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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA SPUNTA, IN PARTENZA, LA CORRENTE DELLA SCOLASTICA EMPIRICA ...

Lezione N.: 
3

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica     21-22-23  ottobre  2015

San Tommaso d'Aquino

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

SPUNTA, IN PARTENZA, LA CORRENTE DELLA SCOLASTICA EMPIRICA  ...

 

   Il nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” ha avuto inizio con il tradizionale e ripetitivo “rituale della partenza”, del quale dobbiamo ancora celebrare alcuni atti, e questa sera prendiamo il passo per percorrere il terzo itinerario.

   Nel corso del viaggio di due anni fa, durante l’inverno dell’alto-medioevo [e molte e molti di voi c’erano], noi ci spostavano virtualmente soprattutto da un’abbazia benedettina all’altra dentro all’ampio perimetro del mondo cristiano carolingio, spesso riparandoci nei laboratori degli amanuensi dove gli scrivani ricopiavano e salvavano i testi delle Opere dei Classici greci e latini; o ci spostavamo anche da una casa della saggezza all’altra se eravamo nel mondo arabo-islamico, assistendo ai convegni di Bagdad, di Toledo, di Cordova frequentati dagli intellettuali islamici, ebrei e cristiani, tenuti per discutere intorno alle Opere di Platone e di Aristotele; quindi, eravamo ospiti in strutture dove fiorivano le Scuole nelle quali è nato il pensiero della Filosofia scolastica [cristiano-latina, greco-bizantina, arabo-islamica, ebraico-talmudica].

   Lo scorso anno, durante la primavera e l’estate del medioevo [e molte e molti di voi c’erano], ci siamo spostate e spostati virtualmente da un città all’altra [abbiamo visitato un bel numero di città riposando all’ombra dei chiostri dei grandi monasteri e delle cattedrali romaniche] frequentando le Scuole dove è fiorito il pensiero della Filosofia scolastica in tutte le sue connotazioni cosiddetta “tradizionale”.

   Ebbene, negli ultimi due Percorsi, dal 2013 al 2015, abbiamo viaggiato rimanendo sempre ambientalmente allo scoperto e, per la precisione, la foresta l’abbiamo sempre appena lambita e, quando ci siamo avvicinate e avvicinati ad essa, abbiamo camminato “al limite boschivo” seguendo un sentiero che costeggiava la selva, quindi, senza mai inoltrarci in essa: ma questa situazione che stiamo descrivendo è metaforica ed è supportata anche dal fatto [e molte e molti di voi ve lo dovreste ricordare] che Al limite boschivo è il titolo di una raccolta di tre racconti, pubblicata nel 1969, scritti da Thomas Bernhard e uno di questi racconti [in qualità di veicolo letterario, di intreccio filologico] lo abbiamo letto in compagnia di Ildegarda di Bingen.

   Quest’anno, però, il sentiero che abbiamo cominciato a percorrere per dare inizio al nostro viaggio di studio ci porta dentro a una foresta e il senso metaforico della cosa parte da una significativa immagine [comparsa al termine del viaggio scorso, a giugno, un’immagine che abbiamo rafforzato leggendo, in partenza, due settimane fa “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono], un’immagine creata da Reginaldo da Piperno, il monaco domenicano, amico e segretario di Tommaso d’Aquino, colui che lo ha assistito materialmente e spiritualmente nel momento della morte avvenuta nell’abbazia di Fossanova (oggi in provincia di Latina) il 7 marzo del 1274. Come ben sapete Reginaldo - rispondendo a Tommaso che, in punto di morte, avrebbe voluto bruciare i suoi Libri - sostiene come lui, con la sua Opera [e noi abbiamo studiato le linee portanti del pensiero di Tommaso], abbia saputo piantare i semi raccolti e custoditi da tutte e tutti coloro che hanno operato durante l’inverno, la primavera e l’estate della Scolastica, in modo che è andata formandosi, allegoricamente, una “grande foresta”, e una foresta è un bene prezioso: tanto se si tratta di un bosco [una foresta naturale fatta di alberi] quanto se si tratta di una biblioteca [una foresta intellettuale fatta di libri], ed ecco perché abbiamo virtualmente cominciato a camminare su un sentiero che “s’inoltra nel bosco” e, siccome stiamo utilizzando un linguaggio di natura allegorica, Il sentiero nel bosco è anche il titolo di un romanzo che stiamo leggendo come veicolo utile per procedere, secondo la natura del nostro Percorso che è in funzione della didattica della lettura e della scrittura, su una strada che ci permetta di esercitarci ad “investire in intelligenza [a mettere in moto le azioni cognitive, le azioni dell’apprendimento]”.

   Prima di continuare a leggere questo romanzo esercitando l’azione dell’ “applicare” e prima di concludere l’ultimo atto del tradizionale “rituale della partenza, esercitando l’azione del “conoscere” e dell’ “analizzare” dobbiamo fare una riflessione che parte da una domanda: perché dobbiamo, almeno in questa prima parte del nostro viaggio, camminare dentro “la foresta” che, allegoricamente, ha piantato Tommaso d’Aquino [esercitando l’azione del “capire” e del “sintetizzare”]?

   Iniziamo il nostro viaggio camminando dentro la foresta che, allegoricamente, ha piantato Tommaso d’Aquino e questa “foresta”, in particolare, corrisponde virtualmente all’opera intitolata Summa theologica. La Summa theologica di Tommaso d’Aquino è un vasto trattato che analizza i temi più importanti proposti dal movimento della Scolastica dalle sue origini, dal IX al XIII secolo, ed è un’opera divisa in tre parti dove Tommaso riflette su tre temi fondamentali: sul tema dell’Esistenza [sulle possibilità e i limiti della Ragione umana, che corrisponde alla domanda: chi siamo?], sul tema dell’Essenza [sulla conoscenza dei fenomeni della Natura come rivelatori delle impronte di Dio creatore, che corrisponde alla domanda: da dove veniamo?] e il tema dell’Essere [su quale sia il Dio che si rivela, che corrisponde alla domanda: dove andiamo?]. Utilizziamo il termine “foresta”, così come ha fatto Reginaldo da Piperno, perché questo oggetto rappresenta al massimo grado le potenzialità della Natura e la riflessione sul tema dell’essenza della Natura è fondamentale nel pensiero di Tommaso.

   Nella Summa theologica Tommaso sostiene che tutti i fenomeni della Natura non sono altro che delle forze potenziali che si sono trasformate in realtà attuali, e perciò il Mondo creato rappresenta sotto forma di Atto tutto quello che Dio era una volta in Potenza. Quindi, Tommaso sostiene,  con la capacità che ha la Ragione secondo la Logica di Aristotele, che nella Natura deve manifestarsi l’Essenza di un Dio perché se si tiene conto del fatto che gli oggetti naturali, come possiamo constatare con la sperimentazione, perdono ciclicamente la loro Esistenza, come farebbe ad esserci la Natura senza un’Essenza che possa rappresentare un supporto durevole che solo un Dio che si manifesta e si rivela può garantire? Sulla scia di questo ragionamento, Tommaso si chiede: che cosa faceva la Potenza, cioè Dio, prima di mettere in Atto la Creazione? Dio, scrive Tommaso,  non poteva far altro che pensare Se stesso, e il fatto che Dio sia “Pensiero di Pensiero”, secondo l’ipotesi di Aristotele,  avviene perché “l’Essere di Dio è l’atto stesso della sua Esistenza [“Io sono colui che sono”, così dice di chiamarsi il Dio biblico a Mose nel Libro dell’Esodo]”, quindi, l’Essenza di Dio corrisponde al suo Essere, in quanto l’Essenza divina, scrive Tommaso parafrasando Aristotele, è necessariamente della stessa sostanza dell’Esistenza: che significato ha questa affermazione?

   Quando Dio ha creato, scrive Tommaso, è successo [deve essere successo] che il suo Pensiero si è orientato su “qualcosa di altro da Lui” e sono scaturite, scrive Tommaso pensando all’Uno di Plotino, sostanze che non possiedono la pienezza dell’Essere [che non hanno la trascendenza di Dio] ma sono “Essenze filtrate attraverso il Pensiero di Dio” per cui la Natura, il Mondo creato, ha un’Esistenza perché ha ricevuto l’Essenza da Dio; però, di conseguenza, nella Natura non c’è l’Essere di Dio, perché “Dio e Natura non possono essere la stessa cosa”, ribadisce Tommaso criticando i mistici-devozionisti che pensano di poter congiungere la propria anima all’Essere di Dio in questa vita: quindi, nella Natura c’è l’Essenza divina [per dirla con un’allegoria dantesca: se Dio fosse il gelsomino la Natura sarebbe il profumo del gelsomino, se Dio fosse il miele la Natura sarebbe la dolcezza del miele].

   Il ragionamento ontologico di Tommaso [e l’Ontologia, per Tommaso, è la disciplina che studia i principi e le cause prime in modo da tracciare una via che porti al principio assoluto e questa disciplina si esplicita studiando il rapporto che c’è tra l’Esistenza (la Ragione), l’Essenza (la Natura) e l’Essere (Dio)] ha preso il nome di “teologia naturale ”, come dire che nella Natura c’è l’Essenza di Dio e la Natura ce l’abbiamo a portata di mano. La “teologia naturale” è diventata la disciplina che - con il supporto della Ragione [la filosofia razionale] e dell’interpretazione della Sacra Scrittura [la teologia rivelata] - studia la Natura in quanto contenitore dell’Essenza di Dio.

   E ora possiamo fare una riflessione per interpretare la metafora legata al termine “foresta”: prima del pensiero di Tommaso [della “teologia naturale”], la Scolastica utilizzava la dialettica per occuparsi quasi esclusivamente di metafisica [dominava il pensiero di Platone e anche il pensiero di Aristotele era interpretato in chiave platonica]: cioè per conoscere il Mondo la persona deve utilizzare le Idee che sono state insufflate da Dio nella sua mente, e per questo lo sguardo è rivolto verso il cielo e, per vedere il cielo, è necessario che l’orizzonte sia sgombro e l’ambiente più idoneo in proposito è la radura, uno spazio aperto, mentre con la “teologia naturale” di Tommaso la Scolastica rivaluta l’originale pensiero fisico e metafisico di Aristotele [si parla di “trionfo di Aristotele”]. Gli intellettuali cominciano a studiare la Natura in quanto contenitore dell’Essenza di Dio e si utilizza la dialettica per spiegare i fenomeni naturali, perché in Natura c’è in atto la traccia della potenza di Dio, tenendo conto che le idee, nella mente di ogni persona, vengono elaborate dall’intelletto in base alla forma che hanno le cose e, quindi, si guarda in basso, e l’ambiente più idoneo per sperimentare è la foresta, che rappresenta l’osservatorio privilegiato dove la varietà dei segni lasciati dalla potenza di Dio è grande e le cime degli alberi impediscono all’osservatore di distrarsi a guardare il cielo che è troppo lontano, muto e imperscrutabile. Ecco, quindi, che abbiamo dato un senso alla metafora legata alla parola “foresta”, e questo termine così evocativo non può che indirizzarci [prima di raggiungere Oxford] verso una meta da raggiungere con un’escursione: la Foresta di Sasso Fratino.

   La “Riserva naturale integrale di Sasso Fratino” si trova nel cuore del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, del Monte Falterona e di Campigna, ed è la prima riserva naturale integrale istituita in Italia nel 1959 e si estende per 764 ettari di superficie sul crinale appenninico compreso tra la provincia di Arezzo e quella di Forlì nel territorio compreso fra l’Eremo di Camaldoli e quello dei comuni di Bagno di Romagna e Santa Sofia. La Riserva integrale di Sasso Fratino è stata insignita nel 1985 del Diploma europeo delle aree protette ed è stata istituita allo scopo di conservare uno dei pochi ambienti boschivi giunto a noi quasi intatto grazie alla presenza di aspri pendii rocciosi e alla mancanza di vie d’accesso se non percorribili a piedi, ed è, di conseguenza, un’area recintata e possono entrare nello spazio della riserva integrale solo le studiose e gli studiosi che, una volta all’anno con un permesso speciale, devono monitorare lo spontaneo comportamento di una foresta. Anche se non si può entrare nell’area protetta e interdetta a qualsiasi forma di contaminazione umana ci si trova all’interno del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi e si può godere di tutta la bellezza di questo territorio.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Toscana e navigando in rete [ci sono una serie di siti interessanti in proposito] fate un’escursione nella “Riserva integrale di Sasso Fratino” tenendo conto che questa foresta non è lontana da qui e merita, periodicamente [una volta per stagione], di essere visitata…

 

   E ora, tenendo a mente il concetto di “teologia naturale” di Tommaso, siccome abbiamo a che fare con un bosco che non è recintato e quindi [sempre rimanendo sul terreno delle allegorie] possiamo liberamente imboccare il sentiero che lo attraversa, continuiamo a leggere il romanzo di Adalbert Stifter intitolato Il sentiero nel bosco. La scorsa settimana abbiamo rincontrato lo scrittore Adalbert Stifter che è nato il 23 ottobre 1805 e quindi noi, leggendo Il sentiero nel bosco, festeggiamo anche i suoi 210 anni. Otto giorni fa abbiamo fatto conoscenza con il protagonista di questo racconto pubblicato nel 1845, 170 anni fa: il signor Theodor che però tutti chiamano in modo un po’ canzonatorio Tiburius.

   Il signor Tiburius eredita una fortuna dai suoi genitori e da suo zio e comincia a spendere per accumulare molte cose e, sebbene l’accumulo dei “beni”, in un primo momento, risulti per lui un’esperienza gratificante, tuttavia il cercare di realizzare la propria felicità isolandosi dal mondo e ammassando oggetti finisce “per togliergli la pace” scrive Adalbert Stifter,  e difatti la sua esistenza diventa piuttosto travagliata per cui nel suo animo si annida il malumore, l’abbattimento, lo sconforto, e finisce per ammalarsi di ipocondria e si mette a studiare medicina non per curarsi e per guarire ma per essere certo di identificare i sintomi di tutti i mali di cui vorrebbe soffrire, finché incontra un medico non più praticante, suo vicino di casa, tutto dedito ad attività orientate verso uno stile di vita naturista [diremmo oggi] - un personaggio, trasferitosi con la moglie in campagna dalla città, che tutti, in paese, considerano bizzarro e anche un po’ matto - che Tiburius comincia a frequentare [“Tra matti si capiscono”, dice la gente] finché un giorno l’amico medico lo invita a curarsi della malattia che riscontra in lui ma della quale non gli rivela il nome consigliandogli due cose: di sposarsi e di andare alle terme dove potrebbe trovar moglie. Tiburius comincia a riflettere ma, mentre per quanto riguarda il matrimonio è piuttosto dubbioso, invece l’idea di curarsi alle terme lo solletica e allora decide di andare in una stazione termale montana e noi lo seguiamo in questa avventura leggendo.

 

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Il sentiero nel bosco

«Quel matto di un dottore ha ragione,» disse tra sé il signor Tiburio, una volta in carrozza «ha ragione non certo riguardo al matrimonioquelle sono pazzie belle e buonema le terme, le terme! È l’unica cosa che ancora non mi sia venuta in menteè incomprensibile come io abbia fatto a non pensarci. Consulterò subito tutti i libri relativi alle cure termali, e cercherò di scoprire quale località del nostro continente possa prendersi in considerazione nel mio caso per passar le acque».

E durante l’intero tragitto continuò a rimuginare quel pensiero. Il dottore aveva scosso nel profondo il signor Tiburius. Persino la prospettiva di sposarsi doveva averlo sfiorato, perché con una forbice si era accorciato di un bel pezzo la barba, che era lunga e gli copriva tutte le guance, poi aveva lavorato di fino, passando e ripassando il rasoio, e quindi aveva preso a esaminarsi allo specchio.  «No, no,» era sbottato «non se ne parla proprio, è una cosa assolutamente senza senso, impossibile».  Tuttavia, quella sera stessa, mandò a prendere in città un’ottima polvere dentifricia, perché davanti allo specchio si era accorto di aver particolarmente trascurato i propri denti.

Quanto alle terme, già la mattina dopo, di buon’ora, principiò ad affrontare assai seriamente la questione. Scrisse in città per procurarsi tutti i libri sull’argomento, onde trarne notizie sulla località in cui recarsi, e provvedere poi, in un secondo tempo, alle altre faccende. A tal punto era però conquistato dall’idea delle terme che non adottò il metodo, a lui sino allora familiare, di leggere prima tutti i possibili testi in merito - il che d’altronde avrebbe comportato la rinuncia, per quell’estate, a ogni cura termale -, ma si decise subito, di fatto, per la località consigliata dal dottore. La prima cosa che fece fu dar disposizione che si tenesse pronta alla partenza la carrozza da viaggio. A quell’ordine i domestici trasalirono, ma prestarono obbedienza. In tutta la sua vita mai il signor Tiburius aveva avuto bisogno della carrozza da viaggio, e infatti più che dalla tenuta alla città, mai si era spinto oltre. I famigli, pertanto, pensarono a quel punto che fosse ammattito del tutto, oppure che fosse in procinto di riprendersi. Tirarono fuori la carrozza dalla rimessa dove era rinchiusa dacché il signor Tiburius l’aveva fatta costruire, la portarono nella corte, verificarono che ogni parte fosse in buono stato e la fornirono di tutte quelle cose che possono tornare utili, strada facendo, a un viaggiatore della razza del signor Tiburius. Il quale signor Tiburius si fece procurare tutti i libri esistenti su quella specifica località termale, onde portarli con sé e leggerli sul posto. Su un foglio segnò poi di suo pugno quel che intendeva affidare ai servitori - fra le altre cose i cavalli roani e il calesse, cui toccava arrivare per primi a destinazione, di modo che egli potesse subito disporne. Infine si dedicò alla scelta di un guardaroba acconcio, di cuscini e di altre suppellettili. Sbrigò ogni faccenda con una certa qual destrezza.

Trascorso così un certo tempo il signor Tiburius partì con la sua carrozza da viaggio, verso lidi forestieri, tra lo stupore generale.

Non mi è consentito dilungarmi nella descrizione del suo viaggio, perché ciò non avrebbe alcuna intrinseca attinenza con lo scopo di queste righe, tuttavia, il pomeriggio del terzo giorno di cammino, nella morsa di un’indicibile calura estiva, il signor Tiburius percorse una lunga e angusta valletta alpina, incontro a un bel torrente scrosciante di acque verdi e limpide. Quando la valle si aprì, si vide montare da un’ampia costruzione uno sbuffo bianco di vapore: rivolto al signor Tiburius il domestico disse trattarsi del vapore emanato dall’acqua salsa, fatta bollire in quello stabilimento, e che la meta del loro viaggio era ormai prossima. Subito dopo queste parole il signor Tiburius si trovò a passare, nella sua carrozza chiusa da ogni lato, per le stradine della località termale. Un silenzio perfetto vi regnava, dovuto alla canicola: nessuno per strada, gelosie e cortine chiuse. Tutt’al più da uno spiraglio, o dalle pieghe di una tenda, sbirciavano due occhi, per vedere chi fosse mai il nuovo venuto.

Il signor Tiburius si fece condurre davanti alla locanda dove, in seguito a uno scritto del domestico, gli era stata riservata una stanzetta. Sceso dalla carrozza, fu accompagnato in quella stanzetta, e lì si sedette davanti a un tavolino verniciato di giallo. I domestici, intanto, insieme alla servitù della locanda, erano intenti a scaricare e a portare di sopra quanto la carrozza aveva accolto.

Ora il signor Tiburius poteva dire, con sollievo, di essere arrivato. L’uscita canzonatoria del piccolo dottore non era rimasta lettera morta. La servitù aveva riempito quasi per intero la stanza con le cose trovate nella carrozza. Dalle assicelle verdi delle persiane occhieggiavano i fianchi delle montagne velati da lievi vapori: il signor Tiburius, come inebriato, riordinava le sue impressioni di viaggio. Ecco di nuovo i campi sterminati, e i prati, e gli orti attraverso cui era passato, e le case, e i campanili che gli erano sfilati accanto; ecco appressarsi le montagne, e un lago oblungo, smeraldino, oltrepassato in carrozza, ondeggiargli nella memoria, così come il torrente rapinoso nella valle, e lo spaventevole scintillio del sole su ogni monte   Eppure il signor Tiburius non poteva abbandonarsi troppo a simili pensieri, perché in quel momento vi erano cose ben altrimenti necessarie: bisognava ad esempio predisporre l’alloggio in modo confacente a un malato della sua specie, chiamare senza indugi il medico termale per farne la conoscenza, concordare la terapia e subito iniziare a metterla in pratica.

Innanzitutto fu necessario portare un altro tavolo, più grande, su cui il signor Tiburius accatastò i libri che il domestico andava estraendo dalle casse, per poter, alla prima occasione, tagliarne le pagine e cominciarne la lettura. Bisognò poi montare il letto - trasportato al seguito nei suoi singoli pezzi - in una stanzetta attigua, ancora più angusta. L’intelaiatura di acciaio fu ricomposta nell’angolo più protetto dalle correnti d’aria. Disseminato intorno, vi era un tal numero di portamantelli, bauli e cofani di cuoio, che il padrone della locanda dovette far portare un altro armadio per riporvi biancheria, abiti e zimarre.

Quando tutto fu in ordine, il signor Tiburius mandò a chiamare il medico termale. Non doveva procrastinare l’incombenza, né si poteva mai sapere se tutto lo scompiglio arrecategli dal lungo viaggio non avesse a cagionargli qualche brutto malanno.

Il medico non era in casa, né fu possibile trovarlo. Al signor Tiburius toccò aspettare fino a tardi. Rimase in camera sua e aspettò. La sera il medico comparve e i due uomini si intrattennero per più di un’ora e misero a punto le linee essenziali della terapia.

Il giorno seguente, di buon mattino, il signor Tiburius già era intento a dar seguito a quel piano. In un lungo giubbone grigio, tutto abbottonato, fu visto avviarsi verso lo stabilimento termale e scomparirvi dentro. Lì fece il primo bagno. Più tardi lo si poté vedere anche dove gli ospiti bevevano siero di latte, prendevano il sole, o passeggiavano un poco avanti e indietro. Ogni giorno faceva lo stesso, recandosi coscienziosamente nei luoghi in cui lo chiamavano gli impegni. Per fare moto, visto che il medico gli aveva prescritto di camminare, aveva escogitato un suo peculiare sistema. Percorreva, in calesse, un tratto della strada che si inoltrava fra i monti, sino a raggiungere un grande masso che aveva scoperto dal primo giorno. Accanto a quel masso c’era uno spiazzo piuttosto ampio di terra asciutta e finemente ghiaiosa, molto compatta. Lì scendeva e camminava avanti e indietro, l’orologio alla mano, giusto il tempo stabilito per il moto, dopo di che rimontava nel calesse e andava a casa.

La stagione termale, in realtà, era già piuttosto avanzata, ma, essendo in quelle valli alpine gli ultimi mesi estivi i più caldi e i più secchi, ancora vi soggiornava un pubblico numeroso, scelto e distinto. Tra cui non poche graziosissime fanciulle. Il signor Tiburius, che a volte non poteva fare a meno di vederne qualcuna, ricordava di sfuggita l’accenno del dottore al matrimonio, ma, convinto che questi avesse celiato, voleva occuparsi solo di quanto era strettamente necessario alla salute e, pur attenendosi minuziosamente alle prescrizioni del medico termale, si sottopose a qualche cura supplementare, che aveva dedotto dai suoi tomi e si era prescritta da sé. Alla base della finestra aveva inoltre fissato un cannocchiale, con cui rimirava spesso le bizzarre montagne lì intorno, che elevavano alte le loro cime dirupate.

Singolare era il fatto che persino in quel luogo così remoto, e in un breve volgere di tempo dalla venuta del signor Tiburius, il nome Tiburius fosse sulla bocca di tutti, benché nel registro degli ospiti si leggesse «Theodor» e nessuno lo conoscesse. Erano stati, probabilmente, i suoi domestici a chiamarlo di nascosto a quel modo.

Le terme erano ritrovo di famiglie e gente di ogni sorta. C’era un vecchio conte dall’incedere sbilenco: lo si incontrava dappertutto, e nel suo viso segnato dal tempo balenava come un riflesso della grande bellezza della figlia, che lo accompagnava ovunque con pazienza e tranquilla gli camminava al fianco. In una carrozza, tirata da due focosi morelli, si dilettavano ad andare intorno due belle e giovani figliole, dagli occhi ancora più focosi dei morelli, e dalle guance vermiglie, incorniciate d’abitudine da fluttuanti veli verdi. La loro madre, in cura alle terme, era donna ancor bella, e sedeva adagiata in carrozza, avvolta in un sontuoso scialle. Dietro le numerose finestre di una casa risuonavano, nitide e incessanti, le note di un pianoforte, e si vedevano passare veloci, o sporgersi a guardare, teste ricciute di giovani e fanciulle. C’erano poi dei vecchi solitari, venuti in cerca di salute, senza altra compagnia se non quella di un domestico; e alcuni scapoloni che, ben oltre la primavera della vita, andavano intorno privi di consorte. Né mancavano i piccoli paesani dalle belle gote rubiconde, che accompagnavano chi un padre malato, chi la madre, chi una benefattrice; per non parlare, poi, dei numerosi altri ospiti, i quali venivano ogni anno, deliziati dalle bellezze del luogo, o soltanto in ossequio alla moda, e che, volendo primeggiare sempre, attaccavano discorso con i nuovi venuti e con i timidi, riportandone un senso di trionfo. In mezzo a questa gente Tiburius conduceva imperterrito la sua esistenza ombrosa. Non si univa mai agli altri e, se gli capitava di incontrarne più d’uno durante le passeggiate prescrittegli dal medico, preferiva girare alla larga per scansarli. Era oggetto di chiacchiere: la sua stravaganza non passava certo inosservata, e nondimeno ignorava che la gente parlasse di lui e quale nome gli affibbiasse. Nel turbine inesausto di arrivi e di partenze, restava sempre al posto suo: numerosi furono, in effetti, in quel periodo i nuovi arrivi, mentre gli altri già prendevano congedo. Ci è impossibile dire quale profitto il signor Tiburius traesse dalla frequentazione delle terme, perché era il primo a non accennarvi con nessuno, pur continuando a fare bagni, e ancora bagni. Ogni volta che il medico gli domandava come stesse rispondeva che le cose seguivano il loro corso, e noi alla fine saremmo forse stati in grado di riferire con precisione sul buon esito della cura, se non fosse occorso quel caso che, sovvertendo tutto, rese impossibile tener conto delle cause concomitanti.

 

   Quale caso è occorso al signor Tiburius che ha sovvertito l’andamento della sua vita: quale avvenimento ha trasformato il suo “modo di essere” costringendolo a riflettere sul significato della sua esistenza?

   Con la comparsa del “tema dell’Essere” - prima di andare ad indagare su cosa è successo al signor Tiburius - possiamo finalmente concludere la celebrazione del tradizionale “rituale della partenza” osservando e riflettendo sui risultati del terzo riquadro del questionario di fine anno.

   La terza questione posta dal tradizionale “questionario” di fine anno chiedeva un’opinione sul concetto di “essenza” e la domanda era così formulata: «Riguardo al tema dell’essenza quali caratteristiche vuoi attribuire all’Essere?» e per rispondere a questo interrogativo si doveva scegliere su un catalogo di sedici parole. Prima di osservare i risultati dobbiamo fare un preambolo: dobbiamo rivelare che nel modo in cui è stata posta la domanda c’erano volutamente due “aporie” cioè due elementi contraddittori [in greco la parola “aporia” letteralmente significa “incertezza” che sul piano culturale viene a significare “contraddizione intellettuale che fa nascere il dubbio e spinge a creare un’antitesi ad una tesi perché prenda forma una sintesi che metta in discussione la presunta veridicità della tesi”, quindi “l’aporia” è uno degli elementi fondamentali del sistema dialettico].

   La prima di queste “aporie” sta nel fatto che il terzo riquadro del questionario è stato confezionato con una omissione necessaria [la domanda non vi ha messe e non vi ha messi al corrente di una cosa] proprio per liberarvi da ogni condizionamento in modo da rendere libera la vostra scelta e per poter spiegare, come stiamo facendo ora, il funzionamento della “dialettica scolastica [secondo l’ottica di Abelardo (ve lo ricordate?) e poi di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino che ci sta ancora accompagnando]” perché “l’arte dialettica” può funzionare solo attraverso il motore della contraddizione: quindi, la domanda era formulata in modo “ambiguo [aporetico, dialettico]” proprio nel senso positivo del termine [dobbiamo ricordarci che la “dialettica” è quella disciplina che mette un’antitesi davanti ad una tesi per trovare una sintesi che, a sua volta, è una tesi alla quale si contrappone un’antitesi e così via] e, di conseguenza, le sedici parole del catalogo sono state elencate in modo sparpagliato mentre corrispondono a otto coppie di termini contrapposti e questo voi [sebbene siate a conoscenza del loro significato] non lo dovevate sapere per non frenare la dinamica della contraddizione che governa il processo dialettico [dovevamo essere noi, con le nostre scelte “aporetiche ” (contraddittorie) a costruire l’elenco delle tesi con le rispettive antitesi perché se eliminiamo i contrasti non ci sono più i colori, se eliminiamo le opposizioni non c’è più la democrazia, se togliamo le antinomie si spegne la vitalità intellettuale].

   Le otto coppie di parole in contraddizione tra loro [secondo la mentalità delle varie correnti della Filosofia scolastica] sono: spirituale-materiale, intellettuale-naturale, unico-molteplice, ideale-personale, divino-illusorio, necessario-casuale, trascendente-immanente, individuale-nulla. Nella scelta delle parole [la domanda chiedeva di sceglierne non più di tre] è successo che più dei quattro quinti di noi [meno un piccolo gruppo di persone che ha scelto un termine solo o due termini] si è contraddetto: ha formulato inconsapevolmente “un’aporia” che, proprio in quanto tale, è andata a costituire un elemento utile per dare un senso alla questione presa in esame.

   Il secondo “aspetto aporetico ” [contraddittorio] che non era volutamente specificato [per non condizionare la libera scelta di ciascuna e di ciascuno] riguarda il fatto che si chiedeva di attribuire dei caratteri all’Essere [con la E maiuscola] come se fosse un principio al di sopra di noi, al di fuori della natura umana, ma come ci ha insegnato Il libro dei ventiquattro filosofi - che abbiamo letto durante l’ultima Lezione [conviviale] dello scorso anno scolastico – quando ragioniamo per dare, con le parole, una forma a “l’Essere superiore [a Dio]”, noi non facciamo altro che catalogare dei termini che sono utili prima di tutto per definire “l’Essere umano al massimo delle sue possibilità”: quindi, le parole che in ciascuna delle otto coppie sono state scelte di più costituiscono “l’insieme delle tesi” che, secondo noi, equivale all’elenco delle parole che servono ad esprimere “l’essenza dell’Essere umano”, che formano l’elenco delle parole che secondo noi contiene “i migliori attributi della persona”.

   E ora passiamo ad osservare il riquadro che contiene i risultati della nostra indagine: la colonna di sinistra riporta l’insieme delle otto parole, delle tesi, che secondo noi servono ad esprimere “l’essenza dell’Essere umano”.

 

        spirituale           materiale

          intellettuale          naturale

           unico                           molteplice

             ideale                             personale

              necessario             casuale

                       trascendente      immanente

                    individuale           nulla

                           divino                       illusorio

 

   Il termine più scelto è “spirituale”, seguito dai termini “intellettuale e unico” e, a scalare, dai termini “ideale, necessario e trascendente” e poi, con meno consensi, le parole “individuale e divino”. L’elenco di queste otto parole [la colonna di sinistra] rappresenta “l’insieme delle tesi” che secondo noi serve a rappresentare “l’essenza dell’Essere umano”.

   Mentre la colonna di destra contiene i termini che stanno in antitesi alle parole che rappresentano le tesi, quindi abbiamo: il termine “materiale in antitesi con spirituale”, il termine “naturale in antitesi con intellettuale”, il termine “molteplice in antitesi con unico”, il termine “personale in antitesi con ideale”, il termine “casuale in antitesi con necessario”, il termine “immanente in antitesi con trascendente”, il termine “nulla in antitesi con individuale” e il termine “illusorio in antitesi con divino” e, secondo l’arte dialettica, senza la sua antitesi una tesi non ha alcun significato.

   Che cosa salta all’occhio nell’intero riquadro? Due cose dobbiamo notare: la prima riguarda la netta differenza di consensi tra le parole che costituiscono l’insieme delle tesi [la colonna di sinistra] e i termini che rappresentano l’insieme dell’antitesi [la colonna di destra] e questo significa che siamo state e siamo stati coerenti nell’utilizzare il sistema della dialettica per far risaltare nettamente un quadro che contiene un’opinione ben delineata sulle “qualità dell’Essere” intese come le “migliori doti su cui la persona può contare per dare un significato alla sua Essenza”. La seconda cosa che dobbiamo notare è ancora più interessante perché nell’insieme delle antitesi [nella colonna di destra] la parola che ha avuto più consensi è il termine “naturale” che fa da antitesi è al termine “intellettuale”, e questa coppia di parole dialetticamente contrapposte [intellettuale-naturale] è quella che avuto il maggior numero di consensi e che costituisce il vero e proprio punto di partenza reale del nostro viaggio di studio perché ci stiamo avvicinando ad un paesaggio intellettuale dove è in evidenza “il complesso rapporto tra cultura e natura”.          

   Il questionario di arrivo è stato davvero chiaroveggente: i risultati - soprattutto la scelta della coppia “intellettuale-naturale” nella quale si rispecchia la metafora della “foresta” - indicano la direzione da prendere e, con questa considerazione, si conclude “il tradizionale rituale della partenza”. Dopo aver osservato l’insieme delle tesi e delle antitesi concludiamo con una sintesi per dare una risposta alla domanda contenuta nel terzo riquadro del questionario: «Riguardo al tema dell’essenza quali caratteristiche vogliamo attribuire all’Essere?», ebbene, noi vorremmo che l’Essenza umana fosse: “spirituale, intellettuale, naturale e unica”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Scrivete accanto a ciascuna di queste parole - spirituale, intellettuale, naturale, unico - il nome di un oggetto che ne richiami la concretezza...

Esercitatevi a dare un ‘esistenza all’essenza...

 

   E ora vediamo come il signor Tiburius si mette in movimento su un sentiero che lo porta a dare un’essenza alla sua esistenza.

 

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Il sentiero nel bosco

Abbiamo già detto in precedenza che Tiburius, per fare moto, si spingeva sempre piuttosto lontano con la carrozza, e passeggiava avanti e indietro nei pressi di un masso isolato. Nel suo zelo, l’aveva già fatto molte volte. Era trascorso ormai parecchio tempo da che era arrivato, quando un giorno - il cielo si librava sopra la valle, turchino e liscio come l’acciaio - proseguì ben oltre l’ordinario, visto che l’ora gli era tanto propizia. Già scorgeva monti del tutto sconosciuti; e cupi abeti e faggi luminosi quasi sfioravano la carrozza. Non è dato sapere se la sua sensibilità alla benefica azione del giorno fosse già una conseguenza della cura, o se fosse invece la straordinaria soavità dell’aria festosa e chiara. La sua carrozza accostava una radura asciutta e soleggiata, di terra di brughiera, che digradava verso il bosco silente.

A quella vista il signor Tiburius sentì il desiderio di scendere, per camminare un poco e godere dei miti raggi del sole che cadevano a perpendicolo. «Farò un po’ di moto qui, e non accanto al masso,» disse al domestico e al cocchiere «voi aspettate, senza muovervi».   Ciò detto, si sfilò il giubbone, lo gettò in fondo alla carrozza e si incamminò verso lo spiazzo di terra asciutta ai margini del bosco. Tiburius non aveva mai visto un bosco dall’interno. Al suo paese c’erano solo delle alberete basse, dove peraltro non si era mai addentrato: ora si trovava pressoché in una foresta. Tutto gli piaceva a dismisura. Intorno, con sua grande soddisfazione, non si scorgeva né sentiva anima viva. Un radura si dipartiva dalla strada e si incuneava in profondità nel paesaggio. Una volta che l’ebbe percorsa tutta nel senso della lunghezza, il signor Tiburius si avvide che più in là vi era una radura ancora più bella. A sinistra si ergeva una parete rocciosa, di altezza considerevole, a destra, a una certa distanza, svettavano alberi di alto fusto, mentre sul davanti lo spiazzo era chiuso da un fitto intrico verde. Il silenzio, qui, era ancora più profondo, e il tepore meridiano ruscellava così dolcemente lungo la parete rocciosa, che pareva quasi di sentirne il fruscio. L’organismo ne avvertiva gran giovamento, perché si era ormai in autunno inoltrato, e a sprazzi le fronde degli alberi volgevano al giallo. 

Il signor Tiburius decise subito di proseguire fino alla radura, in tal modo, pensava, avrebbe sì camminato un po’ più a lungo in una sola direzione, ma nel complesso avrebbe fatto il moto che gli era stato prescritto, come se fosse andato avanti e indietro. E quando si trovò quasi al centro dello spiazzo or ora scoperto si sentì di un umore assai lieto. Tutto quello che vedeva intorno gli riusciva nuovo, e gli piaceva. Mai avrebbe immaginato di poter essere così felice in un bosco. A sinistra, addossati alla parete rocciosa, c’erano numerosi massi che da quella si erano staccati: bianchi, gialli, bruni e d’ogni sorta ancora. Nel mezzo, cespugli color ruggine, e, nel folto, alcuni fusti isolati. A volte una farfalla si posava su una pietra e dispiegava, beandosi al sole, le ali cangianti. A volte invece, silenziosa nell’aria silente, un’altra gli passava accanto. Il signor Tiburius avvertì inoltre aleggiare intorno a lui un assai gradevole profumo.

Continuò a camminare. Dopo un po’ giunse presso un gruppo di tronchi mozzi, da cui colava resina. Non aveva mai visto nulla di simile, e si fermò. L’umore trasparente stillava copioso dalla corteccia, in pieno sole, e le gocce parevano oro liquefatto, racchiuso in una pellicola. Riprese quindi il cammino. Si imbatté in una schiera di genziane di un blu meraviglioso, le contemplò e ne raccolse persino qualcuna.

Infine era arrivato quasi in fondo alla radura prescelta per la passeggiata. Oltre la radura gli alberi, assai numerosi, erano piuttosto distanziati l’uno dall’altro. Tiburius si fermò un attimo per guardarsi intorno e riflettere se procedere o meno. Un piccolo ruscello, nello splendore meridiano, correva inascoltato verso gli abeti. Decise quindi di andare oltre, tanto più che la parete rocciosa proseguiva, separata da lui inizialmente da un solo faggio, e poi da pochi altri ancora. E c’era anche un sentiero di terra nera, ben battuto, che si addentrava in mezzo agli alberi. Quando Tiburius vi mise piede, non poté non pensare a quel pazzo del piccolo dottore, che un terriccio così per i suoi rododendri e la sua erica doveva ricavarlo dalla combustione di sostanze diverse, mentre lì si trovava già in natura; senza contare poi che in quel luogo, ai piedi degli alberi, vedeva fiorire un’erica molto più bella di quella coltivata dal dottore nei suoi vasi. Si ripromise di parlargliene, una volta tornato a casa.

Tiburius continuava a seguire quel sentiero bordato dalle più svariate piante. A volte si assiepava accanto a lui il mirtillo di palude, simile a rosso corallo, altrove erano i cespugli di ribes a protendere i rami dalle foglioline lucenti, entro cui erano racchiusi mazzetti non dissimili di piccole sfere scarlatte. Gli alberi si facevano sempre più cupi, di tanto in tanto il tronco di una betulla tracciava una linea di luce in mezzo a loro. Il sentiero non variava mai, i luoghi cui conduceva erano simili a quelli che restavano alle spalle. Ma a poco a poco le cose mutarono, i tronchi si infittirono, si fecero sempre più scuri, e pareva che dai loro rami spirasse un’aria più cruda. Fu per il signor Tiburius un monito a tornare. Trasse di tasca l’orologio e si avvide di aver camminato più di quanto pensasse e di aver fatto, tenuto conto della strada del ritorno, più moto dell’ordinario. Si volse, quindi, e riprese il sentiero in direzione opposta. Ora andava a passo spedito, senza più voglia di osservare quanto gli stava intorno: dacché aveva guardato l’orologio, gli premeva soltanto di raggiungere al più presto la carrozza. Procedeva lungo il sentiero, che era sempre della stessa terra nera e sempre si snodava ai margini del bosco, come quando lo aveva percorso in senso inverso. Ma, dopo un buon tratto di cammino, notò di non avere ancora raggiunto la parete rocciosa. All’andata era alla sua sinistra, di conseguenza, una volta invertita la marcia, avrebbe dovuto comparirgli sulla destra: eppure non compariva. Il signor Tiburius pensò che forse era stato troppo assorto nei suoi pensieri e che il cammino era più lungo di quanto ora stimasse; per questo non si spazientì e continuò a procedere, affrettando ancora il passo. La parete rocciosa, però, non compariva. Fu colto allora dall’angoscia. Non capiva come potessero esservi tanti alberi sulla via del ritorno. Accelerò ancora il passo, e alla fine prese a marciare di gran carriera pensando che a quel punto avrebbe dovuto essere arrivato alla carrozza già da un pezzo. Ma la parete non compariva, e gli alberi non avevano fine: erano tutti faggi, molto più numerosi, però, di quanti ne avesse visti all’andata, anzi, sembrava che continuassero ad aumentare di numero. Tiburius fece allora quello che non aveva più fatto dall’infanzia: si mise a correre, e corse a perdifiato, poi si fermò, e gridò con ogni forza e capacità dei suoi polmoni, nella speranza che i domestici lo sentissero e gli rispondessero. Gridò più volte di seguito, interponendo lunghe pause di attesa. Ma non ricevette risposta alcuna di rimando, il bosco intero era silente, non si muoveva neanche la minima fronda. Pensò allora che forse la direzione in cui si era messo a correre, più che avvicinarlo, lo aveva allontanato dalla strada in cui lo aspettava la carrozza; inavvertitamente poteva essere tornato sui propri passi durante le sue reiterate ricerche. Si decise perciò a rifare di corsa la medesima strada. Corse fino a che, madido di sudore, non era più neanche in grado di dire se a circondarlo fossero le stesse cose già viste poco prima. Qui però, a paragone dei luoghi attraversati, il mutamento era radicale e ad attorniarlo erano cose mai viste: al posto dei faggi c’erano ora degli abeti i cui tronchi svettavano sempre più alti e selvaggi. Il sole volgeva all’occidente, era ormai pomeriggio e il signor Tiburius non poté più nascondersi di essere finito in mezzo a una foresta, e chissà poi quanto grande. Mai si era trovato nella condizione di doversi cavare da un simile impiccio, e il suo sconcerto era notevole. Senza tralasciare, poi, che addosso aveva soltanto una giacchetta leggera, essendo il suo giubbone rimasto nella carrozza; né poteva sedersi a riposare, per quanto invitanti fossero le pietre intorno, perché rischiava un’infreddatura; e, per finire, aveva lasciato a casa la scatolina con le medicine da prendere quel pomeriggio. Una cosa vide giusto: in un simile frangente era indispensabile proseguire lungo il sentiero sempre nella stessa direzione, anziché continuare a correre avanti e indietro; da qualche parte quel sentiero, essendo così battuto, doveva pur portare. Che almeno ci fosse, era una vera fortuna: quale sciagura sarebbe stata ritrovarsi, in quella condizione, in mezzo a una foresta impervia!

Il signor Tiburius decise quindi di proseguire il cammino nella direzione or ora presa.

Si abbottonò con cura la giacca, ne rialzò il bavero sino a farlo aderire bene al viso e si mise in marcia a passo spedito.

 

   Il signor Tiburius si sta avventurando in una foresta, e anche noi, metaforicamente, abbiamo preso il passo camminando su un sentiero che attraversa una foresta di alberi per dirigerci verso una foresta di libri: vale a dire, verso la biblioteca dell’Università di Oxford [passiamo quindi da una foresta naturale ad una foresta intellettuale].

   Il signor Tiburius è alle prese con la Selva Boema o con quella Bavarese mentre noi siamo nella foresta di Sherwood, ed è proprio Robin Hood a indicarci la strada e non è casuale il fatto che nella sua banda, dove si ruba ai ricchi per dare ai poveri, ci sia anche un frate francescano perché in Inghilterra, dall’inizio del XIII secolo, sono sbarcati i francescani di una particolare corrente e si sono infiltrati bonariamente in tutti i luoghi che contano intellettualmente: dai testi delle ballate su Robin Hood all’Università di Oxford. Ma procediamo con ordine, e per procedere con ordine dobbiamo tirare in ballo gli “ordini”, i due più importanti ordini del momento. E, allora, cominciamo ad allungare il passo.

   All’inizio del XIII secolo, come sappiamo, consolidano la loro struttura i due più importanti ordini religiosi del momento: quello fondato da Francesco d’Assisi e quello fondato da Domenico di Guzman, i francescani e i domenicani. Dal viaggio dello scorso anno sappiamo anche  che questi due ordini si dividono quasi subito in diverse correnti in antagonismo tra loro.

   Ai domenicani i papi, a cominciare da papa Gregorio IX, hanno dato in gestione il tribunale della Santa Inquisizione sulla scia della crociata contro i Catari, e questo fatto ha provocato la divisione nell’ordine perché una buona metà dei “compagni di Domenico” ritiene che le eresie si debbano contrastare non con i tribunali e tanto meno con gli eserciti ma con la predicazione: nasce, quindi, la corrente dei “pacifici predicatori [secondo il pensiero di Domenico di Guzman]” che sono dediti allo studio, fondano Scuole e danno una grande importanza all’autonomia della Ragione [Tommaso d’Aquino, che ci accompagna, appartiene a questa corrente] per cui la tradizione intellettuale domenicana, nella sua forma tomistica di carattere aristotelico, diventa un grande evento umanistico, la cui fecondità germoglierà nel tempo [sappiamo che per cinquant’anni il pensiero di Tommaso viene perseguitato dai vari poteri, sia da quello feudale che da quello ecclesiastico].

   Anche i francescani si dividono quando la corrente detta “conventuale” contesta il fatto che un consistente numero di confratelli si dedichino allo studio ed insegnino a Parigi durante la più feconda stagione della Scolastica. I francescani “conventuali” iniziano una polemica anticulturale utilizzando lo slogan: «Parisi, Parisi, tu ne hai distrutto Assisi» a richiamare l’insegnamento del Poverello fondatore [ma Francesco d’Assisi - e in seguito Bonaventura da Bagnoregio - dava della matrigna all’ignoranza e della sorella alla semplicità ma tra ignoranza e semplicità c’è una bella differenza]. I francescani “conventuali” contestano l’autonomia della Ragione, esaltano il primato della Fede e scelgono di coltivare la “filosofia del cuore” basata su una religiosità di tipo sentimentale rigettando la dimensione razionale in nome della devozione e del misticismo interpretando in modo rigido l’idea di Bonaventura da Bagnoregio, che abbiamo incontrato nel viaggio dello scorso anno, che rimanda ogni esperienza autenticamente umana alla contemplazione mistica.

   Questo atteggiamento, gradito alla curia romana che vuole “normalizzare” i francescani, porta però i “conventuali” ad accomodarsi nelle strutture della chiesa gerarchica e ad occupare senza disagio cariche ecclesiastiche di prestigio e ciò conduce a interpretare la Regola in modo più elastico soprattutto per quanto riguarda la povertà e l’umiltà per cui i “conventuali” finiscono non per avvicinarsi ma per allontanarsi dallo stile di vita intransigente ma anche gioioso di Francesco d’Assisi. Molti monasteri francescani diventano centri di potere religioso ed economico e, quindi, gli intellettuali dell’ordine [in primo luogo quelli che stanno a Parigi e sono sotto attacco perché impegnati intellettualmente] si dissociano dal “carrierismo ecclesiastico” dei “conventuali” e fondano la corrente degli “spirituali” rifacendosi alla prima Regola francescana soprattutto sul tema della povertà, ribadendo il valore che ha lo “studio” quando è sinonimo di “cura” per il corpo e per l’anima e, quindi, pongono a tutta la cristianità una questione che si riassume nell’interrogativo: «Gesù Cristo era padrone dei suoi abiti?». I francescani “spirituali” - facendo riferimento al testo dei capitoli 5, 6 e 7 del Vangelo secondo Matteo [il cosiddetto “Discorso della montagna” che è la base della prima Regola francescana] - ribadiscono che Francesco d’Assisi riteneva che Gesù Cristo non fosse padrone dei suoi abiti e affermano che era arrivato a questa conclusione mediante un itinerario in cui non risaltava tanto il primato del “cuore”  ma nel quale era soprattutto coinvolta la Ragione e, quindi, non tutta la vita cristiana deve risolversi nell’atto della contemplazione dove ogni parola perde di senso ma l’esistenza [ritengono gli “spirituali francescani”] deve trovare la sua essenza mediante lo studio curando l’esercizio intellettuale.

   I francescani “spirituali”, senza rinunciare alla contemplazione e credendo che nella Natura ci sia l’afflato divino, ridimensionano la pratica mistica e pensano che il tentativo di raggiungere in questa vita la gloria dell’estasi, entrando in relazione con l’Essere stesso di Dio, sia alienante [perché è nell’altra vita, la vita eterna, che l’anima tornerà a Dio se sarà premiata], e ritengono, di conseguenza, sia più produttivo per lo spirito della persona indagare sulla realtà finita e molteplice dei fenomeni naturali - senza cadere nello scetticismo e nel materialismo - per dare a questi fenomeni un significato metafisico ed è per questo che l’esercizio della contemplazione deve assumere i caratteri della sperimentazione.

   La linea assunta dal francescanesimo “spirituale [o intellettuale]” - contestata dai “conventuali” - si afferma nell’immediato anche per la forza e l’originalità dei suoi rappresentanti, una serie di personaggi [di sperimentatori] che dobbiamo incontrare.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quando e a proposito di che cosa avete detto: “Voglio fare un esperimento”?… Come è andata a finire?…

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Anche il signor Tiburius ha voluto, a suo rischio e pericolo, sperimentare qualcosa di nuovo e vedremo fra poco come si conclude l’esperimento: con quali scoperte. Ma ora dobbiamo domandarci: come e quando ci sono arrivati i Francescani “spirituali” in Inghilterra?

   Un gruppo di francescani “spirituali”, in fuga da Parigi, sbarca in Inghilterra nel 1228 per evitare gli attacchi dei “conventuali”, sono tutti intellettuali scolastici e, dopo un breve periodo di adattamento, fondano uno “studium [una facoltà]” presso l’Università di Oxford che, anche per essere più periferica, godeva, nei confronti di quelle del continente, di una maggiore libertà di orientamento e di contatti culturali.

   A Oxford, nonostante la proibizione di Roma, i “Libri naturali [la Fisica e la Metafisica]” di Aristotele avevano libera circolazione, e vi era uno scambio diretto con la cultura araba ed ebraica, anche perché lo studio della lingua del Corano e di quella dell’Antico Testamento erano ben coltivate. E poi questi francescani “spirituali” si trovano bene in Inghilterra anche perché a Oxford sta lasciando il segno un personaggio del quale nello scorso viaggio abbiamo studiato l’Opera: Robert Greathead che, però, tutti conoscono con il suo nome latino, Roberto Grossatesta [ve lo ricordate questo personaggio che abbiamo incontrato la scorsa primavera?].    Il francescano Roberto Grossatesta muore vescovo di Lincoln, nel 1253, dopo essere stato scomunicato dal papa Innocenzo IV [Sinibaldo Fieschi] perché aveva inveito con ostinazione contro la condotta autoritaria e poco misericordiosa del pontefice. Roberto Grossatesta è autore del famoso trattato intitolato De luce [Sulla luce], un’opera che abbiamo studiato durante lo scorso viaggio, a primavera. Roberto è stato anche un grande traduttore [è un insigne grecista e traduce in latino l’Etica Nicomachea di Aristotele, molte altre Opere classiche e traduce in latino e commenta il testo del Vangelo secondo Giovanni] e con lui Oxford diventa una piccola Toledo.

   Ma soprattutto Roberto dà inizio alla ricerca empirica e insegna ai suoi studenti a sperimentare in primo luogo su un elemento particolare e affascinante: la luce … «Ogni corpo esiste, scrive Grossatesta, perché oltre ad avere una materia ha una forma che è data dalla luce» e infatti  «la luce, scrive Grossatesta, si diffonde di per sé in ogni parte così che da un punto di luce subito si genera una grande sfera, se non si oppone un corpo opaco». L’intuizione di Roberto - che commenta e spiega l’evento della creazione utilizzando la Fisica e l’Ottica - è avvalorata dall’autorevolezza del Libro della Genesi nel cui testo l’affermazione «Sia la luce [fiat lux]» è il primo atto del Dio Creatore. «L’Universo, scrive Grossatesta, non è che un punto luminoso che genera da sé, per dilatazione, l’infinita varietà delle cose».

   Se la Fisica moderna e contemporanea [che identifica la materia con l’energia] ha fatto molta strada lo si deve anche al fatto che in principio a far riflettere c’è la metafisica di Roberto Grossatesta che con il suo estro creativo ha dato inizio, al di là della Manica, alla “Scolastica empirica”, la corrente che ha propiziato lo sviluppo del movimento che ha preso il nome di “sperimentalismo di Oxford”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con quale di queste azioni - osservare, assaggiare, toccare, annusare, ascoltare - avete sperimentato e scoperto qualcosa?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Anche il signor Tiburius ha voluto, a suo rischio e pericolo, sperimentare qualcosa di nuovo e come si conclude l’esperimento, con quali scoperte? Leggiamo.

 

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Il sentiero nel bosco

Il signor Tiburius camminò, camminò, camminò. Sentiva il corpo sempre più accaldato, il fiato farsi corto, la stanchezza crescente. Il cammino prese infine a salire e assunse l’aspetto abituale di un sentiero d’alta quota. Alcuni massi erano ammantati di un muschio dal verde alieno, mai visto prima; altri giacevano spogli, e mostravano la pietra viva, spezzata di netto. Tutt’intorno, ventagli di felci dallo stelo grosso come un dito, e possenti tronchi d’abete, che svettavano altissimi sopra ogni altra cosa, o giacevano abbattuti al suolo. Apparve quindi un monte scosceso. Instancabile, il sentiero vi si inerpicava. Era ormai scesa la sera, i fischi dei merli riecheggiavano, e Tiburius continuava a camminare, nella sua misera giacchetta abbottonata.

Sentì un rombo nel fondovalle: ma era l’acqua di un torrente. Tiburius affrettò ulteriormente il passo, e camminava, camminava; all’improvviso, in luogo degli abeti maestosi, comparvero innumerevoli allegri cespugli dal fitto fogliame: erano arbusti di nocciolo, e questo - da che mondo è mondo - è segno che ci si è lasciati una foresta alle spalle e ci si trova al suo margine estremo. Ma il signor Tiburius non poteva riconoscere quel segno. Superato il tratto in mezzo ai cespugli gli alberi si diradarono, la foresta finì e Tiburius si ritrovò su un altopiano erboso, a cielo aperto. Sentiva come in tutte le membra, a dispetto della volontà, i nervi vibrassero, il sangue pulsasse. Il sole era già tramontato. Lontano, dietro al profilo verde di una selva, svettava un monte assai elevato coronato da tre maestosi nevai, colpiti in quel momento da un riverbero rosato e dalle ombre gettate dalle rocce. Tiburius vide che il sentiero scendeva per il pendio erboso incontro al torrente che portava acqua alle terme, e decise quindi di seguire il corso del sentiero verso il basso. Dominò il febbrile desiderio di riposo e scese, spingendo a scatti le ginocchia doloranti, per il viottolo in forte pendenza. Il monte dai nevai color delle rose si ritrasse pian piano dietro la foresta, finché non rimase più nulla, all’infuori di alcune alture verdi o d’un gelido turchino, tramate di nebbiosi filamenti. Tiburius raggiunse il torrente e si avvide d’aver colto nel segno: il sentiero procedeva parallelo al torrente. Si accinse quindi a seguirlo, facendo un nuovo, estremo appello alle sue forze, quasi al lumicino e al tempo stesso inebriate. Dopo aver camminato per un tratto sentì all’improvviso, nonostante lo scrosciare del torrente giù nella gola, dei passi alle sue spalle. Si volse, e vide un uomo che stava per raggiungerlo. Su una spalla portava un’ascia, a tracolla una filza di cunei di ferro, e ai piedi dei robusti zoccoli. Tiburius si fermò, lo lasciò avvicinare e gli chiese: «Amico, dove mi trovo, e come posso raggiungere le terme?». «Siete sulla buona strada,» rispose l’uomo «là, nella Keis, però, c’è un bivio, il sentiero più battuto sale verso lo Zuder, e in quel bosco potreste smarrirvi. Visto che vado anch’io nella vostra direzione, potete venire con me, vi porterò io fuori di qui. Ma come siete capitato da queste parti, se non sapete nemmeno dove vi trovate?».

«Sono un malato, e mi curo giù alle terme,» rispose il signor Tiburius «ho percorso un lungo tratto di strada in carrozza, poi ho preso a passeggiare smarrendomi nel bosco, ragion per cui non sono più riuscito a trovare la carrozza che mi sta aspettando». L’uomo dai cunei di ferro guardò il signor Tiburius in tralice, dalla testa ai piedi, poi - con la delicatezza spesso peculiare di questa gente, e che l’ingiusto mondo mai le riconosce -, in considerazione del suo stato, si mise a camminare molto più lentamente di quanto d’abitudine facesse.

«Se siete sceso fino al torrente passando dal prato della Campana, allora avete attraversato il Bosco Nero» disse.

«Sì,» rispose il signor Tiburius «sono sceso al torrente per un prato tondeggiante e ripido, a forma di campana».

«Lassù» disse l’uomo di rimando «la gente non sale volentieri, è un posto selvaggio».

«Sì, sì» ribatté il signor Tiburius. «E voi chi siete, che ve ne andate al calar della notte in questa forra?».

«Sono un taglialegna» rispose l’uomo «e solo per caso oggi passo da queste parti, perché ho un messaggio per il nostro caposquadra, che è su al bosco Zuder. Mi sono portato dietro gli attrezzi per affilarli: la mia casa, prendendo a sinistra, dista da qui solo mezz’ora. Stiamo disboscando un pezzo di foresta che è all’incirca a sei ore di cammino dal punto in cui vi ho incontrato. Ogni lunedì saliamo su al bosco, e ne ridiscendiamo il sabato. A volte però ci restiamo anche per settimane intere. Oggi ho lavorato fino al pomeriggio, poi sono sceso a valle».

«E quando tornerete su?» domandò Tiburius.

«Questa notte resterò a casa mia» rispose il taglialegna «e domani, alle tre del mattino, andrò dal caposquadra, su allo Zuder; da lì tornerò nel bosco che stiamo tagliando, in modo da potermi mettere ancora al lavoro il pomeriggio».

«E tutto ciò in un solo giorno,» disse Tiburius «e così per tutto l’anno?».

«In inverno non è tanto dura,» rispose il taglialegna «restiamo giù a valle, e spesso la giornata passa a trasportare legna sul carro».

«Capisco, capisco» ribatté Tiburius, tenendo faticosamente il passo accanto all’uomo.

Questi gli raccontò ancora molte cose del suo mestiere: come lo si pratica, come si vive in alta montagna, quali rischi e avventure ciò comporta. Così discorrendo continuarono a camminare, fino a che - per quanto era dato vedere, essendo ormai calata la notte - la valle si allargò e la strada prese nuovamente a scendere per un pendio piuttosto scosceso. Una volta tornati in pianura, e percorso un ulteriore tratto di strada, videro le luci di alcune casupole.

«Ecco,» disse il taglialegna «siamo arrivati. Ho allungato un po’ il mio cammino, ma da qui in poi non ci sono difficoltà: proseguite per questa strada, sempre diritto, e presto riconoscerete le case. Io devo tornare indietro, perché ci vogliono quasi due ore prima che sia a casa, e la notte è corta e alle tre devo rimettermi in viaggio». «Mio gentile e buon amico,» disse Tiburius «non posso ricompensarvi ora, perché non ho denaro con me; lo tiene infatti sempre il mio domestico, e in questo momento non è qui. Accompagnatemi, venite da me, in modo che io possa sdebitarmi della vostra buona azione, oppure prendete il mio bastone e prestatemi il vostro, rimarrò qui fino ad autunno inoltrato, mi chiamo Theodor, e quando voi, o altri, mi riporterete il bastone per far cambio col vostro, allora pagherò il mio debito».

«Figuratevi,» disse il taglialegna «devo ancora affilare gli attrezzi. Non ho più un minuto da perdere. Ma il bastone lo prendo volentieri, e un giorno o l’altro ve lo riporterò, perché ho due bambini, e se vorrete darmi qualcosa per loro ne sarò ben lieto, e la loro mamma pure».

Ciò detto, si scambiarono i bastoni e presero congedo. Tiburius procedeva lento, reggendosi al tozzo arnese del taglialegna, lungo gli steccati dei piccoli orti delle case, e sentiva ancora i passi, adesso decisamente più svelti, dell’altro che, carico di cunei di ferro, calzato di zoccoli, privo di appoggio - giacché la canna di Tiburius, dall’aureo ed elegante pomo, certo non andava messa in conto -, si avviava per la strada del ritorno, verso la sua casa, a due ore di cammino.

Nella locanda in cui alloggiava il signor Tiburius furono tutti stupiti vedendolo arrivare di notte, a piedi e con quell’arnese da taglialegna. Il padrone si informò con discrezione, gli altri si passarono parola, e la notizia, con velocità fulminea, si propagò di casa in casa. Tiburius illustrò in poche parole l’accaduto all’oste, salì in camera e ordinò da mangiare. Gli fu messo davanti un tavolino apparecchiato, su cui vennero serviti svariati cibi. Iniziato a mangiare, Tiburius chiese se la carrozza era tornata. Dalla risposta negativa dedusse che, forse, domestico e cocchiere lo stavano ancora aspettando nel luogo convenuto e ordinò che qualcuno andasse a richiamarli.

Terminata la cena si mise a letto e si coprì fino al mento sotto uno strato doppio di coperte; perché, dopo tutto quel trambusto, contava di fare una bella sudata, riuscendo così, forse, a scongiurare un malanno. Poco dopo dal signor Tiburius si levavano i respiri profondi del sonno Non sappiamo che cosa accadde in quella notte, possiamo solo raccontare come si configurò il giorno seguente.

 

   E come si configura il giorno seguente per il signor Tiburius lo sapremo tra una settimana, ora lasciamolo dormire.

   I francescani che, nell’ambiente di Oxford danno lustro alla cosiddetta “Scuola dello sperimentalismo” sono personaggi famosi: Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Occam. Come operano questi personaggi e qual è il loro pensiero: che cos’è lo “sperimentalismo di Oxford? Ma noi la prossima settimana dobbiamo incontrare ancora Roberto Grossatesta perché è lui l’anticipatore che - traducendo [è un esperto grecista] e commentando il testo del Vangelo secondo Giovanni [un capolavoro dal quale - come sappiamo da anni di studio - la cultura universale non può prescindere] - giustifica ideologicamente lo “sperimentalismo” mettendolo in linea con l’ortodossia cristiana: con quale ragionamento raggiunge questo obiettivo?

   Ebbene, questi interrogativi c’invitano a coltivare lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare. E, a questo proposito, un Percorso di Alfabetizzazione culturale e funzionale deve cercare di edificare granai pubblici [teste ben fatte] dove accumulare riserve [risorse intellettuali] contro un possibile, e non auspicabile, inverno dello spirito. E visto che siamo in autunno - il periodo adatto per la raccolta e per la conservazione [avete voi raccolto e conservato? Sono graditi gli assaggi!] - approfittiamone: la Scuola è qui, e il viaggio continua…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 23, 2015