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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA S’INCONTRA LA LETTERA AI ROMANI NEL CUI TESTO PAOLO DI TARSO ELABORA IL CONCETTO DI OMARTìAS, IL PECCATO ...

Lezione N.: 
9

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica     12-13-14  dicembre  2012

Paolo di Tarso - Andrej Rublëv

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

S’INCONTRA LA LETTERA AI ROMANI NEL CUI TESTO

PAOLO DI TARSO ELABORA IL CONCETTO DI OMARTìAS, IL PECCATO ...

   Strada facendo siamo arrivate e arrivati anche all’ultimo itinerario dell’anno 2012. Dal mese di ottobre stiamo attraversando il territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” che è un vasto spazio culturale [che in modo specifico non avevamo ancora attraversato in questi ventinove anni di attività] che si caratterizza per essere un’area di confine tra l’Epoca antica e l’Epoca medioevale [sappiamo che tra il territorio dell’Antichità e quello del Medioevo non c’è una linea di frontiera, ma esiste un’ampia superficie nella quale si prolungano le parole-chiave che determinano l’inizio della fine dell’Età antica]: è un’area nella quale ci sono grandi paesaggi intellettuali e noi da quattro settimane, dopo aver camminato sulla via dei Cinque Imperatori, abbiamo raggiunto il primo di questi paesaggi – quello dell’Età dei principi della dinastia giulio-claudia – e ci troviamo ancora davanti a questo ampio scenario.

   Che sia un territorio di confine ce ne renderemo conto ancor meglio questa sera: noi sappiamo che i confini – e ce lo ha insegnato Erodoto con il testo delle sue Storie [nel V secolo a.C. abbiamo viaggiato con Erodoto per ben due anni] – sono oggetti anacronistici che vorremmo abolire ma hanno una ragione di essere quando diventano un punto d’incontro dove, pacificamente, gente di cultura diversa fa conoscenza e pratica l’interscambio [Erodoto ci ha insegnato che il “confine” può essere una metafora che dobbiamo inventare proprio per comunicare meglio tra diversi].

   Certamente Lucio Anneo Seneca detto il Filosofo [che abbiamo imparato a conoscere in queste ultime settimane] e Paolo di Tarso [con il quale due anni fa abbiamo girovagato sul territorio dell’Ellade di città in città e navigato nel bacino del Mediterraneo] sono due persone culturalmente diverse: Seneca è un nobile cittadino romano di provenienza ispanica e Paolo [Shaul] è un ebreo della diaspora ellenistica in possesso della cittadinanza romana, i quali ideologicamente s’incontrano sul confine ideale dell’integrazione con il mondo della cultura greca perché tanto i Romani, che hanno conquistato militarmente ed economicamente il territorio dell’Ecumene ellenistica, quanto gli Ebrei, che sono dovuti emigrare dal Medioriente sul territorio dell’Ellenismo, sono attratti dal grande apparato intellettuale [letterario, filosofico, artistico] che l’Ellade ha elaborato dal VI secolo a.C..

   Quindi, c’è una discussione in corso che dura da secoli se Seneca il Filosofo e Paolo l’Apostolo si siano incontrati, si siano scritti, se Seneca sia diventato “cristiano”: è molto difficile che queste due persone – pur abitando a Roma nello stesso periodo [nei primi anni 60, durante l’Età giulio-claudia] – si siano potute incontrare; ma, una cosa è certa, questi due personaggi [un romano della provincia occidentale e un ebreo della diaspora orientale] si sono idealmente incontrati sul virtuale confine dell’integrazione con la cultura greca che è stata uno straordinario collante, la quale – come succede per le frontiere poste sui confini [ci ricorda Erodoto] – crea delle “aderenze” e il fenomeno della “aderenza” porta con sé un bel ventaglio di situazioni virtuose: unioni, contatti, adesioni, connessioni, contiguità, coesioni, amicizie, relazioni, conoscenze.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – unione, contatto, adesione, connessione, contiguità, coesione, amicizia, relazione, conoscenza – mettereste per prima accanto alla parola “aderenza”?… 

Scrivetela…        

A che cosa avete “aderito” con interesse, con passione, con spirito di servizio nella vostra vita?…     

Scrivete quattro righe in proposito

   La principale “aderenza” tra Seneca e Paolo di Tarso è costituita dal fatto che sono autori di due importanti epistolari comparsi contemporaneamente sul territorio del tardo-antico: Seneca ha scritto le Lettere a Lucilio [le abbiamo appena studiate] e Paolo di Tarso le Lettere evangeliche [un argomento che abbiamo studiato nel viaggio di due anni fa] e, di conseguenza, si è creata la congettura che queste due autorevoli persone si siano scritte ed è successo che è nata una tradizione in proposito per cui noi possediamo un Epistolario tra Seneca e San Paolo. Naturalmente ogni tanto – ed è sempre successo nel corso dei secoli – si rinfocola la discussione sull’autenticità dei questo documento: le studiose e gli studiosi di filologia ritengono che questo materiale, per altro interessantissimo, sia senza alcun dubbio apocrifo.

  Il testo dell’opera intitolata Epistolario tra Seneca e San Paolo è formato da quattordici lettere: otto attribuite a Seneca il Filosofo e sei a Paolo l’Apostolo. Questo epistolario è senza alcun dubbio apocrifo ed è opera di uno o più autori a noi sconosciuti del IV secolo [un secolo “caldo” per i rapporti tra cristianesimo in crescita e paganesimo al tramonto]. L’intenzione di questi compilatori è di natura conciliativa: il cristianesimo si sta imponendo [l’imperatore Costantino lo ha scelto come propria religione] e questi autori vogliono creare una corrispondenza tra l’Apostolo Paolo e il Filosofo Seneca per dimostrare che nelle opere dei “classici” della prima generazione [Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio] era già presente, in modo velato, la rivelazione divina e che  un “classico” della seconda generazione come Lucio Anneo Seneca è già in sintonia con il progetto di salvezza predicato da Paolo. L’idea che si sia creata un’amicizia tra il Filosofo Seneca e l’Apostolo Paolo è molto affascinante e ha sempre fatto presa perché, effettivamente, nel pensiero di questi due personaggi ci sono molti punti in comune e questo si giustifica col fatto che entrambi hanno attinto al medesimo serbatoio della cultura greco-ellenistica.

   Le studiose e gli studiosi di filologia ci suggeriscono che ci sono due argomenti inequivocabili che dimostrano la non autenticità delle quattordici Lettere tra il Filosofo e l’Apostolo: il primo è rappresentato dal fatto che l’apologeta cristiano Lattanzio, scrivendo nel 324 circa, mostra di ignorare l’esistenza dell’Epistolario perché afferma che “Seneca avrebbe potuto essere cristiano se qualcuno gli avesse parlato di Cristo” e quindi, probabilmente, l’Epistolario è posteriore a questa data. Il secondo argomento è dato dalla XII Lettera [l’XI secondo un’altra edizione che numera diversamente] che è datata nel marzo del 64 e che è attribuita a Seneca e nella quale si descrive l’incendio di Roma che invece è avvenuto nel luglio dello stesso anno e questo è un errore vistoso, che è impensabile in uno scrittore contemporaneo all’avvenimento.

   Nonostante queste difficoltà evidenti, l’Epistolario tra Seneca e Paolo è stato creduto autentico nel corso della tarda antichità e poi durante il Medioevo: la testimonianza tardo-antica più interessante è quella di Gerolamo che nel 392 scrive, in una Lettera, che la corrispondenza tra i due grandi circolava e veniva letta da moltissime persone; naturalmente questa affermazione serve a Gerolamo per avvalorare la sua tesi che non ci sarebbe il Cristianesimo senza la cultura classica greco-latina, una cultura che, per volontà divina – afferma Gerolamo –, ha fatto da battistrada alla divulgazione della buona notizia della Risurrezione di Gesù, e leggiamo che cosa scrive Gerolamo:  «Dobbiamo pensare che il filosofo Seneca abbia conosciuto e dialogato con San Paolo quando era in prigionia a Roma. Inoltre, conoscendo la personalità e le opere di Seneca, si può ritenere che fu proprio lui a permettere l’assoluzione di Paolo, basandosi sui principi di tolleranza e pietas religiosa. Dopo l’incendio di Roma [nel 64] ebbe inizio la prima persecuzione contro i Cristiani e Paolo sarebbe stato una delle prime vittime se non fosse stato già in libertà e fuori Roma grazie all’intervento salvifico e la mediazione di Lucio Anneo Seneca. Quest’intervento audace del filosofo concorse sicuramente a fargli perdere influenza di consigliere politico e deteriorò il suo rapporto con il più truce dei Cesari, costringendolo a lasciare la vita politica e a ritirarsi a vita privata per dedicarsi ai suoi amati studi.  Vi fu anche uno scambio privato di Lettere fra il Filosofo ed il Santo, esempio del confronto e del dialogo fra lo stoicismo romano e la predicazione cristiana, tra due anime affini che hanno combattuto in prima linea per la pace e la tolleranza. Seneca mostra dunque di conoscere il Santo apprezzandone le idee morali e la dottrina. San Paolo riconosce agli stoici e, in particolare a Seneca la coerenza morale e la correttezza etica. Bisogna accostarsi alle Opere di questi Saggi perché la pietas sapienziale contenuta in esse è già un segno tangibile della misericordia divina operante nel mondo».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’Epistolario tra Seneca e San Paolo lo potete richiedere in biblioteca o cercare in rete e, per curiosità, potete leggere il testo di qualcuna delle Lettere che contiene…

   E adesso, intanto, a fare questo esercizio partiamo da qui e leggiamo i testi di quattro Lettere tratte dall’Epistolario tra Seneca e San Paolo; ebbene, si può constatare come lo stile di questi scritti sia confidenziale in un momento di forte scontro ideologico [siamo nel IV secolo] tra cristiani e pagani e tra cristiani e cristiani: sembra che gli autori apocrifi, probabilmente appartenenti alla corrente dei “cristiani ellenisti”, vogliano stemperare la violenza fondamentalista e vogliano indicare l’utilità della via dell’incontro tra culture diverse nelle quali ci sono più punti in comune che differenze e vogliano alludere al fatto, come scrive poi Gerolamo [e lo abbiamo appena letto], che la misericordia di Dio si manifesta nell’incontro culturale, si esplicita nell’investire in intelligenza e non nello scontro armato tra fazioni che vogliono imporre la “verità” con la violenza. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Epistolario tra Seneca e San Paolo

 

   Seneca saluta Paolo.

Credo, Paolo, che ti sia stato riferito che ieri, con il nostro Lucilio, abbiamo conversato di cose segrete e d’altre cose ancora. C’erano con me alcuni compagni delle tue dottrine. C’eravamo infatti ritirati negli Orti Sallustiani dove, con l’occasione della nostra presenza, anche se erano diretti altrove, vistici, si sono uniti a noi quelli dei quali ho parlato. Certamente abbiamo desiderato la tua presenza, e voglio che tu sappia che con la lettura dei tuoi scritti, alcune delle tante Lettere da te indirizzate ad una città, che meravigliosamente esortano a una retta condotta morale, ci siamo completamente ricreati. Credo che quelle espressioni siano state dette non da te, ma per mezzo di te; certo, alla fine, da te e per mezzo tuo. Davvero è tanta la maestà di quei pensieri splendenti di così grande nobiltà che penso che alle persone non basti tutta la vita per istruirsi e perfezionarsi in esse.

Ti auguro di star bene, fratello.

 

    Paolo ad Anneo Seneca, salute!

Con gioia ho ricevuto ieri la tua lettera, alla quale avrei risposto subito, se avessi potuto disporre di un giovane da mandarti. Sai infatti quando, per chi, in che tempo e a chi si debba dare e fare affidamento. Ti prego perciò di non credere di essere stato trascurato, mentre invece ho riguardo alla qualità della tua persona. Anzi, poiché scrivi da qualche parte che le mie Lettere vi sono state gradite, mi considero fortunato per il giudizio di una persona così illustre. Tu infatti, giudice, maestro di retorica, precettore di tanto principe e anche di tutti, non diresti questo se tu davvero non lo credessi. Ti auguro di vivere a lungo e bene.

 

   Seneca a Paolo, salute!

Ho messo in ordine alcuni scritti e li ho divisi secondo l’argomento. Ho anche deciso di leggerli a Cesare. Se la sorte sarà propizia così che egli mostri un interesse insperato, forse potrai essere presente anche tu, altrimenti ti fisserò un giorno per esaminare insieme quest’opera. Potrei anche non comunicargli questi scritti senza prima averne parlato con te, se questo si potesse fare senza rischi: questo, perché tu sappia che non ti trascuro.     Sta’ bene, carissimo Paolo. 

 

    Paolo ad Anneo Seneca, salute!

Ogni volta che leggo le tue lettere, penso che tu sei presente e non immagino altro se non che tu sei sempre con noi. Non appena verrai, ci vedremo l’un l’altro di persona.

Ti auguro di star bene.

   Lucio Anneo Seneca sappiamo che fine ha fatto: si toglie la vita – bevendo la cicuta, tagliandosi le vene – per non respirare la stessa aria del tiranno e per avvalorare i principi della Scuola stoica.Più difficile è sapere che fine abbia fatto Paolo di Tarso. Il testo “apologetico” degli Atti degli Apostoli che, come abbiamo studiato, non collima quasi mai con i racconti dell’Epistolario di Paolo di Tarso [ma questo fatto non deve scandalizzare: gli Atti sono un catechismo non un resoconto storico], ai capitoli 27 e 28, racconta che, dopo aver scritto la Lettera ai Romani Paolo va a Gerusalemme [siamo probabilmente nell’estate del 58] a portare i soldi di una “colletta” – sapete che Paolo nelle Lettere parla spesso di questa raccolta di offerte in denaro –, soldi che stava raccogliendo nelle ekklesìe a favore di “quelli di Gerusalemme”: di Pietro e di Giacomo, il fratello del Signore. Con questa operazione Paolo – con “l’adempimento di questo obbligo [lui scrive]” – vuole da loro un riconoscimento [comprare una patente] come “apostolo” [come “inviato speciale e promotore culturale” in grado di diffondere la buona notizia della Risurrezione di Gesù sul territorio dell’Ecumene]; quindi, a Gerusalemme [a questo allude il testo degli Atti degli Apostoli] si sviluppa una trattativa [una trattativa che si conclude con una insanabile spaccatura, ci racconta Paolo nelle Lettere] ma Paolo [il testo degli Atti vuole sorvolare sulla rivalità tra Paolo e quelli di Gerusalemme] viene arrestato nel Tempio – qualcuno, avendolo sentito parlare, lo denuncia – come “profanatore della toràh”, come “traditore del giudaismo”, con l’accusa “di aver insegnato dappertutto contro la Legge, contro il popolo e contro il Tempio”. Paolo rischia di essere condannato a morte ma per sua fortuna è “cittadino romano” e, quindi, si appella all’autorità imperiale e così riceve [se la magistratura romana poteva fare un torto al tribunale giudaico glielo faceva volentieri] un “avviso di garanzia” e un “mandato di comparazione” e, di conseguenza, a spese dello Stato romano, viene accompagnato a Roma e Paolo intraprende, di buon grado, un viaggio avventuroso. Il testo degli Atti degli Apostoli racconta in modo apologetico questi avvenimenti.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete o rileggete i capitoli 27 e 28 degli Atti degli Apostoli: raccontano l’avventuroso viaggio di Paolo verso Roma e il suo arrivo nella capitale dell’impero…

Avete mai visitato a Roma la zona di Porta San Paolo e la Basilica di San Paolo fuori le Mura?… Con una guida di Roma raccogliete un po’ di dati per un’eventuale visita: Roma non è lontana, buon viaggio…

   Che fine ha fatto Paolo di Tarso? Della sorte estrema di Paolo di Tarso non sappiamo nulla: forse è morto assassinato nella repressione neroniana del 64. Nel 96 il testo degli Atti degli Apostoli racconta – secondo la logica apologetica della Scuola ellenistica clementina fondata da papa Clemente Romano [il primo papa storico della Chiesa di Roma, uno dei tre Padri Apostolici] – che “l’Apostolo giunse fino agli estremi confini dell’Occidente”, ma è difficile che Paolo, costretto a un, seppur blando, domicilio coatto in attesa di giudizio, si sia mosso da Roma. Nel 200 Tertulliano [lo incontreremo a suo tempo] – grande costruttore di martirologi – scrive che Paolo è morto a Roma per decapitazione, ma dichiara di non conoscere i particolari della vicenda. Lo storico Eusebio di Cesarea, nel 420, fa un’ipotesi e propone per il martirio di Paolo la data del 67, durante il quattordicesimo anno del regno di Nerone.

   Tra il IV e il V secolo è stato scritto, da un autore ignoto, un testo apocrifo che s’intitola Acta Petri et Pauli [Atti di Pietro e di Paolo]. Questo testo, anche se non lo abbiamo letto, lo conosciamo in molti suoi particolari perché racconta una serie di episodi mitici, che non hanno nulla di storico, ma che sono entrati a far parte della leggenda e della Tradizione. In quest’opera della fine del tardo-antico si racconta la vita “in comune”, a Roma, di Pietro e Paolo e il loro martirio: Pietro crocifisso a testa in giù e Paolo, essendo cittadino romano [e potendone godere i privilegi], decapitato alle Acque Salvie. Moltissime opere d’arte si sono ispirate al testo di quest’opera.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cercate sulla rete alla dicitura “martirio di Pietro e Paolo” il grande numero di opere, soprattutto dipinte, che sono state prodotte su ispirazione di questa Letteratura…

   Per capire il significato del toponimo “Acque Salvie” fate una visita alla Chiesa di San Paolo che si trova all’interno del complesso dell’Abbazia delle Tre Fontane a Roma lungo la via Laurentina, costruita nel luogo dove, secondo la tradizione, sarebbe avvenuta la decapitazione di Paolo di Tarso. Un primo edificio di culto fu costruito nel V secolo, la forma attuale della chiesa risale al 1599. Sulla lapide posta all’ingresso c’è scritto “Sancti Pauli Apostoli Martyrii Locus Ubi Tres Fontes Mirabiliter Erumperunt [Luogo del martirio di san Paolo apostolo dove tre fonti sgorgarono miracolosamente]” perché, secondo la leggenda, la testa di Paolo, cadendo, avrebbe fatto tre rimbalzi e sarebbero sgorgate le tre fontane [Acque salvifiche] presenti all’interno della chiesa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se sulla rete cercate su “Abbazia delle Tre Fontane Roma” potete entrare in un sito che vi dà la possibilità di effettuare una visita a questo luogo, non lontano… 

   Ma il destino di Paolo di Tarso resta avvolto nel mistero. Ciò che non è misterioso è il fatto che – in Età tardo-antica, nell’Epoca giulio-claudia questo personaggio ha compiuto – scrivendo il suo Epistolario – una straordinaria impresa culturale a dimostrazione che “l’integrazione” è possibile attraverso la potenzialità che ha la filologia [l’uso delle parole e delle idee in senso creativo], e che l’avvicinamento tra culture diverse [Paolo conosce ebraico e aramaico, scrive in greco e pensa anche in latino] è attuabile se, chi si sente depositario di una certa cultura, opera perché questa manifesti la propria originalità e mantenga la propria autonomia senza pretendere di avere il monopolio della verità. «Possiamo rimanere quello che siamo – scrive Paolo – ma dobbiamo camminare insieme mettendo in comune il meglio di noi auspicando la nostra trasformazione» e Paolo di Tarso è un vero è proprio modello di integrazione perché l’essere soddisfatto di essere contemporaneamente ebreo, greco e romano lo porta ad elaborare qualcosa di straordinario sul piano culturale. Solo un “ebreo” poteva interessarsi così intensamente alla “buona notizia” della Risurrezione di Gesù, solo un “greco” poteva potenziare questa notizia e diffonderla in modo così fecondo e solo un “romano” delle lontane province poteva cogliere il senso universale di questa “buona notizia” trasformando una “speranza” in una reale “opportunità” di cambiamento se non per l’Umanità intera almeno per la società che aveva intorno. Shaul Tarsensis, detto Paolo, ebreo, circonciso, fariseo della tribù di Beniamino, nato, cresciuto e formatosi culturalmente sul territorio dell’Ellenismo, di professione prima magistrato e poi fabbricante di tende da viaggio, cittadino romano [questo è quanto sappiamo di lui], ha messo in atto, non in modo del tutto consapevole ma investendo in intelligenza, un’impresa grandiosa e inquietante: fondere insieme l’etica ebraica, greca e romana, confezionando un prodotto di qualità che è diventato uno strumento capace di spaccare la Storia in due. Naturalmente questa operazione ha avuto un prezzo, e questa persona [allo stesso modo di Seneca] – di cui possiamo leggere le Lettere – questo prezzo lo ha pagato fino all’ultimo centesimo, fino all’ultimo shekel [la moneta del mondo ebraico].

   Sarebbe auspicabile che tutti coloro i quali, oggi, parlano – e spesso sparlano – di “civiltà e di cultura occidentale” si rendessero conto che, prima di parlare, prima di dichiarare, è necessario “studiare” per capire che “l’integrazione [a parole auspicata da tutti]” non passerà mai né attraverso il ricatto della paura né attraverso le esigenze di potere del mercato globale ma può solo passare sulla strada indicata dall’autorevolezza di chi [anche persone come voi che animate lo scenario dell’Educazione Permanente] ha deciso di investire in intelligenza: Seneca e Paolo lo hanno fatto con i loro Epistolari fornendoci strumenti per promuovere campagne educative.

   Due anni fa abbiamo studiato – attraversando il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” – il glossario delle parole-chiave contenute nell’Epistolario di Paolo di Tarso. Perché è importante il catalogo delle parole-chiave e delle idee-cardine che troviamo nelle Lettere di Paolo di Tarso? Perché questo glossario è il primo a dare un’interpretazione nel segno della “speranza [in greco, “elpis elpis”]” al catalogo [che noi conosciamo a memoria] dei termini con cui comincia a finire l’Età antica e l’esempio più eclatante è che nell’Epistolario di Paolo di Tarso si contrappone con enfasi all’idea del “trionfo della Morte” [da accettarsi con stoica e imperturbabile rassegnazione, secondo Seneca] la buona notizia [euanghelon euanghelon] della Risurrezione della carne [anastasis anastasis, l’anastasia] che genera un’attesa virtuosa che favorisce la rivalutazione della vita presente, e il “tempo presente [o kairos ò kairòs]”, nell’ottica della speranza nella Risurrezione, assume un nuovo valore qualitativo.

   Il glossario della “buona notizia della Risurrezione”  [in greco “euanghelon”, in latino “evangelium”] lo si trae dalle Lettere scritte e inviate [dal 51 al 61 circa] da Paolo di Tarso a persone di sua conoscenza abitanti nelle città di Tessalonica [Salonicco], di Efeso, di Corinto, della Galazia, di Colossi, di Filippi e contiene parole-chiave e idee-cardine che contrastano con il carattere indigesto dei termini che formano il catalogo con cui comincia a finire l’Età antica: questo catalogo [la patria e l’esilio, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, il trionfo della Morte] anche Paolo lo conosce e lo utilizza per interpretarlo ribaltandone il senso con parole nuove come: “euanghelon [la buona notizia che genera speranza]”, “elpis [la speranza come fondamento della fiducia]”, “anastasis [la risurrezione che annulla il trionfo della Morte]”, “agape agape [l’amore solidale su cui si fonda la comunione dei beni]”, “parousia parousìa [l’attesa fiduciosa per l’imminente salvezza]”, “exousia exousìa [la manifestazione della potenza dell’amore]”, “sophia sophia [la sapienza generatrice di saggezza]”, “eucaristia eucaristia [dirsi davvero grazie, ringraziarsi di tutto cuore]”.

   Il catalogo con cui comincia a finire l’Età antica è rivolto verso la rassegnazione nei confronti del trionfo della Morte mentre il catalogo tardo-antico della “buona notizia della Risurrezione” è destinato a suscitare il “senso dell’attesa”, l’aspettativa di un cambiamento, e questa parola-chiave in latino si traduce “adventum”[l’avvento].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Oggi, molto concretamente, di che cosa siete in attesa?…

Scrivete quattro righe in proposito…

   Di fronte a questa domanda noi non possiamo essere insensibili al grido di dolore che si leva dall’animo della signora Irene Wagner [la conoscete!]: il personaggio principale del romanzo intitolato Paura, scritto nel 1925 dallo scrittore viennese Stefan Zweig, e del testo di questo racconto ne abbiamo letto quasi tre quarti.

   La signora Irene – della quale conosciamo la storia e della quale soprattutto [per merito della bravura dell’autore] conosciamo i più intimi pensieri – è in attesa [un’attesa spasmodica] di porre fine alla sua disgrazia con un gesto estremo: sta pensando di togliersi la vita perché non ha il coraggio di confessare al marito di averlo tradito per noia, per stanchezza, e non ha il coraggio di rivelare di essere ricattata da una presunta amante dell’amante che minaccia di denunciarla e della quale lei non riesce a liberarsi, un’arpia [in senso tragico euripideo] che è riuscita anche ad estorcerle il prezioso [materialmente e sentimentalmente] anello di fidanzamento che portava al dito, lasciandole la mano sguarnita. Anche il marito, l’avvocato Wagner, il quale si è reso conto dello strano comportamento della moglie, sta riflettendo sul da farsi perché, probabilmente, anche lui ha delle responsabilità di cui deve farsi carico [forse ha esagerato!]: ma non resta che leggere le tre pagine seguenti.

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Paura

Avere infine la certezza che il momento della scoperta era vicino cominciò a diffondere in Irene una serenità del tutto inattesa. Come per miracolo, il nervosismo cedette il passo ad accurate riflessioni, la paura a un sentimento - a lei stessa sconosciuto - di pace cristallina, in virtù della quale ogni cosa della sua vita le parve di colpo trasparente e dotata di giusto valore. Considerò la sua esistenza e si accorse che valeva ancora molto: se le avessero consentito di conservarla e di accrescerla con il significato nuovo e più alto che le si era rivelato in quei giorni di angoscia, se avesse potuto ricominciare in modo limpido, nella sicurezza e senza ricorrere a menzogne, sarebbe stata disposta a farlo. Ma continuare a vivere da adultera, o con il divorzio e il marchio dello scandalo, era troppo stanca per accettarlo, e anche troppo stanca per tirare in lungo quel gioco pericoloso di una tranquillità comprata e sempre soggetta a revoca. Resistere, lo sentiva, adesso non era più pensabile, la fine si avvicinava, con la minaccia d’essere tradita dal marito, dai figli, da tutto ciò che le stava accanto, da se stessa. Impossibile la fuga di fronte a un avversario che pareva avesse il dono dell’ubiquità. E la confessione, il soccorso certo, le erano preclusi: questo ormai lo sapeva. Le restava un’unica via, dalla quale però non vi era ritorno. La vita la attraeva ancora. Era una di quelle schiette giornate di primavera, come talvolta si scatenano tempestose dal grembo chiuso dell’inverno, una giornata dal cielo infinitamente azzurro, di cui sembrava di poter respirare a pieni polmoni l’immensa vastità, dopo le molte e fosche ore invernali.

Ma ella si accinse, risoluta, a dar corso ai suoi progetti. Innanzi tutto si proponeva di rientrare in possesso dell’anello, perché, qualunque fosse stata la sua sorte, sul ricordo di lei non sarebbe così ricaduta la macchia del sospetto: Andò subito al monte di pietà per impegnare un gioiello ereditato che non portava quasi mai, così da procurarsi abbastanza denaro per poter eventualmente riscattare da quella donna l’anello che l’avrebbe tradita. Non appena ebbe nella borsetta la somma in contanti, si sentì più sicura e si mise a girovagare senza una meta definita, desiderando in cuor suo ciò che finora aveva temuto più di tutto: incontrare la sua ricattatrice. L’aria era mite e la luce del sole investiva le case. Continuava a camminare, ma non più con gli occhi bassi, bensì mostrandosi vigile, quasi bramosa di incontrare quella donna, che da un pezzo stava cercando. Era la preda, adesso, sulle tracce del cacciatore, e come l’animale debole, braccato che, sentendo ormai impossibile la fuga, si volta di colpo con la forza della disperazione ed è pronto ad affrontare apertamente il suo persecutore, così lei ora non chiedeva altro che trovarsi faccia a faccia con chi la torturava per mettere in campo contro costei le ultime forze concesse ai disperati dall’istinto vitale. Ma di quella donna non c’era traccia. Doveva pur essere da qualche parte in quel brulicame. Aveva la sensazione che potenze superiori avessero ordito una congiura diabolica per condurla alla rovina, tanto quell’immane groviglio di coincidenze ostili sembrava farsi beffe della sua fragilità. Sempre più nervosa, con passo febbrile, continuava a percorrere avanti e indietro la stessa strada. Come una donna da marciapiede, pensò.

Andò su e giù qualche volta ancora, e ancora spiò la strada, abbandonandosi all’ultima speranza, poi si diresse verso casa. Era tutta intirizzita. Salì le scale con passo stanco. Si accorse che la nurse stava mettendo a letto i bambini nella loro stanza, ma evitò di entrarvi ad augurar loro buon riposo e a prenderne congedo per una sola notte, mentre già andava pensando a quella eterna. A che scopo vederli, ora?

Il rientro del marito interruppe quei pensieri cupi e solitari. Con la gentilezza di chi vuole avviare una conversazione animata, egli cercò di avvicinarsi a lei parlando e le fece ogni sorta di domande. Irene temeva che quella apprensione preludesse a un nuovo tentativo di avvicinamento e, con grande anticipo, gli augurò la buona notte. «A domani» rispose lui. E lei si allontanò. A poco a poco i rumori dalla strada andarono rarefacendosi, dai riflessi nella stanza si accorse che fuori si stavano spegnendo le luci. Adesso non meditava più sul congedo estremo, ma pensava solo a come andargli incontro nel modo più discreto, per risparmiare ai figli e a se stessa la vergogna dello scandalo. Teneva in conto tutte le vie di cui sapeva che portano alla morte, esaminava tutte le possibilità di chiudere con la vita, finché una specie di gioioso terrore non le ricordò all’improvviso che il medico, quando lei aveva sofferto di insonnia a causa di una malattia accompagnata da forti dolori, le aveva prescritto la morfina e lei allora aveva assunto quel veleno dolce-amaro versandolo a gocce da una boccetta, il cui intero contenuto, le era stato detto, sarebbe bastato ad addormentarla dolcemente per sempre. Oh, non essere più braccata, poter riposare, riposare all’infinito, non sentire più la paura martellarle in petto! Balzò in piedi di scatto e accese la luce. Trovò subito la boccetta, ma era piena solo a metà e lei temeva non bastasse. Con mano febbrile frugò in tutti i cassetti, finché non rinvenne la prescrizione che le avrebbe permesso di farsene preparare una quantità maggiore.

L’indomani bruciò le sue lettere, mise ordine nelle cose minute, ma evitò per quanto possibile di vedere i bambini e tutto ciò che le era caro. L’importante era impedire che la vita si abbarbicasse su di lei con i suoi piaceri e allettamenti e, facendola inutilmente esitare, le rendesse più difficile una decisione che ormai aveva preso. Poi uscì di nuovo per tentare un’ultima volta la sorte, nella speranza di un incontro con la sua ricattatrice. Ma di quella donna nessuna traccia. Non ne era più angustiata, però. Una volta soltanto trasalì. Dando un’occhiata dall’altra parte della strada, ebbe l’impressione di sentire all’improvviso su di sé, in mezzo a quel brulichio, lo sguardo del marito, quello sguardo strano, duro, penetrante, che solo da qualche tempo aveva cominciato a notare in lui. Con il suo continuo appostarsi, Irene aveva perduto il senso del tempo e arrivò in ritardo per il pranzo. Ma anche il marito non c’era ancora, a differenza del solito: giunse due minuti dopo, e lei ebbe la sensazione che fosse un po’ agitato. Adesso contava le ore che la separavano dalla sera e si spaurì: quanto poco tempo ci voleva per prendere congedo e come tutto sembra senza valore, quando si sa di non poterlo portare con sé. Fu colta da una specie di sonnolenza. Meccanicamente scese di nuovo in strada. Camminava a caso, senza pensare né guardarsi attorno. A un incrocio il cocchiere riuscì a trattenere i cavalli solo all’ultimo minuto, lei si era già vista addosso le stanghe della carrozza. Avrebbe potuto essere la sua salvezza o un semplice rinvio. Una casualità le avrebbe risparmiato la decisione. Per quanto stanca, continuò a camminare: nel suo disordinato vagabondare era giunta senza volerlo quasi di fronte alla casa del suo ex amante. Era forse un segno del destino? Chissà che lui non potesse aiutarla, doveva pur sapere l’indirizzo di quella donna. Quasi tremò di gioia. Come aveva fatto a non pensarci prima? Era la cosa più semplice. Di colpo la vita tornò nelle sue membra, la speranza mise le ali ai suoi pensieri intorpiditi, che presero adesso a rincorrersi alla rinfusa. Sarebbe dovuto andare con lei da quella canaglia e mettere fine a tutto, una volta per sempre. Doveva minacciarla che la piantasse con le estorsioni, magari sarebbe bastata una somma di denaro per allontanarla dalla città. D’un tratto le dispiacque di aver così bistrattato quel poveretto solo pochi giorni prima, ma lui l’avrebbe aiutata, ne era certa. Com’era strano che la salvezza arrivasse soltanto ora, all’ultimo momento. Salì in fretta le scale e suonò il campanello. Nessuno venne ad aprire. Tese l’orecchio: le sembrava di aver udito passi circospetti dietro la porta. Suonò una seconda volta. Di nuovo silenzio. E di nuovo un lieve rumore all’interno. Allora si spazientì e suonò con insistenza: ne andava della sua vita. Alla fine qualcosa si mosse dietro la porta, la serratura scattò, e uno stretto spiraglio si dischiuse. «Sono io» disse lei affannata. Come colto da un moto di spavento, lui adesso le aprì. «Sei tu, è lei signora» balbettò visibilmente imbarazzato. «Io, mi scusi non attendevo la sua visita, scusi la mia tenuta». E fece cenno che era in maniche di camicia, mezzo sbottonato e senza colletto. «Ho urgenza di parlarle, deve aiutarmi» disse lei con voce nervosa perché l’altro continuava a lasciarla sul pianerottolo, come una mendicante. «Non vuole lasciarmi entrare e ascoltarmi per un minuto?» soggiunse irritata e confusa. «Prego,» mormorò lui, imbarazzato e con un’occhiata in tralice «solo che adesso, non posso proprio». «Lei deve ascoltarmi. Alla fine è colpa sua. Ha il dovere di aiutarmi. Deve farmi avere l’anello. O almeno mi dia l’indirizzo. Continua a perseguitarmi, e adesso è sparita. Lei deve farlo, mi ascolti, deve farlo».

Lui la fissava. Solo adesso lei si rese conto che stava parlando in modo affannoso, sconnesso. «Ah, certo. Lei non sa. La sua amante dunque, la sua ex amante, quella tizia mi ha vista una volta uscire da casa sua, e da allora mi perseguita e mi ricatta, mi tortura a morte. Da ultimo mi ha portato via l’anello, e io devo riaverlo. Entro questa sera devo riaverlo, gliel’ho detto, entro questa sera. Vuole o non vuole aiutarmi?». «Ma io gente simile non la conosco. Non so proprio che cosa lei vada dicendo. Io non ho mai avuto a che fare con ricattatrici». Rasentava la villania. «Ma sa il mio nome e dove abito. E magari non è vero che mi ricatta. Magari è tutto un sogno». Irene proruppe in una risata stridula. Lui si sentì a disagio. Per un istante gli attraversò la mente l’idea che fosse pazza, tanto le scintillavano gli occhi. Era stravolta, usava parole senza senso. Il giovane si guardò attorno impaurito. «La prego si calmi, signora, le assicuro che si inganna. È da escludersi nel modo più assoluto, deve trattarsi di un errore». «Lei dunque non vuole aiutarmi?». «Ma certo, se posso». «Allora venga con me. Andiamo insieme». «Ma da chi?». Quando Irene lo prese per un braccio, si sentì di nuovo rabbrividire all’idea che fosse pazza.  Poi tutto d’un tratto divenne formale. «Mi scusi, signora ma sul momento non mi è possibile, ho una lezione di pianoforte, non posso interrompere». «Ah, ecco» la sua risata stridula lo investì di nuovo in piena faccia «lei dà lezione di pianoforte in maniche di camicia, bugiardo». E di colpo, come cavalcata da un sospetto, fece un balzo in avanti. Lui cercò di trattenerla. «Dunque è qui da lei la ricattatrice? Alla fine siete complici. Magari vi dividete i soldi che siete riusciti a spillarmi. Ma adesso quella la acciuffo io. Adesso non ho più paura di nulla». Urlava. Lui la teneva stretta, ma lei si divincolava e, una volta libera, si precipitò verso la porta della camera da letto. Qualcuno, che con ogni evidenza era rimasto ad ascoltare dietro l’uscio, fece un salto all’indietro. Irene fissò stranita una sconosciuta con gli abiti piuttosto in disordine, la quale distolse rapida lo sguardo. Il suo amante le era corso dietro per fermarla: ormai pensava davvero che lei fosse pazza e voleva evitare l’incidente, ma Irene stava già uscendo dalla stanza. «Mi scusi» mormorò. Niente le ricordava di essere appartenuta un tempo a quell’uomo, e quasi non sentiva più il proprio corpo. Era troppo stanca per pensare ancora, troppo stanca per cercare. A occhi chiusi scese le scale come un condannato sale al patibolo.

   Quando due anni fa abbiamo viaggiato con Paolo di Tarso – sulle strade del Medioriente, dell’Ellade e con lui abbiamo navigato nel bacino del Mediterraneo da una città all’altra – noi abbiamo solo citato [sebbene più di una volta] la Lettera ai Romani perché abbiamo detto che avremmo osservato meglio questo testo nel momento in cui, strada facendo, saremmo stati a Roma dove anche Paolo era diretto: ed ora ci siamo a Roma con Paolo nell’Età giulio-claudia. Naturalmente incontrare il testo della Lettera ai Romani non significa che ci metteremo a studiare questo importante oggetto culturale in tutta la sua complessità perché per raggiungere questo obiettivo bisognerebbe organizzare un viaggio con molti itinerari, adesso noi della Lettera ai Romani vogliamo utilizzare solo [si fa per dire] gli elementi che entrano in relazione con il tipo di Percorso che abbiamo intrapreso sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” e che riguardano le relazioni che intercorrono tra il testo di Paolo e le opere degli autori “classici” greci e latini: Paolo di Tarso [come abbiamo studiato due anni fa] ha avuto una buona formazione culturale di stampo ellenista perché anche la Scuola farisaica del rabbi Gamaliele, che ha frequentato a Gerusalemme, aveva un’impostazione filo-ellenistica. Il testo della Lettera ai Romani contiene la riflessione più ampia e sistematica di Paolo di Tarso, e quest’opera risulta essere una delle più importanti della Storia del Pensiero Umano perché, nei secoli, ha attirato l’attenzione di tutte quelle persone che hanno voluto ragionare sui temi riguardanti la condizione umana.

   Nel testo della Lettera ai Romani emergono tre temi fondamentali: il tema del “tempo”, il tema della “giustizia” e il tema della “libertà”, e basta questa affermazione per capire che questo documento – in Età tardo-antica, medioevale, moderna e contemporanea – è sempre stato di grande attualità [anche oggi i temi del  “tempo”, della “giustizia” e della “libertà” continuano ad essere all’ordine del giorno]. Probabilmente la Lettera ai Romani è stata scritta da Paolo nella primavera del 57 a Corinto e, naturalmente, non è un testo inviato ai Romani in generale: come per tutte le Lettere scritte da Paolo il destinatario è una persona singola o un piccolo gruppo di persone che vivono a stretto contatto con la sinagoga di quella città.

   Dobbiamo subito concentrare la nostra attenzione sul fatto che Paolo, dopo la morte di Claudio nel 54, sta guardando a Roma con rinnovato interesse perché sono iniziati gli anni del buon governo [il cosiddetto “quinquennio felice”, che dura poco ma c’è stato!]: Nerone non è ancora maggiorenne, è sotto la tutela di sua madre Agrippina Minore e l’amministrazione dello Stato, fino al 62, è affidata al filosofo Lucio Anneo Seneca e al prefetto Afranio Burro e il testo della Lettera ai Romani al capitolo 13, seppure non in modo esplicito [non si fanno nomi e cognomi], contiene un giudizio su questa virtuosa situazione politica, e l’idea che, qualche anno dopo, sia nato un rapporto di amicizia tra Seneca e Paolo si è formata anche in relazione a questo brano che esalta il principio di “autorità [l’autorità di governo, l’autorevolezza]” con l’intento di lodare proprio quella particolare “autorità” che sta amministrando bene lo Stato romano.

   Non bisogna fare l’errore – ci ammoniscono le studiose e gli studiosi di esegesi – di interpretare questo brano [i primi sette versetti del capitolo 13 della Lettera ai Romani] in modo generalizzato sul valore dell’autorità perché questo passo ha un senso se viene letto nel contesto della nuova e virtuosa esperienza politica in atto a Roma con il governo di Seneca e di Burro. Scrive Paolo: «Non c’è autorità che non venga da Dio» e questa affermazione è la stessa che fa Seneca da filosofo stoico quando scrive che “la fonte dell’autorità è il Sommo Bene e chi governa si deve preoccupare di costruire il Bene comune”, e quindi il discorso di Paolo sul principio di “autorità” si basa su un ragionamento molto pratico ed è rivolto a questa concreta situazione di buon governo dalla quale lui spera di trarne vantaggio perché il suo obiettivo è quello di andare a Roma e di trovare un clima favorevole, di poter respirare in un’atmosfera di tolleranza. Paolo vuol far sapere ai destinatari della sua Lettera che questo governo dei Saggi che si è insediato a Roma va sostenuto e sembra dire ai suoi interlocutori: “Non facciamo sempre i fondamentalisti, ma ubbidiamo a questa autorità che ha fatto una buona riforma fiscale per far pagare le tasse in modo equo, che ha abolito decreti ingiusti e liberticidi” e scrive: «Bisogna stare sottomessi all’autorità non soltanto per paura delle punizioni ma anche per una ragione di coscienza» vale a dire che è necessario giudicare i governi dal loro operato e aggiunge, alludendo ai provvedimenti presi dal governo di Roma: «Date a ciascuno quel che gli è dovuto: l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto, a ciascuno quel che gli dovete dare». Paolo con queste direttive vuole affermare di volersi comportare da buon cittadino soprattutto nei confronti di un governo valente, e il brano in questione non può essere letto  come un generico appello a “l’ubbidienza alle autorità” senza fare opera di discernimento perché non tutti coloro che rappresentano l’autorità hanno dei meriti [purtroppo spesso è successo che, nel corso dei secoli, per ragioni liturgiche e dottrinarie, la Letteratura paolina è stata decontestualizzata con grave danno per la sua comprensione sul piano pastorale] e, quindi, Paolo, nel 57, sta dando un giudizio sulla buona amministrazione [sulla saggia gestione dell’autorità] di Seneca e di Burro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Siccome in ogni casa c’è una Bibbia, questo volume c’è anche nella vostra biblioteca domestica e quindi potete leggere i primi sette versetti del capitolo 13 della “Lettera ai Romani” con la necessaria competenza per capire - dopo questa riflessione sul contesto [storico, politico, sociale] in cui prende forma la scrittura di Paolo di Tarso - il senso delle sue affermazioni…

   Le Lettere di Paolo sono quattordici di cui sette autentiche e sette apocrife [La sistemazione dell’Epistolario di Paolo è stata effettuata intorno all’anno 96 dalla Scuola ellenistica clementina] e queste missive sono state inviate da Paolo a persone di sua conoscenza, mentre la Lettera ai Romani è stata inviata ad alcune persone che però Paolo non conosce: ha avuto il loro indirizzo dagli esuli [come Aquila e Priscilla] che erano tornati a Corinto dopo che erano stati espulsi da Roma a causa del decreto di Claudio [firmato nel 49] contro gli Ebrei che non volevano omaggiare l’imperatore come se fosse un Dio. A Roma, dal III secolo a.C., c’era una numerosa comunità ebraica che si riuniva attorno alla sinagoga nei pressi del Portico di Ottavia e il primitivo nucleo di Cristiani nasce in quest’ambito. C’è da aggiungere che il governo Seneca-Burro [con l’approvazione di Agrippina Minore] aveva abolito di Decreto del 49 contro gli Ebrei ed è per questo che Paolo scrive, al versetto 4 del capitolo 13 della Lettera ai Romani, che: «Le autorità sono al servizio di Dio per il tuo bene» che – ci suggeriscono le studiose e gli studiosi di filologia – è un riferimento preciso alle scelte fatte dai governanti del quinquennio felice in nome della tolleranza. Ma la riflessione sull’ “autorità” nel testo della Lettera ai Romani, pur importante, non è un argomento tra i più incisivi.

   Nel testo della Lettera ai Romani lo scrivano invita a riflettere le lettrici e i lettori su un grande tema di fondo legato ad una domanda fondamentale: qual è la condizione in cui vivono le donne e gli uomini che hanno avuto l’avventura di nascere e di vivere la loro vita, l’avventura umana ha un senso, e che senso ha? Paolo riflette sul “significato” che gli Ebrei e i Pagani hanno dato alla loro vita e critica aspramente i loro comportamenti. Gli Ebrei,  per dare un senso alla loro esistenza, sono caduti nel “legalismo”, hanno interpretato la Legge di Mosé sempre di più con spirito fondamentalista, e l’apparato legislativo, sempre più cavilloso e anacronistico è diventato un feticcio, si è trasformato in un simulacro crudele che non solo non salva ma mette solo paura, mentre la sincera fede di Abramo – padre di tutti i credenti – vale molto di più della Legge. I Pagani poi sono caduti nelle peggiori superstizioni abbracciando culti, spesso fondati sull’immoralità, i quali hanno fatto crescere, per la loro inconcludenza, l’insicurezza e l’infelicità delle persone.

   Per fortuna la “buona notizia” della Risurrezione di Gesù – scrive Paolo – rivolta a tutti gli esseri umani, ha collocato ogni singola persona  in una “nuova dimensione”, c’è stata una “trasformazione [ogni persona è già risorta]” e, quindi, tutti, Ebrei e Pagani senza differenze, sono stati chiamati – scrive Paolo – a fare i conti con un’insidia da respingere che consiste nella presunzione di arroccarsi su antiquate posizioni ideologiche di conservazione invece di prendere coscienza del fatto che la vita può avere davvero una differente portata qualitativa, un diverso rilievo, un valore completamente nuovo e, per definire il rifiuto di questa nuova realtà [la negazione di essere in “stato di grazia”] – una negazione che, secondo Paolo, nasconde la difesa di ingiusti privilegi e di interessi poco onesti –, Paolo utilizza una parola-chiave che tutte e tutti noi conosciamo bene: il termine “peccato”.

   Con questa parola Paolo ha dato un nome ad una serie di idee che erano già emerse nelle opere dei “classici” della prima generazione: nel viaggio dell’anno scorso abbiamo studiato un’opera straordinaria, un poema [pubblicato da Cicerone intorno al 54 a.C.] intitolato De rerum natura, scritto da Tito Lucrezio Caro. In quest’opera Lucrezio pronuncia una sentenza che cambia i connotati della sapienza poetica antica, scrive Lucrezio: «Magis in nobis culpa resedit [secondo me, la colpa è prima di tutto dentro di noi]». Non solo, Lucrezio mette anche in evidenza il fatto che nella realtà materiale che costituisce la sostanza dell’Universo c’è un tarlo, c’è un’imperfezione che crea uno squilibrio anche psicologico negli esseri umani.

   L’analisi di Lucrezio – condivisa da Cicerone, da Virgilio, da Orazio, da Ovidio e poi da Seneca il Filosofo – dà l’avvio a un’importante riflessione sul valore dell’interiorità umana e sul senso da dare alla “responsabilità personale”: Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani ragiona in sintonia con i giudizi di Lucrezio [Paolo conosce le opere dei “classici” e il linguaggio delle Lettere paoline ne è influenzato] e, mettendo in relazione l’etica ebraica con quella greca e romana, perfeziona questo concetto in tutta la sua complessità per cui il “peccato”, nell’Epistolario di Paolo di Tarso, è un termine che contiene i diversi aspetti in cui si manifesta il male e si determina l’ingiustizia. Paolo con la parola “peccato” descrive tre situazioni: “fare volutamente il male per cattiveria”, “commettere involontariamente un errore per ignoranza” e “subire un danno [un inconveniente] per aver sottovalutato l’imperfezione presente nel sistema materiale”. Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani definisce con il termine “peccato” una condizione ad ampio spettro che riguarda la psicologia [l’anima] dell’essere umano, il grado di conoscenza [l’intelletto] della persona e la fisica stessa [la natura] dell’Universo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – il male, l’errore, l’inconveniente – mettereste per prima accanto alla parola “peccato”?…

Sceglietela e scrivetela [sarebbe un peccato non fare questo esercizio]…

   L’analisi operata da Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani su questo importante tema di carattere esistenziale – il tema del “peccato”, sulla scia del quale si sviluppano altri temi significativi di carattere speculativo – ha fatto sì che quest’opera sia diventata un punto di riferimento per la riflessione filosofica e sia considerata uno dei “manifesti” – se non il “manifesto” più importante – della corrente dell’esistenzialismo moderno e contemporaneo.

   Nel testo della Lettera ai Romani Paolo conduce una riflessione di grande attualità [che si coglie se facciamo l’esegesi del testo in lingua corrente] denunciando il fatto che tutti si lamentano perché “le cose vanno male” come se questo non dipendesse da una crisi di valori che vede responsabili le stesse persone che si lamentano. I cittadini di cultura greca e romana – scrive Paolo – conoscono grandi “valori”, legati, allude Paolo, alla tradizione culturale radicata nei Dialoghi di Platone [Paolo ha certamente frequentato Scuole di impostazione platonica sul territorio dell’Ellade], “valori” come la sapienza, l’intelletto, la forza d’animo, la saggezza, la misericordia, la solidarietà, l’ospitalità, ma, si domanda Paolo: chi persegue questi valori? Sono forse questi gli obiettivi della maggioranza dei cittadini di cultura greca e romana? Il denaro, il potere, il successo: queste sono le mete della maggioranza dei cittadini di cultura greca e romana! E poi si lamentano che tutto va male!

   Anche i cittadini di cultura ebraica – scrive Paolo – conoscono grandi “valori” contenuti nei Libri dell’Antico Testamento recentemente tradotti in greco, “valori” come la sapienza, l’intelletto, la forza d’animo, la saggezza, la misericordia, la solidarietà, l’ospitalità, ma, si domanda Paolo: chi persegue questi valori? Sono forse questi gli obiettivi della maggioranza dei cittadini di cultura ebraica? Il denaro, il potere, il successo: queste sono le mete della maggioranza dei cittadini di cultura ebraica! E poi si lamentano che tutto va male!

   Quindi, conclude Paolo, tanto i cittadini di cultura greca e romana, quanto quelli di cultura ebraica sono in una “situazione di peccato”: il “peccato” – secondo Paolo – non è un gesto ma è una “situazione esistenziale” che produce gesti sconsiderati.

   Quale parola greca utilizza Paolo di Tarso per definire il concetto di “peccato”? La parola che Paolo utilizza per definire il concetto di “peccato” è molto significativa e la lettura di questo termine contiene già in sé una forte valenza esplicativa: la parola “peccato” nel testo della Lettera ai Romani corrisponde al termine “omartias omartìas” e, letteralmente, il senso di questa parola-chiave si può tradurre con la dicitura: “conviene stare tutti zitti perché siamo tutti coinvolti, siamo tutti omertosi, siamo tutti complici di una situazione viziosa”. Paolo nel testo della Lettera ai Romani più che al peccato inteso come un deprecabile atto personale pensa al peccato come “situazione esistenziale”, come “condizione strutturale dell’Umanità” che diventa “sistema”: il peccato è “un sistema di relazioni non giuste [omertose]” e tutti gli esseri umani fanno la loro parte per mantenere in piedi questo sistema che è diventato congenito e funzionale all’esistenza quotidiana.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Omertà è complicità, è silenzio, è reticenza: quale immagine – presa dalla cronaca, dalla storia, dalla letteratura, dal teatro, dal cinema, dall’arte in generale – vi viene in mente pensando alla parola “omertà”?… 

Descrivetela in quattro righe…

   Tanto i cittadini di cultura greca e romana, quanto quelli di cultura ebraica – scrive Paolo – sono in una “situazione di peccato” perché non ignorano quali sono i “valori” importanti, anzi, a parole li sbandierano, ma non li perseguono: il peccato è, paradossalmente, una situazione nella quale “non conviene perseguire i valori”. La maggior parte dei cittadini, sia greci e romani che ebrei, dà importanza e rispetta le Leggi emanate dallo Stato ma lo fa per imposizione o per interesse, e Paolo scrive: «La Legge di per sé non è il peccato ma non estirpa il peccato. Impone sanzioni e regolamenta interessi egoistici e fa conoscere i meccanismi del peccato», come dire, paradossalmente, che “fatta la legge trovato l’inganno”. Il sistema nel quale viviamo – scrive Paolo – non porta ad avere una giusta relazione con gli altri perché questo sistema “omertoso” scavalca consapevolmente i principi virtuosi su cui dice di fondarsi e, quindi, è un sistema formalmente legalizzato ma sostanzialmente ingiusto perché la Legge, con i suoi cavilli e i suoi favoritismi [la Legge non è mai uguale per tutti, allude Paolo], cerca spesso di aggirare il rispetto dei principi e di conseguenza – afferma Paolo – la Legge finisce incredibilmente per essere uno strumento che conserva il peccato, con la conseguenza che viene meno la giustizia perché – scrive Paolo – nel gesto di “rispettare le Leggi [del rendere giustizia]” c’è quasi sempre un interesse privato o la paura o l’ipocrisia: in definitiva la Legge giustifica l’omartìas, legittima la cristallizzazione di quella situazione esistenziale che è il peccato.

   E allora – si domanda Paolo – in che cosa consiste la “giustizia”? Nel testo della Lettera ai Romani Paolo scrive che la “giustizia” consiste nel riconoscere i “valori” indicati nelle opere “sapienziali” di tutte le culture [greco-romana, ebraica]: la sapienza, l’intelletto, la forza d’animo, la saggezza, la misericordia, la solidarietà, l’ospitalità. Quindi essere “persone giuste” non vuol dire soltanto “rispettare le Leggi” ma significa soprattutto “incarnare i valori”. Una volta definiti e interiorizzati i “valori” la Legge viene di conseguenza però – afferma Paolo – bisogna sapere che questi “principi virtuosi” [Paolo li chiama “comandamenti”] radicati in tutte le culture umane sono il “dono di Dio elargito gratuitamente a tutti gli esseri umani” e, per definire questo concetto Paolo utilizza il termine “karis karis” che noi traduciamo con la parola-chiave “grazia”. Quindi – scrive Paolo – la “giustizia” è il contenitore dei principi, è il cesto dei doni di Dio, è la grazia di Dio [karis] e di conseguenza non è fondata sull’interesse, sulla convenienza, sul tornaconto ma sulla “fiducia [sulla fede]” e, per dare forza al suo ragionamento, Paolo [nel capitolo 4 della Lettera ai Romani] richiama la figura di Abramo, dell’uomo di fede per eccellenza, parafrasando i racconti contenuti dal capitolo 12 al capitolo 17 del Libro della Genesi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Visto che avete in mano il volume della Bibbia: rileggeteli questi sei capitoli [dal 12 al 17] del “Libro della Genesi” che sono contenuti in appena quattro pagine e poi leggete il capitolo 4 della “Lettera ai Romani” per capire come Paolo dia alla figura di Abramo un significato universale di “padre di tutti quelli che hanno fede, che hanno fiducia in un ideale di salvezza”… 

   Poi Paolo costruisce il suo messaggio: Dio – scrive Paolo –, per mettere gli esseri umani in relazione con lui, ha adottato Gesù di Nazareth e poi lo ha risuscitato dai morti facendo sì che si manifestasse come il “nuovo Adamo [l’esorcizzatore del peccato]”, l’opposto del “primo Adamo [il complice del peccato]” e, quindi, “Gesù risorto” ha rinnovato la condizione umana sconfiggendo la morte che è la manifestazione più evidente del peccato e, di fronte a questa “buona notizia”, l’esistenza della persona che ha fiducia in “Gesù risorto [nel Cristo della fede]” assume una “dimensione qualitativamente nuova” che Paolo definisce con la parola “anastasiosis anastasiosis [il piacere di sentirsi risorti]” e questa persona comincia a vivere in “stato di grazia” perché riconosce i doni [i valori universali] gratuitamente elargiti da Dio.

   Di fronte a questa situazione possiamo finalmente rispondere – scrive Paolo – alla domanda: chi è la persona “giusta”? La persona che realizza la “giustizia” – risponde Paolo – è quella che accoglie la “grazia [karis]” cioè quella che trasforma i “doni di Dio [i valori già presenti nelle culture umane]” in un progetto che dia alla vita umana una “dimensione qualitativamente nuova”: la persona “giusta” coltiva la sapienza, cura il proprio intelletto, accetta i buoni consigli, pratica lo studio, esercita la forza d’animo, mira alla saggezza, usa misericordia, costruisce la solidarietà, dona l’ospitalità. Paolo nella Lettera ai Romani continua a dirci che siamo in attesa di un cambiamento [di una redenzione eterna] ma l’attesa non è passività e quindi questo progetto di vita bisogna attuarlo da subito perché, con la buona notizia della Risurrezione [con l’Anastasia] l’essenza del tempo non può che essere il “presente [il momento attuale]”. Paolo definisce il “momento presente” con il termine “kairòs [ora è il tempo!]”: il kairòs è il “tempo che resta”, ed è inutile rincorrere il “tempo che passa [il chronos, il tempo della cronaca]” perché fugge, ed è vano attendere passivamente il “tempo che verrà [l’eskaton, il futuro]” perché non esiste- Il tempo della salvezza è il “momento presente”, è il “kairòs”, è il “tempo che resta” e va colto perché “mentre si rinvia, la vita passa”, perché “non è vero che abbiamo poco tempo, abbiamo troppo tempo che non riusciamo ad utilizzare per realizzare il bene” e “la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza”.

   Ma non le abbiamo già sentite queste parole leggendo la Raccolta degli aforismi tratti dalle Lettere a Lucilio di Seneca? Se così non fosse non sarebbe nata una tradizione letteraria sull’incontro tra Lucio Anneo Seneca e Paolo di Tarso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A questo punto potete decidere di leggerlo o di rileggerlo il testo della “Lettera ai Romani”: è formata da sedici brevi capitoli ed è lunga appena una decina di pagine…

   Quale impatto abbia avuto il testo della Lettera ai Romani quando, nel 57 o nel 58, è arrivato a Roma in una comunità [in una ekklesìa] dove Paolo non conosce personalmente nessuno ma sa di essere capito perché i provenienti dal paganesimo  sono in maggioranza e tra gli Ebrei, che sono in minoranza [a causa dell’editto di Claudio del 49 per cui si erano dovuti allontanare da Roma], ci sono molti appartenenti al gruppo degli ellenisti [non nazionalisti e non fondamentalisti]: quale impatto abbia avuto questa Lettera noi non lo sappiamo, certo che se Lucio Anneo Seneca l’avesse letta – cosa improbabile – avrebbe trovato molti punti di convergenza per cui avrebbe cercato di mettersi in comunicazione con Paolo di Tarso e questa è un’ipotesi [tuttavia leggendaria] di cui abbiamo parlato, ma, dopo la vacanza, dovremo ancora fare una riflessione sulle analogie tra la Lettera ai Romani di Paolo di Tarso [ci sono in questo testo ancora alcuni importanti concetti da evidenziare in funzione della didattica della lettura e della scrittura] e le Lettere a Lucilio di Lucio Anneo Seneca.

   A proposito dell’importanza che ha il testo della Lettera ai Romani dobbiamo dire che tutte le commentatrici e tutti i commentatori hanno sempre messo in evidenza come la forza del discorso di Paolo stia nella sua possibile realizzazione. Il fatto è che l’utilizzazione dell’Epistolario di Paolo di Tarso, in particolare la Lettera ai Romani, con il tempo [a cominciare dal Concilio di Nicea del 325], è avvenuta contraddicendo nel modo più assoluto la riflessione paolina: dai testi delle Lettere si è voluta trarre una sorta di legislazione – sebbene Paolo abbia con forza e con coerenza stigmatizzato i pericoli del “legalismo” –, una precettistica fatta quasi interamente di divieti, scavalcando il prorompente e propositivo discorso salvifico che Paolo, dagli anni 50, immette sulla scena culturale dell’Età tardo-antica.

   Sulle Lettere di Paolo – scritte in Epoca tardo-antica – si fonda il Cristianesimo e col Cristianesimo si crea la struttura ideologica della civiltà occidentale, ebbene, come mai non si è realizzato – o si è blandamente realizzato – il programma etico che Paolo di Tarso propone per incidere sul contrasto tra l’omartìas [il peccato] e la karis [la grazia di Dio]? Questa è una domanda la cui risposta possiede la prerogativa della complessità: strada facendo cominceremo a chiedere lumi all’imperatore Costantino che nel 313, con un Editto [l’Editto di Milano], comunica che il Cristianesimo è la sua religione e pretende, per ragion di Stato, di condizionarne la dottrina.

   Abbiamo formulato questa domanda nel momento in cui dobbiamo concludere la lettura del romanzo di Stafan Sweg intitolato Paura nel quale lo scrittore utilizza il racconto per affrontare il complesso tema del contrasto tra l’omartìas [il peccato] e la karis [la grazia di Dio]: un contrasto nel quale gli esseri umani rischiano di rimanere schiacciati e s’ingegnano – anche un po’ comicamente, a volte – per attutirne il tragico impatto. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Paura

La strada era già buia, quando Irene uscì dal portone. Sul lato opposto le parve di vedere una figura in agguato, che adesso, mentre lei si avvicinava, arretrò subito sul fondo. Per un attimo credette di scoprire una certa somiglianza con il marito. Era già la seconda volta, quel giorno, che aveva avuto paura di essersi imbattuta inopinatamente, lì per strada, in lui e nel suo sguardo. Si attardò per averne la certezza. Ma la figura era scomparsa nell’ombra. Inquieta, riprese il cammino. La farmacia non era lontana. Vi entrò con un leggero brivido. Lo speziale prese la ricetta e si accinse alla preparazione. Tutto ella vide in quella manciata di minuti: il bilancino lucido, i minuscoli pesi, le piccole etichette, e in alto sui ripiani le varie essenze in fila, con quegli strani nomi latini, che lei sillabava in modo meccanico e a fior di labbra. Udiva il ticchettio dell’orologio, inalava quel profumo particolare, l’odore oleoso e dolciastro dei preparati e dei rimedi, ed ecco si ricordò di quando, bambina, chiedeva alla mamma di affidare a lei le commissioni in farmacia, perché amava quell’odore e la vista inconsueta di tutti quei barattoli lucenti. Ora, con l’occhio fisso, lei guardava la morte passare dal contenitore più grande al più piccolo: di lì sarebbe presto affluita nelle sue vene, e un brivido di freddo le attraversò le membra. «Due corone, prego» disse lo speziale. Lei emerse dal suo stordimento e si guardò attorno, costernata. Poi come un automa aprì la borsa per prendere il denaro. Era ancora in tutto e per tutto come immersa in un sogno, guardò le monete senza riconoscerle subito, e senza volerlo si attardò a contare. In quell’istante sentì che qualcuno le spingeva via il braccio con un movimento brusco e udì il denaro tintinnare nella ciotola di vetro. Una mano si allungò accanto a lei e afferrò la boccetta. Si voltò d’istinto, e a quella vista impietrì. Era suo marito, che le stava accanto, con le labbra serrate. Lei si sentì svenire e dovette aggrapparsi al banco. «Vieni» le disse con una voce sorda. Lei lo guardò fisso, e si avviò accanto a lui, senza quasi rendersene conto. Attraversarono la strada, fianco a fianco. Non si guardarono. Lui continuava a tenere in mano la boccetta. A un certo punto si fermò per asciugarsi la fronte. In modo automatico anche lei rallentò il passo, senza volerlo, senza saperlo. Ma non osò levare lo sguardo verso di lui. Nessuno dei due parlò, il rumore della strada si riversava a ondate fra di loro. Arrivati sulle scale di casa, lui le lasciò il passo e lei salì in fretta gli ultimi gradini. Entrò nella stanza. Entrambi rimasero in silenzio. Lui strappò la carta in cui era avvolta la boccetta, l’aprì e ne vuotò il contenuto. Poi la gettò con rabbia in un angolo. Lei ebbe un sobbalzo nell’udire il tintinnio del vetro. Continuavano a tacere. Irene sentiva che lui cercava di dominarsi, lo sentiva senza vederlo. Alla fine si diresse verso la moglie. Vicino, sempre più vicino. Lei avvertiva il suo respiro affannoso e, con sguardo fisso, come velato, vedeva lo scintillio lucente dei suoi occhi emergere dall’oscurità della stanza. Attendeva l’esplosione della sua collera e, tutta rigida, rabbrividiva al pensiero di quella mano dura che l’avrebbe afferrata. Il cuore di Irene non batteva più, solo i nervi vibravano tesi come corde di violino: attendeva il castigo, e desiderava quasi la sua collera. Ma lui continuava a tacere e, con uno stupore infinito, ella avvertì che le si stava avvicinando con un fare dolce. «Irene,» disse, e nella sua voce risuonò una strana tenerezza «per quanto tempo ancora dobbiamo tormentarci?». Ma in risposta gli giunsero solo singhiozzi, violenti sussulti, assalti di dolore che le travolgevano il corpo. Lui condusse quel corpo tremante fino al divano e ve lo adagiò. Ma i singhiozzi non si placarono. Da settimane sottoposti a una tensione altissima, adesso i nervi si erano spezzati, e il tormento infuriava senza freni nella carne divenuta insensibile. In preda a una violenta emozione lui stringeva quel corpo che rabbrividiva, le prendeva le mani gelate, le baciava le vesti, il collo, prima per tranquillizzarla e poi con veemenza, in un moto di angoscia e di passione. «Irene, adesso è tutto passato. Perché continui a tormentarti. Non devi più avere paura. Lei non verrà più, mai più. Non avrei mai immaginato che ti saresti spaventata tanto, volevo solo richiamarti ai tuoi doveri, volevo solo che lo lasciassi per sempre e tornassi da noi, non avevo altra scelta quando per caso venni a saperlo, ma non potevo dirtelo, pensavo sempre di vederti ritornare, per questo ho mandato quella disgraziata, perché ti spronasse a farlo, è una povera donna, un’attrice rimasta senza lavoro, ha accettato controvoglia, ma io volevo che tu tornassi ti ho sempre fatto intendere che ero pronto, che non desideravo altro che perdonarti, ma tu non hai capito».

Quando aprì gli occhi, la mattina dopo, nella stanza era già chiaro. E chiarezza lei avvertì anche dentro di sé: senza nubi e con il sangue come purificato dopo un temporale. Cercò di rammentare che cosa le fosse accaduto, ma tutto le sembrava ancora un sogno. Irreale, lieve e senza più catene, come quando nel sonno si veleggia da una stanza all’altra, così percepiva quel pulsare, e per sincerarsi di essere proprio desta, si toccò le mani. All’improvviso trasalì: al dito le brillava l’anello. Ed ecco fu perfettamente sveglia. Ora capiva tutto: le domande del marito, lo stupore dell’amante; le maglie si erano sfilate e lei vedeva la rete spaventosa in cui era rimasta impigliata. Fu sopraffatta dall’amarezza e dalla vergogna, i nervi ripresero a tremare, e quasi rimpianse di essersi destata da quel sonno senza sogni e senza angoscia. Dalla stanza accanto si udirono delle risate. I bambini si erano alzati e cinguettavano come i passeri alle prime luci dell’alba. Riconobbe distintamente la voce del figlio e, stupita, ne percepì per la prima volta la somiglianza con quella del padre. Sulle labbra le si disegnò un sorriso che continuò ad aleggiarvi per qualche tempo ancora. Era lì, distesa con gli occhi chiusi, a godere in modo più profondo tutto quanto costituiva la sua vita e adesso anche la sua felicità. Dentro di sé provava un leggero dolore, ma era una sofferenza piena di promesse, ardente e dolce al tempo stesso, come le ferite che bruciano prima di cicatrizzarsi per sempre.

   Che cosa sa Paolo di Tarso della nascita di Gesù? Nonostante abbia fatto delle ricerche non è riuscito a sapere praticamente nulla ed è un po’ sconcertato per il modo in cui noi festeggiamo il Natale! Sconcertato ma incuriosito. Nel viaggio di due anni fa noi abbiamo affrontato questo tema in modo ampio e sappiamo che nei testi delle Lettere di Paolo di Tarso troviamo solo delle tracce di carattere allusivo sulla nascita di Gesù, e sono elementi di natura apologetica: Paolo vuole ribadire che Gesù è come se fosse “figlio adottivo di Dio” e quindi ne vuole esaltare la figura “umana” – Paolo aborrisce all’idea che si possa considerare Gesù come una specie di “semi-dio” alla maniera della cultura pagana – e vuole ribadire che Gesù è “normalmente nato da una donna” e, poi, per la sua condotta esemplare in quanto “rabbi ebraico”, è stato “particolarmente amato e adottato da Dio”. L’idea che Paolo di Tarso coltiva è che “quel Gesù” abbia avuto “una vita come le altre”, ed è proprio questo aspetto di presunta normalità che, secondo Paolo, dà valore alle esperienze forti che ha dovuto affrontare: la passione, la morte, la risurrezione.

   Sul tema della “nascita di Gesù” Paolo decide di dare una risposta culturalmente efficace costruendo una “sentenza” che diventa molto importante quando prenderà corpo la Letteratura dei Vangeli. Questa “sentenza” è collocata proprio all’inizio del testo della Lettera ai Romani, al capitolo primo, versetto tre. Questo brano [i primi 4 versetti del primo capitolo della Lettera ai Romani] è anche l’incipit di tutto l’Epistolario di Paolo di Tarso perché gli scrivani della Scuola ellenistica Clementina, che nasce e si sviluppa a Roma negli anni 90 con il compito di mettere in ordine la Letteratura cristiana degli albori, collocano il testo della Lettera ai Romani al primo posto anche perché Paolo di Tarso – circa trent’anni prima – è stato a Roma dove [probabilmente] è morto lasciando una traccia indelebile.

   Leggiamo l’incipit della Lettera ai Romani che è anche l’incipit di tutto l’Epistolario di Paolo di Tarso: capolavoro della letteratura tardo-antica.

LEGERE MULTUM….

Lettera ai Romani  1  1-4

Vi scrive Paolo, servo di Gesù Cristo. Dio mi ha scelto e mi ha fatto apostolo perché porti il suo messaggio di salvezza. Dio, nella Scrittura per mezzo dei profeti, aveva già promesso questo messaggio di salvezza. Esso riguarda Gesù Cristo, nostro Signore. Nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne ma, sul piano dello Spirito [Pneuma], Dio lo ha costituito Figlio suo con potenza e sapienza [exousìa] quando lo ha risuscitato dai morti.

   Questa è la prima testimonianza dottrinaria della “nascita di Gesù” che per Paolo è un avvenimento che va descritto secondo i canoni dell’integrazione intellettuale tra cultura ebraica e cultura greco-romana: c’è una nascita di Gesù vista con gli occhi della cultura ebraica, secondo la carne, che fa riferimento alla “genealogia” di Davide [e due anni fa abbiamo studiato questo argomento] e c’è una nascita di Gesù vista con gli occhi della cultura ellenistica, secondo lo Spirito [il Pneuma], che fa riferimento alla Risurrezione. Paolo compie un’esercitazione di “mediazione culturale” esemplare, che diventa un elemento qualificante del carattere della cultura dell’Età tardo-antica.

   Coltivando l’idea che la nostra nascita secondo la carne debba prevedere una crescita secondo lo spirito che sia favorita dallo “studio [studium]”, che è sinonimo di “cura”, ed essendo il Natale una manifestazione [un’epifania] dell’atto del “prendersi cura” di sé e degli altri, la Scuola vi augura un buon Natale di studio [studium et cura]!

   Arrivederci al prossimo anno: a mercoledì 9 gennaio [a Bagno a Ripoli], a giovedì 10 gennaio [ad Imprumeta-Tavarnuzze], a venerdì 11 gennaio [a Firenze] 2013.

   Auguri a tutte voi e a tutti voi!…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 14, 2012