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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA S’INCONTRA IL SATYRICON DI PETRONIO ARBITRO, UN AUTORE DIVENTATO PERSONAGGIO DA ROMANZO IN ETà CONTEMPORANEA ...

Lezione N.: 
12

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica   23-24-25  gennaio  2013

Fellini Satyricon

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

S’INCONTRA IL SATYRICON DI PETRONIO ARBITRO,

UN AUTORE DIVENTATO PERSONAGGIO DA ROMANZO IN ETà CONTEMPORANEA ...

   Questo è il dodicesimo itinerario del nostro viaggio e stiamo attraversando un vasto spazio culturale che prende il nome di “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”. Il territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” è una vasta area che – come sappiamo – fa da confine tra l’Età antica e il Medioevo.

   Il periodo “tardo-antico” inizia a svilupparsi nello spazio dell’Ecumene ellenistica poco prima dell’inizio del I secolo d.C., nel momento in cui prende forma istituzionale l’Impero romano, e dura circa cinque secoli, fino alla disgregazione dell’Impero romano d’Occidente. Questa vasta area prende il nome di “tardo-antico” perché in essa si “prolungano – si attardano, dal latino “tardus” – i grandi temi dell’Antichità che vengono sottoposti ad un’ampia revisione culturale e, di conseguenza, nel vasto spazio che stiamo attraversando s’incontrano significativi paesaggi intellettuali.

   Noi – dopo una marcia di avvicinamento, che abbiamo compiuto camminando su una panoramica via romana [la via dei Cinque Imperatori] lastricata con parole-chiave interessantissime sebbene assai indigeste – abbiamo raggiunto, per ora, soltanto il primo paesaggio intellettuale: quello dell’Età giulio-claudia [che è il nome della dinastia dei primi cinque imperatori romani di cui abbiamo studiato il profilo: Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone] e ci troviamo ancora – siamo nel I secolo – nel cuore di questo ampio scenario culturale che è particolarmente affollato perché sono molte le figure significative che hanno lasciato un segno nel campo della “sapienza poetica e filosofica” durante l’Età giulio-claudia [circa un secolo di storia dal 30 a.C. al 68 d.C.] e, in questo momento siamo attorniate e attorniati da una bella compagnia, da un bel gruppo di figure con le quali noi abbiamo fatto conoscenza in queste ultime settimane e che ha assunto l’aspetto di un vero e proprio Circolo culturale perché è in Età tardo-antica che il concetto di “circolo culturale” – così come noi lo conosciamo oggi [con le ovvie trasformazioni strutturali avvenute nel tempo] – prende forma.

   Nel paesaggio intellettuale dell’Età giulio-claudia, dove ora ci troviamo, in “circolo” attorno a noi, c’è il filosofo Lucio Anneo Seneca che sta per prendere la parola, c’è l’apostolo Paolo di Tarso che sta scrivendo alcune importanti Lettere [probabilmente agli Efesini e ai Colossesi] di cui abbiamo già studiato il contenuto [le parole-chiave] nel viaggio di tre anni fa, c’è il poeta epico-storico Anneo Lucano [nipote di Seneca e amico intimo di Nerone fino al 62] che la scorsa settimana ci ha recitato i versi più macabri del suo poema intitolato Pharsalia, c’è il poeta Aulo Persio [amico fraterno di Lucano] che la scorsa settimana ci ha letto un frammento dalle sue Satire [in cui mette alla berlina il comportamento di Nerone], poi c’è Agrippina Minore [moglie, in seconde nozze, dell’imperatore Claudio, madre e vittima di Nerone] che, dopo aver fatto conoscenza con il personaggio letterario di Agrippina Solmo creato dallo scrittore Luigi Capuana [è qui anche lui] nel romanzo Il marchese di Roccaverdina, ha cominciato a provare dei sensi di colpa – sappiamo che il tema del “rimorso” [su cui abbiamo riflettuto la scorsa settimana, che corrisponde alla parola latina “conscientia”] è un argomento fondamentale che emerge nel testo del poema Pharsalia di Lucano – e questa signora, Agrippina Minore, intraprendente e spregiudicata [protagonista - come sappiamo - sempre negativa di molte opere letterarie, teatrali, musicali, artistiche in genere, prodotte nei secoli] ha imboccato la strada del ravvedimento attraverso la didattica della lettura e della scrittura e affidandosi allo strumento più adatto per prendersi cura della propria anima, del proprio intelletto e del proprio corpo: lo studio [studium et cura].

   In vita la signora Agrippina Minore – sebbene Seneca, con la quale era in relazione, esaltasse questi valori – aveva preferito allo “studium et cura” lo “scelus et imperium [il delitto e il potere]”- Ora Agrippina Minore – conscia del suo passato riprovevole ma anche alla ricerca di qualche giustificazione [un tema da studiare in avvenire] – ci sta proponendo di conoscere un’opera di cui non abbiamo ancora parlato, ed è per questo motivo che ci chiede di dare la parola a Lucio Anneo Seneca che è ansioso di intervenire.

   La scorsa settimana Lucio Anneo Seneca ci voleva già raccontare che cosa è successo quando lui ha pronunciato il famoso “Elogio funebre in morte dell’imperatore Claudio”: questo discorso viene considerato, da tutte le studiose e gli studiosi di filologia, la più  accattivante e la più bizzarra “Orazione funeraria” della Storia della Letteratura universale. Agrippina Minore è affezionata a quest’opera perché l’Elogio funebre, pronunciato in Senato da Seneca alle idi di ottobre [a metà ottobre] del 54, ha creato una distrazione nell’opinione pubblica, ed è stato un diversivo di cui lei si è giovata per allontanare dalla sua persona il sospetto che avesse avvelenato il marito: sappiamo che il marito in questione è l’imperatore Claudio [che è anche suo zio] il quale, dopo aver fatto una bella cena a base di funghi, di cui era molto ghiotto, è andato subito a coricarsi dopo aver pronunciato la famosa frase: «Agrippina mi fai mangiare troppo, ma quei funghi eran buoni da morire!» e difatti poco dopo era stecchito nel suo letto e a mezzogiorno del giorno successivo, 13 ottobre del 54, viene annunciata la sua morte.

   Era facile sospettare che Agrippina Minore avesse assecondato il trapasso del marito intanto perché quella sera aveva cucinato, ed era cosa rara che cucinasse, e poi – come sappiamo – perché aveva un figlio diciassettenne [un bravo ragazzo studioso, discepolo di Seneca, amico fraterno di Lucano e di Persio e quindi amante della poesia] di nome Nerone, che Agrippina aveva avuto dal suo precedente matrimonio con Domizio Enobarbo – e Nerone, su pressione di Agrippina, era stato appena nominato da Claudio suo successore, decretando anche l’emarginazione di Britannico, il figlio di Claudio e della sua precedente moglie Valeria Messalina, il quale era l’erede designato [poi verrà avvelenato anche lui]: e noi conosciamo questi avvenimenti. Le esequie per la morte di Claudio, nell’autunno del 54, sono state spettacolari: più all’insegna della festa che del lutto.

   Seneca ci sta dicendo che anche lui ha dei sospetti, per lo meno ritiene che Agrippina Minore non sapesse distinguere tra funghi commestibili e funghi venefici [e, quindi, se proprio non era omicidio volontario era per lo meno omicidio colposo], ma lui era debitore nei suoi confronti perché – come forse ricordate – era stato condannato all’esilio in Corsica dopo essere stato denunciato da Valeria Messalina di immoralità [Messalina, la precedente moglie di Claudio, odiava Seneca perché lui aveva denigrato pubblicamente i suoi comportamenti spregiudicati] ed era facile colpire Seneca in questo frangente perché tutti sapevano che era l’amante ricambiato della bella e colta Giulia Livilla [abbiamo incontrato questa signora nel sesto itinerario, a fine novembre, e la rincontreremo strada facendo per via del titolo che le è stato attribuito di “diva Julia”]; Giulia Livilla [altrettanto invisa a Valeria Messalina quanto Seneca] è la moglie di Marco Vinicio [per combinazione questa sera incontreremo un altro Marco Vinicio, un omonimo personaggio letterario] ed è la sorella di Caligola, e Seneca subisce la condanna e si fa otto anni di esilio in Corsica finché, dopo l’uccisione di Valeria Messalina, Claudio si risposa con la nipote Agrippina Minore la quale ha sempre avuto stima di Seneca come intellettuale e come maestro e convince il principe a graziarlo e a farlo tornare a Roma [Claudio non era d’accordo, ma Agrippina Minore conosce bene l’arte della persuasione e del ricatto] perché gli vuole affidare l’educazione del proprio figlio Nerone: e così avviene, sono avvenimenti conosciuti.

   Seneca, che è un filosofo impegnato politicamente, approva qualcuna delle decisioni che Claudio ha preso per governare lo Stato ma critica fortemente il fatto che Claudio abbia affidato tutti gli incarichi amministrativi ai suoi liberti di cui lui si fidava ciecamente ma costoro approfittano del potere acquisito e pensano più ai loro affari che agli affari pubblici e il debito statale aumenta progressivamente con il loro arricchimento personale.

   Quindi, nel momento in cui a Seneca viene affidato l’incarico di tenere in Senato l’Orazione ufficiale durante le esequie di Claudio – se fosse stato per Claudio lui in Corsica, probabilmente, ci sarebbe morto [ricordate la fine che ha fatto Ovidio?] – Seneca, che si sta proponendo anche come governante, decide di svolgere questo incarico con sincerità, in modo non ipocrita, dicendo con coerenza quello che pensa [e che pensavano in molti]: naturalmente il comportamento di Seneca suscita un enorme scalpore che distrae l’opinione pubblica e allontana i sospetti dalla persona di Agrippina Minore come responsabile della morte del marito [Agrippina Minore arrossisce]. Ma veniamo al dunque perché l’Orazione funebre di Seneca in onore di Claudio è diventata un’opera che ha avuto, nei secoli, uno straordinario successo.

   Nell’autunno del 54 il filosofo Lucio Anneo Seneca viene incaricato di pronunciare l’orazione funebre ufficiale in onore di Claudio davanti al Senato, il discorso dell’oratore è sorprendente perché Seneca enfatizza talmente i toni celebrativi fino al punto di suscitare le risa dell’uditorio e il defunto imperatore diventa una sorta di zimbello da prendere in giro: Seneca non fa altro che dire cose che tutti pensano ma che non avevano il coraggio di dire pubblicamente. Questo elogio funebre, sotto forma di breve componimento, che alterna prosa e versi secondo lo stile della “satira menippea”, viene subito pubblicato con il titolo di Ludus de morte Claudii [Divertimento sulla morte di Claudio] e, nel giro di poche ore, a Roma, non se ne trova più un rotolo, e i copisti lavorano giorno e notte per far sì che il testo venga subito ripubblicato, con un titolo in cui, questa volta, emerge anche la lingua greca perché dentro i confini dell’Impero romano si parla più in greco che in latino e, difatti, questo componimento ha sfidato i secoli col titolo di Apocolocyntosis divi Claudii [Zucchificazione del divo Claudio]. Il termine “apocolocyntosis” letteralmente significa “assunzione tra le zucche” – in greco “zucca” si traduce “kolokynte” e in latino “cucurbita” – e questo termine è, prima di tutto, una parodia, è un travestimento comico della parola “apoteosi” e, quindi, fa assumere un significato degradante al concetto di “divinizzazione”. Claudio – scrive Seneca – invece di ricevere una corona preziosa e di essere investito di dignità regale viene incoronato con una zucca, subisce un “inzuccamento” ed è sottoposto al castigo tipico che tocca agli imbecilli: agli “zucconi”. Seneca scrive che Claudio vorrebbe essere accolto nell’Olimpo come un dio, invece è deriso e insultato dagli altri dèi e sottoposto ad un processo, in cui il pubblico ministero, spietato nell’accusarlo, è Augusto in persona. Claudio finisce nell’Averno trascinato da Mercurio, condannato a umili mansioni di schiavo-segretario, simili a quelle dei liberti ai quali aveva affidato in vita tanto potere. Quest’opera di Seneca, l’Apocolocyntosis, è una bizzarra e gustosa invenzione letteraria, permeata di feroce sarcasmo, scritta in uno stile brioso e vivace, che unisce espressioni auliche ad altre volgari e popolari ma, soprattutto, contiene una serie di formule comiche che in seguito, nei secoli, sono state estrapolate da questo testo e sono state utilizzate in modo autonomo e, tuttora, si continua a farne uso nei testi umoristici.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La zucca è sempre servita per costruire un’allegoria della stupidità e l’espressione: “sei una zuccona, sei uno zuccone” è diventata proverbiale e, probabilmente, vi sarà capitato di essere apostrofate e apostrofati con questa espressione dispregiativa… 

Voi come l’adoperate la zucca in cucina per smentire la carica metaforica negativa che è stata affibbiata a questo utile e buon frutto dell’orto?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

   E ora leggiamo la prima parte, la parte introduttiva, dell’opera Apocolocyntosis divi Claudii [L’assunzione tra le zucche del divo Claudio].

LEGERE MULTUM….

Lucio Anneo Seneca, Apocolocyntosis divi Claudii [Zucchificazione del divo Claudio]

Voglio consegnare alla memoria che cosa è avvenuto in cielo il 13 ottobre di questo nuovo anno, inizio di un’era di prosperità. Nessuna concessione sarà fatta né al risentimento né al favore personale. Questa è l’assoluta verità.

Se qualcuno mi chiede la fonte della mia informazione, innanzitutto, se non voglio, non rispondo. Chi mi potrebbe costringere? Io so di essere diventato libero dal momento in cui ha finito i suoi giorni colui che ha reso vero il proverbio per cui bisogna nascere o geni o stolti. Gli umani si dividono in due categorie: la prima è quella dei geni e la seconda è quella degli stolti che dicono di essere geni. «Io sono un genio» diceva sempre lui e, a sua insaputa, confessava il vero, e da che cosa si capiva che apparteneva alla seconda categoria? Dal fatto che quando parlava faceva molte pause che erano la parte più interessante del discorso!

Io dirò qui ciò che mi salta in mente: chi ha mai preteso garanzie da uno storico? Tuttavia se sarà necessario produrre un testimone, chiederemo a colui che vide Drusilla andare in cielo: Giulia Drusilla la sorella e amante del principe che ha preso il nome dalle scarpe da soldato [Caligola], costei è stata vista ascendere al cielo come una dea, l’ha vista Livio Geminio, quello che ha avuto l’appalto come curatore della Via Appia: duecentocinquantamila denari e una simile somma ti fa aprire gli occhi fino a farti vedere perfino la vetta dell’Olimpo! Ebbene sarà lui a dire di aver visto Claudio percorrere la strada che conduce in cielo, «a passi diseguali [come scrive Virgilio di Ascanio che segue Enea in fuga da Troia in fiamme. Il nostro testimone – dice lui di sé – è in grado di sollevare un bue lucano con una mano sola, ma chi ha mai visto un bue lucano con una mano sola? Lui dice che i soldi non fanno la felicità ma senza dubbio sta parlando dei soldi di noi contribuenti non dei suoi comunque, che lo voglia o non lo voglia, con questa somma non può fare a meno di vedere tutto quello che succede in cielo, e il divo Claudio lui dice che c’è in cielo e noi sappiamo che un curatore di lavori pubblici non si prostituisce mai se non per denaro.  Qualcuno dice che, nel mio elogio, c’è poca poesia? Allora ricominciamo da capo:

Già Febo, abbreviando il cammino, aveva accorciato la luce al suo sorgere

e aumentavano le ore dell’oscuro Sonno, già Cinzia vittoriosa estendeva il proprio dominio

e il brutto Inverno strappava i graditi ornamenti del ricco Autunno

e, fatto invecchiare Bacco, il vendemmiatore tardivo coglieva i rari grappoli.

La poesia sarà anche bella ma credo che mi si capirà meglio se dico che il mese è ottobre e il giorno era 13, l’ora precisa però non ve la posso dire – è più facile mettere d’accordo i filosofi che le clessidre – tuttavia era tra mezzogiorno e l’una.

«Troppo rozzo! Tutti i poeti, non contenti di descrivere aurore e tramonti

si danno pace solo se arrivano addirittura a scomodare il mezzogiorno:

tu passerai sopra a un’ora così bella?» Già Febo con il cocchio aveva oltrepassato

la metà dell’orbita e più vicino alla notte scuoteva le briglie stanche traendo

giù per l’obliquo sentiero la luce declinante.

Insomma, verso il mezzogiorno l’anima cominciò a spingere, voleva uscire da Claudio: l’anima di Claudio era proprio come una farfalla e le farfalle si sa vivono una giornata sola e dopo mezzogiorno ne hanno di certo già piene le tasche, ma l’anima di Claudio non poteva trovare l’uscita. Allora Mercurio, che si era sempre compiaciuto delle sue doti, chiama da parte Cloto, una delle tre Parche, e dice: «Donna crudelissima, perché lasci questo pover’uomo in preda ai tormenti? Dopo una così lunga tortura non dovrebbe mai aver requie? Sono sessantaquattro anni che lotta con la sua anima. Perché sei malevola con lui e soprattutto con lo Stato? Lascia che gli astrologi dicano la verità almeno una volta: da quando è diventato imperatore, ogni anno, ogni mese lo danno per morto e sepolto. E tuttavia non è strano se sbagliano e nessuno conosce la sua ora e, a dire il vero, gli anni non hanno avuto alcun effetto su di lui, è sempre rimasto lo stesso imbecille del primo giorno, e nessuno l’ha mai ritenuto nato, e certi compleanni si corre a festeggiarli per paura. Fa’ ciò che bisogna fare: fallo morire, lascia che uno migliore governi nella reggia sgombra”». Ma Cloto disse: «Io, per Ercole, gli volevo dare ancora un attimo di tempo quanto bastava per concedere la cittadinanza a quei pochini che non l’avevano ancora comprata». Aveva deciso infatti di mettere tutti in toga da Senatore a buon prezzo: Greci, Galli, Spagnoli, Britanni. «Ma siccome è deciso che qualche straniero rimanga come semenza e tu vuoi che così sia fatto, così sia».

Cloto apre dunque una cassettina e ne trae fuori tre fusi: uno era di Augurino [il grullerello], il secondo di Babà [il babbeo], il terzo di Claudio.

«Questi tre, disse Cloto, li farò morire nello stesso anno, a poca distanza l’uno dall’altro, e non lo lascerò andar via senza seguito. Uno come lui, infatti, che è abituato a vedere tante migliaia di persone venirgli dietro, tante precederlo, tante stargli intorno, non è il caso che all’improvviso sia piantato in asso tutto solo. Per ora si contenterà di questa compagnia, persino gli amici più inseparabili non possono partecipare l’uno alle esequie dell’altro».

Così disse Cloto e avvolgendo i fili attorno al turpe fuso spezzò il corso regale di questa stupida vita.

E Làchesi, cinta le chiome, adorna i capelli, coronando la capigliatura e la fronte

con l’alloro di Pieria, stacca da un candido vello bianchi fili per muoverli con mano propizia;

questi, una volta tirati, prendono un colore nuovo.

Le Parche sorelle [Cloto che fila, Làchesi che spartisce e Atropo che taglia] guardano ammirate la loro filatura:

la lana comune si muta in prezioso metallo, secoli d’oro discendono dal meraviglioso filo.

E non hanno misura in questo, filano i velli abbondanti e godono di riempirne

le mani: sono dolci i loro filati. Il lavoro si affretta da solo e senza fatica morbidi stami discendono dal fuso ritorto,

superano gli anni di Titone, superano anche quelli di Nestore.

Assiste Febo [Apollo] e aiuta con il canto e gode del futuro,

in letizia muove ora il plettro, ora distribuisce la lana da filare, col canto

le tiene attente e inganna la loro fatica. E mentre lodano molto la cetra e i canti

del fratello, le loro mani hanno filato più del solito e l’opera insigne,

che proclama della Morte il trionfo, oltrepassa gli umani destini.

E allora Claudio gorgogliò fuori l’anima e da quel momento cessò di avere un’apparenza di vita. Spirò mentre stava ascoltando degli attori comici: temete gli attori comici che, di solito, apron la bocca quando non hanno niente da dire! Questa fu l’ultima sua espressione a essere udita fra gli uomini dopo che ebbe lasciato uscire un rumore piuttosto forte da quella parte, posteriore, con cui riusciva più facilmente a comunicare: «Povero me, credo di essermi scagazzato tutto». Se lo abbia fatto, io non lo so, certo è che ha reso lo Stato un letamaio perché quando lo sterco sale in alto fa gran danno e puzza molto.   Ascoltate, allora, quello che è successo in cielo: la garanzia è data da chi mi ha informato. Danno a Giove l’annuncio che è arrivato un tale di notevole statura, molto bianco di capelli, minaccia non so che cosa poiché muove continuamente la testa, strascica la gamba destra. Dicono di avergli chiesto di che nazionalità fosse: egli ha risposto in qualche modo con suoni indistinti e voce confusa, ma non capiscono il suo linguaggio: non è né greco né romano né di alcun altro popolo conosciuto. Allora Giove ordina a Ercole, che aveva percorso tutta la terra e sembrava conoscere tutti i paesi, di andare a vedere che razza di uomo fosse. Certo, a prima vista, Ercole rimase profondamente turbato: un mostro così non lo aveva ancora incontrato, eppure aveva esperienza in materia! Come vide questa figura di un genere senza precedenti, per l’inusuale andatura, con la voce di nessun animale terrestre ma tipica degli animali marini, roca e impastata, ritenne che fosse sopraggiunta la sua tredicesima fatica. Ma guardandolo meglio gli parve qualcosa di simile a un uomo. Così Ercole gli si avvicinò e, cosa facilissima per un greco come lui, disse: «Chi sei tu e da dove vieni? Qual è la tua città, chi sono i tuoi genitori?» Claudio gioisce di trovarsi di fronte a uomini di lettere e spera che lì ci sia posto per le sue opere storiche. Così usando anche lui un verso di Omero per spiegare che era Cesare Augusto, dice: «Portandomi via da Ilio, il vento mi spinse verso i Cicòni», ma sarebbe stato più giusto il verso seguente di Omero: «Là io distrussi la città e sterminai tutti i suoi abitanti». Gioite concittadini: siamo liberi!

   Mentre Seneca pronuncia queste parole, ecco che si avvicina alla bella compagnia, che fa circolo attorno a noi, un nuovo personaggio il quale saluta amichevolmente i componenti del gruppo, di cui anche lui fa parte, anche se preferisce vivere appartato perché è consapevole di essere un personaggio misterioso: è elegante, cammina con grazia, ha uno sguardo sorridente ma sarcastico e, secondo Tacito, si chiama Caio Petronio Arbitro, un personaggio che avrete senz’altro sentito nominare. Petronio ha seguìto a debita distanza i discorsi, le letture e le riflessioni che sono state fatte in queste ultime settimane, e ora è intervenuto per lodare Seneca che è stato capace di produrre l’opera bizzarra e gustosa di cui abbiamo letto alcune pagine ma soprattutto è uscito dall’ombra per affermare che il testo più eccentrico che descrive in modo vivacissimo e beffardo la società dell’Età giulio-claudia e neroniana in particolare lo ha scritto lui. Petronio si compiace del fatto che noi vogliamo studiare la sua enigmatica personalità e la sua opera: l’opera che lo ha reso celebre nella Storia del Pensiero Umano e che ha ispirato altre opere. Chi è Petronio e che caratteristiche ha la sua opera?

   Petronio, però, prima che si parli della sua opera, ci chiede di soddisfare la sua curiosità di lettore perché, nel momento in cui abbiamo cominciato a leggere il testo del romanzo intitolato Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana, che viene considerato un modello di quello stile letterario che si chiama “verismo o naturalismo” e Petronio, avendo sentito dire che la sua opera ha fatto da battistrada alla nascita del genere del romanzo [lui non sa che cosa sia] e ha anche ispirato lo stile “verista” [lui crede di intuire di che cosa si tratta], di conseguenza si è appassionato al racconto di Luigi Capuana e vorrebbe sapere come si comporta la principale protagonista femminile, Agrippina Solmo [e anche Agrippina Minore e tutti gli altri lo vorrebbero sapere], dopo essere stata convocata [Ricordate? Lo abbiamo letto la scorsa settimana] dalla baronessa di Lagomorto, la zia del marchese di Roccaverdina, la quale, in presenza dell’umile parroco di Ràbbato [il paese assetato dove si svolge la storia], la accusa con veemenza di aver fatto uccidere lei suo marito per tornare a vivere peccaminosamente insieme al marchese. Sappiamo che il marchese di Roccaverdina, prepotente proprietario terriero siciliano, ha tenuto con sé per dieci anni, come amante, Agrippina Solmo, una contadina giovane e bella, la quale si è dedicata a lui con rassegnazione perché sa che il marchese – anche su pressione della sua famiglia altolocata – non l’avrebbe mai sposata, sebbene l’abbia disonorata, per non screditare il proprio casato. Il marchese – per salvare le apparenze – la dà in moglie [con dote] a un suo devoto fattore, Rocco Criscione, esigendo però che entrambi giurino davanti al crocifisso di vivere come fratello e sorella. Quando però, dopo le nozze, al marchese viene il dubbio che Rocco e Agrippina stiano regolarmente “consumando” il loro matrimonio o stiano per farlo, si apposta una notte lungo la strada dove Rocco Criscione abitualmente passa sulla mula per tornare a casa e lo uccide con una fucilata. Del delitto viene accusato lo sfortunato Neli Casaccio, un povero cacciatore, che aveva pubblicamente minacciato Rocco, e questo innocente viene arrestato e sta per essere processato e condannato per omicidio volontario. Del vero responsabile del delitto nessuno sospetta [il marchese ha il privilegio di essere un cittadino al di sopra di ogni sospetto] ma il senso di colpa non guarda ai titoli nobiliari e svolge la sua funzione: ben presto, si trasforma in rimorso e il vero protagonista di questo romanzo diventa il sentimento del “rimorso”, un sentimento che si manifesta nell’animo del marchese attraverso il tormento, l’amarezza e l’afflizione. Questo aspetto del romanzo – dove il sentimento del “rimorso” diventa protagonista –  ha suscitato l’interesse di Anneo Lucano e ora interessa particolarmente anche a Petronio.

   Agrippina Solmo – dopo il drammatico scontro con la baronessa di Lagomorto, zia del marchese di Roccaverdina, la quale, in presenza dell’umile don Silvio La Ciura, la accusa con irruenza di aver fatto uccidere lei il marito per tornare a vivere insieme al marchese e per farsi sposare – prende una decisione: che cosa decide di fare Agrippina appena fuori dal palazzo dei Lagomorto? Leggiamo queste tre pagine:

LEGERE MULTUM….

Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina

Poco più in là del portone da cui era uscita, Agrippina Solmo si trovava a faccia a faccia con mastro Vito Noccia, calzolaio.

«Che vi accade, comare Pina? Avete un viso!».

«Niente; lasciatemi andare!».

Voleva evitare di fermarsi; ma quegli soggiunse: «Ho ricevuto or ora la cedola per la testimonianza alle Assise. Sentite, comare Pina: in quanto a Neli Casaccio, ve lo giuro, non so nulla. Non voglio dannarmi, comare!».

«Chi vi forza a dire il falso?». "

«Quell’anima lunga di don Aquilante».

Ella lo interruppe: «Lo avete sentito dire, per caso, che ho fatto ammazzare io mio marito?».

«Voi? Oh, Vergine Maria!».

«Me l’han rinfacciato or ora, mastro Vito!». E accennò, con significativa occhiata, la terrazza centrale sovrastante al portone dei Lagomorto.

«L’avete sentito dire?», insisteva con sordo fremito nella voce. «Io, io che darei tutto il sangue delle mie vene per farlo risuscitare un solo minuto!».

«E il marchese che ne pensa?».

«Ah, mastro Vito! Non si può più discorrere con lui. Diventa un animale feroce appena gli si parla di Rocco».

«Povero signore! Gli voleva un gran bene. Ma non vi angustiate per questo. Voci di mala gente».

«Vi saluto, scusate». Andava a rapidi passi, rialzando con una mano la gonna, guardando dove metteva i piedi per evitare le pozze rossastre formate dall’acqua mista con feccia versata da una cantina dove travasavano il vino. E intanto pensava al marchese che diventava, come si era espressa, un animale feroce ogni volta che ella andava da lui per parlargli del processo. «Perché? Perché?». Non sapeva spiegarselo. Sospettava dunque anche lui quel che dicevano le male genti? Era impossibile! E affrettava più il passo. Gli occhi le si velavano di lagrime, il cuore le batteva con violenza, come più ora rifletteva intorno allo strano contegno di lui. Era cangiato dalla mattina alla sera, pochi giorni prima della disgrazia. Una volta, appena vistala entrare e mentre ella stava per togliersi la mantellina, le aveva gridato: «Vattene!». L’aveva quasi scacciata. Poi, richiamatala addietro, si era rabbonito tutt’a un tratto. E quante domande! «A che ora Rocco è tornato da Margitello? Perché è venuto ed andato via senza farsi vedere da me?». Quasi lo facesse spiare o lo spiasse. Ripensando alcuni particolari a cui non aveva mai badato, sentiva un turbamento profondo, una specie di smarrimento. E affrettava ancora il passo. «Perché?», tornava a domandarsi. «È possibile? Sospetta anche lui? Ah, Signore!».   Mamma Grazia, che spazzava l’anticamera, se la vide davanti come un fantasma.

«Dov’è?».  «Ma, santa cristiana, non lo sapete che non vuole?»

«Lasciatemi entrare. Dov’è?».  «Mi sgriderà, se la prenderà con me!».

«Glielo dirò, state tranquilla, che sono entrata di forza». E attraversando stanze, e spalancando usci, e frugando, si rivedeva là non da serva, come aveva detto alla baronessa, ma da vera padrona, con le chiavi della dispensa o del magazzino alla cintola, per averle pronte quando arrivavano i garzoni col mosto o col grano al tempo della vendemmia o del raccolto. Si rivedeva occupata a riguardare la biancheria, a riporre negli armadi quella lavata e stirata; in faccende per la casa, assieme con mamma Grazia che brontolava, povera vecchia, perché si credeva spodestata della sua autorità di nutrice. «Lo hai stregato!». Glielo diceva sul viso, povera vecchia! E ciò non ostante, la rispettava, perché da colui ch’ella aveva nutrito col suo latte le era stato ordinato: «Voglio così, mamma Grazia!».

Ma dov’era? Non lo aveva trovato in camera, né nella sala da pranzo, né in salotto, né nello studio, né in quella stanza ingombra di selle vecchie e nuove, di briglie, di cavezze, di arnesi di ogni sorta per carrozza e per carri. Là, in un angolo, coi capelli disciolti, ella si era dati tanti pugni su la testa! Accoccolata per terra aveva singhiozzato e pianto una intera nottata, quando le era stato annunziato: «Domani te n’andrai a casa tua, per l’occhio della gente. Vi sposerete fra un mese!». Erano passati quasi tre anni, ma in quell’istante le pareva di vedere in quell’angolo un’altra se stessa e ne sentiva immensa pietà. Ah! Si sarebbe buttata di nuovo per terra, dandosi pugni sulla testa, a sfogarsi a piangere la sua mala sorte anche ora! Dov’era? Come non lo trovava? Giunta davanti al pianerottolo della scala che conduceva al piano di sotto, cominciò a scendere. La testa le vagellava talmente, da sentir bisogno di appoggiarsi al muro per non ruzzolare gli scalini. «Voglio saperlo! Dalla sua bocca voglio saperlo!». E attraversava altre stanze quasi vuote, e spalancava altri usci, fino alla cameretta laggiù, in fondo, dove aveva dormito nei primi mesi, allora! e dove era restata parecchie settimane quasi nascosta, vergognandosi di farsi vedere per le stanze da mamma Grazia, da Rocco, dalle altre persone di casa. E nell’atto di stendere la mano al pomo di rame dell’uscio, quasi la parete fosse sparita a un tratto, le parve di vedere il lettino con la coltre bianca, e il tavolino con lo specchio, e il lavamano di ferro, e le vesti appese al muro, e la cassa nuova di abete, tinta in verde, allato all’uscio, con la biancheria che ella si era cucita da sé, con le calze che si era lavorate da sé a casa sua, prima che il marchese si risolvesse di farla venire là, seccato di andare da lei, di notte, a ora tarda, in quel remoto vicoletto dov’ella abitava Stese la mano. L’uscio resistette.

«Chi è? Mamma Grazia!». Quella voce grossa di stizza l’atterrì. Se ella avesse risposto e si fosse fatta riconoscere, il marchese certamente non avrebbe aperto. E girò di nuovo il pomo, quantunque avesse già capito che l’uscio era chiuso dall’interno. Sentì un rumore di oggetto duro buttato sul tavolino; sentì lo scricchiolio della seggiola smossa «Tu!». E il marchese indietreggiò alla vista inattesa. Indietreggiò anche lei davanti a quell’aspetto sconvolto.

«Perdoni, voscenza!». Non gli aveva mai parlato altrimenti, anche negli istanti più intimi, piena di gran rispetto per colui che ella aveva sempre stimato, più che amante, padrone.  Uscito fuori e richiuso l’uscio dietro a sé, il marchese la interrogava con sguardi feroci, stringendo i pugni, rialzando le larghe spalle, quasi volesse avventarsele contro.

«Senta, voscenza!», ella pregò. «Farà poi quel che vuole, ma senta, per carità!».
Sembrava invecchiato di dieci anni, con la faccia non rasa da parecchi giorni, coi folti capelli in disordine. «Chi sa chi ti manda!», mugolò. «Domineddio? O il diavolo?».
«Perché, voscenza?».

«Che vuoi? Parla! Spicciati!».  «Mi ha fatto chiamare la baronessa. Dice».

«Che cosa dice?».  «Diceche sono stata io che ho fatto ammazzare mio marito!».

«E vieni a contarlo a me?».

«Lo vedo! Non sono più niente per voscenza … Mi scaccia come una cagna arrabbiata. Che ho fatto? Anche voscenza dunque crede?».

«Che ti deve importare di quel che credo o non credo?».    «È un’infamia!».

«Oh! Ci sono peggiori infamie in questo mondo!».

«Ma che ho fatto, Madonna Santa?».  «Che hai fatto? Niente!».

Agrippina Solmo, sforzandosi di capire, andandogli dietro, lo supplicava con gli occhi pieni di lagrime. «Niente! Niente!», ripeteva il marchese aggirandosi per la stanza, assorto nella triste idea che pareva lo torturasse, masticando parole che evidentemente non voleva lasciarsi sfuggire di bocca.

«Me ne vado», disse Agrippina Solmo, rassegnandosi. «Questa è l’ultima volta che voscenza mi vede qui. Il Signore dovrebbe farmi cascare fredda prima di uscire dal portone! ». E fece atto di avviarsi. Il marchese si era voltato. Ella credette che stesse per risponderle qualche cosa. No; la guardava soltanto, forse per accertarsi che andasse veramente via. «Le ho voluto bene!», ella si lamentava, senza che dal suo accento trasparisse nessuna intenzione di rimprovero. «L’ho adorato come si adora Gesù sacramentato! Mi ha preso dalla strada, mi ha colmata di benefici, lo so! Ma in compenso, non le ho dato il mio onore, la mia giovinezza, il cuore, tutto? Nessuno saprà mai quel che ho sofferto dal giorno che voscenza … Quasi fossi stata uno straccio da buttar via! Oh! Era padrone di fare quel che le pareva e piaceva. Mi disse: «Devi giurare!». Ed io giurai, davanti al Crocifisso. Mi sarei fatta polvere per essere calpestata dai suoi piedi! Crede forse voscenza che non sentissi repugnanza? Che la coscienza non mi rimordesse? Che importava? Ero nel peccato (quando è destino, una che può farci?) e restavo nel peccato come prima. Per questo avevo giurato, alzando la mano dritta davanti al Crocifisso! E ora, me ne vado! Mi scoppiava il cuore, se non parlavo! È convinto voscenza che ho fatto ammazzare io Rocco Criscione? Mi denunzi alla giustizia! Mi faccia condannare a vita! Ma no, voscenza non lo crede, non può crederlo!».

«Dici bene! Non posso crederlo!». E con voce ancora più cupa, il marchese soggiungeva: «Meglio per te e per me, se fosse stato così! Chi t’ha fatto venire in questo momento? Domineddio o il diavolo?».

Agrippina Solmo, incrociate desolatamente le mani e scotendo con atto di compassione la testa, riprendeva a lamentarsi con voce più fioca: «Non diceva così voscenza quando io le ripetevo: Mi lasci stare! Mi lasci stare!. E mia madre piangeva, poveretta: È la tua disgrazia, figlia mia!. È stato vero! Che m’importa se ora non mi manca niente? Casa, oro, roba, voscenza può riprendersi tutto Un’altra non parlerebbe così! E intanto la baronessa, il Signore la perdoni!, dice che io vengo qui per tornare di nuovo con voscenza, per Mi vergogno di ripetere quel che mi ha rinfacciato! Quando mai? Neppure allora che voscenza, ogni giorno: Sei la padrona qui, sarai sempre la padrona!” … Oh, non si arrabbi! Me ne vado! Tutto avrei potuto credere, non questo di vedermi trattata così! È la tua disgrazia, figlia mia! Mia madre aveva ragione!».

«Zitta! Zitta!», urlò il marchese. Ella uscì, più turbata e più smarrita che non fosse venendo, e con qualche cosa nel cuore che somigliava a un rimorso. Quei torbidi sguardi del marchese le erano penetrati nelle carni come lama ghiaccia, l’avevano frugata nelle più intime profondità della coscienza dove ella stessa non osava di guardare, e le sembrava che vi avessero già scoperto la infedeltà che stava per commettere e che avrebbe certamente commesso, se il fucile dell’assassino non avesse colpito Rocco Criscione tra le siepi di fichi d’India di Margitello, mentr’ella lo attendeva alla finestra, al buio, come si attende un amante!

   Petronio è incuriosito e molto affascinato dalla scrittura di Luigi Capuana perché coltiva uno spirito da “romanziere” ma lui non lo sa perché la parola “romanzo” e il termine “romanziere” non esistono ancora [noi, in questo momento, utilizziamo questi termini in modo strumentale]: gli autori dell’Età tardo-antica preparano, sperimentando, l’avvento di queste parole che entrano in incubazione ma, prima che si manifestino, ci vuole un bel po’ di tempo, il [lungo] tempo di formazione di un nuovo genere letterario. Chi è Caio Petronio Arbitro? La risposta a questa domanda non è certamente facile da dare e neppure possiamo metterci adesso a fare l’interrogatorio a Petronio il quale, giustamente, non ci risponderebbe ma – secondo la mentalità dei “classici” – ci inviterebbe a “fare ricerca”, a investire in intelligenza: l’atto del “venire a sapere” è importante ma molto più importante è l’esperienza di apprendimento permanente fatta sul cammino lungo la via che conduce verso la conoscenza.

   Petronio è una persona misteriosa perché di lui sappiamo pochissime cose ma i dati certi acquisiti sono utili in funzione dello studio così come lo sono anche gli elementi di carattere leggendario. Di Caio Petronio Arbitro sappiamo che è morto a Cuma nel 66 – si ipotizza che sia nato a Massilia [Marsiglia] intorno all’anno 27 – e gli studi filologici ci dicono, ormai con certezza, che la figura di Petronio s’identifica con l’autore di un’opera molto famosa nella Storia del Pensiero Umano che s’intitola Satyricon. Il primo che ha dato informazioni su questo personaggio è Tacito che negli Annali c’informa che “Caio Petronio Arbitro è stato un politico accorto, proconsole in Bitinia, console verso il 62, famoso presso la corte di Nerone soprattutto come intellettuale ed esteta raffinatissimo soprannominato “elegantiae arbiter [arbitro di eleganza]”. E il termine “Arbitro” è diventato un nome in più per Petronio. Tacito scrive che Petronio è stato amico intimo di Nerone ma poi, anche lui, è caduto in disgrazia, coinvolto nella sfortunata congiura dei Pisoni e, per evitare la condanna, si è suicidato a Cuma, la città della Sibilla cumana [degli Oracoli e dei Libri sibillini] e importante santuario epicureo. Petronio si taglia le vene secondo lo stile epicureo: durante un banchetto, al quale partecipano le amiche e gli amici frequentatori del Giardino [la Scuola epicurea], allietato da musica e canti e vivacizzato da una briosa e allegra conversazione sulla necessità di morire dignitosamente senza paura. Quindi Petronio si toglie la vita nel corso di una festa, organizzando una cerimonia gioiosa, in modo diverso dallo stile drammatico delle morti degli oppositori stoici di Nerone, primi fra tutti Seneca e Lucano i quali interpretano la loro morte secondo i canoni del genere letterario della tragedia. Tacito non dice nulla di esplicito sull’attività letteraria di Petronio ma ci fa capire che la raffinatezza intellettuale del personaggio, la sua spregiudicatezza e la sua stravaganza si accordano perfettamente con quella dell’autore del Satyricon.

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Con una guida dalla Campania e collegandovi alla rete [ci sono alcuni siti utili nei quali entrare] fate una visita all’area archeologica di Cuma: potete così fare capolino sull’Antro della Sibilla [come ha fatto Enea per mezzo della penna di Virgilio nel canto VI dell’Eneide] e potete conoscere che cosa sono gli Oracoli e i Libri sibillini...   Fate un’incursione a Cuma: la colonia greca più antica di cui si abbia memoria, eminente santuario epicureo nel I secolo...

   Il nome di Caio Petronio Arbitro ci obbliga ad aprire una parentesi in funzione della lettura e della scrittura perché questo personaggio, Caius Petronius Arbiter autore del Satyricon, è diventato il protagonista di un famoso romanzo [lui non lo sapeva ancora e, di fronte a questa notizia, s’incuriosisce come non mai] che è probabile abbiate letto ma del quale avrete senz’altro visto le celebri riduzioni cinematografiche: stiamo parlando del romanzo intitolato Quo vadis?, l’opera letteraria più significativa e molto conosciuta nel mondo, dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz. Quo vadis? è un romanzo di carattere “storico” [tra virgolette perché l’autore storicizza molti eventi leggendari] dapprima pubblicato a puntate nel corso dell’anno 1894 sulla Gazzetta Polacca e poi raccolto in volume nel 1896. Con questo romanzo Sienkiewicz ha raggiunto la fama internazionale e nel 1905 ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura. Il cinematografo ha amplificato la fama di Quo vadis? – se vi collegate alla rete e cercate “Quo vadis?” [fate quest’esercizio] potete constatare che la maggior parte dei siti fa riferimento ai film tratti da questo romanzo – e l’autore del testo è passato, poco per volta, in secondo piano [oggi chi se lo ricorda più?]. Chi è questo scrittore polacco che ha amato l’Italia come se fosse la sua seconda patria?

   Henryk Sienkiewicz è nato il 5 maggio 1846 nel villaggio di Wola Okrzejska, di proprietà del nonno materno, nel voivodato di Lublino, nella Polonia orientale, allora dominata dall’Impero russo: la Polonia come nazione non esisteva più perché se l’erano divisa nel 1795 la Germania, l’Austria e la Russia.

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Collegandovi alla rete potete visitare questo luogo...

   Nel 1866, terminato il ginnasio, Sienkiewicz s’iscrive al dipartimento di giurisprudenza nella Scuola Centrale di Varsavia per poi cambiare e frequentare i corsi di medicina ma lui ama la Letteratura e finisce quindi col laurearsi in Lettere. A Varsavia trova lavoro come recensore in alcune riviste e poi diventa articolista per alcuni quotidiani tra cui la Gazeta Polska [Gazzetta polacca] firmandosi con lo pseudonimo di Litwos. Pochi anni dopo pubblica il suo primo romanzo intitolato Invano e, successivamente, compone una trilogia: Il diluvio, Col ferro e col fuoco e Il signor Wolodyjowski. Questi tre romanzi hanno avuto un’ampia diffusione in Polonia perché animano la speranza d’indipendenza e di liberazione dei Polacchi dalla subordinazione alle altre nazioni. Diventato un famoso scrittore, Sienkiewicz compie molti viaggi all’estero e diventa una sorta di ambasciatore culturale della Polonia: va in Russia, in Germania, in Francia, in Svizzera, in Grecia, in Turchia, in Egitto, in India, negli Stati Uniti e in Italia dove soggiorna più a lungo perché è il paese che lui preferisce e che considera la sua seconda patria, ed è proprio in Italia che prende lo spunto per scrivere la sua opera più famosa, Quo vadis?. Sienkiewicz nel 1893 prende domicilio a Roma in un albergo in via Bocca di Leone e fa amicizia con un suo compatriota, il pittore Henryk Siemiradzki [1843-1902], che vive a Roma da molti anni e gli fa da guida sui luoghi dove lui spesso va a dipingere.

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Se vi collegate alla rete potete conoscere più da vicino questo pittore di nobile famiglia polacca che ha studiato all’Accademia imperiale delle Arti di San Pietroburgo distinguendosi per il talento e potete osservare alcune delle sue opere più importanti per capirne lo stile “accademico”...

   Lo scrittore e il pittore fanno lunghe escursioni tra la via Appia Antica e la via Ardeatina e lo scrittore scopre che su un pezzo della vecchia strada c’è una cappella dove si conserva l’impronta di un piede e questo sarebbe il luogo dove secondo la tradizione – come racconta l’opera apocrifa del V secolo intitolata Atti di Pietro e PaoloGesù avrebbe incontrato Pietro in fuga da Roma e avrebbe risposto alla domanda dell’apostolo: «Domine, quo vadis? [Signore, dove vai?]». Lo scrittore comincia ad immaginare una storia – soprattutto una storia d’amore – e a elaborare il suo racconto che inizia ad uscire a puntate nel 1894 sulla Gazzetta Polacca, che aumenta vertiginosamente la sua tiratura. Con questo romanzo, pubblicato in volume nel 1896 e subito tradotto in molte lingue [è stato uno dei libri più conosciuti di fine Ottocento], Sienkiewicz raggiunge la fama internazionale e nel 1905 riceve il premio Nobel per la Letteratura. Henryk Sienkiewicz muore il 15 novembre 1916 nell’hotel Du Lac, nella città svizzera di Vevery e il 27 novembre dello stesso anno le sue spoglie vengono deposte nel sottosuolo della cattedrale di Varsavia.

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È probabile che il romanzo “Quo vadis  ?” di Henryk Sienkiewicz sia anche nella vostra biblioteca domestica, se non ci fosse utilizzate la biblioteca pubblica e leggete l’incipit: basta leggere il primo capitolo per capire che Caio Petronio è il protagonista dell’opera, e se poi avete la pazienza di leggere anche il secondo capitolo del romanzo vedrete entrare in scena anche l’opera di Petronio intitolata “Satyricon”  e scoprirete dove - secondo lo scrittore - venivano conservati i libri a Roma... Leggete dieci minuti al giorno: investite in intelligenza!...

   Petronio ha ascoltato ciò che abbiamo detto con grande interesse ed è veramente commosso: non avrebbe mai immaginato che il ricordo di lui sarebbe durato così a lungo fino nel mondo contemporaneo.

   Nel romanzo Quo vadis? sullo sfondo della Roma imperiale, soffocata dalla tirannide di Nerone, viene narrata la storia d’amore contrastata e impossibile fra Callina, detta Licia, una bella e pura ragazza cristiana, che è stata una principessa originaria della Licia [da qui il nome], e Marco Vinicio, un baldo e guerriero giovane patrizio romano, nipote di Caio Petronio. L’amore tra Licia e Vinicio è solcato dalle differenze ideologiche che dividono i loro mondi: quello pagano, nel suo massimo splendore di gloria e nella sua massima decadenza morale, e quello dei cristiani delle catacombe, impregnato di preghiera e di amore fraterno. La loro storia sentimentale corre parallela a quella serie di avvenimenti storici che conducono al grande incendio di Roma del 64 e, di conseguenza, alla successiva persecuzione anti-cristiana.

   Ma nel romanzo, in realtà, il protagonista principale è Petronio e lo scrittore, nonostante voglia comporre un’apologia del Cristianesimo originario insediatosi a Roma e perseguitato, tende a identificarsi con il personaggio di Caio Petronio il quale non crede che la vita abbia un significato – esercita il “pessimismo esistenziale” – ma crede ai piaceri dello spirito che la vita offre: lui non accoglie il messaggio salvifico del Cristianesimo ma lo rispetta e confessa di essere in difficoltà quando deve identificare il limite preciso fra il bene e il male, ma sa che cos’è l’onestà e la pratica scrupolosamente ed è profondamente fedele ai suoi affetti, e rivendica la sua indipendenza spirituale secondo gli insegnamenti della Scuola epicurea.

   Sienkiewicz fa di Petronio un personaggio simpatico, senza eccessi, senza pose, quasi a voler disegnare un modello che rappresenti la figura dell’intellettuale ideale della fine dell’Ottocento, un intellettuale capace di affrontare coerentemente le molte crisi in atto a cominciare da quella dei rapporti internazionali con la conseguente corsa al riarmo delle nazioni europee [nel romanzo si allude alla situazione storica contemporanea dove i grandi Imperi sono in decadenza]. La morte di Petronio descritta nel Quo vadis? diventa una significativa allegoria fatta di simboli: una benda dorata trattiene il sangue che sgorga dalla sua vena incisa, una schiava bellissima e appassionata, Eunice, vuole accompagnarlo nel trapasso non potendo vivere senza di lui, e questi segni – metafore sul tema dell’amore – servono a introdurre le ultime parole di Petronio con le quali annuncia che con lui muore la paganità.

   L’agonia della paganità ha inizio nel momento in cui comincia a finire l’Età antica e sorge una nuova Epoca che noi, oggi, chiamiamo il “tardo antico”. Sienkiewicz ha intuito questo concetto che, per noi, è motivo di studio in questo viaggio e se vogliamo dedicarci alla lettura o alla rilettura di Quo vadis? dobbiamo utilizzare, soprattutto, questa chiave-ermeneutica secondo la quale una nuova Epoca si apre perché Stoici, Epicurei e Cristiani sanno fare tutti un “sacrificio” alla luce di una sentenza che ciascuna Scuola ellenistica ha elaborato secondo il proprio pensiero e il proprio linguaggio ma che vale universalmente e che dice: “Se il seme non muore, non porta frutto”.

   E ora leggiamo l’incipit, le prime dieci righe, del romanzo Quo vadis? che inizia con il nome di Petronio.

LEGERE MULTUM….

Henryk Sienkiewicz, Quo vadis?

Petronio si svegliò che era circa mezzogiorno. Come al solito si sentiva molto stanco. La sera prima aveva partecipato a un festa, data da Nerone, che si era protratta fino a tarda notte. Da qualche tempo la sua salute era precaria, ed egli stesso ammetteva che la mattina, al momento del risveglio, si sentiva intorpidito e stentava alquanto a riordinare le idee. Ma il bagno mattutino e i sapienti massaggi che le mani esperte di schiavi addetti a tale ufficio gli praticavano in tutto il corpo, lentamente riattivavano il suo sangue pigro e lo rinvigorivano, ritemprando le sue forze. Dall’elaeothesium, cioè dall’ultima stanza dei bagni, Petronio usciva come fosse rinato: appariva ringiovanito, pieno di vita, gli occhi scintillanti di letizia e di arguzia. Ed era così elegante, così irreprensibile nell’aspetto, che nemmeno Ottone avrebbe potuto rivaleggiare con lui: egli era un vero arbiter elegantiarum, come ormai era stato soprannominato.

   E ora è il momento di occuparci dell’opera di Petronio intitolata Satyricon.

   Il Satyricon di Petronio è un’opera che può essere considerata il primo esempio di romanzo della Letteratura latina, un’opera che, per la mescolanza di prosa e di versi, si riallaccia ancora alla “satira menippea” di cui rappresenta un’evoluzione che porta verso un nuovo genere letterario. Il Satyricon si differenzia da quello che è stato chiamato il “romanzo greco ellenistico” che tratta temi sentimentali: l’opera di Petronio fa la parodia del sentimentalismo in chiave realistica e cinica con un taglio che possiamo definire di stampo “verista”.

   Di questo “romanzo” – attraverso i codici medioevali – ci resta una lunga sezione che però rappresenta solo una parte dell’opera perché la maggior parte del testo è andata perduta. In questa sezione sono compresi anche alcuni inserti novellistici intitolati Il lupo mannaro, Il fanciullo di Pergamo, La matrona di Efeso, e alcuni brani di poesia, tra cui quello intitolato Presa di Troia [Troiae balosis] formato da 65 trimetri giambici che, forse, fanno il verso allo scadente poema sulla caduta di Troia cantato da Nerone. Il titolo di Satyricon è un genitivo plurale che accompagna il termine sottinteso “libri”, quindi: Satyricon libri [Libri di Satire].

   La trama di quest’opera è assai complessa e il testo è formato da una successione di tante scene apparentemente autonome ma legate tra loro da un filo conduttore rappresentato dalla voce di Encolpio: il protagonista-narratore. Il Satyricon è tutto un insieme di vicende stravaganti, di avventure di ogni genere, di pratiche magiche, di racconti fiabeschi, di storie d’amore che fanno capo a vagabondi cinici e senza scrupoli, desiderosi solo di godersi la vita.

   Il testo del Satyricon è attraente [quest’affermazione la si legge sul frontespizio di tutte le edizioni] ma la lettura di quest’opera presenta molte difficoltà e, in questo caso, non può esserci pienamente d’aiuto neppure il cinema anche se un regista intelligente come Federico Fellini nel 1969 ha deciso di affrontare questo testo – naturalmente interpretandolo in chiave onirica secondo il suo stile – per trarne un film ben coadiuvato dallo sceneggiatore Bernardino Zapponi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il film di Federico Fellini intitolato “Fellini Satyricon” non è un’opera facile da decodificare senza la necessaria preparazione, ma noi, che siamo entrate ed entrati in possesso di una serie di chiavi-interpretative – il carattere dei personaggi della storia, le parole e le idee del pensiero stoico ed epicureo, le peculiarità della scrittura petroniana –, dovremmo avere gli strumenti essenziali per usufruire a pieno della visione di questa pellicola che, probabilmente, potete richiedere in prestito anche in biblioteca e, quindi, visionarla soprattutto per capire quale potenza evocativa abbia il testo di Petronio…    

   E ora leggiamo l’inizio della parte che ci è pervenuta di questo “romanzo tardo-antico”: possiamo constatare, innanzi tutto, il ritmo narrativo di Petronio, svelto e incalzante, e il realismo descrittivo che riguarda l’uso del linguaggio perché lo scrittore attribuisce a ciascun personaggio un determinato registro linguistico a seconda del suo status sociale e queste caratteristiche hanno avuto un considerevole impatto sull’evoluzione della narrativa verso quel genere che poi e stato chiamato il “romanzo moderno”. Dobbiamo prendere atto del fatto che le parti più significative del testo del Satyricon non sono tanto le scene orgiastiche, i racconti erotici, le situazioni pruriginose dovute alla promiscuità sessuale, ma piuttosto quelle in cui lo scrittore critica il mondo della cultura: un mondo che non mira a educare e a trasmettere valori morali ma solo a fare affari. All’inizio incontriamo i personaggi principali all’interno di una Scuola di retorica ma ben presto finiscono per trovarsi in un lupanare: è una bella metafora.

   Lo scrittore allude al fatto che nelle Scuole di retorica questa disciplina viene insegnata a caro prezzo non per dare una formazione etica alla persona [in chiave epicurea] ma piuttosto perché la persona riceva un addestramento utile per mostrarsi in società, per partecipare a concorsi di bellezza, per avere successo nei festini, e c’è da dire che tutto ciò è di grande attualità, ma ascoltiamo direttamente Petronio attraverso la voce narrante di Encolpio. Il brano inizia con una “tirata” di Encolpio contro la superficialità della cultura e dell’insegnamento al quale risponde un rètore che si chiama Agamennone che rincara la dose, propone un programma austero ma, infine, si adegua al sistema.

LEGERE MULTUM….

Petronio Arbitro,  Satyricon

«I declamatori che vanno gridando: Queste ferite me le sono procurate difendendo la vostra libertà, quest’occhio l’ho perso per voi, datemi un accompagnatore che mi conduca dai miei figli perché coi garretti troncati non sto in piedi, non sono agitati dalle medesime Furie? Sarebbero cose sopportabili se aprissero la strada all’eloquenza. Invece non servono che a portarli tra le nuvole. Appena entrano nel foro, cominciano a gonfiare immagini e a strombazzar sentenze. I ragazzi delle Scuole che li ascoltano, si incretiniscono, perché nelle loro chiacchiere non trovano nulla di attuale, ma solo tiranni che scrivono editti per ordinare ai figli di tagliar la testa ai padri o responsi che per arrestare le pestilenze ordinano di immolare delle vergini: palle, ora edulcorate col miele delle parole, ora condite col papavero e il sesamo delle citazioni. Chi si nutre di questa roba non può diventar sapiente, come non può olezzare chi sta in cucina. Lasciatemelo dire: avete cominciato voi a rovinare l’eloquenza. Cavando piccoli effetti da suoni leggeri e vani, avete snervato e messo a terra il corpo del discorso. Quando i giovani non erano storditi dalle declamazioni, Sofocle e Euripide seppero trovare le parole giuste per esprimersi. Certi maestri ammuffiti nell’ombra delle Scuole, non avevano ancora guastato gli ingegni ai tempi in cui Pindaro e tutti i nove lirici avevano il buon senso di astenersi dal cantare in versi omerici. E per non chiamare in causa solo i poeti, dico che certamente né Platone né Demostene si adattarono mai a questo esercizio. La grande e direi casta eloquenza, non ha macchie né turgori, ma si distingue per una sua naturale bellezza. Quando poco tempo fa, codesta ventosa e smisurata loquacità passò dall’Asia ad Atene, prese a influenzare, come un astro pestifero, l’animo dei giovani che si preparavano a grandi cose; e una volta guastata la regola, l’eloquenza fu spacciata. Infatti, chi riuscì più a raggiungere la fama di Tucidide e di Iperide? Neppure la poesia poté mantenere un colorito sano: tutti i generi, quasi si fossero pasciuti del medesimo cibo, non riuscirono a campar tanto da invecchiare. La pittura non ha avuto miglior sorte, da quando gli egiziani ebbero l’impudenza di stilizzarla all’eccesso».

Il retore Agamennone non permise che io declamassi sotto il portico più di quanto si era già sgolato lui nella scuola; e mi disse: «Giovanotto, poiché parli in un modo che al pubblico non piace e, cosa rarissima, ami il buon senso, non ti nasconderò i segreti di quest’arte. La colpa di queste esercitazioni non è dei maestri, che coi pazzi debbono fare i pazzi. Infatti se non dicessero ciò che piace ai loro ragazzi, resterebbero soli nelle scuole, come sostiene Cicerone. Allo stesso modo degli adulatori che cercano sulla scena di guadagnarsi il pranzo presso i ricchi dicendo quel che ritengono gradito a chi li ascolta (e non otterrebbero nulla senza sollecitar loro le orecchie), il maestro di eloquenza deve, alla maniera dei pescatori, mettere sull’amo l’esca di cui sono ghiotti i pesciolini, se non vuol restare senza speranza di preda sul suo scoglio. «E allora? Degni di rimprovero sono i genitori che non esigono per i loro figli una severa disciplina dalla quale possano trarre giovamento. Essi cominciano col sacrificare all’ambizione, prima di ogni altra cosa, le loro stesse speranze. Poi, nella fretta di realizzare i loro voti, spingono nel foro delle teste immature, e pur ammettendo che non vi è nulla di più grande dell’eloquenza, pretendono di metterla in corpo e dei fanciulli appena nati. Ma perché la grande oratoria possa riavere il suo peso e la sua maestà, essi debbono abituare gradualmente i giovani alle fatiche, lasciare che si imbevano di letture serie e che conformino gli animi ai precetti della sapienza. Debbono abituarli a scavare le parole con uno stilo spietato, convincerli ad ascoltare lungamente quelli che vogliono imitare, e infine persuaderli che nulla di ciò che piace agli immaturi può essere grande e magnifico. Invece i fanciulli nelle scuole giocano, per poi far ridere quando da giovani entrano nel foro; e, cosa ancor più vergognosa, da vecchi non riconoscono i loro pessimi cominciamenti. Ma perché tu non possa pensare che io disapprovo i versi improvvisati alla buona, sul genere di quelli di Lucilio, dirò in poesia quel che sento.

Chi di un’arte severa ambisce i frutti ed applica la mente a grandi cose,

prima ripulisca i suoi costumi  e osservi la legge della frugalità. Tenga alta la fronte

e alla reggia non badi, non cerchi un posto a mensa: nelle ricche dimore, non soffochi

nel vino tra gentaglia la vivezza della mente, non segga in teatro, pagato per gli applausi

da un attore. Ma, sia che gli sorrida l’arce Tritonide, la terra dove abita di Sparta il colono

o la dimora delle Sirene, alla poesia dedichi gli anni suoi primi  e beva con cuore felice

alla fonte Meonia. Dopo aver sostato nel gregge di Socrate, si lanci a briglia disciolta

e scuota le armi del grande Demostene. Alla romana schiera alfine si volga,

perché libera dai greci accenti di nuovo profumo del foro, la sua pagina corra e la fortuna l’aiuti nei veloci passaggi.

Trovi nelle guerre materia di truci melodie, o risuonano minacciose nei suoi versi dell’indomabile Cicerone le grandi parole.

Di tali pregi l’animo ornato, con largo fiotto parole effonderà dal cuore, delle Pieridi degne».

Ero così intento ad ascoltarlo, che non mi accorsi della scomparsa di Ascilto. Ma passeggiando in giardino ancora scaldato dal discorso, vidi entrare nel portico una folla di studenti che venivano, mi pareva, dalla declamazione di non so quale individuo che aveva riassunto e continuato la tirata di Agamennone.  Mentre i giovani si attardavano a ridere dei concetti che avevano ascoltato e a farsi beffe di tutto il discorso, me la svignai abilmente e andai di corsa in cerca di Ascilto, ma senza sapere che strada prendere, perché non ricordavo più da che parte fosse la nostra locanda. Stanco di ritrovarmi sempre allo stesso posto dopo ogni corsa, e ormai pieno di sudore, mi avvicinai a una vecchietta che vendeva delle ortaglie.  «Dimmi un po’ nonnetta, lo sai dov’è sto di casa?» le chiesi.   Divertita dalla mia sciocca trovata «Certo che lo so» mi rispose alzandosi in piedi. E senza dire altro mi fece strada. L’avevo presa per un’indovina. Poco dopo, arrivati in un luogo fuori mano, scostando una tenda di stracci mi disse gentilmente: «Questa è la tua casa».

Mentre le facevo osservare che non mi pareva quella, vidi certi tipi aggirarsi furtivamente tra i cartelli che indicavano il posteggio di alcune prostitute completamente ignude. Tardi, troppo tardi, mi accorsi di essere stato portato in un lupanare. Maledicendo la vecchietta, mi tirai la veste sul capo e presi la fuga verso l’uscita posteriore di quel luogo infame, quando proprio sulla porta mi venne incontro sfinito e mezzo morto Ascilto. Pensai che in quel posto l’avesse portato la vecchietta, e lo salutai chiedendogli che mai facesse in quella casa.  Asciugandosi il sudore con le mani, Ascilto mi disse: «Sapessi le cose che mi sono capitate!»«E come posso saperle?»«Mentre» disse quasi venendo meno «giravo per quanto è grande la città senza rintracciare l’albergo, mi si avvicinò un padre di famiglia che molto gentilmente volle aiutarmi a trovare la strada. Dopo avermi fatto passare per vicoli oscurissimi, mi portò qui, dove mostrandomi del danaro, tentò di possedermi. La ruffiana aveva incassato il danaro per la stanza e già quel tipo mi metteva le mani addosso. Se non fossi stato più forte di lui, dico che ce l’avrebbe fatta. Non sapevo come cavarmela, anche perché là dentro mi sembravano tutti sbronzi. Ma trovai aiuto e riuscii a buttar fuori l’importuno».

   Il testo del Satyricon ci è pervenuto incompleto e questo fatto non permette di ricostruire tutta la trama. L’io-narrante è un personaggio che si chiama Encolpio, un giovane colto, dotato di raffinato senso estetico e di ironia, il quale racconta in prima persona le sue avventure durante i vagabondaggi nelle città dell’Italia meridionale, vivendo di espedienti, ruberie e pranzi scroccati. Encolpio va errando per il mondo, forse da Marsiglia a Crotone, per effetto di una terribile persecuzione. Come Ulisse anche Encolpio è perseguitato da una divinità, il dio Priapo, il quale, a causa di un peccato che ha commesso, non sappiamo quale, l’ha condannato all’impotenza. Personaggi comprimari di Encolpio, insieme all’attraente adolescente Gitone di cui Encolpio è invaghito, sono altre due figure ambigue: Ascilto – lo abbiamo visto in azione poco fa – che è un giovane volgare e cinico e poi Eumolpo, un anziano e corrotto poeta, che sa parlare e sa riflettere. Muovendosi da un’avventura all’altra, Encolpio, Gitone, Ascilto ed Eumolpo, si imbattono in una miriade di personaggi: una straordinaria miniera di tipi. Encolpio è sempre in scena perché è colui al quale è anche affidata la predicazione dell’ideologia presente nell’opera: che tipo di ideologia veicola l’opera di Petronio? A questa domanda risponderemo la prossima settimana quando saremo invitati a cena a casa di un certo Trimalcione.

   Adesso è Seneca che si complimenta con Petronio e noi possiamo dire che tutti i membri del Circolo letterario del paesaggio intellettuale dell’Età giulio-claudia stanno collaborando con noi disciplinatamente, e allora vogliamo fare un brindisi.

   Questa sera il nostro itinerario è iniziato con il “re zuccone” di Lucio Anneo Seneca e allora vogliamo concludere con un “re zuccone” contemporaneo messo in versi, con leggerezza, dal poeta Carlo Alberto Salustri detto Trilussa: Er brindisi de re Zuccone.

LEGERE MULTUM….

Trilussa, Er brindisi de re Zuccone

Re Zuccone aveva chiesto er parere der Buffone

pe’ fa’ un brindisi in maniera che piacesse a la nazzione,

ma però ner tempo stesso nu’ l’avesse compromesso.

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   Ridacchiano gli appartenenti al Circolo culturale del paesaggio intellettuale dell’Età giulio-claudia pensando che dal tempo loro al nostro non è cambiato granché.

   E, a  proposito di banchetti, la prossima settimana siamo a cena da un certo Trimancione, un liberto arricchito, grandioso e geniale nella sua volgarità e nella sua assoluta mancanza di buon gusto: tenetevi leggere, tenetevi leggeri. Qual è lo spettacolo “culturale” che ci riserva la cena da Trimalcione?

   Per rispondere a questa e ad altre domande è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la forza della narrazione] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “vagante” per esortare ad investire in intelligenza.

   Il viaggio continua…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 25, 2013