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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA CI SONO LE TRAGEDIE DI SENECA: SIGNIFICATIVO CONNUBIO TRA LA SAPIENZA POETICA ORFICA E LA RIFLESSIONE FILOSOFICA ELLENISTICA ...

Lezione N.: 
6

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica   21-22-23  novembre  2012

Stefan Sweig

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

CI SONO LE TRAGEDIE DI SENECA: SIGNIFICATIVO CONNUBIO

TRA LA SAPIENZA POETICA ORFICA E LA RIFLESSIONE FILOSOFICA ELLENISTICA ...

   La scorsa settimana, dopo una lunga marcia di avvicinamento, camminando su una strada lastricata con le parole-chiave che formano il catalogo con cui comincia a finire l’Età antica, siamo arrivate ed arrivati nel cuore del primo paesaggio intellettuale del territorio che abbiamo cominciato ad attraversare: il territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”.

   La strada che ci ha condotte e condotti nel luogo dove questa sera ci troviamo è una lunga via che nella prima parte prende il nome di via della Successione al Principato di Augusto e nella seconda parte prende il nome di via dei Cinque Imperatori. I cinque imperatori di cui abbiamo osservato i profili in queste settimane di viaggio sono: Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. I primi cinque imperatori romani hanno ispirato nei secoli una vera e propria saga letteraria e “La saga dei cinque imperatori” è formata da molte opere romanzesche che spesso amplificano le caratteristiche più truci che emergono dalle biografie di questi personaggi che sono, a loro volta, contornati da figure, soprattutto femminili, la cui storia risulta accattivante perché evidenzia l’avidità, la lussuria, l’ira, la superbia [i vizi capitali]: si descrive la prima dinastia imperiale romana come se fosse integralmente consacrata al vizio e sembra, quindi, che tutti i peccati portino a Roma, la città capitale [l'Urbe] di un Impero dalla quale s’irradia, senza dubbio, la nefasta influenza della “mentalità predatoria”.

   In queste settimane, abbiamo studiato che esistono anche queste componenti fortemente negative – i frutti del sistema imperialista fondato sulla guerra di conquista, sulla distruzione, sulla ricostruzione di strutture funzionali allo sfruttamento dei territori occupati – ma non possiamo fermarci ad osservare una superficie che ha deliziato le scrittrici e gli scrittori di romanzi di ogni tempo, perché noi, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo scavare in profondità nel terreno dove attecchiscono le parole-chiave in modo da analizzare l’essenza delle idee-cardine emergenti nello scenario che ci circonda.

   I primi cinque imperatori romani – Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone – fanno parte di una dinastia che si è venuta a creare soprattutto dall’unione di due potenti famiglie: la Giulia e la Claudia. E il periodo – dal 30 a.C. al 68 d.C., circa un secolo di storia –, in cui sono vissuti e hanno operato, nel bene e nel male, i personaggi che abbiamo incontrato in queste prime settimane di viaggio, ha preso il nome di “Epoca giulio-claudia” e il primo vasto paesaggio intellettuale dell’Età tardo-antica, di fronte al quale ci troviamo in questo momento, prende proprio questo nome: il paesaggio intellettuale dell’Età giulio-claudia.

Il paesaggio intellettuale dell’Età giulio-claudia è, in primo luogo, importante sul piano dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale perché contiene l’eredità della cosiddetta prima stagione dei Classici [le opere di Cicerone, di Lucrezio, di Virgilio, di Orazio, di Ovidio].

   Sapete che, questa sera, abbiamo appuntamento con un personaggio, che si chiama Lucio Anneo Seneca, il quale ha la residenza in questo paesaggio intellettuale ma solitamente vive in un luogo straordinario: nel Limbo della Commedia di Dante Alighieri; la scorsa settimana, alla fine dell’itinerario, siamo andate e andati a trovarlo dove ha il domicilio e spero che abbiate letto o riletto il Canto IV dell’Inferno della Divina Commedia di Dante, siete sempre in tempo a fare questo utile esercizio.

   Il nostro incontro con Lucio Anneo Seneca deve iniziare con un preambolo: appena Seneca, ancora giovanissimo, acquisisce le prime competenze culturali capisce che esiste una straordinaria affinità tra la storia della dinastia imperiale, che da un secolo ormai governa Roma [che conosciamo attraverso il tracciato della via dei Cinque Imperatori], e le trame della tragedia greca, un genere letterario che, da tempo, è passato in secondo piano sul territorio dell’Ecumene ellenistica governata dai Romani. Il genere letterario della tragedia greca – che è fiorito nell’Ellade circa 2500 anni fa con Eschilo, Sofocle ed Euripide – al tempo di Seneca, nella prima metà del I secolo, è un fenomeno intellettuale che ha già cinquecento anni: per Seneca il genere letterario della tragedia è antico allo stesso modo come lo è per noi oggi.

   La storia intellettuale del giovanissimo Seneca, quindi, ha inizio quando comincia a studiare con grande interesse la madre di tutte le tragedie cioè la storia di Pelope, dei suoi due figli, Atreo e Tieste, e dei suoi tre famosi nipoti: Agamennone, Menelao ed Egisto. Il personaggio di Pelope rappresenta il punto di partenza da cui si sviluppa l’intricatissima rete [la mithosarchis] delle narrazioni che costituiscono la grande struttura contenutistica [il serbatoio] del genere letterario della tragedia: sappiamo che all’origine della tragedia c’è una riflessione sull’attitudine che l’homo sapiens-sapiens ha di utilizzare il suo lato abominevole e c’è una meditazione sul fatto che l’aspetto abominevole della personalità umana continua a manifestarsi inesorabilmente e a generare ricadute nefaste sulla storia.

   La straordinaria e complessa “storia dei Pelopidi” noi l’abbiamo studiata, in tutti i suoi particolari piuttosto raccapriccianti, nel corso del viaggio dell’anno 2004 sul territorio della “sapienza poetica tragica” [del tragòs-oidos, il Canto del caprone], ora noi, in relazione a questo argomento, ci limitiamo a fare degli accenni per arrivare preparate e preparati al nostro incontro con Seneca. Dobbiamo ricordare, in modo molto sintetico, chi è il personaggio emblematico di Pelope e quale violenza originaria grava su di lui, una violenza che – secondo la cultura orfico-dionisiaca – pesa dalle origini sull’Umanità [ogni cultura elabora a suo modo l’idea del peccato originale] tanto da condizionarne in modo nefasto [tragico] la storia.

   Il giovanissimo Seneca è affascinato da questi racconti. Si racconta che Pelope [e per molte e per molti di voi non sarà difficile ricordare] è il figlio di un re della Lidia immensamente ricco che si chiama Tantalo e frequenta gli dèi. Tantalo è un gran chiacchierone e, durante i banchetti che organizza a casa sua, racconta delle sue visite sull’Olimpo, racconta che gli dèi si nutrono di nettare e di ambrosia, racconta che lui ha avuto il privilegio di assaggiare questi cibi divini e racconta anche di avere sottratto delle piccole [modiche] quantità di nettare e di ambrosia che lui offre ai suoi ospiti e, in privato, si meraviglia del fatto che gli dèi non se ne siano accorti di questi, seppur piccoli, prelievi di cibo divino e a lui viene un sospetto. Tantalo parla anche troppo di certi segreti divini di cui è venuto a conoscenza e sull’Olimpo tiene discorsi sfrenati che non sempre piacciono agli dèi. Ma Zeus continua a mostrargli favore e a invitarlo: secondo alcuni Tantalo è suo figlio, ma neppure Zeus sa quanti figli ha seminato per il mondo.

   Tantalo è sempre più incuriosito da un fatto: ma questi dèi dell’Olimpo sono davvero onniscienti, sanno davvero tutto, anche prima che succeda? Un giorno Tantalo invita lui gli dèi Olimpi a pranzo a casa sua: il genere letterario della tragedia inizia con un invito a pranzo. Pelope, il figlio di Tantalo, è un bambino che viene coinvolto nei preparativi per questo pranzo: vede una grossa pentola di bronzo che viene messa sul fuoco, poi ricorda che qualcuno lo ha smembrato, lo ha fatto a pezzi, senza che lui perdesse coscienza. Gli dèi vengono fatti accomodare intorno alla pentola di bronzo nella quale il tenero Pelope è stato cucinato. Tantalo pensa di offrire agli dèi un cibo squisito che ha preparato a posta per loro: tutti tacciono pensierosi e la carne rimane nel piatto. Solo la dèa Demetra, che è particolarmente distratta in quei giorni perché sua figlia Core [ma questa è un’altra storia] era scomparsa, prende un pezzo di quella carne e soprapensiero lo mangia: è la scapola di Pelope [la penisola del Peloponneso si chiama così perché rappresenta “la scapola di Pelope”]. Subito dopo, Zeus – consapevole del ripugnante menù cannibalico – rivela la sua furia, e tutti i favori che sino ad allora aveva riservato a Tantalo si capovolgono in atroci punizioni e da questo momento ha inizio l’abominevole spirale delle maledizioni, degli inganni, dei tradimenti e delle vendette. Gli altri dèi, fortemente innervositi, rimangono in silenzio davanti ai loro piatti mentre Zeus ordina a Hermes di raccogliere i pezzi del corpo di Pelope, di rimetterli nella pentola e di farli bollire ancora, poi Cloto, una delle Moire, che è un’esperta artigiana, li tira fuori ad uno ad uno e comincia a cucirli, come se accomodasse una bambola [siamo di fronte al più importate racconto di creazione della cultura orfico-dionisiaca]. I pezzi ci sono tutti, meno uno: e allora la dèa Demetra che quel pezzo se lo è mangiato crea una scapola d’avorio e subito dopo la dèa Rea [Cibele] insuffla a Pelope il respiro e il ragazzo risanato, integro [téleios] e radioso [dìos], torna a vivere [Pelope ha un corpo tutto nuovo con in più una protesi divina, è splendente]. Il dio Pan balla intorno a lui per l’allegria e, questa che abbiamo raccontato, è anche la stessa trama con cui viene narrata tanto la nascita di Dioniso quanto quella di Orfeo, quindi, la storia di Pelope s’identifica con il primordiale “canto del caprone”, con l’origine dei culti dionisiaci, dei riti orfici, con l’origine della tragedia.

   Con Pelope, per volere di Zeus che vuole punire Tantalo, cominciano le sventure umane, ma ora ci dobbiamo fermare perché non possiamo continuare a raccontare tutta la storia dei Pelopidi che è lunga e complessa e l’abbiamo studiata a suo tempo e chi vuole può leggere o rileggere i testi degli itinerari del viaggio dell’anno 2003-2004 nel territorio del “tragos oidòs” collegandosi ai nostri siti: www.inantibagno.it o www.scuolantibagno.net.

   Il giovane Lucio Anneo Seneca studia i temi dell’antica tragedia greca e capisce, in primo luogo, che i mitici personaggi – in particolare i Pelopidi – che troviamo sulla scena delle tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide sono tutti “consanguinei” così come lo sono i componenti della casata giulio-claudia: il luogo della tragedia, da che mondo è mondo, è la famiglia. Seneca riflette sul fatto che i testi delle antiche tragedie greche propongono storie in cui spesso si accoppiano [volenti o nolenti] personaggi nelle cui vene scorre lo stesso sangue e l’omogeneità del sangue [la rigida chiusura nell’ambito degli interessi della propria famiglia, del familismo amorale] porta all’estinzione [all’apoteosi dell’egoismo e al trionfo della Morte]: questa tragica situazione riguarda anche la dinastia giulio-claudia i cui componenti risultano essere tutti, in definitiva, nipoti di Augusto [novello Tantalo, novello Pelope, novello Atreo?].

   Nel mito i figli di Pelope – Atreo e Tieste – lottano in modo abominevole per la supremazia e il modello dei “fratelli rivali” si perpetua in tutte le culture [Caino e Abele, Romolo e Remo]. «Ti vuoi vendicare di tuo fratello Atreo?» dice Apollo con grande determinazione a Tieste nel testo di una tragedia, ebbene, «se ti vuoi vendicare di tuo fratello Atreo stupra tua figlia, così potrai imporre il tuo sangue ma sappi che questo gesto porterà tutti alla rovina», e Tieste, sebbene disgustato, questo gesto lo compie comunque. Il fatto è – commenta Euripide – che quando ci si vuole vendicare la riflessione sulle nefaste conseguenze che la vendetta procura è latitante, viene sistematicamente rimossa.

   La maledizione, l’inganno, il tradimento, la vendetta – le grandi componenti del genere letterario della tragedia – portano tutti alla rovina ma, tuttavia, procurano nell’immediato una perfida soddisfazione che, di lì a poco, sfocia nell’inquietudine e Seneca capisce che non si riesce a rinunciare facilmente a questo perfido compiacimento, pur momentaneo, e comincia ad essere convinto che ci voglia un forte intervento educativo per annientare [o almeno per limitare] il perverso piacere della vendetta, il perfido gusto dell’inganno e l’amaro sapore del tradimento.

   Il teatro tragico si configura – ci ricorda Aristotele nel libro della Poetica – come lo strumento didattico necessario per insegnare che la “chiusura verso la diversità [fare unicamente gli interessi della propria famiglia]” porta la società al fallimento: se una comunità non si apre all’esterno, se non si rimescola il sangue [se non si esorcizzano inganni, tradimenti e vendette attraverso lo strumento catartico del teatro] la comunità è destinata all’estinzione e, con lei, l’Umanità intera.

   Seneca, da giovane studente, si appassiona allo studio del genere della tragedia attica [Eschilo, Sofocle, Euripide] e scopre che i personaggi letterari di Agamennone, di Menelao e di Egisto sono ufficialmente tutti e tre nipoti di Atreo perché Atreo ha imposto con la forza il suo potere ma – attraverso la meravigliosa e perversa alchimia del racconto – nelle vene dei discendenti di Atreo, a causa della catena degli inganni e delle vendette, scorre il sangue di Tieste: con questa inquietante metafora il genere letterario della tragedia ci mette di fronte all’esplicitarsi del lato abominevole della natura umana. Il cammino di Seneca in campo culturale inizia con la presa d’atto che l’essere umano è propenso ad assecondare il suo lato abominevole in proporzione al potere che ha e il compito delle intellettuali e degli intellettuali a questo proposito è quello di scuotere le coscienze utilizzando in modo combinato la “sapienza poetica” e la “riflessione filosofica”.

   Lucio Anneo Seneca – già da giovane studente – comincia a pensare che gli inganni, le maledizioni, i tradimenti, le vendette che hanno costituito e costituiscono l’aspetto abominevole della storia della dinastia giulio-claudia, assomiglino alla storia dei Pelopidi [alla madre di tutte le tragedie] e pensa, quindi, che sarebbe più che mai necessaria una riflessione collettiva sui modelli, sui simboli, sugli stampi della tragedia: a suo modo la pensa così anche il giovane Nerone che, da ragazzo, aspirava a diventare un grande poeta epico. Per Seneca vale più che mai l’ammonimento di Sallustio il quale scrive: «Queste cose [le terribili storie dei Pelopidi così come vengono raccontate dai poeti tragici] non sono mai avvenute, ma tuttavia sono sempre». Nelle vene dei tre nipotini di Pelope – Agamennone, Menelao ed Egisto – ufficialmente discendenti [gli Atridi] di Atreo , scorre il sangue di suo fratello Tieste e questo metaforico paradosso fa di Tieste un modello in funzione della didattica della lettura e della scrittura e, difatti, Seneca è attratto da questo personaggio-chiave e dalla sua mitica biografia perché attraverso questa figura emblematica può fare una lettura critica della società del suo tempo influenzato dai risultati nefasti prodotti dal sistema dell’imperialismo a cominciare dall’accentuarsi della “mentalità predatoria” e dal diffondersi della paura, un sentimento che incide profondamente e negativamente sullo sviluppo delle relazioni umane.

   Seneca scopre nel testo di una tragedia di Euripide intitolata Le Cretesi, del 438 a.C. [della quale restano pochi frammenti], il tema, sviluppato in modo ironico, del “trionfo del sangue di Tieste”. Euripide scrive: «Nella casa degli Atridi non vi è più nulla di Atreo, trionfa il sangue di Tieste e lo stesso sangue mescolato con l’inganno allo stesso sangue genera mostri». Quindi la straordinaria allegoria del “trionfo del sangue di Tieste” risulta essere un invito a riflettere sull’esistenza nella natura umana di un lato “abominevole” che rende gli esseri umani, travolti dalla passione o dalla sete di potere, capaci di compiere delle terribili atrocità.

   Seneca studia soprattutto le opere di Euripide – Euripide ha scritto 67 tragedie, ce ne sono pervenute 17 integre, più un consistente numero di frammenti delle restanti cinquanta –, ed è in questo modo che Seneca, fin da ragazzo, conosce per intero la rete dei racconti della madre di tutte le tragedie in cui spicca il personaggio di Tieste che è sempre stato, nei secoli, un modello letterario [il modello del perdente disperato] capace di suscitare una profonda riflessione sui limiti della condizione umana.

   Le studiose e gli studiosi di filologia ritengono che l’opera più importante in cui è protagonista la figura mitica di Tieste è una tragedia scritta in latino, pubblicata nell’anno 59, da Lucio Anneo Seneca. Seneca modella il personaggio di Tieste come quello del fuggiasco perseguitato dal fratello Atreo che ricopre il ruolo del tiranno persecutore. Il testo della tragedia intitolata Tieste tratta della vendetta di Atreo che, per punire il fratello che gli ha sedotto la moglie, lo inganna con una falsa riconciliazione e, invitatolo a un banchetto, gli imbandisce le carni dei figli. Lucio Anneo Seneca è un grande scrittore tragico e i testi delle nove tragedie di Seneca [La follia di Ercole, Le Troiane, Le Fenicie, Fedra, Edipo, Tieste, Ercole sull’Eta, Agamennone, Medea] assumono un valore di denuncia sociale e politica: Seneca utilizza le forme della tragedia per smascherare i soprusi della tirannide che si è annidata nei palazzi del potere romano.

   A Seneca va attribuito il merito di aver costruito il genere letterario della “moderna tragedia [il modello ripreso dai moderni scrittori di tragedie]”: difatti Seneca come scrittore tragico è proiettato al di là dell’età antica e va considerato come il primo “classico” dell’Epoca tardo-antica. L’interesse per le tragedie di Seneca deriva dal fatto che i testi delle sue opere sono tutti conservati integralmente e poi perché risentono di un’impostazione filosofica – ecco perché il territorio che stiamo attraversando si chiama della “sapienza poetica e filosofica” dell’Età tardo-antica – e lo scrittore inserisce sentenze, temi e riflessioni del pensiero stoico ed epicureo nei dialoghi dei personaggi delle antiche saghe mitologiche. Le tragedie di Seneca sono opere letterarie che fondono insieme la tradizionale poesia drammatica orfico-dionisiaca con la riflessione filosofica tipica delle Scuole dell’Ellenismo.

   Sappiamo che ormai già da tempo, a Roma e dintorni, la letteratura tragica non veniva più rappresentata a teatro ma veniva letta nelle sale di recitazione allestite in case private per un pubblico ridotto e colto. Le tragedie di Seneca per gli aspetti filosofico-morali che trattano, per la difficoltà di mettere in scena certi episodi e per alcune peculiarità stilistiche sono state composte non tanto per la recitazione pubblica ma bensì per la lettura privata: sono opere da leggere piuttosto che da mettere in scena.

   Gli elementi caratteristici delle tragedie di Seneca riguardano: la frammentazione dei dialoghi [sono scritte per un attore solo che ne legge il testo], l’enfasi declamatoria nel pronunciare le sentenze e le massime [la riflessione filosofica deve avere un peso considerevole], le tinte fosche e macabre, l’accentuazione della tensione psicologica che viene ottenuta mediante lunghe digressioni [una sorta di trattatelli filosofici] che diventano capitoli autonomi rispetto al contesto drammatico. Seneca come scrittore tragico si ispira soprattutto a Euripide e anche a Sofocle ma attua una completa ristrutturazione dell’antico impianto drammatico mostrando una grande autonomia rispetto ai modelli tradizionali della tragedia attica del VI e V secolo a.C..

   Dobbiamo anche ricordare che, oltre alle nove tragedie di taglio greco, a Seneca viene attribuito un dramma di ambientazione romana intitolato Octavia, che vede come protagonista Ottavia [la figlia di Claudio e Valeria Messalina], la prima moglie ripudiata e fatta uccidere da Nerone, che si era innamorato di Poppea: Seneca è stato senz’altro l’ispiratore di quest’opera provocatoria ma non ne è l’autore perché in essa vengono narrati, con l’artificio della profezia, dei particolari della morte di Nerone, avvenuta nel 68, che Seneca, morto tre anni prima, non poteva ovviamente conoscere e poi tra i personaggi figura anche lo stesso filosofo.

   Lucio Anneo Seneca utilizza il genere letterario della tragedia per dare un giudizio morale sugli avvenimenti a lui contemporanei, e per fare una valutazione di carattere educativo. La prima forma di ribellione verso il tiranno – secondo Seneca, che ragiona con i canoni della Scuola stoica – significa rifiutare i suoi metodi: gli inganni, i tradimenti, le vendette, perché l’itinerario che porta alla conquista della libertà di pensiero – afferma Seneca – necessita di pacatezza, di ragionevolezza, di tranquillità d’animo [in greco “atarasse atarassé”]. Nei testi delle sue tragedie Seneca mette in relazione il mito greco di stampo orfico-dionisiaco e il pensiero delle Scuole ellenistiche [stoiche, epicuree, scettiche] in modo da costruire una sintesi fatta di “sapienza poetica” e di “riflessione filosofica” che possa essere funzionale per denunciare il clima di paura che s’irradia da Roma e incombe su tutto il territorio dell’Impero diffondendo ovunque il senso dell’inquietudine, una parola che in greco [nella lingua greca della dottrina stoica] si traduce con il termine “tarasse tarassé”. L’inquietudine [tarassé] – secondo il pensiero stoico rielaborato da Seneca – è uno stato d’animo che non corrisponde solo ed esclusivamente a concetti negativi come la preoccupazione, l’ansietà, il turbamento, l’affanno, il tormento, l’angustia, il cruccio ma possiede anche elementi propulsivi come l’agitazione che invita alla ribellione, come la tensione che ispira l’esercizio poetico e come il fermento che stimola al ragionamento filosofico.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Nei testi delle tragedie di Seneca emerge soprattutto la parola-chiave “inquietudine” con tutti i suoi significati   La parola “inquietudine” è molto evocativa: che cosa vi suggerisce la parola “inquietudine”?

Scrivete quattro righe in proposito

   Dopo questo necessario ampio preambolo dobbiamo domandarci: chi è Lucio Anneo Seneca? [Che intanto è arrivato tra noi]. Ma prima di conoscere meglio questo personaggio dobbiamo aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché abbiamo la possibilità di dipanare un interessante intreccio filologico: di che cosa si tratta [anche Seneca è curioso e piacevolmente sorpreso].

   A questo punto potrebbe anche esserci venuta la curiosità di leggere una tragedia di Seneca, magari il Tieste. Leggere i testi tragici di Seneca non è cosa facile [e non dobbiamo mentire ma il fatto che i testi tragici di Seneca siano difficili non significa che sia impossibile leggerli], i testi delle opere di Seneca sono piuttosto macchinosi e la loro lettura non è direttamente fruibile: bisogna pazientemente soffermarsi sulle note, sulla decodificazione dei concetti filosofico-morali che l’autore vuole mettere in evidenza, sopportare l’enfasi declamatoria che spesso risulta leziosa [anche stucchevole] alla nostre orecchie di lettrici e di lettori contemporanei e viene da chiederci se studiare Seneca sia cosa inutile e a questa domanda dobbiamo rispondere che senza conoscere le parole-chiave e le idee-cardine del pensiero di Seneca [e questo vale per tutti i “classici”] noi rimaniamo fermi, non progrediamo intellettualmente, quindi, di queste grandi opere [e ce lo ha insegnato Montaigne con i suoi “Saggi”, pubblicati nel 1580 e nel 1588] è sufficiente spesso una citazione, risulta esaustivo un frammento [un as-Saggio] per innescare le azioni del conoscere, del capire, dell’applicare, dell’analizzare, del sintetizzare, del valutare, in modo da attivare e dare impulso al meccanismo dell’apprendimento.

   A questo proposito, per nostra fortuna, abbiamo a disposizione nel patrimonio della Letteratura contemporanea molti oggetti culturali che hanno sviluppato e tradotto in lingua corrente temi-cardine presenti nelle tragedie di Seneca che sono sempre d’attualità. Per esempio nel testo del Tieste c’è un argomento che, dall’Età tardo-antica, assume un ruolo importante nella Storia del Pensiero Umano, un argomento che Lucio Anneo Seneca fa annunciare a Tieste in una delle digressioni [nel discorso rivolto da Tieste al fratello Atreo che, con la scusa di riconciliarsi con lui, lo ha invitato a cena e per vendetta gli ha cucinato i figli] in cui l’autore propone, nel contesto drammatico, una serrata riflessione su alcuni importanti temi di carattere filosofico-esistenziale perché, come sappiamo, Seneca utilizza la “sapienza poetica” per stimolare la “riflessione filosofica”: ecco che siamo entrati nel territorio della “sapienza poetica e filosofica” dell’Età tardo-antica. Ma lasciamo che sia Seneca a proporci, per bocca di Tieste, il tema su cui, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo puntare l’attenzione: leggiamo, quindi, un frammento dal testo del Tieste [facciamo un assaggio, direbbe Montaigne] che ci permette di arrivare al dunque, cioè all’intreccio letterario che vogliamo dipanare.

LEGERE MULTUM….

Lucio Anneo Seneca, Tieste

TIESTE [rivolto ad Atreo]   Ricordati, Atreo, che ora il dolore mi annienta ma io non soffro più di te: sì io sono colpevole e la colpa mette paura e chi ha paura non fa che sentir rumori intorno a sé e dentro di sé! E anche tu, fratello, ora sei responsabile di un crimine abominevole e così potrai capire che il colpevole soffre più per la paura di essere scoperto, per l’ansia di dover nascondere il delitto, che non per il terrore del castigo: la pena, anzi, è catartica e la si attende come una liberazione e si cerca con ansia qualcuno che faccia la parte del giudice e che ci ascolti per poter confessare e mitigare l’inquietudine che rode la carne e tormenta lo spirito.

   In quale direzione ci manda questa poetica, saggia e lungimirante citazione? Intanto abbiamo potuto constatare – e basta un frammento per farlo – in che modo nell’opera di Seneca dòmini il concetto di “inquietudine” e poi nel brano che abbiamo letto l’autore mette in risalto un importante tema esistenziale ancora oggi d’attualità: “la persona colpevole soffre più per la paura di essere scoperta, per l’ansia di dover nascondere il delitto, che non per il terrore del castigo, la pena è catartica [è purificatrice] e la si attende come una liberazione dallo stato di inquietudine che assale il reo, il peccatore” [I romanzi dell’Ottocento sviluppano in lungo e in largo questo concetto]. Questa citazione [bastano sette od otto righe del “Tieste” per creare riflessione e ispirazione] ci fa incontrare uno scrittore che ha fatto tesoro di questa affermazione senechiana  per costruire un significativo romanzo-breve che possiamo leggere come se fosse una tragedia tardo-antica tradotta in lingua corrente che permette una maggior fruizione da parte delle lettrici e dei lettori del terzo millennio.

   Questo scrittore si chiama Stefan Zweig il quale è riconosciuto in modo unanime come un classico della Storia della Letteratura mitteleuropea del Novecento. Chi è Stefan Zweig, le cui opere [per fortuna, dopo settant’anni dalla morte] sono tornate a nostra disposizione?

   Stefan Zweig è un tipico intellettuale viennese dei primi decenni del Novecento, è stato un grande umanista di impronta classica ed è nato a Vienna il 28 novembre 1881 [la prossima settimana compie gli anni, 131] in una famiglia agiata di origine ebraica [anche lui appartiene alla grande comunità intellettuale della diaspora ebraica mitteleuropea]. A Vienna si diploma e inizia gli studi universitari di filosofia che completa a Berlino nel 1904. Stefan Zweig come tutti i giovani intellettuali della sua generazione si occupa di problemi politici e sociali oltre che dedicarsi con impegno alla scrittura: si sente portato soprattutto per la composizione di biografie e difatti la sua opera più famosa e interessante [di recente ripubblicazione] racconta la storia del grande navigatore portoghese, al servizio del re di Spagna, Ferdinando Magellano. L’opera intitolata Magellano di Stefan Zweig inizia con l’antico motto dei naviganti di ogni tempo che dice: “Navigare necesse, vivere non est necesse [Navigare è necessario, vivere non è necessario]” e che, come una musica di sottofondo, accompagna l’impresa straordinaria della prima circumnavigazione del globo terrestre [1519-1522]. Oltre alla circumnavigazione del globo, e alla scoperta del punto di passaggio [lo stretto di Magellano] tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico, Magellano ha compiuto l’impresa di sfatare una serie di superstizioni che si erano annidate soprattutto nella mente di sovrani e di ecclesiastici, si pensava e si scriveva che: «Ai tropici il mare arde e ribolle per il calore del sole, si incendiano le tavole e le vele, ogni cristiano che tenti di entrare nella terra di Satana, desolata come un cratere, diventa subito un negro». Magellano riesce quasi a portare a termine la sua impresa superando intrighi di corte, ammutinamenti, mari in tempesta, battaglie selvagge e Stefan Zweig ricostruisce con estro sapiente la grande epopea di uno scopritore di terre, di mari e di umanità.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Si consiglia la lettura di questa biografia [prendendola a prestito in biblioteca] che, a parte le citazioni in latino e in spagnolo, scorre come un romanzo d’avventure e porta la lettrice e il lettore a capire [come scrive Erodoto] che “navigare necesse est [navigare è necessario]” soprattutto quando la nave ha la forma di una penna e il capitano è uno scrivano come Stefan Zweig…

   Stefan Zweig tra la fine della prima guerra mondiale [nel 1918] fino agli anni ’30 è stato un grande scrittore di successo, è stato tra gli autori europei più letti e ammirati e le sue opere sono state tradotte in molte lingue: ha scritto, oltre a numerose biografie, molte novelle, poesie, drammi, saggi, romanzi-brevi e un’autobiografia completata nel 1941, un anno prima di darsi la morte insieme alla sua giovane moglie con la quale si era rifugiato in Brasile per sfuggire alle persecuzioni naziste. Oggi Stefan Zweig è considerato un classico della cultura mitteleuropea e la sua opera è ritenuta fondamentale per capire le tragedie del Novecento, del cosiddetto “secolo breve”.

   Stefan Zweig ha anche viaggiato molto nell’Europa del primo ‘900 che, pur essendo attraversata da tensioni belliche, mostrava di tendere, nella cultura e nell’arte, ad una spiritualità superiore che potesse andare oltre i confini delle nazioni e dei popoli. Questi viaggi permettono a Zweig di conoscere i maggiori autori dell’epoca e le più importanti espressioni artistiche, queste esperienze gli permettono di maturare una sensibilità che lo fa sentire partecipe di un’anima mitteleuropea e di un’idealità che sta oltre i singoli particolarismi che portano con loro il marchio dell’imperialismo.

   Stefan Zweig si toglie la vita [anche in questo assomiglia a Seneca] a Petrópolis vicino a Rio de Janeiro il 22 febbraio del 1942 per non rinunciare ad un’idea: per non assistere, a causa della dittatura, alla fine di un mondo, di un’epoca, di una cultura, di un’arte, di una vita che erano state la migliore espressione dell’Europa e soprattutto di Vienna. Zweig crede che solo la pace, solo l’umanesimo possano animare la vita delle persone e delle Nazioni ed è fermamente legato all’idea di un’Europa multietnica e multiculturale – com’era quella della Belle Époque, pur con tutti i suoi limiti – nella quale i diversi popoli sapevano mostrare i loro tratti comuni piuttosto che le loro differenze; invece vede insorgere prepotentemente la dittatura nazista con le leggi razziali, con le persecuzioni, con le invasioni e deve, quindi, rinunciare alle sue aspirazioni e convincersi che un’epoca è finita ed è anche per questo motivo che decide di far coincidere questa fine con quella della sua vita.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le opere di Stefan Zweig dal 2004 – dopo anni di oblio in Italia – sono tutte in corso di pubblicazione, citiamo i titoli di quelle già disponibili nelle biblioteche di cui si consiglia la lettura: “Magellano”, “Amok”, “Momenti fatali”, “Bruciante segreto”, “Mendel dei libri”, “Lettera di una sconosciuta”, “Storia di una caduta”, e poi quella di più recente traduzione e pubblicazione [settembre 2011] intitolata “Paura” che c’interessa particolarmente…

Andate alla scoperta di Stefan Zweig e delle sue opere utilizzando l’enciclopedia o la rete

   Perché c’interessa il romanzo-breve intitolato Paura scritto da Stefan Zweig nel 1925? In questo testo lo scrittore sviluppa un importante tema esistenziale che Lucio Anneo Seneca propone nella tragedia Tieste e quindi noi possiamo leggere quest’opera come se fosse una tragedia tardo-antica tradotta in lingua corrente e, quindi, con un alto tasso di fruibilità.

   La protagonista di questo romanzo si chiama Irene Wagner ed è una bella signora viennese della migliore borghesia, moglie di un noto avvocato penalista. Il racconto inizia nel momento in cui Irene sta rapidamente scendendo le scale di una casa dove abita il suo amante, un giovane pianista. Ma lì, su un pianerottolo, incontra una sordida ricattatrice: una donna che sa tutto di lei e che la minaccia, e Irene cede alla paura, e paga. Da questo momento comincia l’incubo perché le richieste di denaro di questa arpia [le arpie sono figure mitiche tragiche] aumentano vertiginosamente, e lo sguardo indagatore del marito, l’avvocato Wagner, ormai la atterrisce perché lui è sorpreso a causa del suo strano comportamento, e forse è a conoscenza dell’inganno. Un giorno il marito racconta ad Irene alcuni casi processuali dai quali emerge una atroce verità che lei sta sperimentando: il colpevole soffre più per la paura di essere scoperto, per l’ansia di dover nascondere il delitto, che non per il terrore del castigo: la pena, anzi, è catartica e Irene comincia a pensare che il racconto del marito sia un tacito invito alla confessione.

   Zweig è un grande scrittore tragico ed è un maestro nel creare e nel descrivere l’inquietudine e porta le lettrici e i lettori a seguire la povera Irene tormentata dalla ricattatrice e con l’animo diviso  fra l’angoscia e il rimorso [come gli Atridi del “Tieste” di Seneca]. Zweig si rivela abilissimo a mettere a nudo la psicologia di Irene, a dipingere i suoi incubi, a svelare le sue riflessioni tra passi falsi, decisioni sempre rinviate e scene isteriche all’amante, da lei ritenuto complice della ricattatrice: sino al “colpo di teatro [nel vero senso della parola]” finale del quale, ora, non possiamo rivelare nulla.

   E allora cominciamo a leggere il romanzo-breve intitolato Paura di Stefan Zweig: non è forse il sentimento della paura che caratterizza l’inizio dell’agonia dell’Età antica? Seneca sorride, annuisce e si mette in ascolto, curioso.

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Paura

Quando Irene uscì dall’appartamento del suo amante e cominciò a scendere le scale, tutto d’un tratto quella paura insensata tornò a impadronirsi di lei. All’improvviso una spirale nera prese a mulinarle davanti agli occhi, le gambe erano come bloccate da una morsa di ghiaccio, ed ella dovette aggrapparsi in fretta alla ringhiera per non cadere bruscamente in avanti. Non era la prima volta che arrischiava una visita così pericolosa, quel brivido repentino non le era affatto sconosciuto e, pur opponendo in cuor suo una strenua resistenza, nel riprendere la via di casa finiva sempre per soggiacere a simili imperscrutabili attacchi di una paura irragionevole e ridicola. All’andata recarsi all’appuntamento era senz’altro più facile. Faceva fermare la vettura all’angolo della strada, percorreva frettolosa e senza guardarsi attorno i pochi metri che la separavano dal portone e poi saliva di corsa i gradini, sapendo che lui, già in attesa dietro la porta, avrebbe aperto di scatto, e quel primo moto di paura, commisto a bruciante impazienza, si scioglieva così nell’ardore dell’abbraccio. Ma dopo, quando doveva riprendere la via di casa, con un brivido l’aggrediva quell’altro misterioso terrore, confusamente mescolato ora al raccapriccio per la colpa commessa e all’idea folle che, al primo sguardo, gli sconosciuti per strada avrebbero capito da dove veniva e risposto con un sorriso sfrontato al suo turbamento. Già gli ultimi istanti accanto a lui erano avvelenati dall’inquietudine crescente che covava in quelle sue premonizioni; al momento di andarsene, le mani le tremavano per la fretta e per la tensione nervosa, afferrava distratta le parole di lui e respingeva sbrigativa gli ultimi fuochi della sua passione; andarsene, solo questo voleva allora con tutta se stessa, via da quell’alloggio, da quella casa, ritrovare, lontano dall’avventura, il suo quieto universo borghese. Non osava quasi guardarsi allo specchio, temendo di scorgere una certa diffidenza nel proprio sguardo, e tuttavia era necessario controllare che nulla di disordinato nell’abbigliamento rivelasse la passione dell’ora appena trascorsa. Ed ecco le ultime parole, vanamente rassicuranti, che lei agitata com’era non udiva quasi, e quell’attimo, a spiare dietro la porta per accertarsi che nessuno stesse salendo o scendendo le scale. Ma fuori la paura era già in agguato, smaniosa di ghermirla. Quella presa era a tal punto soffocante che lei scendeva sempre in affanno gli ultimi gradini, finché non sentiva venir meno le forze, sino allora tenute insieme solo grazie alla tensione nervosa. Rimase un attimo così, con gli occhi chiusi, e respirò avida la frescura delle scale in penombra. Una porta batté ai piani superiori; spaventata, Irene si riscosse e scese frettolosa i gradini, mentre le mani armeggiavano meccanicamente intorno al fitto velo per stringerlo ancora di più. Su di lei incombeva adesso minaccioso l’ultimo passaggio, il più terribile: lo sgomento nell’uscire dal portone di una casa estranea e magari imbattersi per strada in un conoscente che, curioso di sapere dove fosse stata, le avrebbe causato disagio e il rischio di dover mentire: abbassò la testa come un atleta che prende lo slancio per il salto e, con risolutezza, si avviò rapida verso il portone semiaperto. Ma sulla soglia si scontrò con una donna che stava per entrare. «Pardon» disse imbarazzata, cercando di scansarla in fretta. Quell’altra però le ostruì del tutto l’uscita, fissandola con lo sguardo di una furia e, al tempo stesso, apertamente beffardo. «Ce l’ho fatta infine a beccarla!» gridò senza alcun ritegno e con voce sguaiata. «Eh, certo, una signora perbenecome si suol dire! Non le basta avere un marito, tanti soldi e tutto il resto, deve anche soffiare il moroso a una povera ragazza…».

«Per l’amor di Dioche cos’halei si sbaglia…» balbettò Irene e fece un goffo tentativo di sgusciar via, ma la donna le sbarrò il passo, mettendosi di traverso con il suo corpo massiccio, e strepitando la investì: «No, non mi sbagliola conoscoè stata da Eduard, l’amico mioSono riuscita ad acciuffarla, una buona volta, adesso capisco perché ultimamente lui aveva così poco tempo per meLei era dunque la causarazza di!»«Per l’amor di Dio» la interruppe Irene con voce flebile «non gridi così» e senza volerlo arretrò nell’androne. La donna la guardava con scherno. Sembrava le facesse piacere vederla tremare di paura, tutta smarrita, perché adesso si mise a esaminare la sua vittima con un sorrisetto strafottente e sicuro di sé. Un sentimento di volgare soddisfazione nutriva e saturava la sua voce. «Ecco dunque come si acconciano queste belle signore sposate, le distinte, le eleganti signore, quando vengono a rubarci gli uomini. Con la veletta, è naturale. Velate per potere, dopo, continuare dappertutto la recita delle donne perbene». «Ma che cosache cosa vuole da me? Lo dica infineIo non la conoscoIo devo andare…». «Andare certo, dal maritinonel caldo salotto, a far la parte della signora distinta con le domestiche che l’aiutano a spogliarsiMa di noi, e se magari crepiamo di fame, a una signora tanto distinta non gliene frega proprio niente Tutto ci rubano, queste donne perbene. Fino all’ultima briciola…». Irene si riscosse e, obbedendo a una confusa ispirazione, prese il borsellino e tirò fuori, a casaccio, alcune banconote. «Eccoecco quama adesso mi lascinon tornerò mai più quiglielo giuro». Con uno sguardo cattivo la donna prese il denaro. «Carogna» mormorò. Irene trasalì al suono di quella parola, ma appena vide che l’altra le lasciava libera la porta si precipitò fuori, stordita e senza fiato, come un suicida che si lancia dall’alto di una torre. Mentre correva, i volti dei passanti le venivano incontro deformati, simili a maschere, e con la vista già annebbiata raggiunse a fatica una vettura, ferma all’angolo. Come un peso morto si lasciò cadere sul sedile, poi tutto in lei divenne rigido e inerte; e quando infine l’autista, sorpreso per quella passeggera alquanto singolare, chiese l’indirizzo, lei lo fissò un istante con uno sguardo completamente vuoto, finché il cervello frastornato non ritrovò la parola: «Alla Stazione Sud,» s’affrettò a rispondere e poi, venendole in mente all’improvviso che quell’altra avrebbe potuto seguirla, aggiunse «veloce, veloce, si sbrighi!».

Solo durante il tragitto comprese quanto l’avesse sconvolta quell’incontro. Si toccò le mani che, rigide e fredde come cose morte, le pendevano lungo i fianchi, e di colpo fu colta da un tremito così violento da sobbalzarne. Un gusto amaro le montava dalla gola. Ebbe un conato di vomito e, al tempo stesso, provò una collera sorda e insensata, tale da attanagliarle il petto in uno spasmo. Avrebbe voluto urlare o battere i pugni per liberarsi dall’orrore di quel ricordo, che le si era confitto nel cervello come un amo, quel volto laido con la sua risata beffarda, la volgarità sprigionata dall’alito fetido di quella plebea, da una bocca tutta guasta che, rigurgitante odio, le aveva sputato in faccia con violenza parole sconce, e quel pugno rosso levato in segno di minaccia. Sempre più la nausea andava montando, sempre più le si serrava il nodo in gola, mentre la vettura avanzava veloce fra continue sbandate: stava per chiedere all’autista di accelerare, quando si rese conto che forse non le sarebbe bastato il denaro per la corsa: aveva dato infatti tutte le banconote alla sua ricattatrice. Fece un rapido cenno all’autista perché si fermasse e, lasciandolo ancora una volta stupefatto, scese senza indugio. Fin lì, per fortuna, il denaro che le era rimasto fu sufficiente. Ma si trovò sbalzata in un quartiere sconosciuto, attorno a lei una folla di persone indaffarate, che a ogni parola, a ogni sguardo, le causavano sofferenza fisica. Inoltre le gambe le si erano fatte molli per la paura e non volevano guidare i suoi passi, ma lei doveva tornare a casa e, raccogliendo ogni energia, si lasciò alle spalle una strada dopo l’altra, a costo di sforzi sovrumani, come dovesse attraversare un acquitrino o avanzare nella neve alta sino alle ginocchia. Infine giunse a casa e si precipitò su per le scale con una fretta che tradiva un certo nervosismo, ma riuscì subito a dominarsi per non dare nell’occhio con la sua agitazione. Soltanto ora, nel momento in cui la cameriera l’aiutava a togliersi il mantello e nell’udire la voce del bambino che giocava con la sorellina nella stanza accanto, mentre il suo sguardo di nuovo tranquillo incontrava sempre e solo cose familiari, che le appartenevano e le davano sicurezza, ella riacquistò una parvenza di calma. Ma nel profondo il suo animo era ancora dolorosamente in subbuglio. Si tolse la veletta, si lisciò i tratti del volto, risoluta a sembrare quanto più possibile spontanea, ed entrò in sala da pranzo, dove al tavolo già apparecchiato per la cena il marito leggeva il giornale. «Un po’ tardi, Irene cara» l’accolse lui con un leggero tono di rimprovero, alzandosi in piedi e baciandola sulla guancia - il che destò automaticamente in lei un penoso senso di vergogna. Si sedettero, e con indifferenza, senza quasi alzare gli occhi dal giornale, lui le domandò: «Dove sei stata tutto questo tempo?». «Sono statadada Amélie doveva fare ancora alcuni acquisti e l’ho accompagnata» soggiunse, e già era furiosa per quella sventatezza, per aver mentito così male. Di solito si preparava sempre una bugia ben costruita, in grado di resistere a ogni possibile verifica, ma oggi la paura gliel’aveva fatta dimenticare, costringendola a una così goffa improvvisazione. E se suo marito, le venne in mente, avesse telefonato per informarsi, proprio come nella commedia che aveva visto da poco a teatro? «Ma che cos’hai? Mi sembri così nervosa e perché non ti togli il cappello?» le chiese lui. Irene trasalì, sentendosi di nuovo colta in fallo a causa di quel palese imbarazzo, si alzò di scatto, corse in camera sua per togliersi il cappello e, nel farlo, fissò nello specchio i propri occhi inquieti per tutto il tempo necessario a restituire un’apparente sicurezza ed energia allo sguardo. Poi tornò in sala da pranzo. La cameriera servì la cena, e fu una serata come tutte le altre, forse un po’ più parca di parole e meno vivace del solito, una serata in cui la conversazione stentava, languiva e tendeva spesso a incepparsi. I suoi pensieri non la smettevano di ripercorrere il cammino compiuto e avevano un sussulto inorridito quando arrivava il momento del terribile incontro con la ricattatrice: allora lei alzava lo sguardo in cerca di rassicurazione e, cogliendo con tenerezza, in quella vicinanza così carica di vita, uno dopo l’altro gli oggetti disposti nelle varie stanze dalla memoria e dalla gerarchia dei significati, ritrovava un po’ di sollievo. E la pendola appesa alla parete, che percorreva il silenzio con il suo tranquillo passo metallico, tornava a conferire impercettibilmente al suo cuore un ritmo regolare, sicuro e privo d’affanno.

   Lucio Anneo Seneca in questo momento da una parte si compiace del fatto che gli autori contemporanei continuino a riflettere su temi a lui congegnali, dall’altra sta pensando che la paura e l’inquietudine continuano ad assillare anche gli esseri umani del XX secolo allo stesso modo in cui assillavano quelli del I secolo.       Chi è Lucio Anneo Seneca? Lucio Anneo Seneca si colloca nella tradizione di quegli intellettuali che si sono impegnati in politica e che, per la loro coerenza, hanno pagato volontariamente un prezzo molto alto.

   Lucio Anneo Seneca nasce in una nobile famiglia: suo padre è un famoso rètore [Lucio Anneo Seneca il Rètore] e sua madre Elvia è una donna colta. Seneca nasce intorno al 4 a.C. a Cordova, nel sud della penisola Iberica. Vale sempre la pena, ogni tanto, fare una visita alla città di Cordova utilizzando una guida della Spagna o navigando in rete.

   Nel 206 a.C. i Romani – nel corso della seconda guerra punica – conquistano il sito strategico di Cordŭba sulle rive del fiume Guadalquivir che si era schierato con Annibale, e circa trent’anni dopo il pretore Marco Claudio Marcello su questo sito fa sorgere una città di conformazione romana che diventa la capitale della Hispania Ulterior. La vita economica e culturale di Cordŭba, nel I secolo a.C., raggiunge un notevole sviluppo quando un certo numero di famiglie patrizie romane decide di trasferirvisi imparentandosi con le famiglie locali più ricche perché nel sud dell’Iberia si viveva bene, meglio che a Roma. Nel 45 a.C., durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo, la città, che parteggiava per Pompeo, viene assediata e poi presa dall’esercito di Giulio Cesare.

   La storia di Cordova è molto interessante perché, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, la città è stata governata prima dai Bizantini, poi dai Visigoti, dopo dai Vandali che hanno lasciato a tutta la regione il nome di Andalusia [Vandalusia], e successivamente dal 711 dagli Arabi che, nell’alto medioevo, hanno fatto di Cordova e di questa regione [al-Andalus] la zona più ricca e progredita del pianeta attraverso un’oculata legislazione che ha favorito l’integrazione tra la cultura ebraica [c’era una nutrita colonia di ebrei sefarditi, della diaspora], quella cristiana e quella mussulmana e realizzando una ingegnosa riforma agraria tanto che nel X secolo Cordova supera il mezzo milione di abitanti che raggiungono il milione alla fine dello stesso secolo: a questo proposito potete visitare il sito della Torre di Calahorra, www.torrecalahorra.com, che ospita l’interessante Museo Storico della città. Per raggiungere a piedi dal centro la Torre di Calahorra si attraversa il famoso e panoramico ponte romano sul Guadalquivir che è stato conservato in ottimo stato.

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Con la guida della Spagna e navigando in rete andate a far visita allo straordinario patrimonio artistico di Cordova, buon viaggio

   Da adolescente Lucio Anneo Seneca viene mandato a Roma a studiare e frequenta una Scuola di valore: quella degli stoici Attalo e Papirio Fabiano che avevano rinnovato la tradizione della Scuola stoico-pitagorica dei Sestii caratterizzata da interessi naturalistici e da un forte rigorismo morale. La Scuola filosofica dei Sestii era stata fondata a Roma intorno al 40 a.C. da Quinto Sestio e continuata dal figlio, il medico Sestio Nigro, fino al 19 d.C., quando era stata chiusa in seguito ad un decreto dell’imperatore Tiberio che la considerava un luogo dove fioriva il dissenso.

   Poi Seneca compie un lungo viaggio di studio in Egitto [dal 26 al 31] dove arricchisce il suo bagaglio intellettuale filosofico e scientifico. In questi fruttuosi anni di studio Seneca acquista competenze disciplinari [di storia, letteratura, diritto, filosofia] ma soprattutto interiorizza i princìpi morali che orienteranno la sua vita e quando nel 31 torna a Roma comincia ad essere chiamato: Seneca il Filosofo.        Seneca il Filosofo fa ben presto carriera nelle Istituzioni del potere imperiale ma l’educazione che ha ricevuto nelle Scuole che ha frequentato ne fanno un personaggio poco incline ai compromessi e, difatti, lui non aspira ad assicurarsi la benevolenza dei più potenti e noi sappiamo che i potenti a Roma, in questo momento, non eccellono in qualità morali e, quindi, Seneca il Filosofo è destinato ad avere molti nemici. Nell’anno 32 viene nominato senatore e sente la responsabilità di rappresentare non tanto la sua famiglia, non solo la sua provincia [la provincia dell’Hispania Ulterior], ma anche gli interessi generali dello Stato che lui avrebbe voluto funzionasse come una Res-publica.

   Nell’anno 39 Seneca il Filosofo si mette in evidenza perché pronuncia in Senato una bellissima Orazione contro Caligola: ci voleva un bel coraggio! Ma Seneca sente il dovere di mettere in evidenza come il Principe si disinteressi dei problemi economici e sociali dello Stato mentre, per contro, fa promulgare dai Senatori – la maggioranza dei quali è succube e impaurita – solo leggi a vantaggio della sua persona e anche piuttosto stravaganti come il Decreto sul cavallo Incitatus nominato senatore che viene votato dal Senato quasi all’unanimità. L’Orazione contro Caligola di Seneca è ironica, satirica, costruita sulle metafore e, soprattutto, ricca di spirito educativo. Leggiamone un frammento: «Perché non approvo che i Senatori siano considerati cavalli? Perché il politico è animale più affine all’asino, umile animale che tira la carretta nella gestione dell’economia, dell’amministrazione, della pace, della cultura e della pubblica morale. Il politico non è superbo animale da parate, non è cavallo. E, di conseguenza, il principe, il primo dei Senatori, farebbe bene a considerarsi, piuttosto che cavallo da sfilate, il primo umile asino di Stato!».

   Con questa Orazione Seneca pone delle domande politiche ai Senatori ma in aula non si apre nessun dibattito: l’Assemblea rimane muta, anche Caligola tace e Seneca viene informato dalla sorella del Principe, Giulia Livilla, che se fosse rimasto a Roma gli sarebbe capitato senz’altro qualche brutto incidente. Seneca e Giulia Livilla sono amanti: Giulia Livilla – figlia di Germanico e di Agrippina Maggiore, sorella di Caligola – è una donna molto bella ma, soprattutto, è una persona intelligente e colta e si trova in completa sintonia con l’animo di Seneca.

   Chi è Giulia Livilla? Non possiamo fare a meno di dedicare un piccolo spazio a questa figura significativa perché Giulia Livilla è stata una protagonista della vita politica e culturale romana. Giulia Livilla è nata sull’isola di Lesbo nel 17 o nel 18 perché suo padre, il “probo e valente” generale Germanico era sempre impegnato in campagne militari sui confini orientali e sua moglie Agrippina Maggiore lo seguiva con i figli e  le figlie, sappiamo che Giulia Livilla è una delle sorelle [con Agrippina Minore e Drusilla] dell’imperatore Caligola. L’educazione intellettuale di Giulia Livilla è stata molto accurata perché fin da bambina è attratta dallo studio. Per la sua bellezza è nota alle fonti antiche anche con il soprannome di “diva Julia” e questo titolo ci permetterà, strada facendo, di fare un interessante accostamento letterario quando sarà il momento [a metà febbraio]. Giulia viene promessa sposa ad un suo lontano parente, Publio Quintilio Varo, pronipote di Ottavia Minore, la sorella di Augusto, però, Varo viene coinvolto in uno scandalo e il matrimonio sfuma. Giulia sposa nel 33 Marco Vinicio, la cui famiglia veniva da fuori Roma ed era di rango equestre: Vinicio è figlio e nipote di consoli e diventa nel 38 proconsole d’Asia e, stando ad una iscrizione, Giulia, in quest’anno, ha accompagnato il marito in Asia e lì si è dedicata con piacere allo studio del pensiero ellenistico, poi torna a Roma. Durante i primi anni di regno del fratello Caligola, Giulia e le sue due sorelle maggiori, Agrippina Minore e Drusilla, ricevono onori e privilegi e le loro effigi vengono rappresentate persino sulle monete. Svetonio nell’opera Vite dei dodici Cesari racconta molti episodi “piccanti” sulla vita di Giulia Livilla ma noi sappiamo che Svetonio ha la vocazione del romanziere. È un fatto certo che nel 39 Giulia partecipa ad una congiura, forse organizzata da Agrippina Minore, per spodestare Caligola ma la congiura viene sventata e Giulia e Agrippina vengono esiliate, e Svetonio scrive che Caligola le minaccia con la famosa frase: «Non ho solo delle isole, ma anche delle spade per esiliarvi all’Ade!». Nel 41, morto Caligola, assassinato in una congiura capeggiata da Cassio Cherea, Giulia Livilla e la sorella sono richiamate a Roma dal nuovo imperatore, il loro zio Claudio, ma Giulia [la diva Julia è troppo bella] deve scontrarsi con la gelosia dell’imperatrice Valeria Messalina che riesce a farla nuovamente esiliare accusandola di adulterio, di essere l’amante di Lucio Anneo Seneca. Giulia Livilla viene deportata a Pandataria [a Ventotene] e nel 41 o a nel 42 Messalina ne ordina la morte ma non possediamo notizie certe sulla fine di Giulia Livilla. Quando Agrippina Minore, dopo la morte di Messalina, sposa Claudio e diventa imperatrice fa riportare a Roma i resti della sorella Giulia Livilla che sono stati deposti e conservati nel Mausoleo di Augusto.

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Se volete osservare il presunto dolce volto di Giulia Livilla [la diva Julia] potete facilmente trovare sulla rete un sito che mostra un busto marmoreo conservato all’Altes Museum di Berlino… Purtroppo il naso di questo ritratto è andato quasi tutto in frantumi ma la pettinatura, la regolarità del viso, gli occhi e le labbra sono integre e il lieve sorriso di questa giovane donna ha un fascino particolare: il fascino, ambiguo, del tardo antico… 

   Giulia Livilla [siamo nel 39] prega Seneca di allontanarsi al più presto da Roma e lui, sebbene controvoglia, decide di partire subito per Cordova: lì sa dove nascondersi. Un anno dopo, alla morte di Caligola, nell’anno 40, Seneca può tornare a Roma e naturalmente non ha perso la sua vena polemica e difatti nel 41 attacca duramente Claudio perché il nuovo Principe è un uomo debole e indeciso che ha affidato il governo nelle mani di liberti interessati e della moglie Messalina che è una persona ambiziosa, cinica, corrotta: noi l’abbiamo già incontrata e la conosciamo bene.

   La reazione di Seneca è in linea con la stagione del dissenso inaugurata dai Classici [Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio] e il “dissenso” non può che manifestarsi con un investimento in intelligenza e noi sappiamo – lo abbiamo studiato nella prima parte di questo itinerario – che Seneca, a questo proposito, ritiene opportuno utilizzare il genere letterario della tragedia, non tanto per raccontare, non solo per paragonare l’abominevole storia dei Pelopidi con gli orribili avvenimenti a lui contemporanei: sappiamo che Seneca utilizza il genere letterario della tragedia – abbiamo citato il Tieste – per poter dare, in chiave filosofica, un giudizio morale sui gravi fatti che accadono e per fare una valutazione di carattere educativo: bisogna creare strutture che educhino al buono, al bello e al giusto se vogliamo contrastare “l’abominevole”.

   Naturalmente Messalina non perdona Seneca per i suoi giudizi severi e lo fa accusare ingiustamente di aver tramato, insieme a Giulia Livilla [che viene esiliata a Pandataria], contro il Principe. Seneca viene processato, anche se non ci sono prove contro di lui, e viene mandato in esilio in Corsica. Il duro esilio in Corsica, che allora era una terra molto inospitale, dura otto anni fino al 49 quando Messalina viene uccisa. Sappiamo anche che Claudio, dopo la morte di Messalina, con una scelta poco opportuna, sposa Agrippina Minore, la vedova di Domizio Enobarbo, che è madre di un figlio dodicenne di nome Lucio Domizio Nerone. Sappiamo anche che Agrippina Minore, nel contratto matrimoniale, pretende che il figlio di Claudio e di Messalina, Britannico, venga emarginato e diseredato in modo da garantire la successione a suo figlio Nerone.

   Agrippina Minore è molto astuta, è molto accorta e, inizialmente, si presenta come una persona tollerante e saggia e convince Claudio a concedere la grazia a tutti gli esiliati politici, così anche Seneca può tornare a Roma e lei pensa di poterne sfruttare la competenza intellettuale e la buona reputazione morale. Sappiamo che nel 54 Claudio muore improvvisamente per aver mangiato troppi funghi avvelenati cucinati proprio da Agrippina e Nerone diventa imperatore a soli 17 anni affiancato nel governo da due personaggi di valore: il prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro e il filosofo Lucio Anneo Seneca.

   Sappiamo che i primi cinque anni del governo di Nerone [il governo di Burro e Seneca] sono stati esemplari nella storia dell’Impero: vengono fatte scelte politiche avvedute per ridare slancio all’economia, all’amministrazione statale, per sussidiare i cittadini meno abbienti, per restituire autorità al Senato, per promuovere l’istruzione pubblica, per costruire la pace dentro l’Impero e ai confini dell’Impero. Ma poi esplodono, negli anni 60, in Nerone, tutti i cattivi istinti ereditati dalla famiglia giulio-claudia: Nerone rivela un carattere perverso, vile, feroce. Nerone, raggiunta la maggiore età, si sente grande e onnipotente e rifiuta di ascoltare i suoi consiglieri, vuole imporre una fastosa monarchia di tipo orientale e quando Afranio Burro s’irrigidisce, rimproverandolo per i suoi comportamenti immorali, Nerone lo fa assassinare. Seneca sdegnato dà le dimissioni e si ritira a vita privata e Nerone nomina prefetto del pretorio Sofonio Tigellino, uno della sua forza in quanto a crudeltà. Nerone odia tutti quelli che costituiscono un’alternativa morale al suo potere, e Tigellino lo asseconda: viene assassinato Britannico che, una parte dei Senatori considerava il legittimo imperatore, uccide sua moglie Ottavia perché s’invaghisce di Poppea, e anche Agrippina Minore, che vorrebbe governare al posto del figlio, muore avvelenata per mano di Nerone: il matricidio – che inasprisce ancora di più la situazione – segna anche l’inizio della fine per l’ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia. Riprenderemo, in funzione del nostro viaggio, il racconto degli avvenimenti che determinano la fine della dinastia giulio-claudia la prossima settimana.

   Adesso, per concludere, dobbiamo proseguire ancora nella lettura di due pagine del romanzo Paura di Stefan Zweig: non solo Seneca è pronto a seguire con attenzione ma anche Agrippina Minore si predispone all’ascolto e, difatti, chi meglio di lei può capire l’inquietudine della signora Irene Wagner?

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Paura

L’indomani, quando il marito uscì di casa per recarsi al suo studio legale e lei si ritrovò finalmente sola - i bambini, nel frattempo, erano andati a passeggio -, quell’incontro terribile perse molto del suo carattere angoscioso, considerato adesso nella chiara luce del mattino. Irene si rammentò innanzi tutto che la sua veletta era a trama fitta, sicché quella donnaccia non aveva potuto distinguere i suoi lineamenti, né avrebbe saputo riconoscerli in seguito. Soppesò quindi con calma le precauzioni da prendere. In nessun caso si sarebbe data di nuovo appuntamento con l’amante nell’alloggio di lui, e così il principale rischio di ulteriori agguati era rimosso. Restava dunque solo il pericolo di un incontro casuale, ma altrettanto improbabile perché la donna non aveva potuto seguirla, essendo lei fuggita in automobile. Quella lì non sapeva né il suo nome né dove cercarla e, data l’immagine piuttosto vaga che avrà avuto del suo volto, non c’era pericolo che potesse riconoscerla con sicurezza. Ma Irene era pronta anche a quell’estrema eventualità. Non più attanagliata dalla morsa della paura, le sarebbe bastato - si disse - mantenere la calma, negare tutto, dichiarare con freddezza che si trattava di un errore e, poiché era impossibile provare che lei si recava in quella casa finché non l’avessero colta in flagrante, accusare se mai quella donna di estorsione. Non per nulla Irene era la moglie di uno dei più noti avvocati della capitale e sapeva benissimo, dai discorsi del marito con i colleghi, che le estorsioni vanno bloccate sul nascere e con grande sangue freddo, perché ogni titubanza, ogni ombra di inquietudine da parte della vittima finisce per accrescere la superiorità dell’avversario. La sua prima contromossa fu una breve lettera all’amante, per informarlo che non sarebbe potuta andare da lui l’indomani all’ora stabilita e nemmeno i giorni seguenti. Rileggendo il biglietto, nel quale per la prima volta contraffaceva la propria grafia, lo giudicò un po’ freddo nel tono, e già stava per sostituire quelle parole scostanti con altre più affettuose quando, ricordando l’incontro del giorno precedente, comprese di colpo la ragione del vivo risentimento che covava in lei e al quale andava ascritto il tono algido di quelle righe. Il suo orgoglio era ferito dalla penosa scoperta d’essere subentrata, nei favori dell’amante, a una persona così volgare e indegna, e soppesando le parole con astio crescente, si rallegrava vendicativa della freddezza con cui gli aveva lasciato intendere che andarlo a trovare o meno dipendeva dall’umore del momento. Aveva conosciuto quel giovane - un pianista di fama, pur se in ambito ancora circoscritto - per caso durante una serata in società, e qualche tempo dopo, senza volerlo davvero e quasi senza rendersene conto, era divenuta la sua amante. Di fatto non c’era stata alcuna attrazione fisica, il loro legame non aveva nulla a che fare con i sensi e, in fondo, neppure con lo spirito: si era data a lui senza sentirne il bisogno e senza provare un vero desiderio - per una certa qual indolenza nel resistere alle sue avance e per una sorta di curiosità inquieta. Nulla in lei, né la sensualità che trovava pieno appagamento nella vita coniugale, né la preoccupazione, così frequente nelle donne, di veder avvizzire i propri interessi culturali, l’avevano indotta a cercare un amante: godeva di una felicità piena a fianco di un marito facoltoso, superiore a lei dal punto di vista intellettuale, e dei due figli, e restava in certo senso adagiata con soddisfatta indolenza in quella confortevole quotidianità priva di scosse, peculiare della buona borghesia. Ma esistono atmosfere molli che accendono i sensi come un clima torrido o tempestoso, esiste una felicità ben temperata che eccita più dell’infelicità, e per molte donne l’assenza di desideri risulta egualmente fatale quanto la continua insoddisfazione generata dalla mancanza di prospettive. La sazietà non è meno tormentosa della fame, e quella vita protetta, priva di pericoli, suscitava in lei la curiosità dell’avventura. Mai alcunché finora le aveva opposto resistenza. Ovunque le era venuto incontro l’aspetto carezzevole del mondo, ovunque trovava premure, tenerezza, amore quieto e rispettosa protezione: lei tuttavia, senza sospettare che quel carattere misurato dell’esistenza non dipendeva dagli oggetti esterni, ma era sempre e soltanto il riflesso della sua intima incapacità di legarsi sul serio, aveva la sensazione che quell’agio la defraudasse della vita vera. Le sue fantasticherie di adolescente che sognava il grande amore e l’estasi della passione si erano assopite nel placido affetto dei primi anni di matrimonio e nell’incanto giocoso di una precoce maternità, ma adesso, all’approssimarsi dei trent’anni, quelle fantasticherie risorgevano, e come ogni donna ella si sentiva dentro di sé capace di nuovi ardori, ma alla volontà di viverli non associava il coraggio di pagare il prezzo autentico dell’avventura: l’accettazione del pericolo. Quando dunque, in quello stato di appagamento che non poteva crescere oltre, il giovane le si avvicinò manifestando con schiettezza quanto la desiderasse e, circonfuso dall’aura romantica dell’arte, entrò nel mondo borghese di lei, dove gli uomini di solito rendono rispettoso omaggio alla «bella signora» solo con tiepidi motti di spirito e piccole galanterie, senza desiderarla davvero in tutta la sua femminilità, per la prima volta dacché era ragazza ella si sentì di nuovo eccitata nel profondo del suo essere. Ciò che di lui poteva averla attratta era stata solo un’ombra di tristezza, diffusa su un volto che voleva apparire un po’ troppo interessante, una tristezza studiata, ma lei non se ne avvide - proprio come la tecnica della sua arte e come quella pensosità velata di malinconia, da cui si levava un «improvviso», frutto anch’esso di lunga preparazione. In quella malinconia aleggiava per lei, che attorno a sé vedeva soltanto bravi borghesi appagati, il presagio di un mondo superiore, pronto a venirle incontro cangiante dalle pagine dei libri e ad animarsi a teatro di tutto il suo romanticismo, e Irene, senza averne piena coscienza, si era protesa oltre la sponda dei suoi sentimenti quotidiani per contemplarlo. Parole di lode, sorte sulle sue labbra in un attimo d’entusiasmo e pronunciate in tono forse un po’ più ardente del dovuto, indussero il pianista ad alzare gli occhi verso la donna, e già quel primo sguardo fu promessa di conquista. Irene ebbe un moto di sgomento e nel contempo avvertì la voluttà che sempre si annida nella paura: una conversazione, in cui tutto pareva come illuminato e riscaldato da un fuoco sotterraneo, alimentò e stimolò a tal punto la sua curiosità che ella non fece nulla per evitare un nuovo incontro a un concerto. In seguito si videro spesso, e ben presto non più per caso. Lei, che fino a quel momento non si era sentita dotata di un particolare gusto musicale e, a buon diritto, aveva conferito scarsa importanza alla propria sensibilità artistica, si sentiva adesso orgogliosa di significare molto per lui, per un vero artista, nel ruolo di consigliera capace di comprenderlo, come lui non si stancava di ripetere: fu così che poche settimane più tardi aderì in modo un po’ avventato alla proposta del giovane, che voleva suonare davanti a lei, e davanti a lei sola, la sua ultima opera - una proposta forse anche in parte sincera nelle intenzioni, ma il cui esito furono baci e, infine, la sorprendente resa di lei. Irene provò subito un moto di spavento per l’inattesa piega sensuale presa dagli eventi, il brivido di mistero che aleggiava intorno alla loro relazione scomparve all’improvviso e il senso di colpa per quell’adulterio non voluto venne solo in parte lenito dalla solleticante vanità d’aver per la prima volta rinnegato il mondo borghese in cui viveva, a seguito di una decisione che credeva sua. E grazie a tale vanità l’orrore per la trasgressione, che all’inizio l’atterriva, si trasformò in orgoglio via via crescente. Ma anche questo misterioso eccitamento fu davvero emozionante solo nei primi tempi. D’istinto ella si ribellava in cuor suo a quell’uomo e soprattutto a quanto di nuovo scopriva in lui, quella diversità che l’aveva per l’appunto incuriosita. I suoi abiti eccentrici, il suo tenore di vita bohémien, le sue finanze sregolate, di continuo oscillanti fra dissipazione e ristrettezze, irritavano in lei la sensibilità borghese. Come la maggior parte delle donne voleva che l’artista fosse molto romantico da lontano e molto educato nei rapporti personali: una fiera superba, ma dietro le sbarre delle buone maniere. La sua passione, inebriante quando era seduto al pianoforte, finiva per innervosirla nell’intimità, gli abbracci repentini e veementi in fondo non le piacevano, e senza volerlo paragonava quell’estrosità priva di riguardi con l’ardore del marito, ancora timido e rispettoso dopo tanti anni di matrimonio. Ma ora che per la prima volta era stata infedele, continuò a tornare dall’amante, senza essere né appagata né delusa, obbedendo a una specie di senso del dovere e alla forza dell’abitudine.

Era una di quelle creature, non rare persino tra le donne leggere o addirittura di facili costumi, il cui animo è così profondamente borghese, che esse introducono finanche un ordine nell’adulterio e una sorta di calore domestico nella trasgressione, e cercano di tessere con pazienza la tela della quotidianità anche utilizzando il sentimento più inconsueto.

   Nel prossimo itinerario continueremo a leggere il testo di questo interessante romanzo ma, in primo luogo, studieremo soprattutto l’opera di Lucio Anneo Seneca: questa sera ci siamo occupate ed occupati solo delle tragedie ma il patrimonio che Seneca il Filosofo ci ha lasciato in eredità è assai consistente e ci appartiene.

   Agrippina Minore – l’irrequieta madre di Nerone che ha seguito con attenzione la lettura delle prime pagine dal romanzo di Stefan Zweig – è preoccupata di venir dimenticata, adesso noi la vogliamo rassicurare che le useremo lo stesso “trattamento letterario” che abbiamo usato per Messalina: lei non sa che una delle figure femminili più significative della Letteratura italiana si chiama proprio Agrippina la quale le assomiglia di nome ma non di fatto: voi siete al corrente di questa coincidenza letteraria?

   Non vi preoccupate: prossimamente, strada facendo, a gennaio del prossimo anno, ce ne occuperemo seguendo la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune come l’inquietudine, come l’inquietudine quando diventa uno stimolo che spinge a dedicarsi alle attività che favoriscono l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “errante” perché l’insegnamento più importante è quello che non si acquisisce mai ma che si studia sempre.

   Il viaggio continua…

 

 

 
Lezione del: 
Venerdì, Novembre 23, 2012