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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA SI CONSOLIDA LA MENTALITÀ PREDATORIA ...

Lezione N.: 
4

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica   7-8-9  novembre  2012

Johan August Strindberg

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

SI CONSOLIDA LA MENTALITÀ PREDATORIA ...

   Siamo in viaggio da circa un mese su una strada che ci deve portare davanti al primo paesaggio intellettuale che s’incontra sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”: il territorio dell’Età tardo-antica comprende una vasta area che [e lo abbiamo capito nel corso di questi primi tre itinerari] funge da confine tra l’Antichità e il Medioevo.

   Che caratteristiche ha la strada su cui abbiamo camminato in questi primi itinerari? Stiamo percorrendo una strada romana che si presenta come se fosse metaforicamente “lastricata” con una serie di parole-chiave che abbiamo imparato a conoscere: l’esilio e la patria, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, la morte e la risurrezione. Questo catalogo di parole – che ha preso forma nelle opere di scrittori che chiamiamo i Classici – non solo è servito e serve per descrivere il passaggio ad un’Epoca in cui i caratteri tipici dell’Età antica si “prolungano” [da qui deriva il nome di tardo-antico inteso nel senso del verbo “prolungare, prolungarsi”] ma è servito soprattutto per favorire l’elaborazione di importanti idee-cardine di carattere esistenziale destinate a produrre significativi oggetti culturali [i prodotti dell’officina dei Classici, le opere della prima importante stagione del dissenso, il frutto della divergenza tra l’autoritarismo del potere imperiale e l’autorevolezza della riflessione intellettuale. Ci troviamo, infatti, nel I secolo quando lo Stato romano - che governa su tutta l’Ecumene - diventa paradossalmente un Principato mascherato da Repubblica e il sistema dell’imperialismo entra in crisi mostrando tutti i suoi grandi difetti] e l’investimento intellettuale avviene nonostante si faccia sentire il peso della “paura [ma sappiamo che per i Classici la paura diventa uno stimolo]” e si compie nonostante il peso della paura spinga al “silenzio” [ma, per i Classici, il silenzio è sinonimo di scrittura e la scrittura lascia una traccia indelebile capace di fecondare gli intelletti. La scrittura è “l’urlo del silenzio” e si trasmette a distanza ed è “la raccolta dei silenzi” e si conserva nel tempo”].

   Il primo tratto della strada sulla quale ci siamo incamminate e incamminati [della quale abbiamo già percorso un buon tratto] si chiama [come sapete]  “Via della successione al Principato di Augusto” ed è un cammino che dobbiamo percorrere obbligatoriamente per raggiungere [come abbiamo detto] il cuore del primo paesaggio intellettuale del territorio che abbiamo cominciato ad attraversare e, quindi, anche questa sera, prendiamo il passo con l’intento che caratterizza la natura del nostro viaggio che è un Percorso di studio in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

   Quando il 19 agosto del 14 d.C. muore Augusto l’erede designato al Principato è Tiberio [Giulio Cesare Tiberio] il quale si dimostra molto reticente ad accettare il posto al vertice dello Stato [troppe situazioni equivoche lo hanno portato ai vertici dello Stato]. Tiberio ha 56 anni ed è un uomo frustrato: sa di non essere stato il preferito di Augusto alla successione perché nelle sue vene non scorre il sangue del Principe [Tiberio e Druso, adottati da Augusto, sono figli di Claudio Nerone, il primo marito di Livia Drusilla, la terza moglie di Augusto], Tiberio sa che il preferito da Augusto era suo fratello minore Druso – al quale Augusto pensava di affidare le leve del potere – che però era morto a 29 anni, e Augusto, addolorato, ha scritto persino una biografia per celebrare le imprese di questo suo figlio adottivo che era stato un giovane e valoroso generale al quale fu fatale una caduta da cavallo [sappiamo che queste cadute da cavallo sono sempre un po’ sospette perché di solito sono favorite dall’ingestione di un veleno propinato tanto al cavallo quanto al cavaliere: c’è lo zampino di Livia Drusilla anche in questo caso?].

   Tiberio si sente anche in colpa perché è consapevole che sua madre, l’abile e spregiudicata Livia Drusilla, nei decenni precedenti, – mentre lui era a studiare in Grecia e poi quando era al comando dell’esercito in Asia e in Germania –, a Roma, ha tramato [velenosamente] per favorire l’ascesa di Tiberio al potere [Livia - a differenza di Augusto - era più affezionata al suo primogenito Tiberio che a Druso]. Tiberio sa [e anche noi ne siamo al corrente] che suo padre, Claudio Nerone, ha dovuto cedere la moglie Livia Drusilla [incinta di Druso] ad Ottaviano che lo aveva perdonato per il fatto che Claudio Nerone, nel 44 a.C., si era schierato con gli autori della congiura contro Cesare, e Tiberio ripensa anche al fatto [sebbene non se la senta di indagare] che suo padre, nel 33 a.C., quando lui aveva nove anni, è morto in circostanze misteriose. Tiberio si è sempre sentito a disagio di essere stato adottato da Ottaviano che aveva umiliato e, in seguito, aveva fatto eliminare suo padre.

   Tiberio poi era ulteriormente rimasto traumatizzato perché Augusto lo aveva costretto a ripudiare sua moglie Vipsania Drusilla, che lui amava sinceramente, per fargli sposare sua figlia Giulia Maggiore [che, già due volte vedova in circostanze “misteriose”, era comprensibilmente inviperita contro il padre]. Giulia sposa Tiberio a patto che lui funga da tutore ai figli di Giulia e di Vipsanio Agrippa, Caio e Lucio Cesare, poi morti entrambi avvelenati, che Augusto – dopo la morte accidentale di Marcello [il primo marito di Giulia Maggiore e primo designato alla successione al principato] e dopo la morte, altrettanto accidentale, di Agrippa [il secondo marito di Giulia Maggiore e secondo designato alla successione al principato] – aveva destinato come suoi terzi successori. Si capisce come la storia della successione di Augusto [che abbiamo brevemente rievocato] sia infarcita, se così si può dire, di fatti delittuosi che rendono il clima politico di Roma assai pesante [abbiamo capito che ci sono molti scheletri negli armadi di Augusto].

   E noi ci domandiamo: come può Tiberio, con tutte queste frustrazioni che ha subito, non avere disturbi caratteriali? Tiberio, dopo molte esitazioni, [spronato dalle famiglie aristocratiche] assume, nell’autunno del 14, la carica di princeps [il primo dei Senatori]: questo è un ruolo che lui non sente suo e, quindi, coltiva l’idea di rimettere tutte le cariche istituzionali repubblicane nelle mani del Senato ma ormai non era facile rimettere le cose a posto [ripristinare lo spirito repubblicano non era più possibile].

   Quali sono i fatti che ci si presentano davanti sul secondo tratto della strada che stiamo percorrendo? Qui la strada cessa di chiamarsi Via della Successione al Principato di Augusto e prende il nome di Via dei Cinque Imperatori.

   Tiberio, ossequioso della tradizione repubblicana, vorrebbe ridare autorità e potere decisionale al Senato e, difatti, il primo atto che compie è quello di rinunciare a tutte quelle onorificenze che aveva assunto Augusto e che avevano cominciato a dar luogo al culto della personalità del Principe trasformando radicalmente le Istituzioni pubbliche [la res publica] in strutture private e, per di più, è andata prendendo forma quella che è stata chiamata la “mentalità predatoria del Principe” per cui il Senato legifera secondo i desideri del Principe e non secondo gli interessi dello Stato. L’atteggiamento filo-senatorio di Tiberio ben presto muta perché ormai il Senato ha assorbito i vizi tipici del Principato e ha perduto la sua autorevolezza: i Senatori, che avrebbero dovuto essere servitori delle Istituzioni, sono diventati degli affaristi e hanno assunto anche loro una “mentalità predatoria” e, di conseguenza, anche l’attività politica viene squalificata e lo Stato perde sempre di più il suo prestigio.

   Ma prima di occuparci della svolta [autoritaria] che Tiberio imprime alle Istituzioni dello Stato romano è doveroso aprire una parentesi sul personaggio di Giulia Maggiore, la figlia di Augusto. Sappiamo che nei suoi confronti il Principe ha esercitato una sorta di azione di tipo predatorio, ma tutte le donne dell’aristocrazia romana vengono “depredate” fin da bambine della loro libertà e della loro autonomia e, non avendo la possibilità di scegliere, spesso diventano ciniche e spietate le une contro le altre per guadagnarsi degli spazi di potere in un mondo rigidamente maschilista e questo atteggiamento – anch’esso di tipo “predatorio” e denominato “l’influsso del femminino” – non ha giovato allo sviluppo della “emancipazione” femminile: uno sviluppo che, nei secoli, è passato dallo stadio di assoluta inferiorità legata al “mondo di Janus” [la fuga delle ninfe] attraverso il tentativo, fondamentalmente perdente, di imporsi con “l’influsso del femminino” [retaggio del sistema imperialista], fino alle lotte per “l’uguaglianza tra i sessi” del secolo scorso e poi alla riflessione sul “concetto della diversità [della differenza di genere]”, fino ad oggi allorché, da qualche anno, è in corso di elaborazione l’idea di “sorellanza” con la quale si rivendica anche che lo sviluppo dell’emancipazione femminile entri a far parte, a pieno titolo, della Storia del Pensiero Umano e nel nostro viaggio dello scorso anno scolastico il tema della “condizione femminile” ha avuto [ab origine] un ruolo trainante.

   Apriamo una parentesi sul personaggio di Giulia Maggiore in funzione della didattica della lettura e della scrittura e della ricerca filologica [di quanto e come le parole siano in grado di dare un significato alle cose ed una concretezza alle idee]: questo personaggio – e lo scontro drammatico che lei sostiene con il padre – ha sempre creato un clima evocativo, e tanto il nome quanto il modo di essere di “Giulia Maggiore [così come quello di Elena o della ninfa Carna-Carmen o di Vesta, tanto per fare alcuni esempi]” è stato attribuito, in letteratura, a determinati personaggi femminili per imbastire significative riflessioni di carattere esistenziale e, quindi, dobbiamo rallentare il passo per osservare con attenzione gli oggetti culturali che si presentano sul nostro cammino, lungo la Via [che ora si chiama] dei Cinque Imperatori.

   Abbiamo già studiato nei primi itinerari di questo viaggio [e lo abbiamo ricordato anche poco fa] come Augusto si sia servito [in modo spregiudicato] della figlia per manovrare la macchina del potere trasformandola in una persona esasperata [una donna sofferente] che, alla fine, compie un gesto violento nei confronti di questo genitore senza scrupoli attentando alla sua vita e pagandone le conseguenze [con l’esilio, coltivando l’odio, e andando incontro alla malattia e alla morte]. Questi due tragici personaggi, padre e figlia, sono comunque legati fino alla fine perché poche ore dopo la morte di Augusto muore anche Giulia Maggiore che, nel frattempo, dall’isola di Ventotene [Pandataria] dove era stata confinata, viene deportata sull’Aspromonte dalle parti di Reggio Calabria: Giulia ha cinquantatre anni e muore [molto probabilmente] dopo un lungo sciopero della fame [ci sono versioni contrastanti sulla sua fine per consunzione: una fine che rappresenta una manifestazione estrema del dissenso e del pensiero delle Scuole epicuree, stoiche, scettiche].

   Su questo personaggio tragico e sul suo rapporto drammatico con il padre, ora, – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – vogliamo sfumare ironicamente [anche con leggerezza] utilizzando ancora [visto che lo abbiamo tra le mani] il romanzo di Heinrich Böll intitolato Opinioni di un clown. Certamente Giulia non poteva telefonare ad Augusto, non usava strumenti di mediazione e, forse, avrà detto cose simili a quelle che Hans – il personaggio principale di Opinioni di un clown [lo conosciamo] – dice al telefono a sua madre quando, dopo un bel po’ di tempo [dopo qualche anno], decide di chiamare casa dei suoi ricchi genitori non tanto per chiedere aiuto [per chiedere soldi] quanto piuttosto per ribadire ancora una volta il suo pensiero e il suo “dissenso” nei confronti del “familismo amorale”.

   Leggiamo queste pagine con la consapevolezza che si vengono a creare delle assonanze pertinenti e delle corrispondenze letterarie tra i personaggi tardo-antichi [di Giulia ed il padre] e quelli contemporanei [di Hans e la madre]. Cambiano gli scenari ma certe dinamiche dovute a quello che è stato chiamato il “familismo amorale [prima di tutto ci sono gli interessi della famiglia che devono essere coltivati anche a scapito della comunità sociale e a scapito delle esigenze psicologiche dei membri della famiglia stessa]” non cambiano – Augusto è il massimo teorizzatore e sperimentatore [con l’entrata in vigore delle Leggi Giulie sul matrimonio] del “familismo amorale” – e queste dinamiche continuano, denuncia Böll, a riprodursi inesorabilmente anche nel XX secolo rendendo fragile e corruttibile la comunità umana.

   Prima di leggere queste quattro pagine, per entrare in argomento, dobbiamo ricordare che il personaggio di Hans Schnier è un “antieroe”, ed è una persona limpida, onesta, casta ma non religiosa [si dichiara un miscredente] anche se i suoi comportamenti contro la dottrina – per meglio dire “contro l’ipocrisia dottrinaria” – finiscono per essere sempre coerenti con la mentalità evangelica. Hans di professione fa il clown, e rappresenta un modello di essere umano “creativo”: riesce a sentire gli odori per telefono e ci sono molte metafore significative nel testo di questo romanzo per rappresentare la creatività.

   Hans è figlio di un ricco industriale renano e di una donna poco sensibile che, nel 1945 ha mandato a sicura morte la sua unica figlia Henriette inducendola ad arruolarsi, come se fosse un gioco, per combattere contro gli “yankees ebrei”. Dopo la disfatta è diventata presidentessa di una “Società per la conciliazione dei contrasti razziali”: qual è la ragione – si domanda il clown – per cui non ci ha pensato prima a farsi promotrice di questi valori? Perché quasi nessuno si è ribellato contre le Leggi razziali? Dall’età di ventun anni Hans gira, facendo il suo lavoro di clown, da una città all’altra e vive negli alberghi insieme a Maria, la figlia cattolica di un simpatizzante comunista. Dopo sei anni, influenzata dai correligionari, e stanca di vivere “in peccato mortale”, Maria lo lascia per sposare Züpfner, un buon cattolico: Maria lo lascia anche perché Hans non vuole impegnarsi per iscritto ad educare cattolicamente i figli eventualmente nati dalla loro unione. Hans, coerentemente con la sua natura, soccombe e si abbandona [raccontando la sua intensa ma inconcludente storia d’amore] a un disperato rimpianto che accompagna il fallimento di tutte le sue esperienze come in una allegoria della “passione”.

LEGERE MULTUM….

Heinrich Böll,  Opinioni di un clown

Cercai nell’elenco telefonico i numeri di tutte le persone con le quali avrei dovuto parlare. A sinistra su un pezzo di carta scrissi, allineati in colonna, i nomi di quelli a cui avevo intenzione di chiedere del denaro: alcuni miei ex compagni di scuola - poi Bela Brosen, l’amante di mio padre. A destra invece, pure in colonna, annotai quelli a cui avrei chiesto denaro solo in caso estremo: i miei genitori, mio fratello Leo (al quale lo potrei domandare, ma non ne ha mai: dà via tutto quello che possiede), i membri del circolo: Kinkel, Fredebeul, Blothert, Sommerwild.

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   È molto significativa quest’ultima sarcastica ma delicata considerazione di Böll sulle dinamiche del “familismo amorale”. Le opere di Heinrich Böll meritano di essere lette per la sapiente ironia che i loro testi contengono: un’ironia che non si ferma al sarcasmo e, quindi, invita la lettrice e il lettore a coltivare la riflessione: una riflessione orientata verso gli stessi argomenti con cui sarebbe dovuta terminare l’Età antica [l’esilio e la patria, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, la morte e la risurrezione] ma la cui agonia si prolunga [si attarda] nel tempo. Nelle pagine che abbiamo appena letto ci sono delle “assonanze letterarie” che, attraverso la figura di Giulia Maggiore [una figura che - strada facendo - utilizzeremo ancora], c’invitano a rallentare il passo e a fare ricerca filologica [a cercare la parola che dice la cosa] e, di conseguenza, chiudiamo temporaneamente questa parentesi: la riapriremo fra poco in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

   Stavamo dicendo che il Senato della Repubblica romana – che non è più una Repubblica ma è un Principato e, di conseguenza, i Senatori sono manovrati da un burattinaio, il Principe, che li può licenziare a suo piacimento – ha definitivamente perduto la sua autorevolezza e, di conseguenza, l’Istituto statale ha perso il suo prestigio e, quindi, l’atteggiamento filo-senatorio da parte di Tiberio che, con poco entusiasmo, è succeduto ad Augusto, muta radicalmente. Riprendiamo il nostro cammino su quella che ora si chiama la Via dei Cinque Imperatori.

   Quando il 19 agosto del 14 muore Augusto l’erede designato al Principato è Tiberio [Giulio Cesare Tiberio] il quale assume questa carica dopo molte esitazioni. Tiberio vorrebbe che il Senato riacquistasse le sue prerogative di governo dello Stato ma, ben presto, questo suo atteggiamento filo-senatorio muta radicalmente perché ormai il Senato ha perduto la sua autorevolezza [i Senatori tramano in nome di interessi personali e di famiglia, trionfa il “familismo amorale”] e, quindi, Tiberio instaura un vero e proprio regime poliziesco [pensa che un regime poliziesco possa migliorare la situazione]. Il clima politico, plumbeo, che si respira a Roma contribuisce a far sì che Tiberio diventi sempre più schivo fin quando, nel 27, decide di ritirarsi a Capri lasciando, in modo decisamente avventato, tutto il potere nelle mani dell’ambizioso prefetto del pretorio Elio Seiano che diventa il vero arbitro delle sorti dell’Impero e si rende responsabile di tutta una serie di ingiustizie e di numerosi delitti.

   Tiberio ha un figlio, nato dal suo matrimonio con Vipsania Agrippina che lui, a malincuore, per ordine di Augusto, aveva dovuto ripudiare per sposare Giulia Maggiore: il figlio di Tiberio si chiama Druso Minore, si prepara a succedere al padre e si sposa con Claudia Livilla la quale ben presto diventa l’amante di Elio Seiano e, d’accordo con lui, fa avvelenare Druso. Elio Seiano, sempre più potente e ambizioso, cospira contro il Principe per prenderne il posto ma Tiberio a Roma ha i suoi informatori e lo precede: Elio Seiano viene accusato di cospirazione, viene condannato a morte e giustiziato. Questo fatto [Seiano aveva un bel numero di sostenitori a Roma] contribuisce ancora di più ad inasprire il clima di sospetto e di paura: un clima che viene esacerbato dal frequente ricorso a condanne a morte per lesa maestà. Nell’ultima fase della sua vita in Tiberio – che continua a governare da Capri – si manifestano tutte le turbe caratteriali presenti nella sua mente e sale il livello della crudeltà degli atti da lui compiuti, questa crudeltà s’irradia tanto a Roma quanto in tutto l’Impero.

   Dobbiamo ricordare che questo è il tempo [“In illo tempore”, leggiamo nella Letteratura dei Vangeli] in cui avviene la crocifissione di Gesù di Nazareth a Gerusalemme: un fatto marginale successo alla periferia dell’Impero che innesca però un movimento che produrrà effetti tali da spaccare la Storia in due. Tiberio muore nel 37 a Capri.

   Possiamo rinunciare a fare un’escursione sull’isola di Capri? Non è possibile perché a Capri, inseriti nelle bellezze paesaggistiche, ci sono anche le testimonianze del periodo storico di cui ci stiamo occupando. Penso che molte e molti di voi siano approdati a Capri e, appena si sbarca a Marina Grande, ci si può incamminare verso il cosiddetto “Palazzo a Mare” che consiste nell’insieme dei resti di una villa di età augustea: prima di Tiberio l’isola era già stata colonizzata da Ottaviano dal 29 a.C.. Il complesso della villa augustea non è più riconoscibile in tutta la sua bellezza perché è stato spogliato [la “mentalità predatoria” si è sempre sistematicamente diffusa] dalla spedizione archeologica inglese nel 1790-1791 e i materiali più importanti sono al British Museum di Londra, compresa un’ara sacra alla dèa Cibele [Cibele, chiamata anche Rea, è protagonista nel culto di Attis o Atis o Sabazio, diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo e poi nella Roma imperiale]. Vicino alla zona del “Palazzo a Mare” – scendendo per un sentiero e una ripida scalinata – si arriva ai “Bagni di Tiberio” dove sono conservate le interessanti vestigia del quartiere marittimo dell’epoca tiberiana. Con la funicolare – ma è bello anche salire a piedi – da Marina Grande si può raggiungere l’abitato di Capri e da qui, con una passeggiata di circa 45 minuti, si arriva agli scavi dell’area archeologica di “villa Jovis” che è la meglio conservata tra le costruzioni romane presenti sull’isola. “Villa Jovis” è stata fatta costruire da Tiberio e la visita a questo monumento e a tutta l’area che la contiene vale il viaggio sull’isola, ma ora ci dobbiamo fermare: se dovessimo descrivere tutte le belle cose che ci sono a Capri e le relazioni che molti personaggi, nei secoli, hanno avuto con quest’isola, il nostro viaggio terminerebbe qui ma noi dobbiamo proseguire il nostro cammino.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate in settimana un’escursione sull’isola di Capri utilizzando una guida di “Napoli e dintorni” e anche navigando in rete, buon viaggio       

   Tiberio muore a Capri nel 37 e gli succede un nipote che si chiama Gaio e, da uno che porta questo nome, ci si sarebbe aspettato un cambiamento in meglio della situazione. Gaio Cesare Tiberio Germanico è il figlio del valente e probo generale Giulio Cesare Germanico che, a sua volta, è il figlio di Druso Maggiore, il fratello minore di Tiberio [sappiamo che Tiberio e Druso sono i figli di Livia Drusilla e Claudio Nerone, adottati da Augusto: non dobbiamo fasciarci la testa con questi complicati intrecci genealogici che costituiscono una delle maggiori difficoltà nello studio della Storia romana], e se Germanico non fosse morto prematuramente ad Antiochia di un morbo sconosciuto [scatenato probabilmente da una ben calibrata dose di veleno] avrebbe ereditato lui il Principato e non suo figlio Gaio che è ancora un ragazzo. Questo ragazzo, fin da bambino, viaggia con l’esercito insieme a suo padre e, per questo motivo, era solito utilizzare le calzature che portavano i soldati romani [anche sua madre Agrippina Maggiore - figlia di Giulia Maggiore e Vipsanio Agrippa - gli fa spesso calzare le scarpe in dotazione ai soldati per abituarlo alla disciplina] e per questo gli era stato attribuito un soprannome: siccome le calzature dei soldati romani in latino si chiamano “caligae”, Gaio Cesare, fin da bambino, è stato soprannominato Caligola [stivaletto] e con questo nome è passato alla storia.

   Gaio Cesare, soprannominato Caligola [nato ad Azio nel 12] rimane al potere dal 37 al 41 e nei primi mesi del suo mandato principesco si dimostra assai magnanimo e molto generoso verso il popolo al quale fa grandi elargizioni [il popolo lo ama perché è il figlio di Germanico il quale aveva una buona reputazione] ma, dopo un po’, Caligola dimostra di possedere un fragile equilibrio psichico, di essere soggetto a impeti di follia e di avere una personalità smaniosa di protagonismo e questi aspetti sono stati abbondantemente sottolineati dalla storiografia. Caligola, confidando sul fatto di essere molto amato dal popolo, comincia ad attuare una politica ostile nei confronti della nobiltà e dell’aristocrazia mercantile e mette in atto una dispotica concentrazione del potere nelle proprie mani, dileggia il Senato [nomina senatore il suo cavallo col voto del Senato], modellando sempre di più lo Stato sul tipo delle monarchie ellenistiche di carattere assolutistico e teocratico mettendo in scena una sorta di culto divino con il quale pretende di essere adorato e sprecando ingenti risorse in imprese bizzarre e crudeli: finte spedizioni militari, spettacoli violenti e sanguinari. I rappresentanti delle famiglie aristocratiche – fortemente provati nei propri interessi per la tassazione predatoria a cui vengono sottoposti – organizzano una congiura, a cui partecipano anche i pretoriani, e si liberano con la forza del principe: infatti, nel 41, Caligola viene assassinato con la moglie e la figlia, in una galleria del palazzo Palatino, dal tribuno dei pretoriani Caio Cherea.

   Con il principato di Caligola l’atteggiamento predatorio, che l’imperialismo romano aveva rivolto principalmente all’esterno facendolo subire ai popoli conquistati, si manifesta anche nei confronti dei cittadini romani: questo atteggiamento negativo del Principe si ripercuote su tutta la società romana, una società fragile dal punto di vista etico per cui il “depredare [populari]” diventa una consuetudine e le prede sono i più deboli, sono i meno difesi socialmente, i più esposti alle ingiustizie [esiliati, soggetti all’odio, tormentati dalla malattia, soccombenti: secondo il catalogo delle parole indigeste che indica l’inizio della fine dell’Età antica] e sul territorio dell’Impero aumenta il livello della paura e si diffonde la condizione psicologica dell’essere “in preda al panico”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

“Preda” è un termine tipico del regime imperiale: quale di queste parole – saccheggio, razzia, spoliazione, bottino – mettereste per prima accanto al termine “preda”?…   

Scrivetela…

In quale circostanza vi è capitato di “cadere in preda al panico”?…

Scrivete quattro righe in proposito…

   In seguito all’uccisione di Caligola viene acclamato imperatore dai pretoriani un uomo di cinquant’anni, che è vissuto sempre appartato dalla vita pubblica perché soffre di epilessia, è balbuziente, è timido, è goffo, ma è dotato di una buona intelligenza e si dedica con impegno allo studio della cultura greca e dell’archeologia etrusca e fenicia [in archeologia è considerato un’autorità]: quest’uomo è il pronipote di Augusto, è figlio di Druso Maggiore e di Antonia Minore e si chiama Claudio [Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico: siccome era balbuziente sembra che abbiano voluto complicargli la vita fin da piccolo con tutti questi nomi!].

   Ma prima di incontrare Claudio, torniamo ad aprire la parentesi che poco fa abbiamo temporaneamente chiuso e che contiene le assonanze letterarie effuse dal personaggio di Giulia Maggiore perché all’interno di questo spazio, funzionale alla didattica della lettura e della scrittura, troviamo anche gli argomenti – a cominciare dal tema della “mentalità predatoria” – che stanno emergendo sul tragitto che ci deve portare davanti al primo paesaggio intellettuale del territorio dell’Età tardo-antica, e ci stiamo per imbattere anche in un interessante intreccio filologico che dobbiamo dipanare perché questo esercizio è utile per mettere in movimento le azioni dell’apprendimento e per dare impulso alla virtuosa attività della ricerca alla quale [per piccola che sia] è necessario dedicarsi.

   Sappiamo che stiamo percorrendo un tragitto su una via lastricata con le parole-chiave di un catalogo che dà il significato all’inizio della fine dell’Età antica e questi termini [che abbiamo imparato a memoria: la patria, l’esilio, il sonno, il sogno, l’amore, l’odio, la malattia, il tormento, il trionfo della morte] definiscono un momento drammatico nella Storia del Pensiero Umano [pieno di tensione e altamente emotivo in cui dominano la paura e il silenzio] ben descritto nelle opere dei cosiddetti autori “classici [in particolare Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio, e questo quintetto lo abbiamo incontrato nella primavera scorsa]” i quali, dando inizio alla prima importante “stagione del dissenso” [la parola “dissenso” definisce un movimento intellettuale che promuove investimenti in intelligenza che possano continuare a fornire, sul piano culturale, alti redditi per lungo tempo], sanno utilizzare il catalogo delle parole-chiave, piuttosto indigeste, con cui inizia la fine dell’Età antica per imbastire una straordinaria riflessione sui temi della benevolenza, della bellezza e della giustizia. Nel corso dei secoli [in età medioevale, moderna, contemporanea] tutte le volte che le autrici e gli autori hanno voluto rendere significativo un “dramma [inteso nel senso del genere letterario]” hanno utilizzato questo catalogo [che è anche il primo veicolo dell’Età tardo-antica] per rimarcare la necessità della “presenza classica” come forma di garanzia, come metodo per assicurare un buon investimento in intelligenza.

   Adesso, per conoscere la composizione dell’intreccio letterario che, in questo momento, ci si presenta di fronte dobbiamo procedere con ordine e, a questo proposito, incontriamo sulla strada che stiamo percorrendo uno scrittore che si chiama Augusto: quando si dice la combinazione! Questo scrittore, che con l’imperatore romano ha da spartire solo il nome, si chiama August Strindberg e penso che – soprattutto se seguite il teatro – lo abbiate certamente sentito nominare.

   August Strindberg è nato il 22 gennaio 1849 a Stoccolma ed è quindi uno scrittore svedese di levatura internazionale. Sempre a Stoccolma Strindberg è morto il 14 maggio 1912 e, di conseguenza, vogliamo anche celebrare [sebbene un po’ in ritardo] il centenario della sua morte. August Strindberg è una persona travagliata e ci sono dei motivi per cui si è trovato ad avere un carattere scontroso: la scrittura diventa per lui una sorta di utile terapia e la sua produzione [ha scritto molte opere] è fondamentalmente di carattere autobiografico e serve, a noi lettrici e lettori, per conoscere non solo i tratti di un carattere ma anche gli elementi peculiari della società mitteleuropea a cavallo tra il 1800 e il 1900.

    L’infanzia e l’adolescenza sono stati periodi tristi per Strindberg e questo ha inciso profondamente sulla sua personalità tormentata e inquieta. Sul disagio di Strindberg bambino e adolescente ha influito soprattutto la disparità sociale tra i genitori: il padre ha avuto una relazione con una ragazza della servitù che è rimasta incinta e lui, per riparare, l’ha sposata ma ha continuato a trattarla come una serva e anche August da bambino non è stato accolto dai genitori con tenerezza ma come se fosse un ingombro. Questo fatto costituisce il nodo centrale dei tormenti dello scrittore e del suo fondamentale senso di frustrazione e di sconfitta. Strindberg ha scritto una serie di significativi romanzi autobiografici: il primo l’ha intitolato con amarezza e in modo emblematico Il figlio di una serva.

   Altra dura esperienza fondamentale sono state le difficoltà economiche che Strindberg ha cercato di fronteggiare con grande determinazione facendo i più disparati mestieri e, anche quando si è trovato libero dal bisogno, è rimasto sempre legato al concetto della vita come una lotta spietata dominata dalla legge ferrea della necessità. Anche la vita sentimentale di Strindberg è stata travagliata e instabile: si è sposato tre volte con tre donne dal carattere dominante [la baronessa Siri von Essen, la poetessa Frieda Uhl e l’attrice Harriet Bosse] e ha divorziato tre volte e ha scritto sei romanzi autobiografici per raccontare queste esperienze vissute, compresa una crisi mistica tra il secondo e il terzo matrimonio.

   Era inevitabile – e Strindberg lo scrive – che si verificasse il fallimento delle sue esperienze sentimentali e che subisse un continuo travaglio spirituale perché aveva maturato una sostanziale sfiducia nella natura umana e, in particolare, nella possibilità di realizzare rapporti costruttivi tra le persone in una società evoluta e progredita come quella della Svezia all’inizio del secolo scorso nella quale tuttavia dilaga un’inveterata “mentalità predatoria” tanto sul piano materiale ed economico quanto su quello affettivo ed emotivo: è veramente emblematica, a questo proposito, la polemica che Strindberg innesca nei confronti delle donne svedesi più evolute attraverso un volume di racconti [pubblicato nel 1885] intitolato Sposarsi in cui descrive, in modo fortemente satirico, i costumi delle donne svedesi della classe benestante le quali organizzano sistematicamente i loro matrimoni secondo parametri economici, valutando i potenziali mariti dalla consistenza del loro reddito ed è per questo motivo – sostiene Strindberg – che quella svedese [e mitteleuropea in genere a cavallo tra ‘800 e ‘900] è diventata una “società fredda” senza un briciolo di calore affettivo.

   Inoltre Strindberg [e questo è un problema che lui ha vissuto sulla pelle: sua madre è una serva] critica il fatto che le donne più preparate culturalmente ed evolute socialmente abbiano operato per ottenere dei diritti ma facendo in modo che continuasse ad esistere la divisione tra serve e padrone e questo era [ed è ancora] un ostacolo per l’emancipazione femminile [nella Roma imperiale c’è una situazione simile: le donne dell’aristocrazia sanciscono la divisione tra serve e padrone e gareggiano con gli uomini nelle trame per l’acquisizione del potere favorendo così il mantenimento di una situazione di asservimento per tutte le donne]. Le dirigenti della “Lega svedese per l’emancipazione della donna” intentano contro Strindberg un processo dal quale esce assolto perché il suo avvocato riesce a dimostrare che tutti i racconti del volume intitolato Sposarsi contengono un fatto che corrisponde alla realtà e che, quindi, era necessario riflettere sulla presunta misoginia di Strindberg più che condannarla.

   Strindberg ha messo bene in evidenza quali siano i danni [forieri di conseguenze negative per l’Europa e per il Mondo] della diffusione della “mentalità predatoria” e ha raggiunto la fama con i suoi romanzi, ma la sua rinomanza sul piano internazionale è legata soprattutto al teatro – ha anche fondato una compagnia teatrale [l’Intima Teatern di Stoccolma] – e tra le molte opere teatrali [una trentina sono celebri] da lui scritte ricordiamo: Dare e avere, Il sogno, La signorina Giulia che vengono, oggi, spesso rappresentate nei teatri europei.

   La vita di Strindberg [che ha soggiornato dopo il 1883 per lunghi periodi a Parigi, a Zurigo, a Ginevra, a Copenaghen, a Berlino] è ricca di avvenimenti, di incontri, di scelte culturali e filosofiche e adesso, in questo itinerario, non possiamo allargare troppo il nostro ventaglio informativo: fatelo voi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca, la rete fate una ricerca su August Strindberg e scoprirete molte cose interessanti

   La signorina Giulia è il titolo di una significativa opera teatrale di August Strindberg e questo nome, per noi, è evocativo, e il nostro incontro con il drammaturgo svedese dipende soprattutto da questa coincidenza. Difatti questo scrittore ha concepito, nel 1886-1887 la composizione di una tragedia sul personaggio di Giulia Maggiore [una donna di carattere] e ne è venuto fuori un testo lungo [cinque atti], complesso [in parte in prosa e in parte in poesia], macchinoso [con decine di personaggi e svariate scenografie] e difficile da mettere in scena e, quindi, l’autore, non soddisfatto, ha pensato bene di rimodellare completamente l’opera utilizzando il lavoro che aveva fatto come momento di gestazione per partorire qualcosa di nuovo e, in definitiva, si è lasciato ispirare dal personaggio di Giulia Maggiore, una donna che attua e che subisce la predazione, portandolo ai giorni nostri [a fine ottocento]: La signorina Giulia è la metafora contemporanea del personaggio di Giulia Maggiore e questa operazione di traduzione allegorica del contenuto porta lo scrittore a sperimentare anche una nuova forma di rappresentazione drammatica, una forma che ha influenzato non solo il modo di fare teatro ma anche il modo di fare cinema [conoscete i films del regista svedese Ingmar Bergman? Il tipico travaglio interiore e l’insicurezza che caratterizza i personaggi del cinema di Ingmar Bergman rimanda al teatro di Strindberg e Bergman ha anche diretto il Regio Teatro Svedese di Stoccolma].

   Il dramma di August Strindberg intitolato La signorina Giulia [Fröken Julie, in italiano questo testo è stato tradotto da A.G. Doraldi con il titolo “La contessina Giulia” ed è stato pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1931] è un’opera teatrale di carattere sperimentale perché si presenta senza la tradizionale divisione in atti ma è strutturata in due parti rappresentate senza interruzione tra l’una e l’altra. Questo dramma, composto nel 1888, viene considerato l’opera teatrale più riuscita di Strindberg, un’opera che ha creato un modello basato sulla semplicità, infatti ci sono solo tre personaggi, e basato soprattutto su un’azione scenica che dura per un tempo breve che facilita il mantenimento dell’attenzione da parte del pubblico in preparazione della riflessione finale ispirata ad una conclusione ambigua che lascia spazio a molteplici interpretazioni.

   Dei tre personaggi uno, la cuoca Cristina, è secondario e, quindi, il dramma si concentra su due personaggi soltanto: la contessina Giulia e il servo Jean. Nella notte di San Giovanni [al nord si celebra la fine del lungo inverno] la città è in festa, gli abitanti si danno alla pazza gioia, si balla su tutte le piazze e, mentre il conte [il padre di Giulia] è uscito per partecipare ai festeggiamenti, la signorina Giulia, dopo aver accampato una scusa, rimane a casa perché, in realtà, è eccitata dall’idea di poter affascinare il servo Jean, un bell’uomo che l’attrae: si veste in modo provocante, lo chiama e lo invita a brindare, poi gli propone di ballare con lei e, in quell’atmosfera particolare, lo seduce e si lascia sedurre e qui termina la prima parte. Nella seconda parte del dramma il servo Jean pensa di poter approfittare del fatto che la signorina è divenuta la sua amante per realizzare il suo sogno di diventare proprietario d’un albergo di lusso, e spinge Giulia a rubare la cassaforte del padre e a fuggire: come sempre nelle opere di Strindberg emerge l’amara riflessione sulla “mentalità predatoria” che condiziona la vita di tutte le persone. Giulia s’indigna di fronte a questa proposta e comincia anche ad essere angosciata dall’idea di poter portare in grembo il figlio di un servo al quale ormai è legata e del quale è complice e, fra la vergogna e l’odio, si tormenta e non sa più come comportarsi. Giulia infine decide di scappare insieme a lui e vuol portare con sé un lucherino che tiene in gabbia alla quale è affezionata, ma Jean, senza alcuna pietà, con lo stesso gesto con cui ci si libera di uno scarto o di un rifiuto qualunque, uccide l’uccellino: questo è un elemento metaforico [si sente anche l’influsso delle teorie di Darwin, della filosofia di Kierkegaard, della psicologia di Ribot] che permette all’autore di sintetizzare con una battuta le parole-chiave con cui comincia a finire l’Età antica – l’esilio, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, il trionfo della Morte –, parole che [come potete capire] continuano a prolungare il loro influsso nello spazio della Storia del Pensiero Umano come se l’agonia della civiltà antica si prolungasse inesorabilmente nel tempo senza avere mai fine [pensate all’incidenza che hanno ancora oggi queste parole!]. Al termine del dramma sul palcoscenico cala il silenzio per evidenziare il fatto che l’azione scenica alla quale il pubblico ha assistito non è altro che il preludio di una tragedia imminente, infatti, si capisce che il conte è tornato a casa, Jean rientra nei suoi panni di servo e Giulia, meccanicamente [la recitazione diventa un vero e proprio rituale], obbedendo a un tacito suggerimento dell’amante, prende un rasoio ed esce, mentre non cala il sipario si fa buio su questo ambiguo finale: che cosa farà Giulia? Potrebbe uccidersi, potrebbe uccidere il padre, potrebbe uccidere Jean, potrebbe tagliare la corda ed andarsene a Parigi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Provate a scrivete il finale di questo dramma magari coltivando il desiderio di sdrammatizzare, bastano quattro righe in proposito...

   E ora leggiamo dal testo de La signorina Giulia di Strindberg il breve brano dove lo scrittore mette in scena il catalogo delle parole-chiave che danno significato all’inizio della fine dell’Età antica: l’esilio, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, il trionfo della Morte. Possiamo così prendere atto che la didattica della lettura e della scrittura ci deve dare la possibilità di dedicarci alla ricerca filologica che consiste nel constatare in che modo le parole diano un significato alle cose: “Quando la parola sa nominare la cosa – scrive Hermann Broch ne La morte di Virgilio – si crea un presupposto utile per costruire strumenti efficaci nel progettare possibili vie di salvezza”, ebbene, possiamo prendere atto che questi termini, e le idee-cardine che contengono, continuano ad estendersi nel tempo come se [afferma Strindberg] l’agonia della civiltà antica si prolungasse inesorabilmente senza mai aver fine e noi, come lettrici e lettori, dobbiamo partecipare consapevolmente a questo fecondo travaglio intellettuale.

   Il brano di poche righe che stiamo per leggere fa parte di un intreccio filologico che dobbiamo individuare per capire che nel corso dei secoli [in età tardo-antica, medioevale, moderna, contemporanea] tutte le volte che le autrici e gli autori hanno voluto rendere significativo un “dramma [inteso nel senso del genere letterario]” hanno utilizzato le parole di questo catalogo [che è anche il primo veicolo dell’Età tardo-antica, un veicolo che stiamo utilizzando] per rimarcare la necessità della “presenza classica” come forma di garanzia, come prima stagione fruttuosa di opposizione culturale, e come metodo per assicurare spessore intellettuale all’esercizio del “dissenso”: la battuta che stiamo per leggere, fatta interpretare dallo scrittore alla signorina Giulia, è un vero e proprio manifesto poetico-filosofico, è un’indicazione utile ad ispirare opere che sappiano interpretare il disagio di una società benestante ma profondamente insoddisfatta.

LEGERE MULTUM….

August Strindberg, La signorina Giulia

      GIULIA [alzando la voce rivolta a JeanE allora uccidi anche me! Tu che puoi ammazzare un animaletto innocente senza che ti tremi la mano, uccidimi! Liberami da questo esilio terreno, fammi cadere nel sonno eterno privo di sogni illusori! Il tuo amore è vano e pretestuoso, assomiglia all’odio sebbene l’odio sia più pesante e tangibile. La vita è una malattia che tormenta il corpo e corrompe l’anima, la vita è il palcoscenico dove si rappresenta ogni giorno il trionfo della Morte ma non c’è risurrezione senza la passione e la morte, non c’è rinnovamento.

   L’emergere di questo catalogo di parole – che in Strindberg assurge a manifesto poetico-filosofico [e su questa affermazione dovremmo ancora riflettere prossimamente] – nei testi di un certo numero di opere letterarie [tardo antiche, medioevali, moderne e contemporanee] che significato ulteriore ha? Costituisce un auspicio, una speranza, un desiderio, un atto con il quale si vuole [si vorrebbe, il condizionale è d’obbligo] superare un’epoca deprimente per entrare finalmente in un’età felice, in una stagione che possa essere considerata un “tempo di salvezza”, il tempo del “rinnovamento” [a cominciare dal rinnovamento culturale], e Strindberg, nel dramma intitolato La signorina Giulia, ci ha fornito il fondamentale tassello di un intreccio filologico che presenta altri elementi che scopriremo nel prossimo itinerario sulla scia di altre figure famose femminili che, attraverso la Storia, sono entrate nella Letteratura.

   Il cuore del primo paesaggio intellettuale dell’Età tardo-antica ora non è più tanto distante ma la nostra andatura – proprio a causa delle implicazioni prodotte dalla natura del nostro viaggio che è in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non può che essere contrassegnata dalla lentezza.

   Stavamo dicendo che, dopo l’uccisione di Caligola [siamo nell’anno 41] viene acclamato imperatore dai pretoriani un pronipote di Augusto, il figlio di Druso Maggiore e di Antonia Minore, che si chiama Claudio [Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, non era molto alto e misurava di più l’elenco dei suoi nomi che lui] egli è un uomo di cinquant’anni vissuto sempre appartato dalla vita pubblica perché soffre di epilessia, è balbuziente, è timido, è goffo ma dotato di una buona intelligenza e si è dedicato con impegno fin da ragazzo allo studio della cultura greca e dell’archeologia.

   La disciplina archeologica a Roma nasce con Claudio e il fatto che si cominci a parlare di “archeologia” significa che si ha ormai la percezione che sia esistita un’Età antica e, mentre si indaga nel passato [per riportarlo alla luce], si rivolge anche lo sguardo verso una nuova Epoca cercando di stabilire una linea di confine tra un tempo precedente e un tempo successivo che, tuttavia, non è ben identificabile perché [come sappiamo] non c’è una linea di frontiera ma appaiono degli elementi di transizione: l’interesse per la ricerca archeologica è uno degli elementi che ci fa capire di essere in un’età post-antica, sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Epoca tardo-antica”.

   Claudio, nonostante la sua inesperienza come uomo di governo, cerca subito di darsi da fare per contrastare la crisi politica, economica e morale prendendo una serie di provvedimenti: cerca di riorganizzare l’amministrazione imperiale e cerca di rendere più efficaci gli strumenti che servono per governare lo Stato. Claudio non si fida dei burocrati che hanno preso in mano le leve del potere negli ultimi due decenni nel corso dei precedenti principati e affida la direzione dei ministeri-chiave [ab epistulis - la corrispondenza, a libellis - la giustizia, a studiis - gli archivi, a rationibus - le finanze] a quattro liberti di sua fiducia, Pallante, Narciso, Polibio e Callisto, che rispondono direttamente a lui; ma ormai il sistema burocratico imperiale si è radicato nei punti strategici dell’amministrazione e nessun tipo di riforma, che possa ledere gli interessi dei burocrati, può andare a buon fine e i vecchi funzionari hanno buon gioco nel coinvolgere nei loro traffici i nuovi intendenti [procuratores] che il Principe invia a governare le province e anche gli stessi liberti di Claudio presto tradiscono la sua fiducia per mettersi in affari.

   Claudio cerca anche di rinnovare il Senato favorendo l’entrata di nuovi elementi provenienti dalla Spagna e dalla Gallia che sono le province più romanizzate e lui è nato nell’anno 10 in Gallia e da bambino ha vissuto nella colonia di Lugdunum [è un “provinciale”], che era stata fondata nel 43 a.C. ed era prosperata al tempo di Augusto fino a diventare  una grande città che oggi si chiama Lione.

   Con una guida della Francia, o navigando in rete, fate una visita a Lione: una grande città che si trova in bella posizione alla confluenza della Saona nel Rodano. Lione è una città dalle molte stratificazioni e per puntare l’attenzione sulle vestigia romane bisogna salire sulla collina di Fourvière che si leva sulla riva destra della Saona e che sovrasta la città vecchia. In questa suggestiva posizione sopraelevata si trova la Lione romana e medioevale, e questo sito si può raggiungere anche in funicolare. Della città romana è rimasta una magnifica costruzione del tempo di Augusto: il Teatro, un grandioso monumento di ben 108 metri di diametro con una grandiosa cavea e vari ordini di gradinate con le scale d’accesso e l’orchestra e il grande basamento della scena, un ambiente adatto ai giochi e alle manifestazioni pubbliche. Sulla sinistra del Teatro è venuto alla luce un Odèon, un teatro più piccolo, lungo 73 metri, probabilmente più adatto per la rappresentazione di opere teatrali [le commedie, le tragedie]. Sulla destra del Teatro romano, all’interno di un bellissimo parco, c’è il piccolo ma interessantissimo Museo della Civiltà Gallo-Romana.

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Leggete le pagine della guida – la trovate in biblioteca – che riguardano l’aspetto romano della città di Lione: la lettura è propedeutica al buon viaggio…      

   Abbiamo detto che Claudio cerca di riorganizzare l’amministrazione imperiale e cerca di rendere più efficaci gli strumenti che servono per governare lo Stato. Claudio fa approvare dal Senato alcune leggi per impedire il dilagare della corruzione e del lusso cercando di moderare l’eccessiva penetrazione a Roma e in Italia dei costumi fastosi delle monarchie orientali.

   Nel 49 Claudio – prendendo a pretesto una serie di disordini e di scontri scoppiati ad Alessandria tra la comunità greca e quella ebraica – fa approvare dal Senato una legge per allontanare da Roma gli Ebrei i quali, in verità, non erano disposti a rendere “onore” all’imperatore che aveva consacrato come religione principale dello Stato il culto di Attis, un “mistero” che Claudio prediligeva sui molti che si celebravano a Roma. Con questa legge viene espulso da Roma anche un gruppo di Cristiani che vivevano a stretto contatto con la Sinagoga ebraica e di questo fatto ne fa menzione [molte e molti di voi dovrebbero ricordare] il testo del capitolo 18 degli Atti degli Apostoli dove si racconta che Paolo di Tarso a Corinto incontra una coppia di sposi, Aquila e Priscilla, che erano fuggiti da Roma a causa di questo provvedimento di espulsione. Atti degli Apostoli è un’opera sulla quale abbiamo puntato spesso la nostra attenzione e molte e molti di voi sanno che quest’opera – completata alla fine del I secolo dalla Scuola ellenistica clementina [istituita da papa Clemente Romano, il primo dei cosiddetti Padri Apostolici, il primo papa storico che rincontreremo ai primi di marzo del prossimo anno] – utilizza elementi storici in funzione della catechesi perché quest’opera è il primo catechismo della Chiesa di Roma.

   Con Claudio il culto di Attis riceve a Roma una consacrazione ufficiale: Attis è un’antica divinità frigia della vegetazione rappresentata sotto l’aspetto di un giovane e bellissimo pastore e questo culto è legato alla dèa Cibale. Cibele, chiamata anche Rea, è la madre di Zeus e di tutti gli dèi, amante e amata da un suo giovane sacerdote di nome Attis o Atis o Sabazio, morto di morte violenta e risorto nel continuo rigenerarsi della natura. Il culto di Cibele e di Attis, in età ellenistica, si è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo e poi nella Roma imperiale. I simboli di Cibele e di Attis sono il leone, la quercia e il pino [il pino domestico detto pinocchio].

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Cercate sull’enciclopedia, o sulla rete, i nomi di “Attis” e di “Cibele [o di Rea]” per conoscere il racconto del mito su cui si basa questo mistero che a Roma ha avuto una grande rilevanza e con il quale entra in competizione il cristianesimo… 

   Tutti i provvedimenti presi da Claudio non servono a fermare la crisi, tuttavia lui dà per lo meno prova di avere un senso pratico nel governo della Città e dello Stato [Urbis et Orbis]: fa costruire un grande acquedotto [l’acquedotto di Claudio, l’Aqua Claudia, è una delle opere più importanti dell’ingegneria romana], fa prosciugare e bonificare il lago del Fucino, fa allargare il porto di Ostia per incrementare il commercio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate un viaggio ad Ostia antica – “ostium” significa “foce” in latino – e fate visita all’area che si chiama “Portus”: potete utilizzare una guida di “Roma e dintorni”, buon viaggio …

   Claudio cerca anche di consolidare i confini dell’Impero [molte sono le popolazioni che premono sui confini dello Stato romano] e a nord sottomette le tribù britanniche, a nord-est consolida il confine sul Reno fondando colonie, a sud-est rinforza la linea di frontiera sul Danubio con una serie di fortezze e fa costruire il tracciato strategico della via Claudia-Augusta che unisce la Rezia [il territorio comprendente il Tirolo, una parte della Svizzera e la Baviera] con l’Italia del nord attraverso il passo del Brennero, il meno elevato dei grandi valichi alpini, aprendo una delle più importanti vie di comunicazione tra la Mittel-Europa e l’Europa mediterranea.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a cercare sull’Atlante geografico il passo del Brennero per avere la consapevolezza della sua reale collocazione tra l’Italia e l’Austria: se vi è capitato di attraversarlo scrivete un appunto in proposito, solo un appunto di quello che potrebbe essere il resoconto di un viaggio… 

   Purtroppo però Claudio è stato incapace a disimpegnarsi nelle faccende private e, difatti, ben presto, quest’uomo debole e sprovveduto cade vittima dei raggiri delle due “prime donne” della domus imperiale, delle sue due mogli. Non c’è persona che non conosca i nomi delle due mogli di Claudio: Valeria Messalina e Agrippina Minore, due nomi che fanno subito pensare a scenari violenti e lussuriosi. L’incontro con queste due celebri figure, Valeria Messalina e Agrippina Minore, fa sì che si apra un lungo capitolo che riguarda, soprattutto, la didattica della lettura e della scrittura e questo fatto rallenta la nostra marcia di avvicinamento al primo paesaggio intellettuale del territorio tardo-antico.

   Chi sono questi due personaggi: Valeria Messalina e Agrippina Minore? E come, e perché queste due figure hanno contribuito a influenzare la Storia della Letteratura tardo-antica, medioevale, moderna e contemporanea? Con loro – abbiamo detto – si apre un interessante scenario che riguarda la didattica della lettura e della scrittura, e noi punteremo l’attenzione solo sulle pagine dove – ancora una volta – emerge il catalogo delle parole-chiave con cui ha inizio la fine dell’Età antica: perché dobbiamo fare questa scelta? Perché con queste parole è lastricata la strada che stiamo percorrendo nella nostra marcia di avvicinamento al primo paesaggio intellettuale del territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Epoca tardo-antica, ed è questa la via che dobbiamo seguire.

   E ora, per concludere questo faticoso itinerario, affidiamoci all’ironia in romanesco di un poeta, Carlo Alberto Salustri detto Trilussa [1871-1950], che ogni tanto incontriamo nei nostri viaggi perché è capace di sintetizzare con leggerezza le caratteristiche di certi personaggi: potevano sfuggirgli le figure di Valeria Messalina [nelle vesti di una pulce che succhia il sangue] e di Agrippina Minore [la Minora – scrive Trilussa – per far rima con “signora”]? Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Trilussa, Favole moderne

La Purce Valeria Messalina succhia il sangue a la signora Agrippina

 

La Purce Valeria Messalina che ciaveva l’anemia, pe’ guarì ‘sta malattia

succhiò il sangue a la signora Agrippina la Minora

che a quer pizzico fu lesta d’arzà subbito la vesta.

... continua la lettura ...

   Trilussa trasfigura e addolcisce una storia molto più amara [in cui le donne dell’aristocrazia romana non favoriscono il processo dell’emancipazione femminile ma è anche difficile dire come avrebbero potuto fare a favorirlo].

   Chi sono Valeria Messalina e Agrippina Minore? E come e perché hanno contribuito a influenzare la Storia della Letteratura tardo-antica, medioevale, moderna e contemporanea? E, soprattutto, che ritmo ha il battito cardiaco – possiamo cominciare a percepirlo –del primo paesaggio intellettuale del territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Epoca tardo-antica?

   Per dare delle risposte a queste domande dobbiamo seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il rifiuto di avere una mentalità predatoria] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “peregrinante” perché l’insegnamento più importante è quello che non si acquisisce mai ma che si studia sempre.

   Il viaggio continua…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 9, 2012