico che lo aveva accompagnato il giorno prima. Il signor Tiburius non si alzò, ma gli chiese che cosa ne fosse stato di loro e della carrozza, quando lui e Robert il cocchiere, non l’avevano visto ritornare.

«Siamo rimasti tranquillamente ad attendere,» rispose il domestico «più tardi, pur non vedendovi arrivare, non ci siamo per nulla impensieriti. Dopo un’ora, ogni tanto guardavamo l’orologio, dopo due, lo guardavamo sempre più spesso. Quando però il sole stava per tramontare Robert mi ha detto di andare tutt’intorno a chiamarvi. Mi sono messo a correre per il bosco, gridando, ma nessuno rispondeva. Sono corso a destra, a sinistra, sempre gridando, ma invano. Allora - era già calata da un pezzo la sera - sono andato alle case di pietra, non molto distanti dal luogo in cui ci trovavamo, sull’altro versante della valle, a raccogliere uomini perché mi aiutassero a perlustrare la foresta ma poi sono stato raggiunto da Robert che era stato avvertito del vostro rientro». «Sta bene» disse Tiburius, con un sorriso, ma non si alzò, si girò invece su un fianco, sempre sorridendo tra sé, profondamente compiaciuto di essere stato in una grande foresta, e di essere sopravvissuto a quell’avventura. 

Finalmente, trascorsa un’altra ora piena, decise di alzarsi. Quel giorno il signor Tiburius rinunciò al bagno, era troppo tardi ormai, gli avrebbe arrecato solo fastidi. Fece però qualcos’altro, di cui faticò ad assumersi la responsabilità. Non riuscì infatti a resistere alla tentazione di mangiare a colazione molto più del solito. Poi, naturalmente, se ne pentì. Ma la cosa non ebbe conseguenze nefaste. Da quel momento il signor Tiburius riprese a seguire con ordine le regole delle terme, solo che la stanchezza ai piedi, dovuta a quella straordinaria camminata, perdurando quasi otto giorni, lo rese praticamente inabile a muovere anche pochi passi. Eppure, in tutto quel tempo, fantasticò sempre sullo strano sentiero, bramoso di capire come gli fosse potuto succedere di perdersi. Dando corso a tali pensieri, un giorno, ormai tornato nel pieno delle forze, si fece condurre di nuovo nel punto in cui si trovava quel terreno di brughiera soleggiato e asciutto, protetto dalle pareti rocciose. Scese dalla carrozza e disse ai domestici - gli stessi che erano con lui quel giorno - di aspettarlo, perché stavolta non si sarebbe perso. Oltrepassò la prima radura, come già aveva fatto, e raggiunse la seconda, che tanto gli era piaciuta e che tornò ora a piacergli. La attraversò, prestando grande attenzione a tutto quello che vedeva. E si inoltrò persino nella foresta. Ma, come quel tal giorno non era più riuscito a rintracciare la parete rocciosa, così ora non riusciva a perderla di vista. Da qualsiasi lato si volgesse, la vedeva sempre. Avanzò lungo il sentiero, disseminandolo di legnetti che si era messo in tasca allo scopo di ritrovare la via del ritorno, quando all’improvviso si avvide del motivo per cui la volta prima era stato, come per incantesimo, sviato. In un punto in cui il sentiero passava sopra una pietraia ed era poco segnato, un viottolo si inseriva di soppiatto, molto più battuto, salendo lateralmente dal bosco. Quando Tiburius, perciò, aveva voluto tornare sui propri passi, aveva imboccato per ventura quella diramazione maggiormente in evidenza, addentrandosi così sempre di più nel bosco e allontanandosi dalla carrozza.  Gli parve cosa incredibilmente insensata non essersene accorto subito. Ora tutto era talmente chiaro. Non sapeva che accade sempre così a chiunque vada per i boschi.   I boschi si svelano per gradi, si dischiudono piano alla comprensione del viandante, finché si mutano per lui in bellezza e gioia. Anche di un’altra cosa si avvide Tiburius quel giorno: quando si era deciso a proseguire senza più cambiare direzione aveva preso proprio quel verso del sentiero che lo portava lontano dalla carrozza e quindi, per tornare alla cittadina termale, aveva percorso un ampio tratto a semicerchio attraverso le montagne. Avanzò ancora per un po’ lungo il sentiero, sovvenendosi perfettamente delle cose viste la prima volta. Sulla strada del ritorno parevano ancora più amichevoli e familiari. Giunto alla biforcazione del sentiero, attraversò la pietraia, raggiunse la parete rocciosa, che ora restava alla sua destra, e da lì la carrozza, su cui montò. Quindi partì diretto verso casa.                              

L’impresa di quel giorno Tiburius la ripeté più volte. In questo lo favorì un autunno particolarmente dolce: il sole splendeva fulgido, quasi senza eccezioni, nel cielo mite e festoso. Tiburius si spingeva ogni volta più in là sul suo sentiero, e gli pareva che quelle passeggiate sempre più lunghe lo ritemprassero, e lo rendessero molto più sereno dell’usuale. Alla fine fu in grado, se non montava in carrozza troppo tardi la mattina, di raggiungere persino il prato della Campana - dove osservava la montagna con i nevai e l’acqua gorgogliante -, e di tornare da lì alla carrozza. Tre volte ripeté la cosa nell’arco di una settimana. Alle terme aveva portato con sé l’occorrente per disegnare, ma fino a quel momento non era riuscito a schizzare sul foglio bianco un soggetto qualsivoglia. Ora, tornando così spesso al suo sentiero nel bosco - che tanto lo aveva fatto penare -, gli vennero in mente gli album da disegno, insieme all’idea che avrebbe potuto portarli con sé per riprendere diversi motivi dal vero e, alla fine, anche scorci del sentiero. Visto che non frequentava proprio nessuno alle terme, poté più facilmente dar seguito al progetto, non essendogli di ostacolo né relazioni, né obblighi sociali. Partiva, quindi, con il suo album, si sedeva contro la parete assolata, e disegnava. E questo fece sempre più spesso: i soggetti ritratti gli piacevano, e alla fine replicò senza sosta quelle sortite nel bosco. Dai tronchi e dai sassi, che copiava all’inizio, passò a poco a poco a scene più complesse, e quindi, spintosi nel cuore del bosco, si cimentò nel chiaroscuro. In particolare gli piaceva quando il sole sfavillante colpiva il nero del sentiero, mutandolo con la sua luce in un tenue grigio, su cui le strisce d’ombra degli alberi si posavano come nitidi nastri neri. Raffigurò così nell’album quasi ogni parte dello scuro sentiero. Non disegnava però soltanto, camminava pure, e un giorno ripercorse l’intero tragitto coperto la prima volta, allorché si era smarrito.  Da tempo ormai il signor Tiburius non era più un uomo fuori di senno, o, per lo meno, non nella maniera eccelsa di prima, eppure tutti lo reputavano ancora tale: certo devo ammettere anch’io che non frequentare altro luogo all’infuori di quel sentiero nel bosco era cosa quanto meno bizzarra.

Sino allora Tiburius non aveva mai incontrato, cammin facendo, creatura umana: quando finalmente gli accadde, fu l’incontro risolutivo dell’intera sua esistenza.

 

   Bisogna tener conto che l’enfasi di Adalbert Stifter - l’enfasi che lo scrittore sta per dare a questo racconto - è sempre percorsa da una vena ironica: l’autore, tra le righe, ci fa capire che per dare un po’ di leggerezza alla vita reale [siamo tutte e tutti affetti dal “male di vivere”] è utile immaginare che la propria esistenza possa assumere contorni fiabeschi, e per fortuna la mente ha questa capacità onirica che, secondo Stifter, trova ispirazione soprattutto nel contatto con la Natura che è un dono “gratuito”.

   Roberto Grossatesta, secondo la mentalità francescana, crede che nella Natura ci sia “l’afflato di Dio ” [la Grazia di Dio, gratis data] ma pensa che questo fatto non debba ispirare unicamente un atteggiamento mistico-devozionale che rischia di non essere altro che un comportamento passivo [alienante] di fronte “all’anelito verso la conoscenza” che è la prerogativa più significativa degli esseri umani perché l’intelletto, afferma Grossatesta in linea con tutto il pensiero della Scolastica, è il dono più grande che il creatore abbia fatto alla persona, e l’intelletto è una facoltà “illuminante”. Grossatesta ritiene che l’essenza divina, l’afflato di Dio, presente nella Natura sia rappresentata dalla “luce”, che è il primo elemento “corporeo” della creazione: l’elemento dal quale dipende la vita della Natura stessa, perché la “luce” è l’energia [dýnamis] che mette in atto [érgon] i fenomeni della Natura e, quindi, le varie manifestazioni naturali devono essere osservate e studiate e, di conseguenza, sostiene Grossatesta, è necessario che con l’esperienza [con l’epistemologia] si dia corso all’interpretazione dei fenomeni naturali [l’ermeneutica].

   All’Università di Oxford, in ragione degli studi in campo fisico di Roberto Grossatesta, si sviluppa “la tendenza naturalistico-sperimentale” e, naturalmente, l’indirizzo di carattere “empirico” che prende la Filosofia scolastica basato sull’esperienza e guidato dalla Ragione viene condannato dalle gerarchie ecclesiastiche: il tribunale dell’Inquisizione accusa Roberto Grossatesta di negare lo Spirito e di sostenere che Dio - che è puro Spirito - possa essere fatto della stessa materia che Lui ha creato. In questa denuncia - dove si dichiara anche che Grossatesta “insinua il tarlo del dubbio nelle coscienze” dei credenti - c’è un elemento paradossale perché si accusa uno degli esponenti più autorevoli della “corrente francescana degli spirituali” di negare il valore dello Spirito quando invece il maestro di Oxford vuole affermare la qualità dello Spirito e la sua presenza in modo reale, e non evanescente, in modo che la virtù dello Spirito divino sia fruibile sul piano umano, in maniera concreta, in termini esperienziali: che cosa significa? Grossatesta ribatte alle accuse dichiarando di “credere nello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio, Luce da Luce” e ribadendo che quando lo Spirito Paraclito [Parakletòs è lo Spirito Consolatore e Difensore promesso da Gesù al momento dell’Ascensione al cielo] si manifesta nella giornata di Pentecoste - come si racconta nei primi 13 versetti del capitolo 2 degli Atti degli Apostoli - si manifesta “materialmente” con “lingue di fuoco” che si posano sul capo degli Apostoli e illumina le loro menti: quindi, per entrare in sintonia con la dialettica umana, afferma Roberto Grossatesta, lo Spirito divino deve poter contare sulla Natura materiale delle cose allo stesso modo in cui una tesi necessita di un’antitesi per produrre una sintesi e, di conseguenza, è proprio il Creatore, sostiene Roberto Grossatesta, ad indirizzarci verso il “metodo sperimentale” che contempla anche il dubbio come uno strumento di riflessione. Roberto Grossatesta, per difendersi dall’accusa di eresia, decide di fornire una giustificazione alla “tendenza naturalistico-sperimentale” basata sull’autorevolezza della Sacra Scrittura: vuole dimostrare che “la Scolastica empirica” non è in contraddizione né con la Regola francescana né tanto meno con la dottrina cristiana e, quindi, scrive un Commento al Vangelo secondo Giovanni per ribadire che lo “sperimentalismo” è in linea con l’ortodossia, e questo commento assume un’importanza epocale sul piano esegetico.

 

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete o rileggete i primi 13 versetti del capitolo 2 degli “Atti degli Apostoli” e andate a constatare come il versetto 13 [l’ultimo del racconto di Pentecoste] metta in evidenza con ironia il tema del dubbio, ed è per questo motivo che Roberto Grossatesta afferma che il “dubbio” è uno strumento di riflessione tanto per la Ragione che indaga e interpreta i fenomeni della Natura quanto per la Fede che medita e contempla i misteri di Dio…

Non rinunciate a indagare a interpretare a meditare e a contemplare...  

 

   Roberto Grossatesta sceglie di commentare il testo del Vangelo secondo Giovanni per ribadire che lo “sperimentalismo” è in linea con l’ortodossia cristiana. Punta l’attenzione su questo testo perché, in primo luogo, nel Prologo di quest’opera trova un aggancio fondamentale per raggiungere l’obiettivo che si propone e inoltre perché, come ben sapete, il Vangelo secondo Giovanni è uno dei quattro libri [insieme all’Apocalisse, al Libro della Genesi e a quello dell’Esodo] più importanti in Età medioevale, e queste opere sono tra le più significative della cultura universale e non si può prescindere dallo studio di queste opere.

   Essendo di derivazione gnostica per cui lo Spirito è creato da Dio e la Materia è opera di Satana, il Vangelo secondo Giovanni veniva considerato il testo “spirituale” per eccellenza [sebbene l’ortodossia della Chiesa di Roma - con il Concilio di Nicea del 325 - consideri anche la Materia creata da Dio] per cui tutta una serie di oggetti, i famosi sette oggetti che qualificano la natura divina di Gesù Cristo - la porta, il pastore, la vite, la via, la vita, il pane e la luce - vengono ad avere nel testo del Vangelo secondo Giovanni una valenza simbolica, una funzione metaforica: sono figure retoriche.

   Roberto Grossatesta nel Commento al Vangelo secondo Giovanni rileva invece che “la presenza dello Spirito divino” trova conferma proprio in ragione “della natura materiale delle cose” e questi due elementi [Dio e la Natura] esistono in funzione del necessario sviluppo dell’azione dialettica [perché senza dialettica non c’è né vita naturale né vitalità intellettuale] per cui se lo Spirito è la tesi e la Materia [la corporeità] è l’antitesi, allora sì, sostiene Grossatesta, che abbiamo una sintesi con la quale si può affermare che, come proclama la dottrina, Gesù Cristo è “vero Dio [dimensione spirituale] e vero Uomo [realtà corporea]”, ed è proprio in ragione di questa sintesi [tra una tesi data dallo Spirito e un’antitesi rappresentata dalla Materia] che “il Logos [Colui che è la Parola di Dio] può farsi carne” come si legge nel versetto 14 del Prologo del Vangelo secondo Giovanni.

   Roberto Grossatesta poi rimarca il fatto che la sua teoria sulla “corporeità della luce” è avvalorata dal testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni dove il termine “luce” risulta avere un’importante valenza dottrinale perché non rappresenta soltanto un simbolo, non è solo una figura retorica: la parola “luce” nel testo secondo Giovanni definisce, afferma Grossatesta, un preciso fenomeno naturale  che indica la presenza dell’essenza del Creatore [del Supremo Sperimentatore] nella Natura. Roberto Grossatesta, che come ben sappiamo è un sapiente grecista, traduce dal greco in latino i versetti del Prologo [i primi 18 versetti del capitolo primo del Vangelo secondo Giovanni dei quali si consiglia la lettura e la rilettura] con la massima fedeltà al testo e dimostra che i due versetti, il quarto e il quinto, dove spicca la parola-chiave “luce” forniscono la giustificazione esegetica alla teoria [sulla corporeità della luce] contenuta nel suo trattato intitolato De luce, seu de inchoatione formarum [Sulla luce, ovvero sull’inizio delle forme] redatto da Grossatesta tra il 1225 e il 1240.

   Leggiamo i primi cinque versetti del Prologo del Vangelo di Giovanni secondo la traduzione assolutamente fedele al testo greco di Grossatesta: «1. In principio c’era il Logos, Colui che è la Parola, ed Egli era vicino a Dio ed Egli era Dio. 2. Egli era da sempre vicino a Dio. 3. Tutto venne creato per mezzo di Lui e senza di lui Nulla fu creato. 4. In Lui era la vita e la vita del genere umano è data dalla luce. 5. E la luce brilla nelle tenebre e le tenebre non hanno saputo comprenderne l’importanza.». Grossatesta focalizza l’attenzione sul testo del versetto 4 dove è scritto: «…e la vita del genere umano è data dalla luce [phõs]» rimarcando il fatto che in greco il termine “luce” viene espresso con due parole diverse per il differente carattere dell’oggetto in questione: la parola “phõs” definisce la luce come fenomeno naturale [la luce naturale], mentre la parola “lampàs” definisce la luce in senso metaforico [come figura retorica]. Se lo scrivano di questo testo, afferma Roberto Grossatesta, ispirato da Dio, avesse voluto dare un senso simbolico al termine “luce” avrebbe utilizzato la parola “lampàs” mentre, invece, ha usato la parola “phõs” per definire la “luce” come primo oggetto corporeo frutto della creazione perché “la luce [il “Sia la luce!” della Genesi] creata da Dio in principio” è lo stesso fenomeno presente nel testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni [“La vita del genere umano è data dalla luce”]. Ed è così , afferma Grossatesta difendendo con straordinaria coerenza logica le sue tesi, che tutto torna nel piano salvifico messo in atto da Dio, il Supremo Sperimentatore, e la ricerca in campo fisico porta alla formulazione di nuovi termini sul terreno della Metafisica.

 

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine greco “lampàs” è stato poi, con l’andar del tempo, utilizzato per definire oggetti che producono una luce detta “artificiale”: c’è “una lampada” in casa vostra che merita una descrizione e un pensiero [luminoso]?...

Scrivete quattro righe in proposito, pensando che anche la scrittura è uno strumento capace di illuminare...  

 

   Sino ad allora il signor Tiburius non aveva mai incontrato, nella foresta, cammin facendo, anima viva e quando, finalmente, gli capita di incontrare una creatura umana questo diventa l’incontro risolutivo dell’intera sua esistenza: ed è un’incontro illuminante al quale lo scrittore dà risalto con enfasi, con ridondanza e con una certa vena ironica, memore di Socrate il quale sosteneva, come ci riferisce Platone, che l’ironia serve proprio a “fare luce nelle tenebre”. E allora: leggiamo [Roberto Grossatesta è davvero soddisfatto del modo in cui Adalbert Stifter usa la parola “luce”, fateci attenzione!].

 

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Il sentiero nel bosco

A lato del sentiero c’era un bel masso oblungo, a circa metà del cammino fra la parete rocciosa e il prato della Campana. Su quella pietra Tiburius si era seduto spesso: si trovava infatti in un luogo leggiadro e asciutto, e da lì si vedevano un gran numero di tronchi slanciati, luminose macchie di sole occhieggianti e mutevoli sequenze di ombre sfumate. Un pomeriggio, muovendo verso la pietra per mettersi a sedere e disegnare, Tiburius si accorse che già qualcuno vi sedeva. Da lontano gli parve una vecchia, una di quelle che nei modelli da copiare siedono sempre nei boschi - più che altro perché, appoggiato sul sentiero, scorse qualcosa di bianco che scambiò per un fagotto. Si avvicinò lentamente a quella figura. Quando già era a pochi passi da lei riconobbe il proprio errore. Non era una vecchia, bensì una fanciulla, a giudicare dall’abbigliamento una contadina del posto. La volta verde del bosco, sorretta dalle infinite colonne dei tronchi, si inarcava sopra di lei spargendo sulla sua persona un’ombra leggera e aghi di luce. Sul capo portava un fazzoletto bianco, che le schermava lievemente la fronte, quasi alla moda delle italiane. Intorno al collo uno scialle rosso vivo, acceso da piccoli bagliori simili a fiammelle. Il corpetto era nero, i fianchi cinti da una corta gonna a pieghe di lana celeste, da cui sbucavano calze bianche e rozze scarpe chiodate, con i lacci alle caviglie. Quello che a Tiburius era parso un fagotto era invece un fazzoletto bianco, annodato a mo’ di presa intorno a un cestino piatto. Ma il fazzoletto non riusciva a coprire interamente il cestino, che qua e là sbucava con il suo contenuto. E il suo contenuto erano fragole. Piccole, saporose fragole di bosco, di quella qualità che in montagna si trova tutta l’estate, purché si sappia cercare nei posti giusti.  Quando il signor Tiburius le vide, si risvegliò in lui il desiderio di averne qualcuna, desiderio probabilmente generato dalla fame che sempre lo assaliva durante le sue passeggiate nel bosco. Visto com’era in arnese, riconobbe nella fanciulla una di quelle venditrici di fragole che spesso e volentieri venivano nella cittadina termale a offrire la loro merce, a volte per strada oppure di porta in porta, a volte fin dentro le case. In faccia non l’aveva nemmeno guardata. Rimase per un po’ di fronte a lei, nel suo giubbone grigio, poi finalmente disse: «Se già deve venderle queste fragole, mi farebbe allora un piacere dandomene qui subito un pochino: gliele pagherò bene, cioè se voi farete con me un piccolo tratto di sentiero fino alla strada, perché qui di soldi io non ne ho». La giovane, a queste parole, aveva alzato gli occhi su di lui e lo fissava con sguardo limpido. «Vendervi le fragole, non posso,» rispose «ma se ne volete solo un pochino, come avete detto, ve le regalo». «In regalo non posso accettarle» replicò Tiburius. «Dite un po’, le desiderate davvero?» chiese la fanciulla.    «Sì, le desidero davvero» rispose Tiburius.

«Bene, allora aspettate un momento» disse la fanciulla, e pronunciate queste parole, sciolse, chinandosi in avanti, il grosso nodo del fazzoletto sopra il cestino, ne scostò le cocche e scoprì, sul piatto intreccio di vimini, una gran quantità di fragole scelte, che dovevano essere state raccolte con special cura e attenzione, perché erano tutte molto rosse, molto mature e quasi tutte della medesima grandezza. Poi si rialzò, cercò una pietra piatta, la prese e, utilizzandola come un piattino, la ricoprì di larghe foglie verdi, da lei appena colte, e vi posò sopra un mucchietto di fragole, tante quante ve ne potevano stare. «Ecco!».   «Ma io non posso accettarle, se voi me le regalate» disse Tiburius. «Avete detto di desiderarle tanto, e allora dovete accettarle» rispose lei. «Io ve le do di tutto cuore».    «Se voi me le date di tutto cuore, le accetto» ribatté Tiburius, prendendo con cautela la pietra piatta dalla mano di lei. Ma lì per lì non ne mangiò.   La fanciulla si chinò di nuovo per riaccomodare il panno bianco sopra il cestino. Rialzatasi, disse: «Sedetevi dunque su questa pietra a mangiare le vostre fragole».   «Ma sulla pietra eravate seduta voi, per prima» rispose Tiburius.

«Ora sedetevi voi, visto che state mangiando, io resterò in piedi qui davanti» ribatté la fanciulla.  Allora Tiburius si sedette, in ossequio alla volontà di lei, tenendo il piattino di pietra con le fragole davanti a sé. Da principio ne prese una sola con due dita, e la mangiò; poi una seconda, e una terza, e così via. La giovane gli stava davanti e lo guardava sorridendo. Quando ormai di fragole ne erano rimaste ben poche, disse: «E allora, non sono forse buone?». … «Sì, sono eccellenti,» rispose Tiburius «avete raccolto proprio le migliori, quelle tutte uguali. Ma, ditemi, come mai non le vendete?». … «Perché non ho nessuna intenzione di venderle» rispose lei. «Cerco solo le più belle e le più saporite e poi le mangio con mio padre. Le cose stanno così: mio padre è vecchio, e la primavera scorsa si è ammalato. Il dottore delle terme lo ha visitato, e gli ha dato qualcosa da prendere. Deve essere uno ben strano, perché dopo un po’ ha detto che mio padre, per guarire, deve solo mangiare molte fragole. Come possono fargli bene le fragole? - pensavo io -. Sono soltanto roba da mangiare, non medicine. Ma siccome non si può mai sapere, sono andata nel bosco a cercarle. Mio padre le mangiava volentieri, e io dal bosco ne portavo sempre un po’ di più, perché ne restasse qualcuna per me: anche a me piacciono molto. Mio padre è guarito da un pezzo, non so se per le fragole, o per che altro. E così, visto che sono tanto buone, vado ancora a cercarne».

«Alle terme da un bel po’ non se ne trovano più, ormai è già autunno» disse Tiburius.

«Se volete trovare molte fragole ma qual è il vostro nome, signore?» chiese la giovane. «Mi chiamo Theodor» rispose Tiburius. … «Se volete trovare molte fragole in questa stagione, signor Theodor,» proseguì la fanciulla «dovete andare nel bosco di Sant’Orsola, quello dove si tagliano gli alberi, lì maturano solo a fine estate. Adesso sono al punto giusto. Andateci, una volta, raccoglietene un po’. Nelle altre stagioni, quelle buone si trovano da un’altra parte». Nel frattempo Tiburius aveva terminato tutte le sue fragole e appoggiato il piattino con le foglie verdi accanto a sé, sulla pietra.  «Mi sono fermata un po’ qui a riposare, ora devo proseguire» disse la fanciulla. «Vengo con voi» disse Tiburius. … «Se ne avete voglia, venite» rispose lei. Si chinò verso il cestino, che stava ai suoi piedi, lì sul sentiero, avvolto nel fazzoletto bianco, ne afferrò destramente le quattro cocche con una mano, lo sollevò e si mise in cammino, tenendolo contro un fianco.     Tiburius si alzò, spazzò via gli aghi di pino che, caduti sulla pietra, si erano attaccati al giubbone grigio, e si avviò a sua volta.

La giovane lo condusse lungo il sentiero che portava alla parete rocciosa e alla carrozza. Quando però giunsero alla biforcazione che aveva sviato la prima volta il signor Tiburius, ella imboccò il viottolo più battuto, lasciandosi sulla destra quello che portava alla parete e ai cavalli. Tiburius le camminava al fianco. Il sentiero, dopo una curva, si addentrava in una foresta bellissima e rigogliosa. La fanciulla, a tratti colpita, a tratti schivata dagli sprazzi di luce danzante del bosco, procedeva a passo regolare, tanto che Tiburius la seguiva senza alcuna fatica. Dopo aver così camminato per un pezzo, Tiburius credette di riconoscere il masso da lui raggiunto quel tal giorno di corsa, e su cui si era arrampicato a invocare domestici e carrozza.

«Devo chiedervi spiegazioni su una cosa che non capisco» riprese a dire la giovane, mentre così andavano l’uno accanto all’altra. «Ditemi pure» rispose Tiburius. «Avete detto di voler comperare le mie fragole, ma di non avere il denaro con voi. Se però vi avessi accompagnato fino alla strada, mi avreste ricompensata generosamente. Come è possibile? Forse il vostro denaro sta in mezzo alla strada?».

«No, ora vi spiego…» replicò Tiburius. «Ma ditemi, e voi come vi chiamate?».

«Mi chiamo Maria» rispose la fanciulla. … «Dunque, Maria, ora vi spiego: io vengo spesso tutto solo nel bosco a passeggiare, il mio domestico intanto mi aspetta sulla strada. È lui a comperare tutto quello che ci occorre, e a pagare anche quanto compero io e così non porto mai denaro con me. È il mio domestico che lo amministra, e me ne rende conto a tempo debito».  …«È una cosa fastidiosissima, una grande perdita di tempo,» ribatté la giovane «ognuno deve portare con sé il proprio denaro, comperare e pagare di persona, senza bisogno di domestici e di rendiconti».

«È vero,» disse Tiburius «avete ragione, ma ormai è invalsa questa usanza».

«A un’usanza insensata io non darei più retta» rispose la fanciulla. Così, tra domande e risposte svariate, proseguirono il cammino. Per un bel po’ restarono nel bosco. La vegetazione, infine, si fece meno folta, gli alberi si diradarono e qua e là comparvero dei prati, attraverso cui correva il sentiero, diretto al cuore dei monti. In un punto molto bello, tra alberi frondosi e pietre scintillanti al sole, Maria si discostò dal sentiero e, additando un viottolino esile come un filo, che si inerpicava per il prato, disse: «Per di qui si sale a casa nostra, se volete venire siete il benvenuto». … «Vengo, certo» rispose Tiburius. La giovane si avviò, Tiburius la seguì. Salendo a serpentina non erano avanzati di molto - il prato, infatti, era assai ripido -, quando apparve la casa. Era situata in un’ampia, accogliente conca, a mezzo del declivio. Alle sue spalle, un po’ discosta, si ergeva a semicerchio una parete rocciosa che la proteggeva da ogni parte, eccetto a mezzogiorno, lato su cui davano le finestre. Per questo, intorno alla casa potevano crescere molti alberi e i frutti giungere a maturazione, laddove nell’intero circondario, specie all’altitudine di quel prato, non si danno condizioni favorevoli alle colture. Più in basso, verso la parete rocciosa, vi erano anche degli alveari. Per le sue dimensioni, la casa si adeguava alle più piccole che sorgono di consueto in quelle contrade alpine. L’uscio era aperto; Maria lo precedette oltre la soglia, Tiburius la seguì. Passarono accanto alla cucina ed entrarono nella stanza da pranzo, pienamente illuminata dalla luce del sole che si riversava dalle finestre. Al tavolo di faggio chiaro sedeva il padre di Maria, unica presenza in quella stanza e nella casa intera, giacché la madre della fanciulla era morta ormai da tempo. Maria appoggiò il cestino di fragole sulla panca, in un cantuccio, accostò una seggiola al tavolo, invitando Tiburius a sedersi, e raccontò al padre di essersi imbattuta in questo signore, che poi l’aveva accompagnata sino a casa, giù nel Bosco Nero. Ciò detto dispiegò un panno bianco sul tavolo, vi poggiò tre piattini - uno per il padre, uno per Tiburius, l’ultimo per sé - e portò le fragole, dopo averle versate in una ciotola di legno dipinto. Tiburius si limitò ad assaggiarle, e Maria disse che avrebbe conservato la sua parte per la sera. Dopo essersi intrattenuto su diversi argomenti con il padre di Maria - che vecchio non era ancora, ma giusto sulla soglia della tarda età -, Tiburius si alzò accingendosi a partire.

Maria si offrì di accompagnarlo fino alla strada, lungo la quale poi avrebbe soltanto dovuto proseguire per raggiungere il domestico. Questa volta la fanciulla gli fece discendere il pendio erboso per un sentiero diverso, non meno esile del primo. Dopo poco raggiunsero il fondovalle e, avanzando per un tratto fra alberi e cespugli, sbucarono sulla strada. «Proseguendo in questa direzione» disse la giovane «dovreste arrivare nel punto in cui vi aspetta il vostro domestico, se siete entrato nel Bosco Nero per il piccolo sentiero che costeggia la parete di Sant’Andrea, e l’avete lasciato lì sulla strada». … «Sì, sono entrato di lì» rispose Tiburius. …  «Dunque vi saluto, io torno a casa. Se mi aspetterete dopodomani, quando suona mezzogiorno, sul masso dove mi avete incontrata oggi, vi mostrerò il bosco di Sant’Orsola, visto che forse voi, da solo, non riuscireste a trovarlo. Così potrete raccogliere fragole a volontà, vi mostrerò infatti i posti in cui ora crescono abbondanti». …  «Vi ringrazio di gran cuore» rispose Tiburius «del dono che mi avete fatto, e di avermi accompagnato fino a qui. Verrò senz’altro». …  «A presto» replicò la fanciulla, mentre già si volgeva e scompariva tra gli arbusti.   Tiburius si avviò per la strada nella direzione indicata. Camminò per un buon tratto, finché scorse la carrozza e i domestici. I quali, quando li ebbe raggiunti, fecero mostra di grande stupore vedendolo arrivare quel giorno non dal sentiero, bensì dalla strada. Tiburius, però, non diede spiegazioni: montò in carrozza e si fece ricondurre alle terme, dove parimenti non raccontò a nessuno del suo incontro e della sua visita alla casa nella conca alpina.

Due giorni dopo, però, partì di buon’ora, diretto alla sua meta abituale. Abbandonata la carrozza, imboccò il viottolo che portava all’ormai nota parete rocciosa. La oltrepassò, prese in direzione dei faggi, trovò il suo sentiero nel bosco e lo seguì, fino a raggiungere il masso convenuto. Lì si sedette e aspettò. A quella distanza, in quella selva aspra, non si potevano certo sentire i rintocchi di mezzogiorno, ma Tiburius sapeva con esattezza quando sarebbero risuonati da tutti i campanili e da tutte le torri della valle, perché teneva in mano l’orologio; e, quando quel momento arrivò, vide Maria, vestita al medesimo modo di due giorni innanzi, avanzare verso di lui nella mezza luce del bosco. … «Come potete sapere che è suonato giusto adesso mezzogiorno, se non si sentono le campane, e voi non avete, a quanto vedo, l’orologio?» domandò Tiburius, quando la giovane, raggiuntolo, si fermò accanto a lui.   «Non avete fatto caso, l’altro ieri, a quella pendola con la lunga catenella, appesa nella nostra stanza da pranzo?» rispose lei. «È molto precisa: quando segna le undici noi ci mettiamo a tavola, io mi preparo poi per andare a raccogliere fragole e, se guardo la sua lancetta prima di uscire, posso già sapere esattamente quando sarò qui». «Oggi siete arrivata davvero per tempo» disse Tiburius.

«Anche voi,» rispose lei «e ne sono contenta; ma ora andiamo, vi guiderò io».

Tiburius si alzò dalla sua pietra e insieme si inoltrarono nel bosco.

 

   Come abbiamo studiato, Roberto Grossatesta riesce a dare alle sue intuizioni una giustificazione basata sulla Sacra Scrittura: prima sull’autorità del Libro della Genesi nel quale il “Fiat lux [Sia la luce]” è il primo atto del Creatore e poi sull’autorevolezza del Vangelo secondo Giovanni nel quale si dichiara che la stessa luce delle origini [il “Fiat lux, Sia la luce”] ha illuminato anche il Logos [Colui che è la Parola di Dio] che albergava da sempre nel Pensiero divino, ed è con questa stessa “luce” che - nel mistero dell’incarnazione - Gesù Cristo [il Logos] ha dato “vita nuova a tutto il genere umano [«…e la vita del genere umano è data dalla luce (phõs) emessa dal Logos, da Gesù Cristo, vero Uomo e vero Dio, che ha assunto - scrive Grossatesta - un corpo della stessa materia di quello degli Umani e una forma data dalla stessa luce creata in principio da Dio»]”.

   Le affermazioni di carattere esegetico di Grossatesta danno alla corrente della “Scolastica empirica”, nonostante le imputazioni del tribunale dell’Inquisizione, una veste di attendibilità e, difatti, la “Scuola dello sperimentalismo di Oxford” porta avanti il suo programma anche in modo spregiudicato con un personaggio che si chiama Ruggero Bacone: chi è Ruggero Bacone [Roger Bacon] e perché bisogna fare uno sforzo per collocare questa figura nella Scuola francescana? Questa sera facciamo solo conoscenza questo personaggio, con la figura di un suo amico particolare e, a grandi linee, con il quadro storico del momento.

   Ruggero Bacone è nato a Ilchester [nel sud-ovest dell’Inghilterra] intorno al 1214, e compie i suoi primi studi alla Scuola di Oxford sotto la guida di Roberto Grossatesta e acquisisce una mentalità da “sperimentatore”. La sua formazione culturale risente delle molte esperienze che ha potuto fare: dal 1230 al 1247 è a Parigi dove, dopo aver studiato alla facoltà delle Arti, diventa nel 1240 “commentatore di Aristotele” ed entra in contatto con i grandi maestri del momento, come Alessandro di Hales e Alberto Magno, dei quali però non condivide “l’atteggiamento troppo teorico e concettuale e non comprende il loro disinteresse per la sperimentazione [secondo lui «...si perdono in chiacchiere»]”. A Parigi Ruggero Bacone, alla facoltà delle Arti, fa amicizia con un magister di diritto che si chiama Guy Le Gros Fulques - nato a St. Gilles, presso Nîmes, in Provenza, il quale preferisce farsi chiamare Guido Fùlcodi [latinizzare il proprio nome - quando il latino è la lingua che unifica l’Ecumene - voleva dire dargli un carattere internazionale] -: Guido Fùlcodi è un avvocato di grido, un valente giurista e, avendo grandi capacità diplomatiche, è anche consigliere segreto del re di Francia Luigi IX. Giudo Fùlcodi, anche se non apertamente, condivide le idee filosofiche di stampo empirico di Ruggero Bacone, e le tesi della Scuola di Oxford.

   Dopo una parentesi di soggiorno in Inghilterra, dal 1247 al 1250, Ruggero Bacone torna a Parigi dove partecipa al dramma che colpisce il suo amico Giudo Fùlcodi al quale muore la moglie [ha anche due figli], e questa prematura e inaspettata vedovanza fa nascere in lui un forte disprezzo per il mondo e decide di ritirarsi in un monastero certosino. Ma le sue doti politiche e amministrative non potevano essere ignorate dalla Chiesa di Roma e papa Urbano IV [il francese Jacques Pantaléon] lo nomina prima vescovo di Le Puy e poi arcivescovo di Narbonne e nel 1261 cardinale di Santa Sabina.

   Anche Ruggero Bacone - come il suo amico Fùlcodi - si sente attratto dalla vita religiosa e nel 1257 entra nell’ordine francescano aderendo alla corrente degli “spirituali”. L’ordine francescano in questo momento è saldamente nelle mani dei “conventuali” che varano [è un provvedimento in particolare contro la Scuola di Oxford, Grossatesta è già morto nel 1253 ma la sua eredità culturale resta] una Disposizione con la quale «si fa divieto ai frati di comunicare le loro opere ad altri » [cioè di pubblicare]. Però Ruggero Bacone si salva dal forzato silenzio perché il suo amico Giudo Fùlcodi il 5 febbraio 1265 viene eletto papa, prende il nome di Clemente IV, e subito dopo la sua elezione chiede a Ruggero Bacone con una Lettera ufficiale di inviargli quanto ha in animo di scrivere. Ruggero Bacone invia al papa un’opera, composta da tre trattati, intitolata: Opus maius. Opus minus. Opus tertium [Opera maggiore. Opera minore. Opera terza.].

   Quando Clemente IV muore nel 1268 la vita di Ruggero Bacone - che sta insegnando alla Scuola di Oxford - diventa difficile: il papa Gregorio X, nel 1274 al termine del concilio di Lione, lo aveva scomunicato e poi il vescovo di Parigi, custode ufficiale dell’ortodossia, nel 1277 condanna tutta una serie di “proposizioni” sostenute da Bacone il quale si trasferisce a Parigi per difendere le sue tesi e vive gli ultimi anni della sua vita praticamente agli arresti domiciliari, ma senza mai interrompere la sua attività creativa: l’ultima sua opera s’intitola Compendium studii theologiae [Prontuario di studio della teologia] e questo testo comincia a circolare in modo semiclandestino nello stesso anno della sua morte, il 1292, ma questa è una data solo ipotetica perché non sappiamo quando esattamente Ruggero Bacone sia morto [essendo un alchimista ci sono degli aspetti piuttosto misteriosi che lo riguardano, e ce ne occuperemo].

 

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ruggero Bacone è nato ad Ilchester, un villaggio che si trova nel sud-ovest dell’Inghilterra [nel Somerset], ed è stato fondato dai Romani con il nome di Lindinis...  Con la guida della Gran Bretagna e navigando in rete andate a localizzare e a far visita ad Ilchester [dove non c’è una casa che non sia abitata da un fantasma]…  

 

   Prima di occuparci del pensiero di Ruggero Bacone [ce ne occuperemo la prossima settimana, nel prossimo itinerario], visto che abbiamo fatto la conoscenza con papa Clemente IV [Guido Fùlcodi], dobbiamo, seppur brevemente, essere consapevoli del quadro storico e politico del momento, circa la metà del XIII secolo, anche perché questo pontefice viene a trovarsi al centro della crisi internazionale determinata dalla morte, avvenuta nel 1250, dell’imperatore Federico II di Svevia: un significativo personaggio che, come molte e molti di voi sanno, abbiamo incontrato nel viaggio dello scorso anno scolastico

   Federico II di Svevia [tutte e tutti noi - che eravamo in viaggio lo scorso anno scolastico - ricordiamo la sua spettacolare e misteriosa nascita sulla piazza di Iesi] viene adottato da papa Innocenzo III per disposizione testamentaria di sua madre Costanza d’Altavilla [vedova dell’imperatore e re di Sicilia Enrico VI]. Costanza muore nel 1198 e affida Federico [che ha appena quattro anni ed è stato nominato - simbolicamente - re di Sicilia] al papa che deve provvedere alla sua educazione [il bambino ha una dote cospicua] e Innocenzo III pensa di poter approfittare della situazione per plasmare un futuro imperatore fedele vassallo della Chiesa di Roma. I maestri - scelti dal papa - chiamati a prendersi cura della formazione di Federico [hanno tutti studiato alla Scuola di Chartres che abbiamo frequentato lo scorso anno] svolgono bene il loro lavoro: lo fanno diventare una persona colta [ha una vasta conoscenza dei Classici greci e latini, dei Giganti della cultura e «noi siamo nani sulle spalle di Giganti», dicevano a Chartres] e desiderosa d’imparare sempre cose nuove [parla cinque lingue], ma soprattutto ne fanno “uno spirito libero, curioso e indipendente”.

   Nell’anno in cui muore Innocenzo III nel 1216, Federico II di Svevia raggiunge la maggiore età e assume il governo dei suoi Stati, e decide di stabilirsi a Palermo e fa diventare questa città, già bella per merito di Arabi e Normanni, il centro dell’Impero [vuole far diventare Palermo quello che era Toledo intorno all’anno Mille]. A Palermo Federico, come un novello Mecenate, accoglie  artisti e letterati da ogni dove [dalla Mitteleuropa, dall’Oriente bizantino, dal Mondo arabo] e, soprattutto, ospita i poeti provenzali [i troubadours] in fuga dalla loro terra martoriata dalla “crociata contro i Catari [lo scorso anno abbiamo percorso le strade del Midi della Francia da Alby a Montsegur]”: Federico invita gli intellettuali che ha chiamato a corte ad utilizzare le forme della lingua occitana per dare una struttura poetica alla lingua siciliana e nasce un laboratorio linguistico [la Scuola poetica siciliana] nel quale comincia a svilupparsi quella che diventerà la nostra lingua nazionale.

   L’imperatore Federico II di Svevia è consapevole del fatto che il monarca deve farsi garante dei diritti di tutti i cittadini e, quindi, combatte contro gli ingiusti privilegi acquisiti con l’uso della violenza dai nobili nelle campagne, dai borghesi nelle città, e anche dal clero per cui non vuole riconoscere nessuna dipendenza del suo regno nei confronti della Chiesa. Federico II pensa che l’impero debba essere indipendente dal papato: al papa, quando parla di dottrina, va riconosciuto  un primato spirituale ma l’imperatore non deve dipendere dal papa nella sfera civile e  politica, e la Chiesa, se vuole essere fedele al Vangelo, non deve avere privilegi, sostiene Federico II. Queste sue convinzioni lo portano a dover sostenere un duro scontro, guadagnandosi il titolo di Anticristo, con i papi dell’epoca, per cui Gregorio IX [Ugolino dei Conti di Segni, il nipote di Innocenzo III] lo scomunica e istiga i Comuni dell’Italia settentrionale a fare lega contro di lui ma Federico II li sconfigge, mentre invece suo figlio Enzo - da lui proclamato re di Sardegna - viene sconfitto a Fossalta dai Bolognesi [Bologna è un città sottomessa al papa], viene fatto prigioniero e richiuso in quel palazzo di Bologna che ancora oggi porta il suo nome e dove morirà qualche anno dopo, nel 1272.

   Dobbiamo sapere [dobbiamo puntualizzare un particolare che già conosciamo] che in questo momento si diffondono in Italia i nomi di Guelfi [il termine deriva dal capostipite della casa di Baviera, Welf] e Ghibellini [il termine deriva dal nome del castello di Weibligen appartenente alla casa di Svevia], e questi due termini assumono un significato diverso da quello che avevano in Germania [dove i Guelfi erano i sostenitori della casa di Baviera e i Ghibellini i sostenitori della casa di Svevia]: in Italia i Ghibellini sono i sostenitori dell’Impero mentre i Guelfi sono ostili all’Impero e perciò sostengono il Papato e queste due fazioni, alla metà del XIII secolo, iniziano a contrastarsi con le armi.

   Federico II muore prematuramente nel 1250 nel castello di Fiorentino in Puglia e con la sua morte inizia l’irreversibile crisi dell’Impero.

   Il figlio primogenito di Federico II e di Costanza d’Aragona, Enrico VII, era morto nel 1242, probabilmente suicida, dopo essersi schierato con le città padane nemiche del padre. In Germania, alla morte di Federico II, tenta di farsi riconoscere imperatore suo figlio secondogenito Corrado IV [nato nel 1228 da Jolanda di Brienne] ma molti principi [quelli renani, alleati con il regno d’Olanda] non gli ubbidiscono e lui muore giovane nel 1254 lasciando un figlio [sua moglie è Elisabetta di Wittelsbach], che si chiama Corradino.

   Il Regno di Sicilia viene tenuto da Manfredi, figlio di Federico II e di Bianca Lancia [era nato nel 1232]: Manfredi diventa il capo del partito ghibellino in tutta Italia e interviene nelle lotte contro i Guelfi che stanno insanguinando molte città e riesce a controllare anche Roma tanto che il nuovo papa, Clemente IV [Guido Fùlcodi, ed proprio su di lui che abbiamo puntato l’attenzione incontrando Ruggero Bacone], viene consacrato e deve stabilirsi prima a Perugia e poi a Viterbo. Di fronte a questa situazione papa Clemente IV è costretto a chiedere aiuto al principe francese Carlo d’Angiò, fratello del re Luigi IX [il Santo]. Carlo d’Angiò scende in Italia e nel 1266 a Benevento sconfigge Manfredi che muore combattendo valorosamente: le cronache ci fanno sapere che il vincitore, per rendere omaggio al valore del vinto, sebbene fosse stato scomunicato dal papa, lo fa comunque seppellire sotto un cumulo di pietre presso il ponte di Benevento ma la leggenda poi ha preso il posto della cronaca e racconta che l’arcivescovo di Potenza, Bartolomeo Pignatelli, per ordine del papa fa riesumare il cadavere di Manfredi che viene trasportato lungo il fiume Liri e lasciato in balia degli elementi, e questo fatto viene ripreso da Dante Alighieri nel Purgatorio [e di questo intreccio letterario, ora è tardi, ce ne occuperemo prossimamente].

   Due anni dopo, l’ultimo degli Svevi, Corradino, figlio di Corrado IV [e nipotino di Federico II di Svevia], appena quindicenne, scende in Italia con un esercito per recuperare il trono della sua casata: viene accolto trionfalmente dai nobili e dai Comuni ghibellini. Ma Corradino viene sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo e mentre fugge sul mare di fronte a Nettuno viene intercettato e malvagiamente accolto dal signore di Astura, Giovanni Frangipane, che, per denaro, lo consegna a Carlo d’Angiò. E Corradino, dopo un processo sommario, viene condannato a morte con i suoi giovani compagni e viene decapitato, il 29 ottobre 1268, sulla piazza del Mercato a Napoli [e non si dica che la Scuola non è puntuale con gli appuntamenti della Storia, esattamente 747 anni fa].

   Pochi giorni dopo muore a Viterbo, sembra d’infarto e sempre in esilio, anche papa Clemente IV [forse si sentiva responsabile di aver dovuto cedere, per combattere gli Svevi, agli Angioini che non erano migliori perché Carlo d’Angiò si sistema a Roma al posto del papa che muore senza mai aver raggiunto la sede apostolica romana].

   Quattro anni dopo, nel 1272, muore prigioniero dei Bolognesi anche il re Enzo - figlio di Federico II e di Adelaide di Urslingen [era nato a Cremona intorno al 1220] - e con lui finisce la dinastia sveva.

 

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se, dopo le azioni del conoscere e del capire, ci dedichiamo all’applicare e all’analizzare possiamo operare delle sintesi interessanti perché il quadro storico non lo si ricorda nei particolari ma serve per poter iniziare una ricerca facendo quattro esercizi su oggetti che abbiamo a disposizione…

Con la guida dell’Emilia Romagna e navigando in rete potete andare a Bologna in Piazza Maggiore a visitare il Palazzo del Re Enzo e potete conoscere le varie leggende che sono legate alla prigionia del figlio di Federico II...

Con la guida della Puglia e navigando in rete potete andare a visitare Manfredonia, in provincia di Foggia perché questa città è stata fondata [il 23 aprile 1256, il giorno di San Giorgio] da Manfredi in bellissima posizione a monte delle rovine dell’antica polis greca di Siponto, in posizione strategica all’ingresso meridionale del promontorio del Gargano e davanti al golfo omonimo…

Il poeta romantico e risorgimentale Aleardo Aleardi [nato a Verona nel 1812 e morto a Firenze nel 1878] rievoca - in una quarantina di endecasillabi sciolti - la figura e il sacrificio di Corradino di Svevia: potete trovare questa lirica in biblioteca nel volume i “Canti dell’Aleardi” e sulla rete ricercando con la dicitura “aleardi corradino” alla quale rispondono molti siti...

Conoscete l’argomento e, quindi, non avete difficoltà a capire ciò che leggete...    

Sulla figura di Corradino poi c’è l’interessante romanzo scritto dal germanista Italo Alighiero Chiusano [1926-1995] intitolato “Konradin” e potete richiederlo in biblioteca e leggerlo...

 

   Prendete atto di quante cose sono venute fuori incontrando Ruggero Bacone! Perché le studiose e gli studiosi di filologia hanno visto in Ruggero Bacone il precursore del cosiddetto “ardimento faustiano dello scienziato”. Che significato ha questa affermazione, che cosa c’entra il dottor Faust con il fantasma - che dico il fantasma! [è un lapsus; ma è solo un lapsus?] - con la figura, volevo dire, di Ruggero Bacone?

   Con questi interrogativi da svelare [compreso: che cosa starà combinando il signor Tiburius in mezzo al bosco con quella ragazza molto montanara e molto sicura di sé nell’offrire fragole? Non sarà che la fanciulla si è già informata sul ricco patris-monia del signor Tiburius che invoglia al ma tris-monia, scoprendo anche che Teodor è sì un po’ complessato ma è una brava persona e, soprattutto educabile: non è stata sempre un’aspirazione delle mogli quella di educare i mariti?],  ci proponiamo di coltivare lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare.

   Approfittiamone: la Scuola è qui [anche a novembre, e per i fantasmi non abbiamo bisogno né di maschere né di zucche (con le zucche è bene far la minestra) ci basta e avanza la didattica della lettura e della scrittura: dove, quando, come e perché? Accorrete…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 30, 2015