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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA, NEI DIALOGHI E NEI TRATTATI DI SENECA, EMERGONO I TEMI DELLA CONSOLAZIONE, DELLA BENEFICENZA, DELLA CLEMENZA ...

Lezione N.: 
7

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica   28-29-30  novembre  2012

Jaques-Louis David - La morte di Seneca

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA,

NEI DIALOGHI E NEI TRATTATI DI SENECA, EMERGONO I TEMI

DELLA CONSOLAZIONE, DELLA BENEFICENZA, DELLA CLEMENZA ...

   Dopo aver percorso la via dei Cinque Imperatori – una strada, come sapete, lastricata con le parole-chiave [la patria e l’esilio, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, il trionfo della Morte e la speranza di risurrezione] con cui comincia a finire l’Età antica [questo catalogo di parole - che conosciamo a memoria - ha assunto una sua struttura compatta nella Storia del Pensiero Umano soprattutto in funzione letteraria tanto da diventare nei secoli una forma intellettuale costantemente presente nelle opere teatrali e nei romanzi per esprimere le ragioni del dissenso e per manifestare la necessità di un rinnovamento morale, sociale e politico] –, ci troviamo, dalla scorsa settimana, di fronte al primo paesaggio intellettuale del territorio dell’Epoca tardo-antica: questo scenario cultuale ha preso il nome dalla famiglia che è la protagonista della storia del primo secolo dell’Impero romano dal 30 a.C. al 68 d.C., la famiglia giulio-claudia.

   In queste ultime settimane abbiamo incontrato i cinque imperatori della famiglia giulio-claudia che caratterizzano questo periodo storico: Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, e questi nomi non lasciano indifferenti [fanno correre un brivido lungo la schiena, oggi non è più un brivido di paura ma bensì di indignazione che si propaga attraverso una vasta saga letteraria]. Naturalmente ci stiamo avventurando in questo viaggio non tanto per incontrare i Principi - imperatori [la loro presenza è comunque condizionante e non si può prescindere da costoro e dal loro entourage, dal loro seguito] ma stiamo viaggiando su questo vasto territorio “di confine” tra Antichità e Medioevo [così è stato definito il “tardo-antico”] per raccogliere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – l’eredità culturale di persone che hanno investito in intelligenza [hanno fatto fiorire il dissenso] dando continuità a quella che chiamiamo la fruttuosa stagione dei Classici che ha avuto inizio dopo la metà del I secolo a.C. con le opere di Cicerone, di Lucrezio, di Virgilio, di Orazio, di Ovidio.

   E, a questo proposito, la scorsa settimana abbiamo incontrato, nel cuore del primo paesaggio intellettuale dell’Epoca giulio-claudia, il primo personaggio importante della Storia del Pensiero Umano dell’Età tardo-antica: Lucio Anneo Seneca detto il Filosofo e abbiamo studiato come questo scrittore, attraverso il genere letterario della tragedia, sia stato capace di creare una virtuosa integrazione [non c’è crescita intellettuale senza integrazione culturale] tra la “sapienza poetica antica” [le opere di Eschilo, Sofocle, Euripide] e la “riflessione filosofica tardo-antica”[le opere di Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio], tra il linguaggio mitico di stampo orfico-dionisiaco del VI e V secolo a.C. e l’eloquenza dottrinale delle Scuole di pensiero ellenistiche [stoiche, epicuree, scettiche] del I secolo d.C..

   Seneca il Filosofo nelle sue opere tragiche – noi, in particolare, abbiamo puntato l’attenzione sul testo della tragedia intitolata Tieste – fa emergere, in tutta la sua gamma di significati, il concetto di “inquietudine” e quello di “paura”, due elementi-cardine, caratteristici della fase di passaggio tra l’antichità e la tarda-antichità, che sono rimasti sempre, a tutt’oggi, fortemente radicati nella Storia dell’Umanità: forse che oggi  “inquietudine” e “paura” non sono due temi all’ordine del giorno? Seneca conosce bene i sentimenti dell’inquietudine e della paura perché avendo vissuto, per un certo periodo di tempo, nella cerchia del potere ha dovuto qualche volta assumere atteggiamenti ambigui che hanno creato in lui molta ansia e grandi timori.

   A questo proposito, di fronte al concetto di “inquietudine” e a quello di “paura”, per prendere il passo sull’itinerario di questa sera – in funzione della didattica della lettura e della scrittura, secondo la natura del nostro Percorso –, dobbiamo proseguire nella lettura di un romanzo che abbiamo cominciato a leggere la scorsa settimana. Questo romanzo-breve s’intitola Paura ed è stato scritto nel 1925 dall’autore viennese Stefan Zweig: questo testo è stato tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia da appena un anno.

   Sappiamo che le opere di Stefan Zweig sono in via di ripubblicazione dopo che questo autore – sebbene così importante nella storia letteraria del Novecento – era stato dimenticato e, a questo proposito, è necessario aggiungere che è tornato da poco in biblioteca anche l’ultimo testo che lo scrittore viennese ha composto prima di togliersi la vita. Stefan Zweig si era rifugiato in Brasile, insieme alla moglie Lotte Altmann, dopo le leggi razziali naziste contro gli Ebrei e decide di morire il 22 febbraio 1942: la scelta di questa data non è stata casuale perché il 22 febbraio è lo stesso giorno in cui muore il protagonista della sua ultima opera che è una biografia romanzata, un genere letterario nel quale Stefan Zweig è considerato un maestro.

   La sua ultima opera s’intitola Amerigo ed è, ancora una volta, la biografia di un navigatore, Amerigo Vespucci: la scorsa settimana abbiamo ricordato che Zweig ha composto anche la significativa biografia di Ferdinando Magellano, il primo circumnavigatore del globo terrestre. Il navigatore e cartografo Amerigo Vespucci – nato a Firenze il 18 marzo 1454 e morto a Siviglia il 22 febbraio 1512 [500 anni fa] – è stato tra i primi e più importanti esploratori del Nuovo Mondo, tanto da lasciare il suo nome al continente. L’intuizione fondamentale di Vespucci sta nell’avere compreso che le nuove terre scoperte da Cristoforo Colombo nel 1492 non costituivano porzioni di territorio del continente asiatico [Haiti non era l’India e Cuba non era la Cina] ma erano la nuova “quarta parte del globo”. Vespucci nota infatti, compiendo un viaggio al servizio del Portogallo nel 1501, che l’estensione delle zone scoperte si spingeva fino al 50º grado di latitudine sud e da tale notevole grandezza comprende di essere in presenza di un continente fino ad allora sconosciuto.

   Stefan Zweig subisce il fascino di Amerigo Vespucci soprattutto perché è un geniale esploratore di mondi che lui per primo ci dice che non sono quello che pensavamo fossero e ci mette di fronte al fatto che noi, quasi sempre, ci sforziamo di credere, illudendoci, che le cose siano diverse da quello che in realtà sono. L’opera Amerigo di  Stefan Zweig era stata pubblicata per la prima volta in Italia nel 1946 e da allora, da 66 anni, non era stata più ristampata, oggi, per fortuna, ricompare.

   Stefan Zweig conduce il suo racconto su Amerigo Vespucci con il suo solito stile interlocutorio e problematico, velato da una grande ironia che nasce dal fatto che sono gli errori a cambiare spesso la Storia e questo concetto lo troviamo anche nel pensiero di Lucio Anneo Seneca : “Noi chiamiamo – scrive Zweig – all’incirca un quarto della Terra, un intero continente, l’America, con il nome di un navigatore che il Nuovo continente non l’aveva scoperto e quello che per primo lo aveva toccato, Cristoforo Colombo, continuava a credere che fosse l’India e, fino alla fine, ha perseverato nella sua illusione”. Stefan Zweig è molto abile a far entrare in contatto la lettrice e il lettore con il senso di solitudine che coltiva Amerigo a cui è toccato il compito di far cadere una grande illusione, proprio a lui che, come tutti gli esploratori, è un inguaribile visionario. Il grande biografo viennese si identifica con il personaggio che descrive e si convince, e convince le lettrici e i lettori, che sta nell’ordine delle cose il fatto che Amerigo – così come Cristoforo Colombo e Magellano – muoia dimenticato da tutti: “Senza che un sovrano o un duca – scrive sarcasticamente e malinconicamente Stefan Zweig – ne accompagnasse la bara, senza che uno storico contemporaneo credesse la sua morte tanto importante da essere annunciata al mondo”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La Scuola consiglia – richiedetelo in biblioteca, anche eventualmente per sollecitarne l’acquisto – la lettura di “Amerigo” di Stefan Zweig per conoscere una storia interessante e per capire che la gloria e il fallimento, la grandezza e la mediocrità camminano di pari passo nella storia umana, e così la pensa anche Lucio Anneo Seneca il Filosofo…  

   Ma ora torniamo al romanzo di Zweig che stiamo leggendo intitolato Paura. In questo testo lo scrittore sviluppa una serie di argomenti di carattere esistenziale a cominciare dai temi dell’inquietudine e dalla paura, temi che emergono nei testi delle opere di Seneca: di conseguenza possiamo leggere questo romanzo-breve come se fosse una “tragedia tardo-antica tradotta in lingua corrente” e, quindi, con un maggior tasso di fruibilità rispetto al linguaggio tragico del I secolo.

   Sappiamo che Stefan Zweig [1881-1942] – con il quale abbiamo fatto conoscenza la scorsa settimana – è nato il 28 novembre e, quindi, è [oggi è, ieri era, l’altro ieri era] il suo compleanno, ha compiuto 131 anni –, sappiamo che questo autore ha saputo raccontare le crepe di un mondo [la felix Austria] che si credeva felice e invece stava per crollare sotto il peso della Storia e anche sotto il carico di una fragilità nervosa pervasa da un vago senso di morte e da un’angoscia mascherata con eloquenza.

   Nel romanzo-breve che stiamo leggendo Stefan Zweig ci conduce nel tragico labirinto mentale di una signora [una figura metaforica], Irene Wagner, che ha tradito il marito solo per uscire dalla tranquillità borghese, per la stanchezza più che per una perversa passione, e che di colpo si ritrova perseguitata da un’arpia [come nelle tragedie di Euripide] che la ricatta. Sappiamo che anche Seneca – che ha subito più di un ricatto – è pronto a seguire con attenzione la lettura di questo testo ed è pronta anche Agrippina Minore, la madre di Nerone, che noi conosciamo bene, la quale si predispone all’ascolto perché: chi meglio di lei può capire l’inquietudine della signora Irene Wagner? Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Paura

Dopo poche settimane soltanto Irene aveva già assegnato a quel giovane, al suo amante, un posto ben preciso nella propria vita, destinandogli un giorno della settimana, come faceva con i suoceri - ma questa nuova relazione non l’aveva indotta a cancellare nulla del vecchio ordine, aveva per così dire semplicemente aggiunto qualcosa alla sua vita. Ci volle poco perché l’amante non cambiasse più nulla nel ben oliato meccanismo dell’esistenza di lei, finendo così per rappresentare una specie di incremento della sua felicità ben temperata, come un terzo figlio o un’automobile - e di lì a poco l’avventura le parve altrettanto banale quanto il piacere legittimo. E adesso, la prima volta che doveva pagare con il pericolo il giusto prezzo dell’avventura, eccola intraprendere calcoli meschini circa il suo autentico valore. Viziata dalla sorte, blandita dai famigliari, quasi senza desideri inappagati grazie alle floride condizioni economiche, quelle avvisaglie di difficoltà cui andava incontro le parevano già eccessive per la sua natura delicata. Non intendeva rinunciare in nessun caso alla pace interiore e, senza neppure riflettervi, era pronta a sacrificare l’amante alla propria tranquillità. La risposta di quest’ultimo, una lettera sgomenta, nervosa, tutta scatti, che le era stata recapitata quel pomeriggio stesso da un fattorino, una lettera in cui il giovane, sconvolto, implorava, si lamentava, accusava, le creò qualche scrupolo circa la decisione di mettere fine all’avventura, perché quella bramosia era lusinga per la sua vanità e una disperazione così struggente la deliziava. Il giovane insisteva affinché lei gli concedesse anche solo un breve incontro, così da potersi almeno giustificare, qualora senza volerlo l’avesse in qualche modo offesa, e lei si sentì eccitata dal nuovo gioco: non smettere di tenergli il broncio e, rifiutandosi senza motivo, farsi desiderare ancora di più. Si sentiva al culmine di un intimo sovvertimento e, come a tutte le persone d’animo un po’ freddo, le piaceva trovarsi immersa nel fuoco delle passioni senza ardere lei stessa. Gli propose quindi di incontrarsi in una sala da tè dove - all’improvviso se n’era ricordata - aveva avuto, da ragazza, un rendez-vous con un attore, che adesso naturalmente, ripensando alla deferenza e alla leggerezza con cui lo aveva accettato, le pareva infantile. Strano, diceva fra sé sorridendone: nella sua vita tornava a fiorire il romanticismo inariditosi durante gli anni del matrimonio. E in cuor suo era quasi lieta dello sgradevole incontro del giorno prima con la donnaccia, perché così, dopo tanto tempo, aveva provato di nuovo un sentimento autentico, a tal punto intenso e stimolante che i suoi nervi, per solito tranquilli, ancora fremevano in segreto. Stavolta indossò un abito scuro, discreto, e cambiò cappello, per confondere i ricordi di quell’altra, qualora l’avesse di nuovo incontrata. Era già sul punto di mettersi la veletta, così da non farsi riconoscere, quando un moto improvviso di sfida la indusse a lasciarla a casa. Non doveva forse più osare una passeggiata, lei, una signora degna di stima e di rispetto, per timore di quella tizia che nemmeno conosceva? E alla paura del pericolo già si mescolava una strana tentazione, una voglia di battersi, pericolosamente eccitante: come passare di taglio le dita sulla lama fredda del pugnale o guardare nella canna di una pistola, in quel cilindro nero dove si annida la morte. Nel brivido dell’avventura c’era qualcosa di insolito per la sua vita ben protetta, quella prossimità suscitava in lei un giocoso solletichìo, una sensazione che adesso tendeva a meraviglia i suoi nervi e la elettrizzava tutta. Una fuggevole angoscia la sfiorò, non appena mise piede in strada, un brivido nervoso, il gelo che le scendeva lentamente giù per la schiena, come quando si immerge la punta del piede in acqua per saggiarne la temperatura, prima di gettarsi fra le onde. Per l’incontro si era concessa non più di un’ora, e si sentiva piacevolmente animata in tutto il suo essere dalla certezza che il giovane la stava già aspettando. Era seduto in un angolo, quando lei entrò, e balzò in piedi con un’agitazione che la colpì, ispirandole un senso al tempo stesso di piacere e di imbarazzo. Dovette invitarlo ad abbassare la voce, tanto era l’ardore con cui, dal tumulto della sua eccitazione, lui le rovesciava addosso un turbine di domande e rimproveri. Senza nemmeno far cenno al vero motivo della visita mancata, ella giocò con allusioni che lo infiammarono ancora di più a causa della loro vaghezza. Questa volta restò inaccessibile alle sue richieste e fu avara perfino di promesse perché sentiva che, con quel subitaneo e misterioso sottrarsi e negarsi, andava rinfocolando il suo desiderio E quando, dopo una mezz’ora di animata conversazione, lo lasciò senza avergli accordato e nemmeno promesso il minimo segno di affetto, ella avvertì dentro di sé ardere un sentimento oltremodo singolare, quale aveva provato solo da ragazzina. Era come se una fiammella scintillante la stesse solleticando nel profondo, in attesa che il vento ravvivasse un fuoco tale da avvolgerla tutta. Rapida nell’incedere, accoglieva al volo ogni sguardo che le venisse dalla strada, e il successo inaspettato di molti fra quei virili adescamenti eccitò a tal punto il suo desiderio di specchiarsi che Irene si arrestò di colpo davanti alla vetrina di un fioraio per ammirare la propria bellezza incorniciata da rose rosse e violette luccicanti di rugiada. Gli occhi le brillavano mentre si guardava: era giovane, leggiadra, una bocca dalle labbra dischiuse e sensuali le restituiva un sorriso appagato, e riprendendo il cammino si sentì le ali ai piedi. Da quando non era più una ragazzina, non si era mai sentita così leggera, così vivificata in tutti i suoi sensi: né i primi giorni di matrimonio né gli abbracci dell’amante erano riusciti a elettrizzare a tal punto il suo corpo, e il pensiero di dover presto svilire nella regolarità quotidiana quella leggerezza straordinaria, quella sensualità dolce e appassionata, le riusciva intollerabile. Proseguì stancamente. Giunta davanti a casa, si fermò un’ultima volta con esitazione, per respirare ancora a pieni polmoni il fuoco di quell’atmosfera, il turbamento di quell’ora, per sentir rifluire nel profondo del cuore l’ultima ondata dell’avventura. Fu allora che una mano la toccò sulla spalla. Lei si volse. «Che cosa vuole di nuovo?» balbettò spaventata a morte nel vedersi all’improvviso davanti quel volto detestabile, e si spaventò ancora di più udendo la propria voce che pronunciava le parole fatali. Eppure si era ripromessa di far finta di non conoscere quella donna, se mai l’avesse incontrata, di negare tutto, di tener testa alla ricattatrice Adesso era troppo tardi. «È già da mezz’ora che la sto aspettando, signora Wagner». Irene trasalì nell’udire il proprio nome. Dunque quella tizia sapeva come si chiamava, dove abitava. Adesso tutto era perduto, lei era senza scampo alla sua mercé. Aveva ancora sulle labbra le parole, quelle parole preparate e soppesate con cura, ma la lingua era come paralizzata e incapace di emettere alcun suono. «È già da mezz’ora che la sto aspettando, signora Wagner». In tono minaccioso e di rimprovero la donna ripeté la frase. «Che cosa vuole dunque da me?». «Lei lo sa, signora Wagner,» Irene trasalì di nuovo nell’udir pronunciare il proprio nome «lei sa benissimo perché sono qui». «Non l’ho mai più visto adesso mi lasci non lo vedrò più mai più». La donna attese con calma che l’agitazione impedisse a Irene di continuare. Poi intimò perentoria, come avesse a che fare con una sottoposta: «Non menta! L’ho seguita fino alla sala da tè» e vedendo che Irene indietreggiava soggiunse beffarda: «D’altronde non ho nulla da fare. Mi hanno licenziata dal negozio - per mancanza di lavoro, come dicono, e poi sono tempi duri. E allora uno ne approfitta, e va a farsi una passeggiatina proprio come le signore eleganti». Lo disse in tono freddo e cattivo: per Irene fu una stilettata al cuore. Si sentiva inerme di fronte alla nuda brutalità di quella bassezza d’animo, e la testa prese a girarle sempre più al pensiero angoscioso che la donna poteva ricominciare a parlar forte oppure che suo marito poteva passare di lì, e tutto allora sarebbe stato perduto. Frugò rapida nel manicotto, aprì la borsetta d’argento e tirò fuori tutto il denaro che le sue dita poterono afferrare. Disgustata lo cacciò nella mano che quell’altra, nell’attesa del sicuro bottino, stava già allungando con impudente lentezza verso di lei. Questa volta però, al contatto con il denaro, la mano non ricadde umile, ma restò sospesa nell’aria, immobile e aperta a mo’ d’artiglio. «Mi dia anche la borsetta d’argento, se no perdo i soldi!» disse sporgendo beffarda le labbra su cui si disegnava un risolino gorgogliante. Irene la guardò negli occhi, ma solo per un attimo. Quello scherno insolente e volgare era insopportabile. Sentiva la nausea invaderle tutto il corpo come un dolore bruciante. Via di lì, via, non vedere più quella faccia! Voltando la testa, con una mossa brusca le allungò la preziosa borsetta, poi, incalzata dall’orrore, corse su per le scale. Suo marito non era ancora a casa, ed ella poté quindi lasciarsi cadere sul divano. Come colpita da un maglio restò lì distesa, immobile, solo le dita erano percorse da un fremito incontrollato che le scuoteva le braccia sino alle spalle, mentre nulla nel suo corpo era in grado di difendersi dall’assalto violento di quell’orrore senza requie. Solo quando udì la voce del marito di là dalla porta, raccolse a fatica le ultime forze e si trascinò nella stanza vicina con passi da automa e la mente vuota.

   Lucio Anneo Seneca, come filosofo e come politico, è da considerare, per la vastità dei suoi interessi, per la bellezza e la duttilità della sua prosa, per l’acume e la profondità con cui esplora le inquietudini e le contraddizioni dell’animo umano, una delle personalità più importanti della Storia del Pensiero.

   Sappiamo che, durante la minore età di Nerone, Seneca, come uomo politico, è stato protagonista, insieme con Afranio Burro, della più significativa stagione di buon governo [il cosiddetto quinquennio felice] di tutta la storia dell’Impero romano. La morte di Afranio Burro nel 62 e l’ascesa al potere di Sofonio Tigellino, nuovo prefetto del pretorio, sono due avvenimenti che determinano la fine della buona politica: Nerone comincia ad agire in modo sempre più populista e in senso antisenatorio, vuole creare una monarchia assoluta di stampo orientale e Seneca – che è passato sopra a troppe cose e sente il dovere morale di opporsi – diventa una persona insopportabile per il Principe tanto che viene congedato dalla corte. Seneca si ritira, capisce che per lui iniziano tempi difficili, e inizia una meditazione sul tema della morte [del trionfo della Morte], un argomento-chiave che fa parte della riflessione filosofica d’impronta stoica.

   Nel 65 viene scoperta la congiura antineroniana ordita da Calpurnio Pisone: la tragicamente famosa congiura guidata dalla famiglia dei Pisoni nella quale, insieme ad altri intellettuali, è coinvolto anche Seneca che, come tutti gli altri congiurati, viene condannato a morte ma, prima dell’esecuzione, è lui che si tolse la vita e questo suicidio “stoico”, di cui resta testimonianza in una pagina mirabile degli Annales di Tacito, ha assunto nei secoli, soprattutto nel mondo cristiano, un significato esemplare di autonomia spirituale e intellettuale: di atto estremo di dissenso contro il tiranno [Seneca vuole morire come se fosse un personaggio di una sua tragedia].

   Il racconto della morte di Seneca il Filosofo non poteva non entrare nella Storia della Letteratura e nella Storia dell’Arte: Seneca si fa tagliare volontariamente le vene e poi, aspettando la morte, beve la cicuta a imitazione di Socrate mentre la moglie Pompea Paolina vorrebbe morire insieme a lui, che si sente onorato da questa comunione d’intenti, e anch’essa si fa tagliare le vene della braccia ma viene salvata per ordine di Nerone che teme di apparire troppo crudele [Tacito, a volte, sa essere ironico]. Pompea Paolina è la seconda moglie di Seneca e, sebbene sia una ragazza molto giovane, dimostra una grande maturità e incoraggia il consorte ad opporsi in nome dei principi della Scuola stoica e a resistere alla persecuzione di Nerone.

   E ora leggiamo la pagina in  cui Tacito nel 15° Libro degli Annales racconta la morte di Seneca il Filosofo, questa pagina ha poi dato spunto a molte artiste e a molti artisti che l’hanno interpretata a loro modo.

LEGERE MULTUM….

Tacito, Annales  15  62-63-64

Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli si impediva di dimostrare la sua gratitudine, lasciava a loro la sola cosa che possedeva e la più bella, l’esempio della sua vita. Se avessero conservato il ricordo di questo esempio avrebbero conseguito la gloria della virtù come compenso di amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei presenti, ora col semplice ragionamento, ora parlando con maggiore energia e, richiamando gli amici alla fortezza dell’animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove erano finite quelle meditazioni che la ragione aveva dettato loro per tanti anni contro le fatalità della sorte. Chi non conosceva, infatti, la ferocia di Nerone? Al quale non rimaneva ormai più, dopo aver ucciso moglie, fratello e madre, che aggiungere l’assassinio del suo educatore e maestro.

Come ebbe rivolto a tutti queste parole ed altre dello stesso tenore, abbracciò la moglie Paolina e, un po’ commosso dinanzi alla sorte che in quel momento si compiva, la pregò e la scongiurò di placare il suo dolore e di non lasciarsi per l’avvenire abbattere da esso, ma di trovare nel ricordo della sua vita virtuosa dignitoso aiuto a sopportare l’accorato rimpianto del marito perduto. Paolina dichiarò, invece, che anche a lei era destinata la morte, e chiese la mano del carnefice. Allora Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che fosse mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era unicamente diletta al suo cuore disse: «Io ti avevo mostrato come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, preferisci l’onore della morte: non sarò io a distoglierti dall’offrire un tale esempio. Il coraggio di questa fine intrepida sarà uguale per me e per te, ma lo splendore della fama sarà maggiore nella tua morte».  Dette queste parole, da un solo colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio ed indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia, ed abbattuto da crudeli sofferenze, per non fiaccare il coraggio della moglie, e per non essere trascinato egli stesso a cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a passare in un’altra stanza. Anche negli estremi momenti, non essendogli venuta meno l’eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte pagine, che testualmente divulgate tralascio di riferire con altre parole.

Nerone però, non avendo motivi di odio personale contro Paolina, e per non rendere ancora più impopolare la propria crudeltà, dà ordine di impedirne la morte. Così, sollecitati dai soldati, schiavi e liberti le legano le braccia e le tamponano il sangue, e non si sa se lei fosse consapevole di questo. Non mancarono, infatti, persone malevole convinte che Paolina avesse cercato di morire gloriosamente insieme al marito finché temeva l’implacabilità di Nerone, ma che poi, al dischiudersi di una speranza migliore, sia stata vinta dalla lusinga della vita. Dopo il marito visse ancora pochi anni conservandone memoria degnissima e con impressi sul volto bianco e nelle membra i segni di un pallore attestante che molto del suo spirito vitale se n’era andato con lui.  Seneca intanto, poiché la morte si avvicinava troppo lentamente, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico provato e competente nell’arte medica, di somministrargli quel veleno, la cicuta, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, perché le membra erano già fredde e il corpo era insensibile all’azione del veleno. Alla fine entrò in una vasca d’acqua calda, asperse le persone più vicine a lui e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, volgeva comunque il pensiero al momento della fine.

   La morte di Seneca il Filosofo raccontata da Tacito [56 circa - dopo il 116] negli Annales ha ispirato molte artiste e molti artisti: un’opera tra le più famose che raffigurano questo importante momento storico di fondamentale importanza soprattutto nell’ambito della Storia del Pensiero Umano è il dipinto del pittore francese Jaques-Louis David intitolato “La morte di Seneca”.

   Jacques-Louis David è un pittore le cui opere sono molto famose ed è difficile che non ne abbiate vista qualcuna ed è un utile esercizio, in questa fase del nostro viaggio, poterle osservare. David è nato a Parigi in una famiglia borghese, molto agiata, nell’agosto del 1748 e ha studiato all’Académie Royale avendo come maestri pittori che seguivano lo stile rococò. David si è messo presto in luce per il suo talento e nel 1774 ha vinto il “Premio di Roma” che consisteva e in un viaggio nella Città Eterna: il viaggio in Italia è stato fondamentale nel percorso d’istruzione di David perché a Roma viene fortemente influenzato dall’arte classica – soprattutto dalla scultura oltre che dall’architettura di età imperiale – ed entra direttamente in contatto con il movimento del Neoclassicismo. David introduce lo stile neoclassico in Francia e diventa il punto di riferimento artistico fondamentale dal periodo della Rivoluzione [1789] alla caduta di Napoleone [1815].

   Lo stile neoclassico di David – che sviluppa a Parigi nelle sue opere – consiste nel rappresentare temi e soggetti del mondo antico prendendo a modello le forme della scultura e dell’architettura romana e i personaggi, nelle loro posture, vengono raffigurati come se fossero su un palcoscenico e stessero rappresentando un dramma con grande enfasi: l’osservazione dei dipinti di Jaques Louis David [non stiamo divagando: stiamo sempre procedendo sul territorio dell’età tardo-antica] fa pensare al modo con cui potrebbero essere messe in scena le tragedie di Lucio Anneo Seneca i cui testi drammatici sono pervasi dallo stesso spirito declamatorio ed enfatico a cui s’ispira David nel suo stile pittorico.

   Dopo il 1789 Jaques Louis David interpreta il neoclassicismo in termini più realistici al fine di rappresentare le scene contemporanee della Rivoluzione Francese [che è anche una grande tragedia], poi dal 1799, per sedici anni, è stato il pittore ufficiale di Napoleone e ha descritto anno per anno il suo regno [che è anche un grande dramma]. Dopo la disfatta di Napoleone David viene esiliato a Bruxelles e negli ultimi anni della sua vita – è morto a Bruxelles il 29 dicembre 1828 – torna a rappresentare soggetti mitologici traendo ispirazione dal passato greco e latino e dipingendo sempre con uno stile teatrale.

   Se vi collegate alla rete – oppure con un catalogo che potete richiedere in biblioteca –potete visionare le opere di Jaques Louis David e soprattutto potete esaminare “La morte di Seneca ” [1773] che è un’efficace messa in scena, ricca di pathos, della pagina degli Annales di Tacito che abbiamo letto: David inserisce il dramma in una prospettiva scenografica classicheggiante per mettere in evidenza la figura semisdraiata di Seneca, con la barba bianca del vecchio filosofo greco, quasi tutto nudo, con le gambe ferite per il taglio delle vene ma, tuttavia, con un fisico da atleta olimpico, mentre la moglie Pompea Paolina, con un profilo dal fiero cipiglio, vestita con un abito molto elegante, viene trattenuta a forza perché non si dia la morte.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate ad osservare questo dipinto e fate le vostre considerazioni: ci sono molti particolari interessanti da notare, che cosa vi colpisce di più in quest’opera?

Scrivete due righe in proposito

   Mi ha colpito anche il fatto che ci sia una curiosa affinità tra Pompea Paolina, la giovane seconda moglie di Lucio Anneo Seneca, che vorrebbe togliersi la vita con lui per fedeltà e per coerenza con i principi stoici predicati dal marito e Lotte Altmann, la giovanissima seconda moglie di Stefan Zweig che si toglie la vita insieme a lui per non rinunciare ad un’idea: per non assistere, a causa della dittatura, alla fine di un mondo, di un’epoca, di una cultura che, soprattutto a Vienna, aveva elaborato un progetto secondo il quale l’Europa multietnica e multintellettuale avrebbe potuto vivere in pace e in armonia.

   L’appellativo di “filosofo” attribuito a Lucio Anneo Seneca si giustifica col fatto che questo personaggio risulta essere fondamentale per l’evoluzione di quella che è stata chiamata la “Scuola filosofica romana” attiva tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. nel momento in cui inizia a finire l’Età antica per sfumare nell’Epoca tardo-antica. Sappiamo che la “Scuola filosofica romana” – ne abbiamo parlato nel viaggio dello scorso anno scolastico – non ha elaborato un proprio pensiero originale ma ha svolto un ruolo importante perché ha messo in atto un movimento di rinnovamento dei programmi delle Scuole ellenistiche [eclettiche, epicuree, stoiche, scettiche] che erano state fondate circa tre secoli prima nell’Ellade ad Atene, e i cui metodi dovevano essere rinnovati secondo i canoni di una società che era profondamente cambiata.

   Nel viaggio delle scorso anno abbiamo incontrato Marco Tullio Cicerone che con le sue opere, con i suoi  trattati etico-politici, ha rimodellato il pensiero eclettico, poi abbiamo studiato lo straordinario poema intitolato De rerum natura [La Natura] con il quale Tito Lucrezio Caro rilancia a Roma la dottrina di Epicuro e adesso – in viaggio sul territorio del tardo-antico – incontriamo Lucio Anneo Seneca che opera per rinnovare il pensiero della Scuola stoica. Tutte le opere di Seneca – che è stato uno scrittore molto prolifico sia in prosa che in poesia – hanno un’impronta filosofica di matrice stoica.

   La prima serie di opere della vasta produzione di Seneca di cui ci occupiamo, sono raccolte in un volume che s’intitola Dialoghi. I Dialoghi [Dialogorum libri] di Seneca sono una raccolta di dieci scritti filosofico-morali. Ognuno di questi scritti si rivolge esplicitamente ad un personaggio al quale lo scrittore spiega i concetti della filosofia stoica con importanti “aperture” verso il pensiero epicureo. Quindi la struttura dialogica è più letteraria che drammatica: spesso è un monologo in cui interviene, per vivacizzare l’esposizione, oltre al destinatario stesso, un terzo interlocutore il quale ha il compito di fare domande retoriche per dar modo al filosofo di esporre le sue idee. La data di composizione dei Dialoghi è incerta e questi scritti sono stati catalogati dalle studiose e dagli studiosi di filologia secondo un probabile ordine cronologico. Adesso noi li enumeriamo questi Dialoghi perché la conoscenza dei titoli ci fa capire quali sono i temi di stampo esistenziale sui quali il filosofo stoico riflette.

   Il primo dialogo s’intitola “Consolatio ad Marciam ” [Per consolare Marcia] e questo scritto è dedicato a Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, per consolarla della morte del figlio Metilio, e lo scrittore affronta il tema della labilità delle cose e della precarietà della vita umana.

   Il secondo dialogo s’intitola “De ira ” [Sull’ira] e questo scritto, sotto forma di trattato, è dedicato al fratello Novato ed è stato pubblicato dopo la morte di Caligola [termina con un’invettiva contro Caligola] e tratta della genesi delle passioni, in particolare dell’ira, e del modo di dominarle.

   Il terzo dialogo s’intitola “Consolatio ad Helviam ” [Per consolare Elvia] e Seneca dedica questo scritto a sua madre Elvia per consolarla del dolore che ha patito quando lui è stato esiliato in Corsica.

   Il quarto dialogo s’intitola “Consolatio ad Polibium ” [Per consolare Polibio] ed è stato scritto in Corsica ed è dedicato a Polibio, potente liberto di Claudio, per consolarlo della morte di suo fratello e per ricordargli [chi ha orecchie per intendere intenda] che anche l’esilio, che lui sta subendo ingiustamente, è una sorta di morte civile.

   Il quinto dialogo s’intitola “De brevitate vitae” [Sulla brevità della vita] ed è uno scritto dedicato a Paolino, prefetto dell’annona [ministro delle finanze] e tratta della vita che è apparentemente breve per chi non sa utilizzarla con saggezza coltivando l’onestà.

   Il sesto dialogo s’intitola “De constantia sapientis ” [La costanza del sapiente] ed è uno scritto dedicato a Sereno e tratta dell’imperturbabilità [l’atarassia] della persona  sapiente la quale non deve rispondere né alle ingiurie né alle offese.

   Il settimo dialogo s’intitola “De vita beata ” [Sulla vita beata] ed è uno scritto dedicato al fratello Novato che aveva assunto il nome di Gallione il quale era un ricco signore che lo aveva adottato essendo senza figli, e tratta di come conciliare la felicità con la ricchezza perché il possesso di grandi patrimoni è quasi sempre causa di profonde preoccupazioni che avvelenano la vita piuttosto che addolcirla.

   L’ottavo dialogo s’intitola “De tranquillitate animi ” [La tranquillità dell’animo] ed è uno scritto dedicato a Sereno nel quale il filosofo sviluppa il tema della serenità, uno stato d’animo che si raggiunge se la persona si comporta in modo coerente rispetto ai principi che dice di dover rispettare.

   Il nono dialogo s’intitola “De otio ” [L’ozio] ed è uno scritto dedicato a Sereno nel quale Seneca giustifica il suo ritiro dalla vita pubblica e tesse gli elogi del vivere un’esistenza appartata, del vivere senza voler apparire dedicandosi allo studio.

   Il decimo dialogo s’intitola “De providentia ” [La provvidenza] ed è uno scritto dedicato a Lucilio al quale Seneca spiega il concetto della provvidenza secondo la dottrina stoica e insegna che il male, quando viene inflitto ai buoni, non fa altro che fortificare la loro virtù.

   L’aver elencato queste opere ci ha permesso di conoscerne i titoli in modo da fare l’inventario degli argomenti trattati ma, soprattutto, questa ricognizione ci ha fatto capire che Seneca è tra i primi ad elaborare un tema che, in Età tardo-antica, va assumendo un’importanza particolare: il tema legato alla parola-chiave “consolazione”. In tutti i dieci Dialoghi questo concetto viene evocato anche quando il termine “consolazione” non è nel titolo. Il termine “consolazione” fa parte della dottrina stoica e del percorso educativo che la Scuola stoica propone e il programma stoico prevede che “bisogna imparare a consolare” perché questa azione non ha solo una valenza sentimentale ma ha, soprattutto, un risvolto culturale: infatti la fonte primaria che maggiormente procura “consolazione” è l’esercizio dello “studio”, ed è proprio con la Scuola filosofica romana che si mette l’accento sul fatto che la parola latina “studio [studium]” è sinonimo di “cura” e “consolare” significa “prendersi cura”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – conforto, sollievo, sostegno, alleviamento, motivo di gioia, fonte di soddisfazione, ricompensa, riconoscenza – mettereste per prima accanto alla parola “consolazione”?…  Scegliete e scrivete la parola adatta secondo la vostra esperienza

Dai “Dialoghi” di Seneca si capisce che in Età tardo-antica il tema della “consolazione” entra inevitabilmente in contatto con i termini del catalogo con cui comincia a finire l’Età antica: infatti l’esilio, il sonno, il sogno, la malattia, il tormento, l’amore, l’odio, il trionfo della Morte, presentano situazioni in cui il tema della  “consolazione” s’inserisce facilmente…

Vi è capitato di poter dire: «Ecco, ora ho trovato consolazione»?…

Scrivete quattro righe in proposito…

   Facciamo una considerazione in proposito dicendo che in questi anni [gli anni della prima metà del I secolo] entra in incubazione – soprattutto utilizzando lo stile epistolare – un apparato letterario, scritto in greco, che provocherà una rivoluzione culturale nel corso dell’Età tardo-antica: è la Letteratura dei Vangeli [un argomento al quale abbiamo dedicato un intero viaggio due anni fa incentrato sull’Epistolario di Paolo di Tarso che in questo momento è a Roma e lo incontreremo]; ebbene, nei testi di una serie di opere di questa Letteratura si narra anche il momento in cui Gesù Cristo risorto ascende al cielo e alla domanda che gli viene rivolta dai discepoli che assistono angosciati a questo straordinario avvenimento: «Perché te ne vai, perché ci lasci soli?». Gesù risponde: «Non abbiate paura vi manderò un consolatore [parakletos]».

   Il “consolatore” – come ci racconta il testo di Atti degli Apostoli – scende [a Pentecoste, cinquanta giorni dopo] ed elargisce dei “doni” a chi lo sta attendendo con ansia e questi doni – sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio – hanno una forte connotazione stoica: il “consolatore” dona gratuitamente strumenti per investire in intelligenza, e questa è l’idea di “consolazione” che anche Seneca ha in mente. Il tema del “consolatore [parakletos]”, che assume col tempo e con lo sviluppo teologico i connotati di una “persona divina” fa parte di un’altra storia con la quale avremo a che fare a suo tempo.

   Certamente chi non ha alcun motivo per sentirsi consolata è la signora Irene Wagner la quale è piuttosto abbattuta, depressa, afflitta, addolorata, rattristata per quello che le sta capitando, e allora andiamo avanti a leggere alcune pagine dal romanzo Paura di Stefan Sweig che calzano bene con le riflessioni che abbiamo fatto sulla scia dei Dialoghi di Lucio Anneo Seneca.

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Paura

Adesso il terrore si era insediato in casa di Irene e non ne abbandonava le stanze. Quella persona - e Irene continuava a non capacitarsene - conosceva il suo nome e il suo indirizzo e adesso, visto il buon esito dei primi tentativi, avrebbe di sicuro considerato lecito qualsiasi mezzo per continuare a ricattarla, traendo profitto da ciò che sapeva di lei. Per anni e anni avrebbe seguitato a pesare sulla sua vita come un incubo, impossibile da scuotersi di dosso persino con gli sforzi più disperati perché, seppur benestante e moglie di un uomo facoltoso, Irene non sarebbe mai riuscita, senza l’appoggio del marito, a mettere insieme una somma così cospicua da potersi liberare per sempre della donnaccia. E non solo - questo lo sapeva da ciò che talvolta lui le raccontava in merito ai suoi processi: accordi e promesse con gente di quella risma, gente scaltra e disonesta, erano comunque del tutto privi di valore. Che cos’erano infatti sei mesi di carcere per quella donna, senz’altro dissoluta e magari pregiudicata, a paragone con l’esistenza che lei avrebbe perduto e riguardo alla quale si rendeva conto con spavento di non avere alternative? Incominciarne una nuova, su cui avrebbe pesato l’ombra del disonore e dell’infamia, era da escludere: tutto nella vita le era infatti giunto in dono, e lei non aveva nemmeno cooperato a forgiare il proprio destino - e poi lì c’erano i suoi figli, la sua casa, quelle cose di cui, solo adesso che stava per perderle, sentiva quanto fossero parte essenziale della sua più profonda esistenza. Tutto ciò che prima aveva solo sfiorato, ora di colpo le pareva terribilmente necessario, e a volte le sembrava incredibile, anzi irreale come un sogno, il pensiero che una sconosciuta senza né arte né parte, sempre in agguato sulla sua strada, avesse il potere di scardinare con una sola parola quell’insieme caldo e armonioso. Ineluttabile era dunque la catastrofe, lo avvertiva adesso con angosciosa certezza, impossibile sfuggirne. Ma che cosa sarebbe accaduto davvero? Ricamava intorno a quella domanda dalla mattina alla sera. Un giorno a suo marito sarebbe arrivata una lettera, lo vedeva già entrare nella stanza, pallido, lo sguardo cupo, prenderla per un braccio e chiederle Ma poi che cosa sarebbe accaduto poi? E che cosa avrebbe fatto lui? A quel punto le immagini svanivano di colpo nelle tenebre di un’angoscia tumultuosa e inesorabile. Non riusciva a immaginare il seguito, e le sue congetture precipitavano in abissi di vertigini. Ma di una cosa si rendeva conto inorridita, mentre stava lì a rimuginare: quanto poco conoscesse il marito, quanto poco riuscisse a prevederne le reazioni. Lo aveva sposato, sollecitata dai genitori, ma non controvoglia, anzi provando per lui una schietta simpatia, che nel corso del tempo non era andata delusa, e aveva trascorso al suo fianco otto anni di una felicità coniugale tranquilla, senza scosse; da lui aveva avuto dei figli, una casa e innumerevoli ore di intimità fisica, ma solo adesso, mentre si chiedeva quale sarebbe stata la sua reazione, capiva quanto lui le fosse ancora estraneo e sconosciuto. Volgendo febbrilmente lo sguardo all’indietro, quasi a scandagliare gli ultimi anni alla luce di fantomatici riflettori, scopriva di non aver mai indagato la vera natura del consorte e adesso, dopo tanto tempo, di non sapere nemmeno se fosse rigoroso o conciliante, severo o capace d’affetto, giudice inflessibile o indulgente consolatore.  Con un sentimento di colpa fatalmente tardivo, indotto da quella terribile angoscia, ella dovette confessare a se stessa che, di lui, altro non conosceva se non l’aspetto mondano, la superficie, e mai era scesa nel profondo. La paura bussava ora alla porta di ogni ricordo con colpi esitanti, per trovare accesso alle segrete stanze del suo cuore. Di lui spiava la minima osservazione e ne attendeva il ritorno con impazienza febbrile. Nel salutarla il marito quasi non si soffermava sul volto di lei, ma nei suoi gesti - già solo come le baciava la mano o le passava le dita fra i capelli - pareva celarsi una tenerezza che, per quanto ella rifuggisse pudica ogni manifestazione impetuosa, era certo segno di profondo affetto. Era sempre misurato quando le rivolgeva la parola, mai impaziente o nervoso, e tutto nel suo contegno lasciava trasparire una pacata gentilezza, non molto diversa però, come lei nella sua inquietudine cominciava a intuire, da quella usata con la servitù e assai meno profonda - lo si vedeva bene - di quella esibita con i bambini e che in lui assumeva sempre forme vivaci, ora liete ora appassionate. Anche quel giorno si informò in modo circostanziato delle questioni domestiche, come per darle l’opportunità di parlargli dei propri interessi, mentre lui le nascondeva i suoi, e poiché lo stava osservando, Irene scoprì ora per la prima volta quanti riguardi il marito avesse nei suoi confronti, con quanto garbo cercasse di adeguarsi alle sue conversazioni quotidiane - di cui adesso all’improvviso ella constatava con orrore tutta l’insulsa banalità. Di sé lui non raccontava nulla, e la curiosità di lei, che anelava a una parola di rassicurazione, restava inappagata. Perciò, dal momento che le parole non ne rivelavano la natura, ella ne indagò il sembiante, mentre sedeva in poltrona a leggere un libro sotto la luce intensa dell’illuminazione elettrica. Quasi fosse quello di uno sconosciuto, Irene ne guardava adesso il volto, cercando di indovinare in quei tratti familiari, tornati di colpo ad apparirle estranei, il carattere che otto anni di vita in comune avevano celato alla sua noncuranza. La fronte era nobile e spaziosa, come modellata da una forte tensione intellettuale, la bocca invece era severa e priva di condiscendenza. Nei suoi lineamenti marcatamente virili tutto era rigore, energia e forza: stupita di riscontrarvi i segni della bellezza, con una certa qual ammirazione contemplava quella serietà rattenuta, la manifesta asprezza del suo essere che lei finora, superficiale come al solito, aveva sempre ritenuto segno di scarsa cordialità. Gli occhi però, che dovevano racchiudere il vero segreto, erano immersi nella lettura del libro e si sottraevano così alla sua osservazione. Tutto d’un tratto s’accorgeva che lo guardava volentieri, con piacere e orgoglio. E al risvegliarsi di questa sensazione qualcosa le si lacerava dolorosamente nel petto, un sentimento confuso, il rimpianto per ciò che si era lasciata sfuggire, una tensione quasi sensuale, che non ricordava di aver mai conosciuto così intensa, nemmeno nell’intimità fisica. Lui levò lo sguardo dal libro. Lei si ritirò in fretta nell’ombra, per non accendere i suoi sospetti con l’ardore interrogativo del proprio sguardo.

   Continuiamo ad inventariare le opere di Seneca il Filosofo: oltre ai Dialoghi, Seneca ha scritto tre significativi Trattati che hanno suscitato grande interesse in età medioevale e moderna e i temi che sviluppano invitano anche noi, persone contemporanee, alla riflessione.

   Il primo dei tre trattati scritti da Lucio Anneo Seneca s’intitola “De beneficiis ” [I benefici] ed è un’opera in sette libri dedicata a Ebuzio Liberale e composta da Seneca negli ultimi anni della sua vita. Quest’opera affronta il tema legato all’atto del “fare beneficenza”: un gesto che coinvolge e crea una relazione particolare tra chi elargisce il beneficio e chi lo riceve. Seneca sottolinea l’importanza sociale che ha la “beneficenza” poi, però, manifesta la sua preoccupazione per l’ambiguità che spesso si nasconde dietro le elargizioni soprattutto quando sono fatte per ottenere il consenso, il favore, la complicità, la connivenza. Seneca scrive che la “beneficenza” è una bella azione quando è svincolata dai legami materiali e dagli interessi venali: solo in questo caso questa buona pratica può essere considerata una virtù.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali oggetti siete disposte e disposti a donare per una eventuale “fiera di beneficenza”?  Fate l’elenco, ma che non sia più di quattro righe

   Il secondo trattato di Seneca s’intitola “De clementia” [La clemenza] ed è un’opera politico-fìlosofìca in tre libri dedicata a Nerone e scritta nel primo anno del suo principato quando era un ragazzo studioso e giudizioso. Di questo trattato sono rimasti il primo libro e sette capitoli del secondo. Seneca traccia il programma politico per il giovane imperatore, fondato sul valore della clemenza e della moderazione come caratteristiche del principe ideale. Seneca ritiene che uno Stato repubblicano sia più corrispondente alla concezione stoica, se però gli avvenimenti conducono alla nascita di un regime monarchico è più che mai importante avere un sovrano ben formato intellettualmente e, dunque, si rivela fondamentale, per chi è chiamato a gestire il potere, lo studio della filosofia per la ragione che esercitandosi in questa disciplina – che consente soprattutto l’acquisizione della virtù cardinale della “clemenza” – il monarca riesce a trovare più facilmente la buona direzione necessaria per amministrare lo Stato poiché la “clemenza” suscita la bontà, la benevolenza, la benignità, la comprensione, l’indulgenza, la tolleranza, la generosità, l’umanità, la pietà, la misericordia, la dolcezza, la mitezza. La domanda che ci facciamo con preoccupazione è: come mai Nerone è diventato un despota nonostante i buoni insegnamenti ricevuti? Per il modo con cui è scritto questo trattato – ci fanno notare le studiose e gli studiosi di filologia – si capisce che, da parte del filosofo, c’è già la consapevolezza [molti sono i segnali negativi a corte] di doversi preparare lui ad affrontare un probabile despota.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali di queste parole, non più di tre - bontà, benevolenza, benignità, comprensione, indulgenza, tolleranza, generosità, umanità, pietà, misericordia, dolcezza, mitezza – mettereste per prima accanto alla parola “clemenza”?…

Scrivetele…

   Il terzo trattato di Seneca s’intitola “Naturales quaestiones”  [Riflessioni sui fenomeni della natura] ed è un’opera composta dopo il suo ritiro dalla vita politica e dedicata all’amico e discepolo Lucilio, magistrato e procuratore in Sicilia nel 63 e nel 64. Seneca, dopo una prefazione in cui dichiara il proposito di giungere alla conoscenza di Dio che lui considera immanente nel mondo attraverso le sue manifestazioni, articola il discorso in sette libri, secondo un criterio non sempre evidente, basato sui quattro elementi fondamentali – l’aria, la terra, l’acqua e il fuoco –, ma palesemente squilibrato a favore dei fenomeni atmosferici, i “sublimia”, che riguardano la regione che si trova tra la terra e il cielo. Seneca è affascinato dai tuoni, dai fulmini, dai lampi, dalle nubi, dai venti, perché questi fenomeni stimolano la sua mente e risvegliano i suoi pensieri e lo spingono a mettere per iscritto le sue riflessioni. Tre libri sono dedicati ai fenomeni terrestri, le acque, le inondazioni del Nilo e i terremoti, uno è dedicato all’astronomia, soprattutto alle comete. Ogni argomento si conclude con una serie di considerazioni di natura morale: sulla degenerazione delle epoche umane, sul trionfo della Morte, sui cicli cosmici che segnano la storia dell’umanità, sulla polemica contro il commercio disonesto, sulle guerre, sull’inerzia della ricerca filosofica.

   Le “Naturales quaestiones” è un’opera interessante che testimonia la versatilità di Seneca e il suo interesse verso le scienze affermando però che l’aspetto etico deve sempre prevalere su quello scientifico perché, contrariamente, l’interesse economico, derivante dalla scoperta scientifica, può soffocare il beneficio che le scienze ci possono offrire per costruire una società più umana.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Seneca utilizza il termine “sublimia” per definire i “fenomeni naturali”: quale fenomeno naturale vi affascina particolarmente?

Scrivete due righe in proposito

   Chissà quale fenomeno naturale affascina la signora Irene Wagner? Forse la sua condizione psicologica la porta a pensare a qualcosa di catastrofico: leggiamo, per concludere, queste pagine nelle quali beneficenza e clemenza sono latitanti.

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Paura

Da tre giorni ormai non usciva più di casa. E già notava con un certo imbarazzo che la sua presenza, divenuta di colpo ininterrotta, era subito stata notata dagli altri. Per mentalità Irene apparteneva a quel giro della borghesia viennese la cui agenda giornaliera sembra esaurirsi - come per una convenzione segreta - nel fatto che tutti i membri di tale cerchia invisibile continuano a ritrovarsi alle stesse ore e con gli stessi interessi, sino a fare di questo eterno incontrarsi, osservarsi e stabilire paragoni il vero senso della loro esistenza. Quando finisce abbandonata a se stessa e isolata, una vita avvezza a relazioni sociali così indolenti perde ogni puntello e la solitudine degenera rapidamente in un’aggressività nervosa contro la propria persona. Il tempo che Irene sentiva gravare su di sé non aveva fine, e senza le consuete occupazioni le ore perdevano ogni significato. Inoperosa e irritata, ella andava avanti e indietro nelle sue stanze come tra le mura di un carcere; la strada, il mondo, che erano la sua vera vita, le risultavano ora preclusi: simile all’angelo dalla spada fiammeggiante, la ricattatrice l’attendeva laggiù, con la sua perenne minaccia. I primi ad accorgersi del cambiamento furono i figli, in particolare il maschio, che era il più grande e che espresse con franchezza imbarazzante il proprio ingenuo stupore nel vedere così spesso la mamma a casa, mentre i domestici si limitavano a confabulare e a scambiarsi ipotesi con la governante. Invano ella si sforzò di giustificare quella sua presenza che tanto dava nell’occhio, adducendo i motivi più diversi, spesso molto ben escogitati: proprio il carattere artificioso delle sue spiegazioni le fece capire quanto lei stessa fosse diventata inutile, lì tra i suoi, a causa dell’indifferenza che aveva riservato loro per anni e anni. …  Il giorno successivo, mentre erano tutti insieme a pranzo - i bambini avevano appena bisticciato e c’era voluto del bello e del buono per ricondurli alla calma -, la domestica portò una lettera. Per la signora, e il latore attendeva una risposta. Sorpresa, Irene osservò la grafia sconosciuta e lacerò in fretta la busta, ma già alla prima riga impallidì. Balzò in piedi di scatto e fu ancora più spaventata quando, dallo stupore unanime degli altri, comprese di essersi tradita con l’impulsività della propria reazione. La lettera era breve. Tre righe: «Si prega di consegnare subito cento corone al latore della presente». Non c’erano né firma né data nel messaggio dalla grafia senz’altro contraffatta, solo quel comando spietato e perentorio! Irene corse in camera sua per prendere il denaro, ma aveva smarrito la chiave del piccolo scrigno; con gesti febbrili mandò all’aria tutti i cassetti finché non la ritrovò. La mano tremante, mise la banconota in una busta e la portò di persona alla porta, dove il fattorino era in attesa. Fece tutto senza riflettere, come sotto ipnosi, non mettendo in conto la possibilità di un rinvio. Poi - erano passati due minuti o poco più - rientrò in sala da pranzo. Tutti tacevano. Si sedette al suo posto con un senso di imbarazzo e disagio e stava già per imbastire alla bell’e meglio una scusa, allorché - e la sua mano si mise a tremare così forte che dovette posare subito il bicchiere appena sollevato - si accorse in un moto di ancor più terribile sgomento che, colpita come un fulmine dall’agitazione, s’era alzata da tavola lasciando la lettera aperta accanto al piatto. Un tocco impercettibile, e il marito avrebbe potuto farla scivolare verso di sé, così da leggere magari con un solo colpo d’occhio quelle righe scritte in caratteri goffi e cubitali. Le mancò la parola. Con un gesto furtivo appallottolò il foglietto, ma alzando gli occhi nel momento in cui lo faceva sparire, incontrò lo sguardo fermo del marito, uno sguardo penetrante, severo, addolorato, che prima non gli aveva mai visto. Solo ora, da qualche giorno, con quello sguardo lui le lanciava improvvise stilettate di diffidenza, che la scuotevano nell’intimo e dalle quali non sapeva difendersi. Era una certezza, o forse il desiderio di sapere di più, a renderlo così penetrante, così freddo, metallico, doloroso? E mentre cercava affannosamente qualcosa da dire, fu sopraffatta da un ricordo lontano, quando il marito le aveva raccontato d’aver avuto a che fare, come difensore in sede di istruttoria, con un giudice, il cui stratagemma durante gli interrogatori consisteva nello sfogliare gli incartamenti fingendosi miope, per poi, alla domanda decisiva, alzare fulmineo gli occhi e conficcarli a mo’ di pugnale in quelli subito atterriti dell’imputato che, nella luce vivida di un’attenzione così focalizzata, finiva per confondersi e perdeva la forza di insistere nelle proprie menzogne. Era forse lui ora a tentare quel trucco così pericoloso, ed era dunque lei la vittima? Rabbrividì, sapendo che un amore per la psicologia legava il marito alla sua professione, ben oltre ciò che poteva richiedere l’attività di giurista. Fiutare un delitto, sviscerarlo, mettere alle strette qualcuno poteva assorbire i suoi pensieri, come accade ad altri con il gioco d’azzardo o con l’erotismo, e in quei giorni, in cui era a caccia di indizi psicologici, sembrava divorato da una fiamma. Un nervosismo febbrile, che lo induceva a mettersi alla ricerca di vecchie sentenze perfino nel cuore della notte, si traduceva sul piano esteriore in una ferrea impenetrabilità. Una volta, in tribunale, lo aveva visto tenere una arringa, ma non era mai più tornata ad ascoltarlo, tanto era rimasta sgomenta dalla passione torva, dall’ardore quasi malvagio del suo discorso e da un tratto cupo e aspro nel volto, che adesso all’improvviso le pareva di ritrovare in quel suo sguardo fisso sotto le sopracciglia corrugate e minacciose. Tutti questi ricordi lontani s’affollarono in quell’unico istante e respinsero le parole che stavano per prorompere dalle sue labbra. Tacque, e la sua confusione cresceva quanto più ella percepiva il pericolo insito in quel silenzio e quanto più si rendeva conto che stava perdendo l’unica plausibile possibilità di spiegazione. Non osava alzare gli occhi, ma nel tenerli bassi fu ancora più atterrita vedendo le mani di lui che, in genere così placide e tranquille, adesso si agitavano sul tavolo come piccole bestie feroci. Il pranzo per fortuna era alla fine, i bambini si alzarono di scatto e si precipitarono nella stanza accanto con le loro voci limpide e allegre, la cui vivacità la governante cercava invano di moderare. Anche suo marito si alzò e si diresse nella camera vicina con passo greve e senza guardarsi attorno.    Appena fu sola, recuperò la lettera sciagurata e lesse ancora una volta quelle righe, poi nella rabbia la fece a pezzi, e stava già per buttarne i frammenti appallottolati nel cestino della carta, quando ci ripensò, interruppe quel gesto e, chinandosi verso il camino, gettò invece il foglio nel fuoco crepitante. La fiamma bianca che, avida e vorace, ingoiò la minaccia, le diede un senso di tranquillità. In quel mentre udì sulla soglia i passi del marito, che rientrava nella stanza. Si raddrizzò rapida, il viso rosso per il calore della fiamma e per essere stata colta in fallo. Il parafuoco era lì spostato a tradirla, e lei cercò goffamente di nasconderlo, mettendovisi davanti. Lui si avvicinò al tavolo, accese un fiammifero per il sigaro e, quando il suo viso fu illuminato dalla fiamma, a Irene parve di vedergli tremare leggermente le narici, il che nell’uomo era sempre segno di collera. Volse quindi tranquillo lo sguardo verso la moglie: «Voglio solo ricordarti che non hai il dovere di mostrarmi le tue lettere. Se desideri avere dei segreti con me, sei libera di farlo». Irene tacque, e non ebbe il coraggio di guardarlo. Lui attese un istante, poi espirò con forza il fumo del sigaro come dal più profondo del petto e lasciò la stanza con passo greve.

Adesso non voleva più pensare a nulla, soltanto vivere, stordirsi, riempirsi il cuore di occupazioni futili e vacue. Non sopportava più casa sua, sentiva di dover scendere in strada, di dover stare in mezzo alla gente per non impazzire dall’orrore. Con quelle cento corone sperava di aver guadagnato almeno qualche giorno di libertà dalla sua ricattatrice, e decise di azzardare di nuovo una passeggiata, tanto più che doveva fare parecchi acquisti e soprattutto nascondere ai congiunti quanto, del suo attuale comportamento, avrebbe di sicuro dato nell’occhio. Ormai aveva un modo tutto suo di dileguarsi. Dal portone di casa si gettò, a occhi chiusi come da un trampolino, nel flusso della via. E non appena ebbe il selciato duro sotto i piedi e la calda fiumana della folla attorno a sé, si precipitò avanti alla cieca, preda di una fretta nervosa, al limite della rapidità consentita a una signora che non voglia farsi notare, gli occhi incollati al suolo, nel comprensibile timore di imbattersi un’altra volta in quello sguardo foriero di pericoli. Se la stavano spiando, voleva almeno non esserne a conoscenza. E tuttavia sentiva di non poter pensare ad altro, e aveva un sobbalzo se soltanto qualcuno la sfiorava. A ogni rumore, a ogni passo alle sue spalle, a ogni ombra che la lambiva, i suoi nervi provavano una trafittura dolorosa.  Esitò e stava già per tornare indietro, quando ebbe la sensazione che qualcuno, alle sue spalle, la rincorresse, e d’istinto, senza riflettere, riprese frettolosa il cammino. Ma avvertiva dietro di sé, con i sensi fattisi oltremodo vigili per la paura, che chi la stava inseguendo le si accostava sempre più, sicché lei accelerò il passo, per quanto sapesse che, alla fine, non sarebbe riuscita a sottrarsi alla persecuzione. A un palmo era ormai quell’ombra che la perseguitava, e «Irene!» proruppe, perentoria e sommessa, una voce dietro di lei, una voce che lì per lì non riconobbe, ma che non era quella temuta, la crudele messaggera di sventura. Con un sospiro di sollievo si voltò: era il suo amante, che stava quasi per investirla, tanto lei si era fermata di scatto. Pallido e turbato, il suo volto recava tutti i segni dell’emozione e adesso, davanti allo sguardo esterrefatto di lei, anche della vergogna. Esitante, alzò la mano per salutare e la lasciò subito ricadere, vedendo che Irene non gli porgeva la sua. Lei si limitò a fissarlo per qualche secondo, tanto inatteso era stato l’incontro. Di lui, giustappunto, si era dimenticata in quelle lunghe giornate di angoscia. Ma adesso che vedeva davanti a sé il suo volto scialbo e interrogativo, con quell’espressione vuota e disperata che lo sgomento disegna sempre nello sguardo, si sentì all’improvviso ribollire di collera. Le labbra le tremavano in cerca di parole, e l’agitazione sul suo viso era così palese che quell’altro, spaventato, si limitò a balbettare il nome di lei: «Irene, Irene, che cos’hai?». E, di fronte al suo moto d’impazienza, soggiunse già tutto contrito: «Ma che cosa ti ho mai fatto?». Lei lo guardò dominando a fatica la collera. «Che cosa mi ha fatto, vuole sapere?» e rise beffarda. «Nulla! Proprio nulla! Soltanto del bene! Soltanto gentilezze!». Lo sguardo di lui era attonito, la bocca semiaperta dallo stupore, il che gli conferiva un’aria ancora più stolida e ridicola. «Ma Irene!…». «Non faccia scandali» lo investì lei brusca. «E non mi propini la solita commedia. Di certo quella signora, la sua cara amica, è qui vicino che ci spia e tornerà ad aggredirmi…». «Ma chichi?». Avrebbe voluto dargli un pugno in faccia, sì: su quella faccia alterata dallo sguardo bovinamente fisso. Sentiva già la sua mano stringere convulsa il manico dell’ombrello. Non aveva mai odiato, mai disprezzato a tal punto una persona. «Ma Irene …» balbettava lui, sempre più confuso. «Che cosa ti ho fatto dunque?Di colpo non ti vedo più Oggi sono stato tutto il tempo davanti alla tua casa, in attesa che uscissi. Per poterti parlare almeno un minuto». «Tu mi hai aspettataanche tu dunque». La collera la faceva sragionare. Potergli dare uno schiaffo, ah, che bella soddisfazione! Ma si trattenne, lo guardò ancora una volta in preda al disgusto, come riflettendo se dovesse sputargli in faccia imprecando con tutta la rabbia accumulata contro di lui, poi si volse di scatto e, senza guardare indietro, si perse di nuovo nella folla. Lui rimase lì, la mano tesa e implorante, sbigottito e in preda ai brividi, finché la calca non lo portò via con sé, come fa la corrente con la foglia caduta dal ramo, che girando e vorticando resiste per non lasciarsi trascinar via, ma alla fine viene condotta alla deriva contro la sua volontà.

Che un tempo avesse avuto quell’uomo per amante parve ad Irene di colpo inverosimile e assurdo. Nulla del giovane le era rimasto nel ricordo: non il colore degli occhi né la forma del volto; non una delle carezze di lui si era impressa nella memoria del suo corpo, e delle parole che le aveva detto l’unica a risuonare ancora in lei era quello scodinzolante guaito «Ma Irene!» con cui egli esprimeva in un balbettio la propria disperazione. Non una sola volta in tutti quei giorni aveva pensato a lui, a lui che pure era all’origine di tanta sventura, nemmeno nei sogni. Non rappresentava nulla nella sua vita, non certo la seduzione - a malapena un ricordo. Non riusciva a persuadersi di aver accostato la bocca alle labbra di lui, e sentiva in sé la forza di giurare di non essere mai stata sua. Che cosa l’aveva spinta nel suo amplesso? Quale spaventosa follia l’aveva gettata in un’avventura che il cuore non comprendeva più, e di cui i sensi riuscivano solo a stento a capacitarsi? Non ne aveva la più pallida idea, tutto in quella vicenda le sembrava estraneo, e lei estranea a se stessa. Ma non era cambiato anche il resto in quei sei giorni, in quella sola settimana di terrore? Come acido nitrico, l’angoscia corrosiva aveva disgregato la sua vita scomponendola negli elementi costitutivi. Le cose ebbero di colpo un altro peso, tutti i valori erano capovolti e i rapporti rimescolati.

   La prossima settimana vedremo come si evolve questa drammatica situazione.

   Ma le nove Tragedie, i dieci Dialoghi e i tre Trattati, sebbene siano opere molto significative, non sono considerate il vero e proprio capolavoro di Lucio Anneo Seneca detto il Filosofo perché l’opera più importante di Seneca, una delle opere più autorevoli dalla Storia del Pensiero Umano, s’intitola Epistulae morales ad Lucilium [Lettere morali a Lucilio, o semplicemente Lettere a Lucilio]: perché è un bene che questa raccolta epistolare di 124 Lettere [che all’inizio del nostro viaggio, nel corso del tradizionale rituale della partenza, stava leggendo il dottor Murke] venga studiata da tutte le persone di buona volontà?

   Per rispondere a questa domanda è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la clemenza] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “vagante” perché l’insegnamento più importante è quello che non si acquisisce mai ma che si studia sempre.

   Il viaggio continua: sta per iniziare dicembre e quello della prossima settimana è il penultimo itinerario prima della vacanza natalizia, il penultimo itinerario dell’anno 2012…

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 30, 2012