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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA HA INIZIO LA RIFLESSIONE FILOLOGICA SE IL “SUCCESSORE DI PIETRO” DEBBA ASSUMERE UN RUOLO ESCLUSIVAMENTE PASTORALE RINUNCIANDO ALLA PREROGATICA DI SOVRANO TEOCRATICO ...

Lezione N.: 
16

Prof. Giuseppe Nibbi   La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica  17-18-19  febbraio  2016

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

    HA INIZIO LA RIFLESSIONE FILOLOGICA SE IL “SUCCESSORE DI PIETRO”

DEBBA ASSUMERE UN RUOLO ESCLUSIVAMENTE PASTORALE

RINUNCIANDO ALLA PREROGATICA DI SOVRANO TEOCRATICO ...

   Questo è il sedicesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” [siamo più o meno a metà del nostro Percorso] e siamo sempre in compagnia di Raimondo Lullo, un affascinante personaggio eclettico che abbiamo imparato a conoscere in quanto “prototipo dell’umanista”: è un poeta, un monaco, un eremita, un teologo, un filosofo, un matematico, uno scienziato, un instancabile viaggiatore, un intellettuale enciclopedico [autore di almeno 120 Opere documentate delle 250 che gli vengono attribuite], ed è un pioniere nel campo della contaminazione intellettuale che dà l’avvio ad una vera e propria “politica dell’ecumenismo” perché, essendo un profondo conoscitore delle tre grandi tradizioni monoteiste - l’ebraica, la cristiana e l’islamica, che hanno nella figura di Abramo la radice comune -, vuole favorire il dialogo in alternativa ai poteri forti che prosperano sulla divisione e sulla redditizia attività bellica.

   Raimondo Lullo dimostra come sia possibile creare una nuova morale universale [un katolicos ethos] seguendo le regole della Ragione che sono universali, e, come sappiamo, espone il suo progetto al concilio di Vienne nel 1311, convocato da papa Clemente V; ma naturalmente le sue proposte, adatte per superare l’idea che il mondo debba essere diviso in “fedeli ed infedeli” [se c’è un Dio solo c’è anche un’unica famiglia umana], vengono respinte con sdegno. Ma il fatto è che Raimondo Lullo è già un “umanista” proiettato verso il Rinascimento e trova difficoltà a farsi capire da governanti [tanto nobili quanto borghesi] che hanno ancora una mentalità “feudale” reazionaria, assolutista, dispotica, affaristica.

   La scorsa settimana di Raimondo Lullo abbiamo preso in considerazione tre Libri [dei 120 che ha composto]: il primo s’intitola Libro dell’Amico e l’Amato che come ben sapete è stato collocato dall’autore nella quinta parte del suo romanzo autobiografico e filosofico intitolato Blanquerna [Blancherna], mentre il terzo trattato di Raimondo Lullo del quale ci siamo occupate ed occupati s’intitola Libro degli scacchi. Raimondo Lullo nel testo di queste tre opere [il poema Libro dell’Amico e l’Amato, il romanzo autobiografico Blancherna e il trattato Libro degli scacchi] vuole mettere in evidenza tre parole chiave - la memoria, l’intelletto e la volontà - che contengono tre elementi cardine della nostra “essenza” perché la perdita di una di queste tre funzioni riduce fortemente la nostra potenzialità “umana”. La memoria, l’intelletto e la volontà sono secondo Raimondo Lullo i tre pilastri, dalla valenza universale, su cui poggia tutta la Storia del Pensiero Umano e la presa di coscienza di questo fatto ci fa capire che, sulla scia di queste parole significative, stiamo ormai per mettere piede nel territorio dell’Umanesimo propriamente detto [cosiddetto “filologico”].

   Anche secondo lo scrittore austriaco Stefan Zweig, che abbiamo incontrato la scorsa settimana, queste tre “funzioni” - memoria, intelletto e volontà - sono necessarie per lo sviluppo dell’Umanesimo, bloccato e schiacciato nei suoi valori dall’insorgere in Europa - durante il secolo scorso - delle dittature, per cui, nel 1941, durante l’esilio brasiliano, a pochi mesi dalla morte [il 22 febbraio del 1942], Stefan Zweig compone un breve romanzo intitolato Novella degli scacchi: un’opera considerata esemplare per la sua completezza, e non ci siamo neppure meravigliate e meravigliati del fatto che il colto umanista contemporaneo Stefan Zweig abbia citato nel suo racconto anche il colto umanista medioevale Raimondo Lullo: visto che il primo “trattato sugli scacchi” lo ha scritto proprio Raimondo Lullo durante l’autunno del Medioevo!

   E ora prendiamo il passo continuando a leggere questo romanzo: l’autore ci ha portate e portati a bordo di un piroscafo che otto giorni fa è salpato a mezzanotte da New York per Buenos Aires [anche noi siamo salite e saliti a bordo] - dove due contendenti si sfideranno alla scacchiera, e la scorsa settimana abbiamo conosciuto la storia del primo di questi due personaggi, Mirko C., il campione mondiale di scacchi in carica, ormai famoso, arrogante e venale che conduce una vita quanto mai appartata perché sa ben gestire una sua inadeguatezza culturale che non gioverebbe alla sua immagine, e il narratore [perché c’è un anonimo narratore che ci accompagna nella lettura] vorrebbe poter avvicinare questo personaggio per studiarlo da vicino, per analizzarne il carattere, e, quindi, pensa a come poter fare per entrare in contatto con lui. Il narratore dice di essere molto curioso nei confronti di tutto ciò che è psicologico e afferma che, per la prima volta, si trova fisicamente vicinissimo [“sei cabine più in là sulla stessa nave”] ad un vero fenomeno ma non sa come avvicinarlo e, di conseguenza, comincia a pensare di poter escogitare degli stratagemmi. Proseguiamo nella lettura.

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Novella degli scacchi

E ora un fenomeno del genere, un tale genio straordinario o folle imperscrutabile, mi era per la prima volta fisicamente vicinissimo, sei cabine più in là sulla stessa nave, e io, sciagurato, per il quale la curiosità nei confronti di tutto ciò che è psicologico degenera in una sorta di passione, non ero capace di avvicinarlo. Cominciai a escogitare gli stratagemmi più assurdi: tipo stuzzicare la sua vanità fingendo una presunta intervista per un giornale importante, oppure incastrarlo facendo leva sulla sua avidità, proponendogli un lucroso torneo in Scozia. Alla fine, però, mi ricordai che la tecnica più sperimentata dai cacciatori per attirare il gallo cedrone era quella di imitarne il verso nella stagione dell’amore; e in effetti, cosa poteva esserci di più efficace per attrarre l’attenzione di un campione di scacchi se non giocare a scacchi io stesso?  …  Ora, per tutta la vita non sono mai stato un serio artista degli scacchi, e questo per il semplice motivo che ho sempre giocato in maniera leggera ed esclusivamente per mio piacere personale; se mi siedo per un’oretta davanti alla scacchiera, non è assolutamente per impegnarmi, ma piuttosto, al contrario, per alleggerirmi dalla tensione nervosa. Gioco a scacchi nel senso più pieno del termine, mentre gli altri, i veri giocatori, fanno sul serio. Sennonché negli scacchi, come nell’amore, è indispensabile avere un partner, e al momento non sapevo ancora se, oltre a noi, a bordo si trovassero altri amanti del Gioco dei Re. Per stanarli dai loro cantucci, decisi di tendere una primitiva trappola nella sala fumatori, sedendomi assieme a mia moglie, che giocava persino peggio di me, davanti a una scacchiera a mo’ di uccellatore. E in effetti non avevamo ancora fatto nemmeno sei mosse che già qualcuno, passando, si bloccò a lanciare un’occhiata e un altro domandò il permesso di assistere; alla fine saltò fuori anche il desiderato partner, che mi sfidò a una partita. Si chiamava McConnor ed era un ingegnere minerario scozzese, il quale, come sentii dire, aveva accumulato un grosso patrimonio con i pozzi petroliferi in California; d’aspetto era un uomo massiccio, dalle mascelle pronunciate, forti, quasi squadrate, denti robusti e un vigoroso colorito del viso, il cui accentuato rossore era probabilmente dovuto, almeno in parte, a un generoso consumo di whisky. Le spalle visibilmente larghe, possenti quasi quanto quelle di un atleta, a livello caratteriale si facevano notare, purtroppo, anche nel gioco: questo McConnor apparteneva a quel genere di uomini di successo presi di sé fino allo spasmo, i quali percepiscono una sconfitta, persino nel gioco più insignificante, già come un attacco alla consapevolezza che essi hanno di sé e del proprio valore. Abituato a imporsi nella vita, a farsi valere spesso in maniera spietata, e viziato dall’effettivo successo che aveva ottenuto, costui era talmente pervaso, in maniera granitica, dall’idea della propria superiorità che qualsiasi resistenza lo irritava profondamente, quasi fosse un insulto. Quando perse la prima partita si indispettì e ci tenne a spiegare, con puntiglio quasi dittatoriale, che poteva essere accaduto solo a causa di una momentanea distrazione; alla terza diede la colpa del suo fallimento al baccano nella sala accanto; non era mai disposto a perdere senza pretendere subito la rivincita. Dapprincipio questo ambizioso accanimento mi divertì; alla fine lo considerai soltanto come un’inevitabile circostanza concomitante al mio vero obiettivo, vale a dire attirare il campione mondiale al nostro tavolo.   Il terzo giorno l’intento andò a buon fine, ma solo a metà. …    Fosse che Mirko C. ci avesse osservato davanti alla scacchiera dal finestrino che dava sul ponte di passeggiata, o che avesse deciso per puro caso di onorare della sua presenza la sala fumatori - fatto sta che non appena ci vide, noi profani, praticare la sua arte, di riflesso si avvicinò d’un passo e da quella prudente distanza gettò un’occhiata indagatrice alla scacchiera. In quel momento toccava a McConnor muovere. E già quella mossa sembrò sufficiente per far capire a Mirko C. quanto quell’attenzione verso i nostri sforzi dilettantistici fosse indegna del suo magistrale interesse. Con lo stesso gesto naturale e quasi ovvio con cui uno di noi, in una libreria, mette da parte uno scadente romanzo giallo presentato in bella vista, senza neppure sfogliarlo, Mirko C. si allontanò dal nostro tavolo e uscì dalla sala fumatori. …  Irritato da quell’occhiata fredda, sprezzante, con malumore dissi a McConnor: «Pare che la sua mossa non abbia entusiasmato granché il maestro».

«Quale maestro?»…  Quel signore, gli spiegai, che era appena passato davanti al nostro tavolo e aveva osservato con disapprovazione la nostra partita era il campione del mondo di scacchi.  E aggiunsi che entrambi avremmo sopportato lo smacco e ci saremmo rassegnati al suo illustre disprezzo senza troppa amarezza, giusto? I comuni mortali, dopotutto, facevano quel che potevano. Ma, con mia grande sorpresa, quell’osservazione ebbe un effetto del tutto inaspettato su McConnor. Lo scozzese si fece subito tutto agitato, scordandosi bellamente della nostra partita, e la sua ambizione cominciò a palpitare in maniera addirittura udibile. Non aveva idea che Mirko C. si trovasse a bordo, disse, e a quel punto doveva giocare a tutti costi contro di lui. In vita sua non aveva mai giocato contro un campione del mondo, tranne una volta in una simultanea con altri quaranta; e già quello era stato maledettamente eccitante, e lui, McConnor, per poco non aveva vinto. Per caso conoscevo di persona il maestro? Dissi di no. Non è che per caso volevo interpellarlo e invitarlo a unirsi a noi? Rifiutai, e motivai il mio diniego dicendo che, da quel che sapevo, Mirko C. non era molto incline a fare nuove conoscenze. Per di più, quale attrattiva poteva avere per un campione mondiale cimentarsi con noi, giocatori di terza categoria? Ora, questa dei giocatori di terza categoria, con un uomo tanto ambizioso come McConnor avrei fatto meglio a risparmiarmela. Stizzito, si appoggiò allo schienale della sedia e chiarì brusco che lui, dal canto suo, non poteva credere che Mirko C. avrebbe rifiutato il cortese invito di un signore; della faccenda se ne sarebbe occupato lui. Così, dietro suo desiderio, gli fornii una breve descrizione fisica del maestro, ed egli subito si precipitò fuori, piantando in asso con noncuranza la nostra scacchiera per correre dietro a Mirko C. sul ponte di passeggiata, in preda a una smania incontrollata. Di nuovo ebbi la sensazione che il detentore di spalle tanto larghe non fosse tipo da fermarsi una volta che decideva di lanciarsi in qualche nuova impresa. Rimasi in attesa, piuttosto agitato. Dopo dieci minuti McConnor fu di ritorno, a quanto mi parve non molto di buon umore. …  «Be’?», domandai.

«Aveva ragione», rispose un po’ indispettito. «Un signore non particolarmente affabile. Mi sono presentato, gli ho detto chi ero. Non mi ha neppure dato la mano. Ho cercato di spiegargli quanto saremmo stati orgogliosi e onorati, tutti noi a bordo, se ci avesse concesso di giocare una partita in simultanea contro di noi. Ma lui è rimasto rigido come un dannato manico di scopa; gli spiace, ha detto, ma ha degli obblighi contrattuali verso il suo agente, che gli proibiscono espressamente di giocare durante tutta la tournée se non dietro pagamento di un onorario. La tariffa minima è di duecentocinquanta dollari a partita».  Scoppiai a ridere. …  «Non avrei mai pensato che spostare delle figure dal bianco al nero potesse essere un’attività tanto remunerativa. Be’, spero che lei si sia congedato in maniera altrettanto cortese».

Ma McConnor rimase perfettamente serio. «La partita è fissata per domani pomeriggio alle tre. Qui in sala fumatori. Mi auguro che non ci faremo ridurre in polpette tanto facilmente»

«Cosa? Gli ha accordato i duecentocinquanta dollari?», esclamai molto colpito.

«Perché no? È il suo mestiere. Se avessi mal di denti e ci fosse per caso un dentista a bordo, non pretenderei mica che mi togliesse il dente gratis. Il tizio ha pienamente ragione a gonfiare i prezzi in questo modo; in ogni settore, i veri esperti sono anche i migliori uomini d’affari. E per quanto mi riguarda: patti chiari, amicizia lunga. Preferisco pagare cash, anziché lasciare che un qualsiasi signor Mirko C. mi conceda il favore di giocare, e doverlo pure ringraziare alla fine. E per concludere, al nostro club ho già perso in una sera molto più di duecentocinquanta dollari e senza neppure aver giocato contro un campione mondiale. Per dei giocatori di terza categoria non è una vergogna essere messi al tappeto da un Mirko C.».

Mi divertì notare quanto profondamente avessi offeso l’amor proprio di McConnor con quell’innocente espressione, giocatori di terza categoria. Ma dato che egli era intenzionato a pagare quel costoso diversivo, non avevo niente da eccepire sulla sua ambizione mal riposta, che alla fin fine mi avrebbe permesso di fare la conoscenza del mio fenomeno. Avvisammo in tutta fretta dell’evento imminente quei quattro o cinque signori che sino ad allora si erano dichiarati giocatori di scacchi e, in modo da essere disturbati il meno possibile dal viavai dei passeggeri, prenotammo in anticipo non solo il nostro tavolo ma anche quelli vicini.

   Il signor Mirko C. non è certo impensierito da questa temeraria sfida lanciatagli da un gruppetto di “giocatori di terza categoria” [anche se l’intraprendente McConnor non se lo vuole sentir dire], ma un fatto imprevisto - in primo luogo per gli sfidanti che sono davvero scacchisti di bassa categoria e, proprio per questo, amano giocare per divertirsi e non per “fare sul serio” -,  modifica le sorti di una partita che, secondo le previsioni, si stava concludendo a favore del campione.

   Ma lo vedremo fra un po’ perché ora dobbiamo tornare a puntare la nostra attenzione sul pensiero di Raimondo Lullo perché la scorsa settimana [se ben ricordate] abbiamo lasciato in sospeso un argomento che tira in ballo ancora una volta il Vangelo secondo Giovanni, una delle opere più importanti della Storia della Letteratura universale dalla quale non si può prescindere. La scorsa settimana [come ben sapete] abbiamo studiato la forma e il contenuto del Libro dell’Amico e l’Amato di Raimondo Lullo: ne abbiamo letto la Presentazione, il Prologo e quarantuno delle 366 Metafore morali [da leggersi una per giorno dell’anno] di cui il testo si compone. Ebbene, l’ultima Metafora morale che abbiamo letto ha fatto nei secoli assai discutere le studiose e gli studiosi che però concordano all’unisono su due importanti motivi: sul tema filologico delle parole-chiave in essa contenute e sul tema esegetico della citazione che vi compare. Ma proseguiamo con ordine perché il tema è assai complesso.

   Il testo dell’ultima Metafora morale tratta dal Libro dell’Amico e l’Amato di Raimondo Lullo, che abbiamo letto la scorsa settimana, dice così [rileggiamolo]: «La memoria, l’intelletto e la volontà legano gli amori dell’Amico e l’Amato, perché l’Amico e l’Amato non debbano separarsi quando l’Amante chiede all’Amato: “Mi ami tu?”», ebbene, le studiose e gli studiosi rimarcano la presenza in questo frammento poetico tutto da interpretare di due importanti elementi di riflessione.

   Il primo [come ben sappiamo] riguarda le tre parole-chiave che vi compaiono - la memoria, l’intelletto e la volontà - che [come già abbiamo studiato] traspaiono in filigrana non solo nel testo del Libro dell’Amico e l’Amato ma in tutte le Opere di Lullo che anticipano il movimento dell’Umanesimo propriamente detto, un movimento la cui essenza si caratterizza per avere una natura prettamente “filologica” [sono le parole che descrivono il Mondo creato, la realtà esiste solo se viene definita con le parole e, quindi: “la parola crea, in principio è la Parola”]. Questa riflessione fa da introduzione anche al secondo elemento significativo presente nel frammento poetico che stiamo analizzando e che riguarda la citazione dal capitolo 21 versetto 16 del Vangelo secondo Giovanni - «Simone di Giovanni, mi ami tu?» chiede Gesù a Pietro - e questa citazione rimanda ad una alle molte Opere esegetiche di Raimondo Lullo nella quale auspica una radicale riforma dell’istituzione del papato in senso evangelico [e questa questione continua ad essere di attualità]. Dobbiamo, quindi, ribadire che l’indagine sul significato delle parole - soprattutto su quelle contenute nei testi della Sacra Scrittura [“esegesi”, in greco, significa “lettura attenta”] - è ciò che caratterizza il movimento dell’Umanesimo propriamente detto, una tendenza di pensiero che ha una natura squisitamente “filologica” perché, come abbiamo detto più volte, attraverso il significato delle parole e secondo la forma che un testo viene ad assumere, il Pensiero umano si configura in un determinato modo che incide nel dare uno specifico significato alla realtà fisica e metafisica.

   Per capire il senso della citazione - «Simone di Giovanni, mi ami tu?» come chiede Gesù a Pietro - tratta dal capitolo 21 versetto 16 del Vangelo secondo Giovanni, che Lullo inserisce nella Metafora morale che stiamo analizzando [e per analizzarla bisogna compiere un certo percorso], dobbiamo studiare il breve trattato, intitolato Libro dei due epiloghi, nel quale Raimondo Lullo commenta la parte finale [dal versetto 30 del capitolo 20 alla fine del capitolo 21] del testo del Vangelo secondo Giovanni perché quest’opera termina in modo strano, ambiguo e compromissorio, e Raimondo Lullo, da esperto grecista e filologo umanista, non può fare a meno [risalendo alle origini] di rimarcare questo fatto in modo che tutta la cristianità, a cominciare dal papato, ne tragga degli insegnamenti per modificare la propria mentalità in senso universale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - l’ultima parte, la fine, la conclusione, il finale, il termine, l’esito, la risoluzione - preferite mettere prima accanto al termine “epilogo”?… 

Scrivetela…

C’è un avvenimento della vostra vita che potete definire come “un epilogo”?

Scrivete quattro righe in proposito…

   E ora - prima di occuparci del Libro dei due epiloghi di Raimondo Lullo, che ci permette di capire come l’Umanesimo propriamente detto sia principalmente un movimento di carattere filologico - dobbiamo proseguire nella lettura della Novella degli scacchi per constatare con quale strano epilogo si concluda la sfida tra il focoso signor McConnor e compagni e il glaciale e venale campione mondiale Mirko C.: si determina davvero un epilogo che permette a Stefan Zweig di aprire una nuova prospettiva narrativa.

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Novella degli scacchi

L’indomani il nostro piccolo gruppo si era presentato al completo all’ora stabilita. Il posto al centro, dirimpetto al maestro, fu assegnato naturalmente a McConnor, il quale cercava di allentare il nervosismo accendendo un sigaro forte dietro l’altro e continuava a guardare irrequieto l’orologio. Ma il campione si fece attendere per dieci minuti buoni, dopo i quali, tuttavia, la sua apparizione acquistò una solennità persino più impressionante. Si avvicinò al tavolo tranquillo e rilassato. Senza prendersi la briga di presentarsi - Voi sapete chi sono io, e chi siete voi non mi interessa, sembrava dire quella scortesia - cominciò con l’impartire le disposizioni del caso, parlando in tono freddo e secco, con un gergo specialistico asciutto. Dal momento che, per mancanza di scacchiere disponibili a bordo, una partita simultanea risultava impraticabile, propose di giocare tutti quanti assieme contro di lui. Dopo ogni mossa, per non disturbare le nostre consultazioni, egli si sarebbe spostato in un altro tavolo in fondo alla sala. Non appena avessimo effettuato la nostra contromossa, dovevamo battere col cucchiaio contro un bicchiere, non essendoci purtroppo un campanello a portata di mano. Come tempo massimo per ogni mossa propose dieci minuti, a meno che non desiderassimo un altro intervallo. Naturalmente, come timidi scolaretti, fummo d’accordo su ogni punto. La scelta del colore assegnò il nero a Mirko C.; fece la prima contromossa ancora in piedi e si diresse quindi subito verso il punto d’attesa che aveva suggerito, dove si mise a sfogliare una rivista illustrata, poggiato pigramente allo schienale della sedia. …  Ha poco senso riferire come andò la partita. Si concluse ovviamente come doveva concludersi, con la nostra totale sconfitta, e per l’esattezza già alla ventiquattresima mossa. Ora, che un campione mondiale di scacchi sbaragliasse con la mano sinistra una mezza dozzina di giocatori mediocri o scarsi era di per sé un evento assai poco straordinario; ciò che in realtà risultò odioso per tutti noi fu l’arroganza con cui Mirko C. ci fece percepire questo fatto con chiarezza - che ci aveva battuto con la mano sinistra. Ogni volta lanciava appena un’occhiata apparentemente fugace alla scacchiera, guardandoci con noncuranza, come se noi stessi non fossimo che inerti pezzi di legno, un gesto insolente che ricordava quello con cui, distogliendo lo sguardo, si lancia un boccone a un cane rognoso. Dando prova di un minimo di sensibilità avrebbe potuto, a mio parere, richiamare la nostra attenzione su qualche errore o incoraggiarci con qualche parola amichevole. Ma anche dopo la fine della partita questo disumano automa degli scacchi non proferì una sola sillaba, limitandosi, dopo aver pronunciato le parole «scacco matto», a restare immobile dinanzi al tavolo in attesa di sapere se gli avversari desiderassero un secondo incontro. Mi ero già alzato per dare a intendere - disarmato - che, almeno per quanto mi riguardava, con quella faccenda di dollari il piacere della nostra conoscenza poteva dirsi concluso, quando, con mia grande irritazione, McConnor esclamò con voce roca accanto a me: «Rivincita!».

Sobbalzai addirittura dallo spavento per il tono di sfida; e in effetti in quel momento McConnor ricordava più un pugile prima dello scontro anziché un affabile gentiluomo. Forse per via dell’antipatico trattamento che Mirko C. ci aveva riservato, o solamente in virtù della sua smodata ambizione, suscettibile ai limiti del patologico, McConnor appariva completamente trasformato. Rosso in viso fino all’attaccatura dei capelli, le narici dilatate con furia per la pressione della respirazione, sudava visibilmente e, dalle labbra contratte, una piega profonda si delineava con chiarezza contro il mento, proteso in avanti con fare battagliero. Riconobbi con inquietudine nei suoi occhi quella scintilla di sfrenata passione che di solito si impossessa degli uomini solo al tavolo della roulette, quando per la sesta o settima volta, a fronte di una posta sempre raddoppiata, il colore giusto ancora non vuol saperne di uscire. E in quell’istante seppi con chiarezza che quel fanatico ambizioso, gli fosse costato anche il suo intero patrimonio, avrebbe continuato a giocare e a giocare e a giocare, con una posta semplice o doppia, contro Mirko C. sino a che non avesse vinto almeno una partita. Se Mirko C. teneva duro, be’, avrebbe trovato in McConnor una miniera d’oro, dalla quale, di lì a Buenos Aires, poteva cavar fuori qualche migliaio di dollari.

Mirko C. rimase impassibile. «Prego», rispose con garbo. «I signori ora giocano con il nero»…  Anche la seconda partita non offrì un quadro molto diverso dall’altro, non fosse per il fatto che, grazie all’arrivo di alcuni curiosi, il nostro gruppetto era non solo cresciuto di numero, ma anche divenuto più vivace. McConnor fissava rapito la scacchiera quasi che, pur di vincere, fosse deciso a magnetizzare le figure con la sola forza di volontà; guardandolo, intuii che sarebbe stato disposto a sacrificare perfino mille dollari per poter lanciare il grido voluttuoso di scacco matto! contro quel gelido avversario. E curiosamente, qualcosa della sua ostinata eccitazione si trasmise in maniera inconscia pure a noi. Ogni singola mossa veniva discussa in maniera infinitamente più appassionata di prima, e di continuo, all’ultimo minuto, ci trattenevamo a vicenda sino a che non eravamo tutti d’accordo per dare il segnale che doveva richiamare Mirko C. al nostro tavolo. Poco a poco eravamo giunti così alla trentasettesima mossa, e con nostra grande sorpresa si era presentata una costellazione che appariva incredibilmente vantaggiosa: dato che ci era riuscito di portare il Pedone della linea c fino alla penultima casa c2; dovevamo semplicemente farlo avanzare fino a c1 per guadagnare una nuova Regina. In realtà, non ci sentivamo del tutto a nostro agio di fronte a quella chance fin troppo smaccata; tutti quanti sospettavamo infatti che quel vantaggio, in apparenza conquistato con le nostre forze, doveva esserci stato gettato a mo’ di esca, e con un fine preciso, da Mirko C., che analizzava la situazione con molta più lungimiranza di noi. Ma nonostante il lungo e accanito esaminare e discutere tutti assieme, non riuscimmo a individuare dove si nascondesse la trappola. Così, alla fine, già quasi al limite del tempo stabilito, decidemmo di tentare la mossa. E già McConnor aveva toccato il Pedone per spostarlo sull’ultima casa, quando di colpo si sentì afferrare il braccio con forza e qualcuno, con voce sommessa e concitata, sussurrò: «Per l’amor del cielo! No!»…  Di riflesso ci voltammo tutti quanti. Un signore di circa quarantacinque anni, il cui viso sottile e affilato mi era già saltato all’occhio sul ponte di passeggiata per via del suo straordinario pallore, quasi color del gesso, doveva essersi avvicinato a noi negli ultimi minuti, mentre eravamo concentrati sulla partita rivolgendo la nostra totale attenzione al problema. …  Avvertendo i nostri sguardi fissi su di lui, soggiunse in fretta: «Se adesso guadagnate una Regina, lui la cattura subito spostando l’Alfiere in c1, e dovrete battere in ritirata col vostro Cavallo. Ma nel frattempo lui avanzerà col Pedone passato in d7, minacciando la vostra Torre, e anche se voi dichiarate scacco col Cavallo perderete, e in nove o dieci mosse sarete sconfitti. È quasi la stessa combinazione da manuale ideata nel 1922»

McConnor, sbalordito, levò la mano dal pezzo e, non meno meravigliato di noialtri, fissò l’uomo che, come un angelo inatteso, era sceso dal cielo in nostro aiuto. Uno che era in grado di calcolare uno scacco matto con nove mosse di anticipo doveva essere un professionista di prima categoria, forse addirittura un concorrente al titolo mondiale in viaggio per recarsi allo stesso torneo, e il suo improvviso arrivo e il suo intervento in un momento tanto critico avevano un che di soprannaturale.

McConnor fu il primo a riprendersi. «Cosa suggerisce?», bisbigliò agitato.

«Non avanzare subito, ma per prima cosa eludere l’attacco! Anzitutto togliere il Re dalla linea a rischio, da g8 a h7. Molto probabilmente lui sposterà l’attacco sull’altra ala. Ma voi parate muovendo la Torre da c8 a c4; questo gli costerà due tempi, un Pedone e quindi anche il vantaggio. Dopodiché si avrà Pedone passato contro Pedone passato, e se vi tenete bene sulla difensiva la partita può ancora concludersi patta. Di più non si può fare». …  Ancora una volta restammo di stucco. La precisione come pure la rapidità del suo calcolo aveva qualcosa di sconcertante; era come se leggesse le mosse da un libro stampato. In ogni caso, l’inattesa possibilità di concludere in parità la nostra partita contro un campione mondiale, grazie all’intervento dello sconosciuto, ci parve prodigiosa. Tutti insieme ci scostammo di lato per consentirgli di vedere con chiarezza la scacchiera. McConnor domandò di nuovo: «Quindi il Re da g8 a h7?» …  «Sì! Eludere l’attacco innanzitutto!».  McConnor obbedì, e battemmo sul bicchiere. Mirko C. si avvicinò al tavolo con la sua solita andatura impassibile e soppesò la contromossa con un’unica occhiata. Dopodiché mosse il Pedone da h2 a h4 sull’ala di Re, esattamente come aveva previsto il nostro sconosciuto soccorritore. E già questi sussurrava eccitato: «La Torre avanti, la Torre avanti, da c8 a c4, così per prima cosa dovrà coprire il Pedone. Ma non gli servirà a nulla! Catturate col Cavallo d3-e5, senza preoccuparvi del suo Pedone, e in questo modo l’equilibrio è ristabilito. Tutta la spinta in avanti anziché difendere!».

Non capivamo cosa intendesse. Per noi, tutto ciò che diceva era arabo. Ma McConnor, di nuovo sotto il suo incantesimo, fece la mossa senza riflettere, come gli era stata prospettata. E di nuovo battemmo sul bicchiere per richiamare Mirko C. Per la prima volta il maestro non si decise rapidamente, ma osservò con aria nervosa la scacchiera. Di riflesso aggrottò le sopracciglia. Poi fece esattamente la mossa che ci aveva annunciato lo sconosciuto e si voltò per andarsene. Tuttavia, prima che si allontanasse, accadde qualcosa di nuovo e inaspettato. Mirko C. sollevò lo sguardo e soppesò le nostre fila; era evidente che voleva scoprire chi fosse a opporgli, di punto in bianco, una resistenza tanto vigorosa. Da quell’istante in poi la nostra eccitazione crebbe a dismisura. Fino ad allora avevamo giocato senza serie speranze, ora però il pensiero di infrangere la fredda alterigia di Mirko C. ci attraversava le vene come fuoco, accelerandoci il polso. Ma il nostro nuovo amico aveva già ordinato la mossa successiva, e potemmo così - battei il cucchiaio contro il bicchiere con dita tremanti - richiamare Mirko C. E qui arrivò il nostro primo trionfo. Mirko C., che fino ad allora aveva giocato sempre e solo in piedi, stavolta esitò ed esitò fino a che non si sedette. Si sedette lentamente e con pesantezza; con quel gesto era stato annullato, almeno fisicamente, quel rapporto dall’alto al basso tra lui e noi. L’avevamo costretto a porsi, se non altro da un punto di vista spaziale, sul nostro stesso livello. Meditò a lungo, gli occhi immobili fissi sulla scacchiera, tanto che a stento si potevano scorgere le pupille dietro le palpebre scure, e in quella assorta riflessione socchiuse poco a poco le labbra, cosa che conferì al viso rotondo un’espressione ingenua. Mirko C. rifletté per alcuni minuti, poi fece la mossa e si alzò. E già il nostro amico bisbigliava: «Una mossa per prendere tempo! Ben fatto! Ma non vi interessa! Accelerare lo scambio di pezzi, lo scambio come prima cosa, solo così potremmo finire alla pari, e allora non ci sarà Dio che possa aiutarlo».

McConnor obbedì. Nelle mosse successive ebbe inizio tra i due - noialtri eravamo stati degradati da un pezzo a mere comparse - un tira e molla per noi del tutto incomprensibile. Dopo sette mosse, e dopo una lunga riflessione, Mirko C. alzò lo sguardo dalla scacchiera e dichiarò: «Patta».

Per un istante regnò il silenzio più totale. Di colpo si sentì lo sciabordio delle onde e la radio nel salone che spingeva fino a noi le note di jazz, si percepì nitido ogni passo sul ponte di passeggiata e il lieve, delicato sibilo del vento che soffiava tra le giunture delle finestre. Nessuno respirava, era stato troppo improvviso e tutti noi eravamo addirittura spaventati da quella prospettiva così inverosimile - che quello sconosciuto, in una partita già mezza persa, avesse piegato un campione mondiale alla sua volontà. McConnor si appoggiò di scatto allo schienale, e il respiro a lungo trattenuto gli uscì dalle labbra in maniera udibile da tutti i presenti: «Ah!». Io guardai di nuovo Mirko C. Già dalle ultime mosse mi era parso che fosse divenuto più pallido. Ma riuscì a dominarsi. Persistette in quella sua incrollabile indifferenza e si limitò a chiedere con l’aria più disinvolta possibile, mentre spingeva via con calma le figure dalla scacchiera: «I signori desiderano una terza partita?». Pose la domanda in modo del tutto impersonale, del tutto commerciale. Ma il fatto straordinario fu questo: non guardò McConnor, ma puntò lo sguardo diritto e penetrante sul nostro salvatore. Come un cavallo riconosce dal portamento più sicuro un nuovo e migliore cavaliere, anch’egli, dalle ultime mosse, doveva aver riconosciuto il suo vero avversario. Senza volere tutti seguimmo il suo sguardo e fissammo con aria tesa lo sconosciuto. Prima tuttavia che questi potesse riscuotersi o avere il tempo di rispondere, McConnor, nella sua megalomane eccitazione, aveva già gridato trionfante: «Naturalmente! Ma stavolta dovrà giocare lei solo contro di lui! Lei solo contro Mirko C.!».  

In quell’istante, però, accadde qualcosa d’imprevisto. Lo sconosciuto, che stranamente continuava a fissare assorto la scacchiera già sgombra, avvertendo tutti gli sguardi fissi su di lui e sentendo di essere stato interpellato con tanto entusiasmo, sussultò per lo spavento. L’espressione del suo viso si fece turbata. «In nessun caso, signori», balbettò visibilmente confuso. «Questo è del tutto esclusoè fuori discussioneSaranno venti, no, venticinque anni che non mi siedo davanti a una scacchierae vedo solo ora quanto mi sono comportato in maniera sconveniente, immischiandomi nella vostra partita senza il vostro consensoVi prego di scusare la mia invadenzanon intendo di certo arrecare ulteriore disturbo»

E prima che ci potessimo riprendere dal nostro stupore, si era già allontanato, abbandonando la sala.

   Un epilogo davvero strano, così come è strano il fatto che il testo del Vangelo secondo Giovanni termini con due epiloghi [e di solito questo particolare passa inosservato]. Da che cosa dipende questo fatto?

   Raimondo Lullo - da proto-umanista che mette al centro della sua riflessione la disciplina filologica - risponde a questo interrogativo con un breve trattato che ha per oggetto un tema sul quale non era lecito indagare per non mettere in discussione “la dottrina sul primato di Pietro”, ma Lullo non si lascia intimidire dalla possibilità di subire una scomunica perché - nel corso del concilio di Vienne, nel 1311, in cui come sappiamo viene invitato a esporre il suo pensiero da papa Clemente V - ritiene sia necessario fare chiarezza sulla nascita di una istituzione [il papato] che deve, secondo lui, essere profondamente riformata: il “successore di Pietro” deve assumere, afferma Lullo, un ruolo esclusivamente “pastorale” [deve essere la guida spirituale di un popolo in cammino] e ha quindi, ribadisce Lullo, l’obbligo di rinunciare [come il personaggio del suo romanzo intitolato “Blancherna”, che conosciamo] alla prerogativa di “sovrano teocratico” [di monarca di uno Stato, con tutti i limiti che questo ruolo  comporta] perché questo non è un incarico che gli ha dato Gesù, afferma Raimondo Lullo, ma è una funzione che al vescovo di Roma è stata imposta nel IV secolo nel 325 su iniziativa dell’imperatore Costantino che ha presieduto il concilio di Nicea facendo valere la sua ideologia [il concilio di Nicea non lo ha convocato il papa - che non è presente - bensì l’imperatore] alterando il ruolo del vescovo di Roma ai fini della gestione del potere nell’ambito della crisi, che si profila ormai irreversibile, dell’impero romano in Occidente.

   Raimondo Lullo, facendo appello alla disciplina filologica da proto-umanista quale egli è, analizza l’operazione esegetico-dottrinaria che è stata compiuta a Nicea nel corso del primo concilio della Storia della Chiesa e propone, nel suo intervento al concilio di Vienne, una revisione delle scelte che sono state fatte in un’epoca ormai lontana [quasi mille anni prima] e che secondo lui non hanno giovato alla trasmissione del messaggio evangelico in senso universale, ma hanno obbligato, più che altro, i pontefici a lottare per mantenere il loro potere temporale.

   Su iniziativa di Raimondo Lullo dobbiamo ancora una volta partecipare ai lavori del concilio di Nicea, e molte e molti di voi sanno quanti sono i temi [perché li abbiamo studiati in questi anni di cammino sul territorio della Storia del Pensiero Umano] che riguardano questo importante avvenimento dal quale dipendono una serie di idee fondamentali che sono radicate nella nostra mente. Però noi questa sera andiamo a Nicea solo per focalizzare l’argomento di cui stiamo trattando, in modo da capire l’esigenza di chiarezza che cresce nell’animo dell’esegeta Raimondo Lullo: un’esigenza che diventerà la principale linea di condotta del movimento dell’Umanesimo propriamente detto che assume la qualifica di “filologico” perché, a seconda di come si usano le parole, cambia la visione del Mondo creato e cambiano anche le prerogative sulle quali si basa la dottrina [e la morale e la verità], e di conseguenza, in proposito, dobbiamo ragionare seguendo la riflessione [particolarmente attuale] di Raimondo Lullo. E come si articola questa complessa riflessione?

   Nella prima parte del trattato intitolato Libro dei due epiloghi Raimondo Lullo, con i documenti alla mano, descrive come e quanto nel corso del primo concilio di Nicea abbia avuto un peso l’attività filologica e quella di traduzione dei testi della Letteratura dei Vangeli dal greco in latino che, da questo momento [siamo di fronte ad un epocale cambiamento di mentalità], dal 325 diventa per volere imperiale la lingua ufficiale della cristianità: finora il cristianesimo “si è espresso” in greco [la prima predicazione su Gesù avviene nella lingua, nella koinè, di Paolo di Tarso, e tutta la Letteratura evangelica è scritta in greco, e anche tutti i Libri dell’Antico Testamento sono stati tradotti in greco, la cosiddetta traduzione ellenistica dei Settanta].

   Ora noi facciamo una [propedeutica] incursione a Nicea con l’obiettivo di riflettere [su iniziativa di Raimondo Lullo] sul tema della traduzione dei testi della Letteratura dei Vangeli dal greco in latino: e questa versione - cosiddetta “nicena” [che anticipa di circa 95 anni la famosa “vulgata” di Gerolamo che traduce tutti i Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento in latino] - presuppone che i testi dei quattro Vangeli, dichiarati “canonici” durante il concilio [e disposti in quest’ordine: secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni, mentre un’altra trentina di testi presa in esame viene scartata e definita “apocrifa, riservata a piccoli gruppi”] siano anche sottoposti ad “una revisione dottrinale” per metterli in linea con i Documenti conciliari [in linea, soprattutto, con il contenuto del cosiddetto “Simbolo niceno” che chiamiamo il “Credo” e che tutte e tutti noi conosciamo a memoria].

   Per riflettere insieme a Raimondo Lullo sul tema che stiamo trattando dobbiamo necessariamente fare un breve riepilogo ricordando che il primo concilio di Nicea definisce, prima di tutto, la “natura di Gesù Cristo”, e stabilisce in quale modo Gesù Cristo è “figlio di Dio” perché nei secoli II, III e IV si sono sviluppate più linee interpretative su questo tema fondamentale ed è per questo motivo che nel 325 l’imperatore Costantino [che cerca un collante ideologico per tenere unito l’impero romano, troppo vasto e sottoposto a continue fibrillazioni] impone ai vescovi di tutte le Chiese sparse sul territorio dell’Ellenismo [se ne contano più di trecento di una certa importanza] di riunirsi in concilio per porre fine ai violenti scontri ideologici che stanno investendo la cristianità e che costituiscono un elemento di turbamento in tutto l’impero: Costantino, la cui fede è puramente strumentale, esortato da sua madre Elena, donna caparbia e intelligente, vuole che il cristianesimo [al quale aderivano in molti soprattutto nell’esercito, ed era quindi utile allearsi con i cristiani, ed era questo il motivo per cui aveva promulgato l’Editto di Milano nel 313 sulla libertà di culto], sconfitti con l’aiuto determinante dei cristiani i suoi avversari, trovi un’unità dottrinale intorno al vescovo della Chiesa di Roma [vuole che si ratifichi ufficialmente il primato del successore di Pietro che continuava ad essere messo in discussione in molte aree ecclesiali] al quale lui intende affidare anche un potere istituzionale. Costantino non vuole abitare a Roma [città degradata, inquinata, pericolosa, malfamata, nel caos] e si è fatto ristrutturare [sulle rive del Bosforo, come capitale dell’impero] la bella, tranquilla e confortevole città di Bisanzio che ha ribattezzato Costantinopoli, ma vuole lasciare a Roma un’autorità a lui fedele sulla quale scaricare tutte le gatte da pelare che agitano l’ex capitale di un impero che in Occidente è in profonda crisi politica, economica, morale, esistenziale [che ha cominciato ad implodere].

   Al primo concilio di Nicea [a Nicea si terrà anche un secondo concilio nel 787, il settimo Concilio Ecumenico] partecipano, dal 20 maggio fino al 19 giugno del 325 [ma sulla data di chiusura non ci sono precisi riscontri documentali], circa trecento vescovi [l’elenco completo non si è conservato] sotto la presidenza di Costantino che fa le veci di papa Silvestro I che, ufficialmente per  motivi di salute, è assente [è vecchio ed è rimasto a Roma] e ha delegato a presiedere i lavori i suoi più fedeli collaboratori: Osio, vescovo di Cordova e i suoi due segretari, i presbiteri Vito e Vincenzo.

   A Nicea i vescovi [Costantino ce li porta volenti o nolenti] sono divisi in fazioni contrapposte e, da subito, lo scontro divampa su tutti gli argomenti in discussione e, soprattutto, sul tema della “natura di Gesù”. Costantino invita energicamente [presiede con la spada in mano] i vescovi a trovare un accordo e a siglare uno storico compromesso, vuole [a lui poco importano i problemi teologici ed esegetici] che si definisca la “natura” di Gesù Cristo in modo che le varie componenti si possano riconoscere nelle definizioni conciliari in modo che cessino i contrasti che sono molto nocivi per la stabilità dell’impero: facciamo il quadro della situazione.

   Il gruppo più forte a Nicea è quello dei vescovi “adozionisti” [molte e molti di voi conoscono questo termine e da quale idea deriva] che rappresentano un pensiero fortemente radicato nelle comunità del IV secolo, e al concilio danno battaglia ma non la spuntano perché sono divisi al loro interno in due fazioni principali. C’è la corrente degli “ebioniti” [la parola ebraica “ebionim” viene dal Libro del profeta Isaia e significa “i diseredati” e ritengono che questa sia la fascia sociale a cui Gesù si è rivolto e alla quale la Chiesa debba rivolgersi] i quali pensano che Gesù sia un rabbi ebraico, un uomo che parla in nome di Dio prima di tutto ai poveri e agli oppressi e che si sente adottato da Dio alla stregua degli antichi profeti biblici: la natura di Gesù, per gli ebioniti, è sostanzialmente umana. Poi c’è la corrente dei “battisti” legati al testo del Vangelo secondo Marco, il più arcaico dei Vangeli canonici redatto nei primi anni 60 in linea con il pensiero di Paolo di Tarso, dove la nascita di Gesù corrisponde al momento in cui viene battezzato da Giovanni [Giovanni il Battezzatore o il Battista] nel fiume Giordano [difatti il Vangelo secondo Marco inizia con il battesimo di Gesù, una scena che tutte e tutti noi abbiamo in mente perché è tra le più rappresentate nella Storia dell’Arte]: è in questa occasione straordinaria che Gesù, ormai adulto, viene presentato come “figlio adottivo di Dio”, e nei versetti 9 10 e 11 del primo capitolo del Vangelo secondo Marco è scritto che si aprono i cieli, scende lo Spirito sotto forma di colomba, e una voce rivolta a Gesù dice: «Tu sei quello che io amo, in cui io mi sono compiaciuto [che io ho adottato]» e anche in questo caso la natura di Gesù è ritenuta sostanzialmente umana.

   Poi nell’assemblea conciliare di Nicea c’è la corrente dei vescovi “monofisiti” [da “mono-phisis”, una sola natura] i quali ritengono che in Gesù ci sia solo la natura divina e che la sua passione, la sua morte e la sua resurrezione siano state solo una sacra rappresentazione: Gesù è il primo degli angeli creati da Dio, quindi, di natura sostanzialmente divina.

   Poi c’è la corrente dei vescovi “gnostici” [dal termine “gnosis, conoscenza”] i quali ritengono che Gesù sia “la Parola di Dio [il Logos] che si è personificata” e quindi vale il suo Intelletto [il Noùs] che è come un raggio di luce inviato ad illuminare il regno delle tenebre.

   Si capisce che, di fronte a questa situazione così eterogenea, per trovare la quadra [per fare una sintesi, per mettere d’accordo la maggioranza dei Padri conciliari] bisognava davvero fare uno storico compromesso, ma c’era già una base per poter ottenere un risultato perché la Chiesa di Roma [la più pragmatica dai tempi di papa Clemente Romano] aveva elaborato una tesi “compromissoria” [detta in modo ironico “accomodante”] e difatti Costantino, che sostiene questa tesi - dopo concitate e improduttive discussioni tra le parti -, incarica Osio vescovo di Cordova e i presbiteri Vito e Vincenzo, i delegati papali, di stilare un documento che prende il nome di “Simbolo niceno” [che conosciamo a memoria con il nome liturgico di “Credo”]. Il testo del “Simbolo niceno” [il Credo] dovrebbe soddisfare le esigenze delle varie correnti in conflitto: Gesù Cristo viene definito contemporaneamente “vero Dio” e “vero Uomo”, e gli si riconosce, quindi, una natura completamente umana [vero Uomo] per raccogliere le istanze delle correnti “adozioniste”, ma la “sostanza” di questa natura umana viene considerata pienamente divina per soddisfare i “monofisiti”. Gesù Cristo, quindi, viene definito una persona “non creata” ma “generata da una donna” e dotato della “stessa sostanza divina” di Dio-Padre. Tutte e tutti noi conosciamo a memoria questa frase del “Credo” in cui si definisce Gesù “della stessa sostanza del Padre” [omooùsios] e sappiamo anche che questo concetto di “sostanza” [in greco “ousìa”] è quello che corrisponde alla “prima categoria” di Aristotele [quindi il pensiero di Platone, già dal II secolo, e quello di Aristotele, in forma neoplatonica, dal IV secolo concorre a fornire la struttura portante alla dottrina cristiana]. L’assemblea conciliare, con la votazione del 12 giugno del 325, approva a grande maggioranza il testo del “Simbolo niceno” con il voto anche della maggior parte dei vescovi “adozionisti”.

   Sappiamo che su questa tesi mantiene una posizione fermamente contraria solo Ario, il vescovo di Alessandria, con i ventidue confratelli che sostengono la sua ipotesi, basata sul pensiero di Origene, secondo la quale Gesù non è della “stessa sostanza del Padre” ma “assomigliante al Padre” [non è “omooùsios, consustanziale e uguale al Padre” ma è “omoioùsios, somigliante e inferiore al Padre”], e su Ario si abbatte l’anatema dell’imperatore che inizia a perseguitare gli Ariani che si difendono a mano armata perché nella base hanno un largo seguito, e questo conflitto sanguinoso, all’interno della cristianità, durerà molto a lungo [ma questa è un’altra storia che abbiamo studiato a suo tempo ma  che ora non va nella direzione in cui siamo andando noi].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La città di Nicea – per capire dove siamo state, dove siamo stati - oggi si chiama Ìznik e si trova in Turchia nella regione delle Terre del Mare di Marmara, sulle rive di un bel lago che nell’antichità si chiamava Lago Ascanio Con una guida della Turchia e navigando in rete fate un’ escursione a Nicea  Buon viaggio…

   Con la nostra incursione a Nicea abbiamo acquisito i dati necessari per poter seguire la riflessione che conduce Raimondo Lullo nel suo trattato intitolato Libro dei due epiloghi. Al concilio di Nicea, su pressione dell’imperatore Costantino, si afferma dunque la tesi cosiddetta “accomodante” [votata a larga maggioranza] elaborata dagli esperti della Chiesa di Roma secondo la formula: «Gesù Cristo è Vero Dio e Vero Uomo, generato non creato, della stessa sostanza del Padre», e come conseguenza di questa risoluzione viene formata una commissione, presieduta da Osio, Vito e Vincenzo, della quale fanno parte i rappresentanti di tutte le correnti di maggioranza [una decina di membri], che ha il compito di tradurre i testi dei quattro Vangeli canonici [Matteo, Marco, Luca e Giovanni] in latino adeguandoli, dove è necessario, al dettato del “Simbolo niceno” per fare entrare in sintonia, per quanto sia possibile, la dottrina con la Scrittura.

   La traduzione latina dei quattro Vangeli canonici cosiddetta “nicena” presenta - rispetto ai corrispondenti testi greci - una cinquantina di “interpolazioni” [di adeguamenti, tutti facilmente riconoscibili] che introducono la formula sulla “natura del Figlio di Dio” stabilita dal concilio, e poi tra questi “adeguamenti”, sottolinea Raimondo Lullo nel suo trattato, c’è anche quello riguardante la figura di Pietro, l’Apostolo del quale il vescovo di Roma è il successore [e Costantino vuole si ribadisca questo fatto che viene accentuato nel capitolo 16 del Vangelo secondo Matteo], perché deve risultare che Pietro è stato il primo tra gli Apostoli a riconoscere “la vera natura del Figlio di Dio [vero Dio e vero Uomo, e Messia]”.

   Raimondo Lullo, con lo stile dell’umanista, comparando i testi greci con le traduzioni latine dei quattro Vangeli canonici, ricostruisce i verbali della commissione che applica le direttive del concilio di Nicea [quindi con l’attività filologica di Lullo siamo già nel territorio dell’Umanesimo] e rileva che i due rappresentati della corrente “gnostica” [sono i vescovi di Smirne e di Efeso, Apollonio e Menòfanto, che rappresentano la tradizione delle Chiese giovannee fondate dal Padre Apostolico Policarpo di Smirne nel quale s’incarna la figura di Giovanni Evangelista]  polemizzano sul fatto che vengano eliminate un certo numero di pagine dal testo del Vangelo secondo Giovanni sul quale fondano la loro fede le comunità di Smirne e di Efeso [non sappiamo quante pagine siano, ma Lullo presume che avrebbero insidiato il ruolo - il primato - di Pietro a vantaggio di Giovanni].

   Ebbene, Raimondo Lullo nel suo trattato, dimostrando tutta la sua competenza sul piano filologico, ricostruisce i termini della polemica sostenuta dai rappresentati della corrente “gnostica” a Nicea i quali disapprovano il fatto che molte parti del testo del Vangelo secondo Giovanni vengano estromesse dal Libro ma tuttavia, essendo in minoranza, propongono un compromesso [il compromesso viene accettato perché gli autorevoli vescovi di Smirne e di Efeso guidano due importanti comunità dell’area mediorientale controllata dagli Ariani ai quali si oppongono] e, quindi, i rappresentati della corrente “gnostica” pretendono che nel testo del Vangelo secondo Giovanni si renda noto che questa menomazione [il taglio di un certo numero di pagine] è avvenuta, e pretendono pure che non si ponga troppo l’accento sul primato di Pietro che, bisogna tener conto, ha anche tradito il Signore: i vescovi “gnostici” accettano che Pietro abbia un significativo ruolo “pastorale” ma, soprattutto, ribadiscono che il testo deve dare rilievo al fatto che il “discepolo prediletto” [che davvero amava Gesù ed era ricambiato] è Giovanni e, quindi [per salvare capra e cavoli], viene ad attuarsi “un compromesso filologico” per cui il finale del Vangelo secondo Giovanni ha due epiloghi, che prefigurano due conclusioni e si parla di un testo “rimasto aperto”. Questa è, dunque, la situazione da cui prende spunto Raimondo Lullo per scrivere il suo trattato, il Libro dei due epiloghi, nel quale - facendo l’esegesi del finale del Vangelo secondo Giovanni - pone il tema che a lui sta a cuore: può il papa essere il monarca di uno Stato particolare piuttosto che un pastore di anime universale? Ragioniamo: è un ragionamento complesso ma perché non dovremmo affrontarlo?

   Nel suo trattato intitolato Libro dei due epiloghi Raimondo Lullo commenta i versetti 30 e 31 del capitolo 20 [il penultimo] del Vangelo secondo Giovanni che rappresentano il testo di un primo “epilogo”, poche righe che suonano come un’imposizione, leggiamole: «Molti altri prodigi fece Gesù davanti ai suoi discepoli, che non sono stati scritti in questo Libro; e questi sono stati scritti qui perché voi crediate che Gesù è il Cristo, Figlio di Dio, perché credendo abbiate fede nel suo nome». Lullo fa presente che in questo primo epilogo si allude [si dichiara]  che molte pagine di questo testo - sulla necessità di predicare una morale universale, secondo il pensiero gnostico contenuto nel testo di questo Vangelo, che Lullo condivide - sono state eliminate per rendere il cristianesimo una religione [come tutte le altre] di un popolo che deve essere ubbidiente ai suoi sacerdoti e non una comunità di persone fedeli alla propria coscienza e alla propria libertà interiore così come, nel testo secondo Giovanni, si presenta la figura di Gesù: lo “gnostico” [il sapiente che incarna la Parola di Dio]. Sull’animo dei membri della commissione di Nicea, afferma Lullo, pesa il timore che le pagine rimosse dal testo del Vangelo di Giovanni potessero continuare a circolare tra i cristiani, narrando quei «molti altri segni» che esortavano “[alla gnosis] alla conoscenza e alla realizzazione di una autentica fratellanza universale” e non miravano a suscitare sottomissione alla Chiesa di Roma [e quindi né al papa né all’imperatore],: è per questo motivo, sostiene Lullo nella sua esegesi, che i commissari revisori di Nicea mettono in guardia da questi altri codici con un secondo epilogo che inseriscono nel capitolo successivo, contenente gli ultimi due versetti - il 24 e il 25 del capitolo 21, l’ultimo - che concludono il Vangelo secondo Giovanni, leggiamoli: «E questo [il discepolo che Gesù amava] è colui che rende testimonianza di questi fatti, e che li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, io penso che il mondo intero non basterebbe a contenere i Libri che si dovrebbero scrivere».

   Raimondo Lullo nota quanto sia strano, non solo che ci siano due epiloghi, ma soprattutto che nel secondo [che abbiamo appena letto] le voci siano due: c’è un «noi sappiamo» e un «io penso», e la prima di queste due voci, il “noi sappiamo”, è quella dei commissari di Nicea che vogliono sanzionare di nuovo l’autenticità dei fatti narrati qui e sottolineano, sollecitati dai due vescovi gnostici, l’identificazione del «discepolo più amato» che dà il nome al Vangelo: Giovanni. Mentre la seconda voce, “io penso”, è un frammento di ciò che il vero scrivano del Vangelo secondo Giovanni [soprannominato Giovanni il Presbitero, il Teologo responsabile della comunità monastica dell’isola di Patmos dove, nel II secolo, è stata redatta la versione definitiva di questo Vangelo e quella dell’Apocalisse] aveva sicuramente scritto alla fine di questo Libro sulle “molte altre opere” compiute da Gesù per universalizzare, sottolinea Lullo, il suo messaggio di salvezza:  l’opinione dell’autore è ben diversa da quella espressa dai commissari niceni nel primo epilogo dove essi intendono screditare “i molti altri racconti su Gesù”, mentre il vero scrittore sembra rallegrarsi che ve ne siano così tanti, e non parla, afferma Raimondo Lullo nel suo commento, dell’obbligo a «credere nella particolare formula nicena», ma fa riferimento ad un mondo troppo piccolo per contenere l’intera portata universale dell’insegnamento di Gesù e [sottolinea Lullo] è accentratrice non ecumenica.

   Tra i due epiloghi [dopo l’eliminazione di un certo numero di pagine che contengono “molti altri racconti su Gesù”] viene inserita la narrazione di una apparizione di Gesù risorto, nella quale si trova la più lunga conversazione che i Vangeli riferiscano tra Gesù risorto e i discepoli: negli altri tre Vangeli canonici [Matteo, Marco e Luca] Gesù risorto o è poco loquace, o i suoi discorsi non vengono riferiti ma soltanto riassunti per sommi capi. Il punto cruciale dell’apparizione di Gesù risorto, secondo la riflessione esegetica di Raimondo Lullo, è quando i commissari di Nicea, sollecitati sicuramente dai vescovi di Smirne e di Efeso, devono tradurre, senza sbilanciarsi troppo, il brano [capitolo 21, versetti dal 15 al 19] in cui Gesù fa i conti con Pietro: ed è questo il punto del Libro dei due epiloghi di Raimondo Lullo in cui possiamo, finalmente [ma questi non sono temi che si risolvono con una battuta], fare chiarezza sulla citazione [dalla quale abbiamo preso il passo questa sera], che Lullo inserisce nel testo della Metafora morale, contenuta nel Libro dell’Amico e l’Amato, tratta proprio dal capitolo 21 versetto 16 del Vangelo secondo Giovanni: «Simone di Giovanni, mi ami tu?» chiede Gesù a Pietro.

   Raimondo Lullo nel Libro dei due epiloghi ritraduce il testo originale greco dei versetti 15, 16 e 17 del capitolo 21 del Vangelo secondo Giovanni perché quando i commissari di Nicea li hanno tradotti in latino ne hanno “addomesticato il senso” per rafforzare la figura di Pietro che nel testo greco risulta debole rispetto a quella di Giovanni. Leggiamo la traduzione letterale di Lullo dal greco in latino e come risulta in italiano: «Quando ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone figlio di Giovanni, tu mi ami più di loro?”. Pietro gli rispose: “Signore, tu lo sai che ho molto affetto per te”. Gesù gli disse: “Pasci [abbi cura] i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, tu mi ami?”. Pietro gli rispose: “Signore, tu lo sai che ho molto affetto per te”. Gesù gli disse: “Pasci le mie pecorelle [próbatá]”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, hai dunque molto affetto per me?”. Pietro fu rattristato che per la terza volta gli dicesse “Mi ami tu?” e disse: “Signore, tu sai tutto, tu lo sai che io ho molto affetto per te”. Gli rispose Gesù: “Perciò pasci le mie pecorelle”». Raimondo Lullo ci fa notare che, nel testo originale greco, Gesù domanda due volte a Pietro: “Agapas me?” cioè “Mi ami, di amore profondo?” ed entrambe le volte Pietro dice “Philo se”, cioè, “Ti voglio bene, mi sei caro”. La terza volta Gesù gli domanda “Phileis me?”, cioè, “Dunque, mi vuoi soltanto bene [nulla di più]?” e Pietro, ribadisce Lullo, ammette, tristemente, di saper dare a Gesù soltanto un po’ di affetto, e Gesù, afferma Lullo calcando la mano sul senso del testo greco che è molto esplicito, gli affida sì la funzione del pastore ma non di “pecore” bensì di “pecorelle [próbatá]”, in pratica lo nomina “apprendista pastore”. Questo particolare dà modo a Raimondo Lullo di ipotizzare che Gesù abbia previsto che il pontefice si sarebbe adattato a fare il monarca [un ruolo riduttivo in chiave evangelica] piuttosto che il pastore [il vero ruolo evangelico] e, quindi, nel suo trattato ribadisce che per recuperare la sua vera missione - quella “pastorale” da svolgere con molta umiltà - il papa dovrebbe meditare sulla Metafora morale, contenuta nel Libro dell’Amico e l’Amato, della quale ora dovremmo capire il significato, rileggiamola: «La memoria, l’intelletto e la volontà legano gli amori dell’Amico e l’Amato, perché l’Amico e l’Amato non debbano separarsi quando l’Amante chiede all’Amato: “Mi ami tu?”». Il testo del Vangelo secondo Giovanni, secondo la traduzione latina di Nicea, dà alla figura di Pietro [sebbene in un alone di ambiguità] un ruolo di guida ma si conclude con la presenza incombente del discepolo prediletto, di Giovanni, quello “che Gesù amava davvero”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A questo punto ci possiamo esercitare a leggere il finale “aperto” del “Vangelo secondo Giovanni”: il testo conclusivo di quest’opera [ridotto dalla commissione di Nicea] sta tra “i due [celebri] epiloghi”…   Leggete dal versetto 30 e 31 [i due versetti contenenti il testo del primo epilogo] del capitolo 20 e poi leggete l’intero capitolo 21 [che si conclude con il versetto 25 che contiene il testo del secondo epilogo]…    Sarà pure un argomento difficile ma – sotto la guida di Raimondo Lullo – abbiamo riflettuto su un tema di grande attualità: può il papa essere il monarca di uno Stato particolare piuttosto che un pastore di anime universale  ?…

Bella domanda …

   Il signor McConnor [insieme agli altri giocatori di “terza categoria”] ha voluto sfidare il campione del mondo di scacchi che si sta imponendo su di loro finché non compare un misterioso personaggio che li salva dalla sconfitta e quando viene invitato da McConnor a giocare, lui da solo, contro il campione, si allontana velocemente dalla sala. Il narratore viene delegato a convincerlo ad accettare la sfida ma lui, più che altro - a nome dell’autore -, ha una storia da raccontare: la Novella degli scacchi.

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Novella degli scacchi

E prima che ci potessimo riprendere dal nostro stupore, lo sconosciuto nostro salvatore si era già allontanato, abbandonando la sala. …  Di colpo tutti noi, sino ad allora pacifici e persino pigri passeggeri, fummo travolti da una selvaggia, bramosa combattività: il pensiero che proprio sulla nostra nave, nel mezzo dell’oceano, potesse essere strappata la palma della vittoria al gran maestro - un record che sarebbe stato poi trasmesso in ogni parte del mondo da tutti gli uffici del telegrafo - ci ammaliava come una sfida estrema. A questo si aggiungeva il fascino del mistero, emanato dall’inatteso intervento del nostro salvatore proprio nel momento critico, e il contrasto fra la sua modestia quasi timorosa e l’incrollabile spocchia del giocatore professionista. Chi era quello sconosciuto? Discutemmo una serie di possibilità in preda a un’irrefrenabile agitazione, e perfino le ipotesi più fantasiose non erano per noi abbastanza azzardate a proposito della sua innegabile tecnica scacchistica. Su un aspetto, tuttavia, fummo tutti d’accordo: di non rinunciare in nessun caso allo spettacolo di un altro incontro. Decidemmo così di tentarle tutte pur di convincere il nostro soccorritore a giocare l’indomani una partita contro Mirko C. E siccome era emerso che lo sconosciuto era austriaco, mi venne affidato l’incarico, in quanto suo conterraneo, di sottoporgli la nostra preghiera. Non mi ci volle molto per rintracciare l’uomo. Era disteso sulla sua sdraia e leggeva, e guardandolo ebbi la sensazione, non so per quale motivo, che quell’uomo dovesse essere invecchiato di colpo. Non appena mi accostai a lui, egli si alzò con garbo e si presentò, con un cognome che mi suonò subito familiare come quello di una delle più antiche e rispettate famiglie austriache, appartenente alla cerchia di Schubert, e anche dell’imperatore. Quando trasmisi al Signor B. la nostra preghiera di accettare la sfida di Mirko C., egli rimase palesemente allibito. Non aveva idea di aver tenuto testa in maniera egregia a un campione mondiale, al momento imbattuto.

Dopo un lungo esitare, alla fine il Signor B. si dichiarò disposto a una partita, tuttavia non senza avermi pregato apertamente di avvertire ancora una volta gli altri signori che non dovevano assolutamente riporre eccessive speranze nelle sue capacità.

«Perché non so davvero», aggiunse con un sorriso trasognato, «se sono in grado di giocare correttamente una partita secondo tutte le regole. La prego di credermi: non era assolutamente per falsa modestia se ho detto che è dai tempi del liceo che non tocco un pezzo degli scacchi, vale a dire da più di vent’anni. E non ero di certo un giocatore particolarmente dotato». Ma non potei fare a meno di esprimere la mia meraviglia per come riusciva a ricordare con esattezza ogni singola combinazione dei vari campioni. Il Signor B. sorrise di nuovo con aria trasognata. «Sì, mi sono occupato parecchio di scacchi. Ma questo è accaduto in circostanze particolari, direi del tutto uniche. È una storia piuttosto complicata, e potrebbe rappresentare un piccolo contributo ai nostri cari bei tempi andati, i tempi della nostra grandezza. Se ha mezz’ora di pazienza…». Accettai di buon grado il suo invito. Non c’era nessuno intorno a noi.  Il Signor B. si tolse gli occhiali da lettura, li posò da una parte e cominciò a raccontare.

   Non vorrete perdere il racconto del Signor B. perché: è ora che inizia il romanzo!

   E poi abbiamo appuntamento con uno scozzese [uno scoto, anche lui di nome Giovanni]: Giovanni Duns Scoto il quale pensa sia necessario fare “una distinzione” perché “conoscere è distinguere”: come sarebbe a dire? Non si può certo rispondere con una battuta ad una domanda di questo genere, l’unica risposta che, a quest’ora, si può dare è che la Scuola è qui, il viaggio continua e voi “vi distinguete” perché frequentare la Scuola per affermare il diritto-dovere all’Apprendimento permanente è motivo di distinzione rispetto all’atteggiamento di omologazione secondo il quale studiare sarebbe tempo perso, ma studio è cura e “conoscere è distinguere” e viaggiare nel territorio del tempo è sempre “tempo guadagnato”!...

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 19, 2016