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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE SI SVILUPPA LA TRADIZIONE ISLAMICA DEGLI HADIT, I RACCONTI SULLA VITA-MODELLO [SIRA] DEL PROFETA …

Lezione N.: 
15

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale      12-13-14  febbraio  2014

Moby Dick

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

SI SVILUPPA LA TRADIZIONE ISLAMICA DEGLI HADIT,

I RACCONTI SULLA VITA-MODELLO [SIRA] DEL PROFETA 

   Con il quindicesimo itinerario del nostro viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” ci troviamo di fronte al complesso “paesaggio intellettuale della Letteratura del Corano”.

   Prima di prendere il passo è doveroso fare il punto della situazione: quali sono i primi elementi che abbiamo osservato in questo paesaggio intellettuale? La piattaforma cultuale sulla quale prende corpo il testo del Libro del Corano è legata all’incontro di due termini significativi: la parola “Abramo [che si accompagna alla parola Ismaele]” e la parola “Ka’ba”. Alla fine dell’itinerario della scorsa settimana abbiamo letto sette brani del Corano, tratti da sette diverse sure, in cui abbiamo potuto constatare in che modo queste due parole-chiave – “Abramo e Ka’ba” – s’incontrino.

   Sappiamo che la parola “Abramo” [accompagnata dalla parola Ismaele] proviene da quel formidabile racconto [il romanzo di Abramo] che si trova nel testo del Libro della Genesi [dal capitolo 12 al capitolo 23]. Nel racconto della “storia di Abramo” emerge il concetto del “monoteismo”: l’idea dell’Unicità di Dio, un Dio che parla al cuore della persona, un Dio che non è un “idolo” e che non vuole “sacrifici [in particolare sacrifici umani]”. Questo Dio si rivela come “creatore dell’Umanità a sua immagine” e coltiva sentimenti di benevolenza, di misericordia, di clemenza verso la persona, verso la sua creatura, ma esige anche fedeltà, sottomissione: è un Dio “geloso”. La figura di Abramo – il custode, il depositario, il punto d’incontro tra l’Umanità e il “Dio Unico” – entra [in area Mesopotamica, attraverso i racconti creati dagli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia] nelle tradizioni delle tribù dell’Arabia che individuano in lui, in Abramo, il loro “autorevole punto di riferimento” per darsi un “capostipite” secondo la linea di Agar – Agar [come sappiamo, e abbiamo letto insieme i capitoli 16 e 22 del Libro della Genesi] è la schiava egizia di Sara, la moglie di Abramo – la quale viene fecondata da Abramo con il consenso di Sara che per il momento è sterile, e, dall’unione tra Agar ed Abramo, nasce Ismaele [la consuetudine di prendere un utero in prestito è molto antica]. Quindi la tradizione delle tribù dell’Arabia riconosce in Ismaele il capostipite secondo la linea tracciata dal testo del Libro della Genesi.

   Gli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia avevano disegnato l’infecondità di Sara e la figura di Ismaele come “erede di seconda categoria” perché hanno voluto privilegiare la figura di Isacco come erede legittimo del popolo ebreo, il figlio che finalmente, dopo la stipula di un patto [la berit], Dio dona ad Abramo liberando Sara dalla sterilità: Ismaele è figlio della carne [frutto di un progetto umano], Isacco è figlio dello Spirito [il risultato di un progetto divino]. E Sara – siccome, secondo lei [perché ad Abramo non sembra], la sua serva Agar si è insuperbita – pretende che Agar e Ismaele, il figlio di ripiego [il bastardo], vengano scacciati, e Abramo, sebbene voglia bene a queste due persone, è costretto a mandarli via, nel deserto, dove però, il “Dio Unico”, attraverso il suo Angelo, non permette che Ismaele muoia di sete perché deve essere il capostipite di una grande Nazione: la Nazione araba [gli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia non se la sentono di far morire Ismaele dopo aver esaltato le qualità di un Dio clemente e misericordioso].

   Sappiamo poi che la parola Ka’ba [Casa cubica] è l’elemento più significativo della mitologia pan-araba legato al culto delle pietre, in particolare della “pietra nera”. La Ka’ba è il santuario primordiale della tradizione “politeista” delle tribù dell’Arabia. E il racconto mitico pan-arabo [come abbiamo studiato la scorsa settimana] fa risalire la costruzione della Ka’ba ad Adamo e poi ad Abramo e Ismaele, e la “pietra nera” – il fiore proveniente dal giardino dell’Eden pietrificato a causa dei peccati degli uomini – viene considerata un segno tangibile lasciato all’Umanità dal “Dio Unico” che ha parlato al cuore di Abramo.

   Prima di prendere il passo sul sentiero dell’itinerario di questa sera, abbiamo riproposto, a grandi linee [ma in modo da poter procedere con consapevolezza], il racconto del Libro della Genesi secondo la linea che passa per il Dio Unico, Adamo, Abramo, Agar e Ismaele, perché questo segmento narrativo costituisce il substrato culturale della Letteratura del Corano, e questo substrato culturale – il grande racconto [il midrash] che fonde insieme il mito di Abramo con il mito della Ka’ba – è, di conseguenza, il primo anello della formazione intellettuale e della successiva “recitazione [qu’ran, in arabo]” di Muhammad. Iniziamo ora ad entrare in contatto con la figura di Muhammad utilizzando la geografia, una disciplina fondamentale per capire il mondo. Ripeteremo cose già dette ma, quando si studia [e questo è un viaggio di studio] le cose ripetute [repetita] sono di giovamento [iuvant].

   Muhammad nasce alla fine del VI secolo [secondo la tradizione nel 570] in quella parte della penisola arabica nota con il nome di “barriera [Hiğāz]”. La “barriera” è un altopiano desertico che si snoda lungo la costa occidentale dell’Arabia prospiciente al Mar Rosso. Su questo altopiano ci sono molte oasi fiorenti, specialmente in un punto che si chiama “valle dei villaggi o delle oasi [Baka o Bekka]”. In questa valle troviamo due centri, abitati da una popolazione sedentaria che è formata per lo più da mercanti, e i nomi di questi due centri li conosciamo: La Mecca [Bekka] e Yatrib [poi Medina]. Nel VI secolo, quando nasce Muhammad, queste due città [in particolare La Mecca, per come è configurato il territorio] si trovano a metà strada tra due realtà geografiche ben definite: a sud c’è lo Yemen, una terra ricca [la terra della regina di Saba, l’Arabia Felix], dal clima buono, e che, culturalmente, risente degli influssi del cristianesimo etiopico e dove sono presenti numerose [e fiorenti] colonie ebree dedite al commercio. A nord, ai confini degli Imperi bizantino e persiano [due realtà delle quali conosciamo le caratteristiche] si sono formati due Regni cristiano-arabi indipendenti: il Regno di Hira e il Regno di Gassan. Quindi, l’insediamento de La Mecca viene a trovarsi a metà strada su una via – la cosiddetta “via dell’incenso” –  che collega i Regni cristiano-arabi del nord con il Regno dello Yemen al sud, e su questa via non circolano solo le merci, i prodotti di consumo, i beni materiali, ma circolano anche le “idee [le parole-chiave]” e i “racconti mitici [il midrash]” della cultura ebrea, cristiana e araba.

   La Mecca alla fine del VI secolo – a metà strada sulla “via dell’incenso” – è un centro privilegiato per le grandi “fiere annuali” che diventano luogo di convegno di tutte le tribù arabe, e il culto della Ka’ba, con la venerazione della “pietra nera”, contribuisce a dare alla città una grande importanza mitica che culmina nella cerimonia del pellegrinaggio al santuario del dio Hubal con il rito della circumambulazione intorno alla Ka’ba con relativi sacrifici e riti magici per tenere buoni i ginn [i folletti]. Il santuario della Ka’ba è circondato da un terreno sacro e per passare su questo terreno bisogna rispettare una serie di regole e bisogna pagare il pedaggio. Il servizio nella Ka’ba è affidato a persone appartenenti alle famiglie più influenti de La Mecca e la tradizione islamica, di cui parleremo a suo tempo, racconta che anche il nonno di Muhammad, Abd al-Muttalib, è stato “custode della Ka’ba”. I “custodi” della Ka’ba si tramandano questi incarichi [molto redditizi soprattutto per la vendita dell’acqua] di padre in figlio: la “custodia” non è un incarico di tipo sacerdotale perché [c’informano le studiose e gli studiosi di antropologia culturale] ci troviamo di fronte ad una forma di politeismo rozzo e particolaristico, non legato ad un “sentimento spirituale”, privo di “senso del divino”, basato sullo sfruttamento della “superstizione” e non sul rispetto di una “fede religiosa”. Noi siamo già al corrente del fatto che, alla fine del VI secolo [alla nascita di Muhammad], nell’area de La Mecca la “tradizione abramitica del Dio Unico” [che si era sviluppata nel corso dei secoli, dal 538 a.C., nelle tribù dell’Arabia] si è ridotta ad essere il patrimonio di una ristretta minoranza, gli “hanīf”: i monoteisti puri, i non idolatri, gli eredi del culto del Dio Unico che coltivano la “sapienza poetica e filosofica”.

   Ebbene, in questo contesto geografico, antropologico e culturale nasce Muhammad, il profeta dell’islàm, “colui su cui fu fatto scendere il Libro del Corano”: questa è la formula con la quale tutto l’islàm si esprime, e definire Muhammad come “l’autore del Corano” è, per un islamico, un’espressione blasfema e, difatti, non è Muhammad che ha materialmente scritto il Corano, ma questo è un altro tema che affronteremo strada facendo.

   Quali sono le “fonti” a cui attingere per conoscere la vita di Muhammad? Le “fonti” per la conoscenza storica e leggendaria della vita di Muhammad sono due: la prima è il testo stesso del Corano, che contiene degli accenni autobiografici, scarsi accenni, ma molto importanti dal punto di vista storico e culturale ed è la stessa situazione che vale per la vita di Paolo di Tarso in relazione alle sue Lettere. La seconda fonte è data da una immensa raccolta di “racconti scritti”: [in arabo] gli “hadit”. Questa grande, complessa e variegata opera nella quale confluiscono numerosissime tradizioni è una raccolta che è andata formandosi nei decenni e poi nei secoli successivi alla morte di Muhammad. Questi racconti scritti, gli hadit, contengono tanto notizie di storia quanto elementi leggendari, mitici e liturgici, riportati con uno stile simile a quello dei Dialoghi sulla vita di San Benedetto scritta da papa Gregorio Magno o dei Fioretti di San Francesco ideati da frate Ugolino da Montegiorgio. Gli “hadit” hanno, quindi, la stessa forma delle “agiografie”, delle “raccolte di racconti sulla vita dei Santi”, e gli “hadit [i racconti sulla vita del Profeta]” sono stati raccolti in compilazioni contenute in molti libri.

   La raccolta di hadit più antica che possediamo è la cosiddetta “Sira”, un termine che significa “vita-modello”, ed è stata scritta da un autore che si chiama Ibn Ishaq di Medina [704-768], rielaborata e ampliata dallo scrittore Ibn Hisam di Bàssora [morto nell’834]. La “Sira” è un grande capolavoro “agiografico” scritto con il genere letterario della fiaba.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete mai letto qualche “agiografia [la vita di una Santa e di un Santo]”? C’è una Santa o un

Santo per la quale o per il quale provate una particolare simpatia?

Scrivete quattro righe in proposito

   Le studiose e gli studiosi di filologia c’insegnano che nel libro intitolato “Sira [il racconto della vita-modello del Profeta]” troviamo una parte rilevante di materiali “apocrifi” cioè non storicamente attendibili, ma sono presenti in questa raccolta anche molti “frammenti tradizionali” che sono legati a dei probabili “dati storici”. Questi frammenti tradizionali servono non tanto per ricostruire una biografia attendibile di Muhammad, che risulta comunque un’operazione impossibile perché non ci sono dati storici documentati con certezza [così come per la vita di Paolo di Tarso e di Gesù di Nazareth] ma, tuttavia, il testo della “Sira” è un documento molto utile per studiare con quali intenzioni religiose, spirituali, ideali è stata costruita la biografia del Profeta, la sua “agiografia” [paragonabile alla vita di un Santo].

   Il testo della “Sira” contiene una serie di straordinari racconti [hadit] scritti, abbiamo detto, con il genere letterario della fiaba, e queste narrazioni derivano da una fertile tradizione orale che riporta anche con commovente ingenuità tutta una serie di particolari talvolta perfino poco onorevoli per un Profeta. Le studiose e gli studiosi ritengono che l’ossatura, lo schema generale, del testo della “Sira” – che è stato scritto circa un secolo dopo la morte del Profeta – sia comunque formato da frammenti di notizie autentiche, anche perché il popolo arabo, come il popolo ebreo, ha una potente “memoria” e nutre questa memoria, individuale e collettiva, con sempre nuovi aneddoti e con racconti inediti, ed è impossibile pensare che, dopo un centinaio d’anni dalla morte di un personaggio così importante come Muhammad, non sia rimasto proprio nulla di storico: infatti, una serie di notizie dotate di un fondamento storico sono state rilevate e noi, di conseguenza, ci dobbiamo attenere ai “dati” che le studiose e gli studiosi considerano “significativi storicamente” per definire questo personaggio.

   Prima però di intraprendere il cammino sulla scia dei dati “significativi” [storici e leggendari] inerenti alla biografia di Muhammad dobbiamo – su indicazione di un “elemento narrativo” che proviene dal testo della “Sira” – aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

   Un hadit [un racconto] contenuto nel testo della “Sira” [la vita-modello del Profeta] narra che Muhammad da adolescente era un “povero pastorello [e strada facendo rifletteremo ampiamente su questo dato “sensibile”]” il quale si spostava con il suo gregge da un’oasi all’altra scegliendo sempre quelle più isolate e con una sola polla d’acqua per poter stare da solo e per poter meditare, e agli altri pastori, che gli chiedevano perché si comportasse in questo modo, rispondeva che «la fonte che l’Angelo del Signore aveva indicato ad Agar era appartata e silenziosa» e quelli ironicamente, burlandosi di lui, lo apostrofavano dicendo: «E allora dovremmo forse chiamarti Ismaele?» e il futuro Profeta arrossiva [scrive l’autore della Sira] perché era timido, e si allontanava senza dare una risposta.

   Questa frase interlocutoria: «Dovremmo forse chiamarti Ismaele?» ci fa pensare, inevitabilmente, ad uno scrittore che si chiama Herman Melville e che tutte e tutti voi avete sentito nominare. Viene spontaneo domandarsi se Melville abbia letto questo hadit contenuto nel testo della “Sira”, certamente sappiamo che conosce bene il Libro della Genesi e conosce il significato allegorico legato al personaggio di Ismaele che lo scrittore ha fatto diventare l’elemento dominante di uno dei più fulminanti incipit della Storia della Letteratura: quello che troviamo nel capolavoro di Herman Melville. Melville lo abbiamo citato più di una volta in questi anni nel corso dei nostri viaggi ma mai, fin d’ora, lo abbiamo incontrato per puntare l’attenzione sul suo romanzo più celebre, uno dei romanzi più importanti non solo della Storia della Letteratura ma anche, e soprattutto, della Storia del Pensiero Umano: quest’opera è diventata così famosa per gli “archetipi” in essa contenuti che anche la maggior parte delle lettrici e dei lettori abituali non l’hanno mai letta pensando di averlo già fatto avendone profondamente interiorizzato i modelli [è la sindrome della potente fama simbolica e della persistente riproduzione dell’opera].

   Il romanzo di Herman Melville di cui stiamo parlando s’intitola Moby Dick o la balena e, in questo momento, nella mente di ciascuna e di ciascuno di noi scatta il meccanismo dato dalla “sindrome della potente fama simbolica e della persistente riproduzione dell’opera” [che riguarda molti libri] per cui la pronuncia del titolo produce una sorta di illuminazione cerebrale e nel pensiero si formano immagini date dalla notorietà che hanno le principali figure del romanzo e questo esercizio diventa un surrogato intellettuale sostitutivo della lettura: la “balena bianca [la metafora della Balena bianca]” nuota nei nostri pensieri e s’immerge nella nostra mente da sempre.

   Qualche anno fa [nel 2006 in viaggio con il giovane Hegel] abbiamo letto un famoso breve-romanzo di Herman Melville intitolato Bartleby lo scrivano [ricordate quest’opera, e il personaggio di Bartleby e la sua celebre frase “preferisco di no”?] che viene considerato uno dei più significativi racconti dell’800, pubblicato nel 1853; ebbene, in questa occasione abbiamo detto che di Moby Dick ne avremmo parlato a suo tempo, e il tempo è arrivato sulla scia del personaggio di Ismaele. Prima di tutto, però, dobbiamo domandarci: chi è Herman Melville, l’autore di Moby Dick o la balena?

   Herman Melville è nato a New York nel 1819 in una famiglia agiata della ricca borghesia di origine inglese e olandese, però, a dodici anni rimane orfano: il padre [agente di borsa] muore dopo una serie di speculazioni sbagliate lasciando in miseria la madre e gli otto figli. Herman, di conseguenza, lascia la Scuola [ma non smetterà mai di studiare] e, nel 1837, s’imbarca come marinaio su una nave mercantile che fa servizio tra New York e Liverpool. Forte di questa esperienza nautica, nel 1841, dopo un breve periodo dedicato all’insegnamento [come maestro elementare], Herman decide di imbarcarsi come marinaio su una baleniera [la Acushnet] e, dopo diciotto mesi di navigazione avventurosa nei mari del Sud – un’esperienza che procura molta materia alla sua scrittura giornaliera –, sbarca in Polinesia alle isole Marchesi [fugge dalla nave] e va a vivere presso una tribù di indigeni cannibali e inizia a studiare i loro usi e costumi e poi – volendo quelli trattenerlo per forza – scappa a Tahiti dove lavora come bracciante finché getta l’ancora nell’arcipelago tahitiano la fregata “Stati Uniti” e lui – essendo in possesso di un’ottima competenza nautica ed essendo cittadino americano – fa domanda d’imbarco, viene arruolato in marina, e ricomincia a navigare e l’anno successivo [è il 1844] ritorna in patria e va in congedo a Boston. Melville trova un posto come giornalista e fa pubblicare una serie di romanzi “esotici” [Typee, Omoo, Mardi, Redburn] che hanno un notevole successo, entra in contatto con i circoli letterari, e lui pensa di poter fare lo scrittore di professione. Nel 1847 si sposa e viaggia in Inghilterra e in Francia, poi va a vivere in campagna nel Massachusett dove combina letteratura e agricoltura.

   Nel 1851, però, con la pubblicazione di Moby Dick, la popolarità di Melville come scrittore si esaurisce: il romanzo risulta ai critici e al pubblico troppo irto di simboli, faticoso, lento nello sviluppo. Melville – sebbene continui a scrivere una serie di opere molto importanti [Pierre o Delle ambiguità, Israel Potter, Racconti della veranda, Bartleby lo scrivano, Benito Cereno, Le isole incantate, L’uomo di fiducia, Clarel, Billy Budd gabbiere di parrocchetto] tutte fortemente satiriche nei confronti degli aspetti più meschini della società americana del suo tempo e tutte pubblicate a sue spese – capisce che non si guadagnerà mai da vivere facendo lo scrittore e, di conseguenza, nel 1866, trova un posto da impiegato al porto di New York, all’ispettorato delle Dogane. Herman Melville muore nel 1891 e dopo cinquant’anni dalla sua morte, le lettrici e i lettori più attenti e tutti i critici letterari cominciano a riconoscere in lui uno dei più significativi scrittori dell’800 e dell’età contemporanea.

   È facile dire: “leggete Moby Dick” [qualcuna e qualcuno di voi lo avrà sicuramente letto questo romanzo], il fatto è che non si tratta di una lettura facile e, difatti, sono state pubblicate molte riduzioni di Moby Dick che trasformano questo romanzo in un libro di avventure collocato nelle collane di Letteratura per ragazze e ragazzi rimuovendo dal testo tutti gli elementi di “sapienza poetica e filosofica” che costituiscono la parte preponderante e più significativa di quest’opera.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per entrare in contatto con “Moby Dick o la balena” è bene andare in biblioteca, richiedere il libro, cominciare a sfogliarlo, leggere le due parole dell’incipit e la pagina dell’epilogo finale, constatare che forma ha quest’opera, di quanti capitoli è composta e che titolo hanno questi capitoli…  Poi – dopo questi esercizi preliminari – potete pensare di metterlo in lettura al ritmo di quattro pagine al giorno o di un capitolo al giorno, visto che i capitoli sono brevi e  danno al testo [insieme allo stile con cui Melville scrive] un carattere ondivago, un movimento fluttuante, un’oscillazione periodica: la lettura di quest’opera ha caratteristiche simili a quelle della navigazione, mettetevi in viaggio con Herman Melville...

   Per entrare in questo romanzo è anche necessario possedere delle “chiavi”. Il romanzo Moby Dick o la balena è un diario di bordo che celebra anche le avventure della vita marinara, esalta l’epopea di un’attività considerata poco nobile [soprattutto oggi] – l’andar per mare a uccidere balene –, ma in quest’opera Melville mette soprattutto in evidenza i suoi turbamenti e le sue angosce esistenziali, e il fascino di questo romanzo sta principalmente in questo: la figura spaventosa di Moby Dick ci fa capire che le angosce e i turbamenti che agitano la nostra mente dipendono dai troppi misteri irrisolti che riguardano l’esistenza umana perché noi, in realtà [sostiene Melville], non sappiamo chi siamo, perché siamo qui, da dove veniamo, dove andiamo: noi facciamo finta di saperlo, siamo come Ismaele, figli illegittimi in cerca di identità. E la balena bianca Moby Dick, nel drammatico preannunciato finale, in cui s’inabissa, forse ferita a morte, trascinando con sé i suoi temerari cacciatori, porta nel profondo [sostiene Melville] il suo segreto insondabile e tutti gli interrogativi irrisolti: qual è la verità del mondo, del bene, del male, perché c’è la sofferenza, l’orgoglio, l’ambizione, il destino, la fine? Che senso hanno la vita e la morte, la sfida e la sconfitta: c’è un significato e una ragione nell’esistenza?

   Il capitano Achab – che non è un eroe ma è un folle che tiranneggia sul suo equipaggio formato da gente raccogliticcia, coraggiosa e influenzabile per disperazione – cerca una ragione, vuole guardare in faccia la verità, vuole uccidere Moby Dick che l’ha mutilato e umiliato, vuole sapere perché gli è toccata questa sorte: ma [sostiene Melville] non è dato sapere, e Moby Dick [la Natura, il Fato] è invincibile, e l’essere umano è deperibile.

   Moby Dick è un romanzo “sapienziale” che insegna a non pretendere di spiegare né di interpretare troppo le cose, e questa lezione Melville la impartisce scrivendo una lunga storia buffa [Moby Dick è anche questo], una storia inammissibile, scombinatissima, che sembra tutta sbagliata. Melville coltiva la “sapienza poetica e filosofica”, s’attarda a comporre cataloghi scientifici [che bisogna avere la pazienza di leggere perché istruttivi e ricchi di allegorie], riporta in continuazione citazioni classiche e mitologiche [delle quali bisogna risalire alla fonte per gustarne il senso metaforico e la lettura di Moby Dick fa ben capire che cosa significhi utilizzare la Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura], introduce personaggi stupendi senza tuttavia svilupparne tutte le potenzialità e mescola i generi letterari: quello realistico e con quello fantastico, quello narrativo con quello teatrale.

   Questo romanzo è feroce ed è gentile, è stato definito un’opera uterina, ondeggiante, tutta avvolta nella placenta del mare, ed è un’opera femminea – nonostante la profusa virilità che si manifesta nei muscoli, nel sudore, negli squartamenti, nei combattimenti, nei discorsi da osteria, nelle fughe dal focolare domestico per meglio rimpiangerlo – perché in Moby Dick, nonostante la loro totale assenza, le donne sono figure incombenti. Anche Moby Dick è maschio, per meglio incarnare la potenza, la grandezza fisica e la forza e, forte della sua superiorità corporea, attacca, ma più spesso fugge per farsi inseguire sul suo terreno, ed è stato Cesare Pavese [il grande traduttore in italiano di quest’opera] a farci notare che «Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e perciò Achab e il suo Nemico formano una paradossale coppia di inseparabili», e ci si può sbizzarrire a scoprire nel testo di Moby Dick i dualismi contrastanti: Uomo-Natura, Male-Bene, Terra-Acqua, Materiale-Spirituale, Maschile-Femminile, Yin e Yang, e si scopre che lo scrittore ridicolizza e ribalta questi stereotipati contrasti che sono il frutto delle nostre interpretazioni perché [sostiene Melville] la Natura li ignora questi antagonismi.

   Il personaggio ideale di Melville è Ismaele, un marinaio che può remare coi colleghi illetterati mezza giornata dietro a un capodoglio e che poi si ritira sulla testa d’albero a meditare sui Dialoghi di Platone, ed è un bianco che simpatizza per i “negri” e gli “indiani”, è un cattolico che accetta tranquillamente l’idolatria del suo amico cannibale, è un newyorkese che ritiene le altre culture [le fantasie presenti in tutte le culture] assolutamente pari alla sua. Ismaele è un maschio che descrive con grande dolcezza l’amicizia e il contatto fisico fra un bianco e un nero, fra un uomo e un altro uomo. Melville è uno scrittore che, nel secolo del realismo, sente il bisogno di iniziare il suo grande romanzo scoprendo subito le carte della finzione e dell’incerta identità con un incipit che è fra i più semplici e tra i più spettacolari della Storia della Letteratura: «Chiamatemi Ismaele.». Leggiamolo insieme l’incipit di Moby Dick o la balena, leggiamo il primo capitolo di questo romanzo che s’intitola Miraggi. Di quali “miraggi” si tratta? La parola “miraggio” richiama il “deserto”, il deserto fa venire in mente “l’acqua”, l’acqua sgorga da una “fonte” e la fonte richiama “Ismaele”, Ismaele porta alla Genesi e la Genesi rimanda all’inizio.

LEGERE MULTUM….

Herman Melville, Moby Dick o la balena   Capitolo I

MIRAGGI

Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa - non importa sapere con precisione quanti - avendo in tasca poco o punto denaro e, a terra, nulla che mi interessasse in modo particolare, pensai di andarmene un po’ per mare, a vedere la parte del mondo ricoperta dalle acque. È uno dei miei sistemi per scacciare la tristezza e regolare la circolazione del sangue. Ogni qualvolta mi accorgo che la ruga attorno alla mia bocca si fa più profonda; ogni qualvolta c’è un umido tedioso novembre nella mia anima; ogni qualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, davanti alle agenzie delle pompe funebri o dietro a tutti i funerali che incontro; e, specialmente, ogni qualvolta l’insofferenza mi possiede a tal punto che io devo far appello ad un saldo principio morale per trattenermi dal discendere in strada e buttar giù metodicamente il cappello di testa ai passanti, giudico allora che sia venuto il momento di prendere il mare al più presto possibile. Questo è il mio modo di sostituire la pistola e le pallottole. Con un fiorito filosofare Catone [l’Uticense] si gettò sulla spada; io, con calma, mi imbarco.

In ciò non vi è nulla di sorprendente. Quasi tutte le persone, se appena ci pensassero, una volta o l’altra, ciascuna secondo la propria natura, proverebbero sentimenti pressoché simili ai miei nei confronti dell’oceano.

Eccovi ora la città insulare dei manhattanesi, racchiusa dalla sua cintura di banchine come le isole indiane lo sono dalle scogliere di corallo. Il commercio la circonda con la sua risacca. A destra e a sinistra le strade vi portano fino all’acqua.

Il suo punto più avanzato è la Batteria, la cui nobile mole è bagnata dalle onde e rinfrescata dalle brezze che poche ore prima erano fuori vista da terra. Guardate laggiù tutta quella gente che contempla l’acqua. Gironzolate per la città in un sognante pomeriggio domenicale. Andate in giro. Che cosa vedete? Immobili, come silenziose sentinelle, tutt’intorno alla città, stanno migliaia e migliaia di mortali perduti in fantasticherie oceaniche. Alcuni si appoggiano alle palizzate, altri stanno seduti sulle testate dei moli, altri guardano oltre le murate di navi provenienti dalla Cina, ed altri infine, in alto, tra il sartiame, come se si sforzassero di vedere il mare il meglio possibile. Ma queste sono tutte persone di terra; i giorni della settimana li passano tra assi ed intonaco, legati ai banchi, inchiodati ai sedili, agganciati alle scrivanie. E allora, questo, come si spiega? Sono scomparsi i verdi campi? Che fanno qui costoro?

Ma guardate! Viene altra gente che cammina dritta verso l’acqua, come se volesse tuffarvisi. Strano! Nulla li accontenta se non la linea del bagnasciuga; andare a zonzo all’ombroso riparo di quei magazzini laggiù non è sufficiente. No. Essi devono avvicinarsi quanto più possono all’acqua, senza cadervi dentro. E là rimangono, a migliaia, in lunghissima fila. Continentali tutti, calano da viottoli e sentieri, da strade e viali, dal nord, dall’est, dal sud e dall’ovest. E qui si ritrovano. Ditemi: è forse il potere magnetico degli aghi delle bussole di tutte quelle navi ad attirarli? Ed ancora, ditemi: voi siete in campagna, su un altopiano punteggiato di laghi; prendete qualsiasi sentiero vi piaccia e, dieci volte contro una, vi condurrà giù, lungo una valle e vi lascerà ad uno slargo del fiume. C’è qualcosa di magico in questo. Prendete la persona più distratta, immersa nelle sue più profonde fantasticherie; mettetela dritta, fategli muovere i piedi ed ella infallibilmente vi guiderà all’acqua, se acqua c’è, da qualche parte, in quella regione. Fatelo, questo esperimento, se mai, nel grande deserto americano, vi debba accadere di aver sete, sempre che la vostra carovana sia fornita di un professore di metafisica. Sì, come tutti sanno, acqua e meditazione sono sposati per sempre.

Ma qui c’è un artista. Egli desidera dipingervi il più sognante, ombroso, tranquillo, incantevole tratto di romantico paesaggio di tutta la valle del Saco. Qual è il motivo principale cui egli ricorre? Qui mette i suoi alberi, ciascuno con il suo bravo tronco cavo, come se vi fossero dentro un eremita e un crocifisso; e lì distende il suo prato e là fa riposare il suo armento e da una casetta lassù fa levare un fumo sonnacchioso.

Nell’ombra cupa di un bosco lontano si snoda, appena abbozzata, una strada sino ad una fuga di catene montane, dagli azzurri versanti sfumati. Ma sebbene il quadro si stenda così idilliaco e sebbene questo pino lasci piovere i suoi sospiri, come foglie, sul capo di un pastorello, pure, tutto sarebbe vano se gli occhi del pastore non guardassero fissi la magica corrente che gli sta dinanzi. Andate a visitare le Praterie in giugno, quando per ventine e ventine di miglia avanzate a fatica fra i gigli tigrati alti fino al ginocchio; qual è l’unico ristoro che si desideri? L’acqua. Non v’è goccia d’acqua laggiù! Se quelle del Niagara non fossero che cascate di sabbia, fareste un viaggio di mille miglia per andarle a vedere? Perché mai il povero poeta del Tennessee, avendo ricevuto inaspettatamente due manciate d’argento, si pose il dilemma se comprare una giacca, di cui aveva tristemente bisogno, o investire il suo denaro in un viaggio a piedi fino alla spiaggia di Rockaway? Perché quasi tutti i ragazzi robusti che abbiano uno spirito sano e vigoroso, prima o poi impazziscono per andare in mare? Perché, al vostro primo viaggio come passeggero, sentiste una specie di mistica vibrazione non appena vi dissero che voi e la vostra nave eravate fuori vista da terra? Perché gli antichi persiani consideravano santo il mare? Perché i greci gli attribuirono un proprio dio e per di più fratello di Zeus.

Sicuramente tutto ciò non è senza significato. Ed ancora più profondo è il significato di quella storia di Narciso il quale, non potendo afferrare la tormentosa, dolce immagine che vedeva nella fonte, vi si tuffò ed annegò. Ma quella medesima immagine noi stessi la vediamo in ogni fiume e oceano. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; che è a chiave di tutto.

Ora, se dico che ho l’abitudine di imbarcarmi ogniqualvolta comincio ad avere un po’ di nebbia davanti agli occhi ed a sentirmi i polmoni, non voglio con questo dire che mi metto sempre in mare come passeggero. Per navigare come passeggero è necessaria una borsa, e una borsa non è altro che uno straccio se non ci avete dentro qualcosa. Inoltre i passeggeri soffrono il mare, diventano litigiosi, non dormono di notte, non si divertono molto, in generale; no, io non vado mai come passeggero; né, sebbene io abbia la stoffa del marinaio, mi imbarco mai come commodoro, o capitano o cuoco. Lascio la gloria e la distinzione di tali incarichi a chi li desidera. Per parte mia, aborro tutte le fatiche, prove e tribolazioni, onorevoli e rispettabili, di qualunque genere esse siano. E proprio come dire che quanto più posso prendo cura di me stesso e non di navi, brigantini, tre alberi, golette o che so altro. E quanto all’andare come cuoco - sebbene riconosca che ciò sia notevolmente glorioso perché il cuoco a bordo è una specie di ufficiale – pur tuttavia, non mi sono mai sognato di arrostire polli; per quanto, nessuno più di me parlerà con maggior rispetto, per non dire reverenza, di un pollo, una volta arrostito, sapientemente unto e pepato a regola. Ed è a ragione dell’esaltazione idolatra degli antichi egiziani per l’ibis in gratella e l’ippopotamo arrosto che voi siete in grado di vedere nei loro forni enormi, le piramidi, le mummie di questi animali. No, quando vado per mare, ci vado come semplice marinaio, dritto davanti al cassero o calato giù nel castello di prua o arrivato lassù, sull’albero maestro. Sì, è vero, ricevo parecchi ordini e mi fanno saltare da un albero all’altro come un grillo in un campo di maggio. E, a tutta prima, questo genere di cose è abbastanza spiacevole. Vi tocca il senso dell’onore, specie se provenite da una vecchia famiglia terriera. Soprattutto se, poco prima di immergere la vostra mano nella marmitta del catrame, avete spadroneggiato come maestro di scuola, al paese, costringendo anche i più alti tra i ragazzi a star impalati dinanzi a voi e pieni di timore. Brucia, ve l’assicuro, il passaggio da maestro di scuola a marinaio e richiede un forte decotto di Seneca e di stoicismo per rendervi in grado di riderci sopra e sopportarlo. Ma anche questo, col tempo, passa.

E che importa se qualche capitano di mare vecchio e spilorcio mi ordina di prendere una scopa e spazzare sopra coperta? Che cosa conta, voglio dire, questa indegnità se pesata con la bilancia del Nuovo Testamento? Chi non è schiavo? Ditemelo. Bene, allora, qualunque ordine mi possa dare il vecchio capitano, comunque mi si possa battere e prendere a pugni, io ho la soddisfazione di sapere che tutto ciò è per il bene: che inoltre, tutti, in un modo o nell’altro, siamo serviti alla stessa maniera, da un punto di vista, cioè, sia fisico che metafisico; e così viene per tutti il turno delle botte e tutti dovrebbero strigliare le scapole agli altri e star contenti.

Inoltre, vado sempre per mare come marinaio, perché così hanno da pagarmi il disturbo, mentre non hanno mai pagato ad un passeggero un solo scellino, che io sappia. Al contrario, sono proprio i passeggeri che devono pagare: ed ecco tutta la differenza che c’è al mondo tra il pagare e l’essere pagati. L’atto di pagare è forse la punizione più sgradevole che i ladri del frutteto ci hanno lasciato in eredità. Ma essere pagati, cos’altro al mondo può eguagliarlo? La compìta solerzia con la quale una persona riceve denaro è realmente meravigliosa, considerando con quanta serietà crediamo che il denaro sia la radice di ogni male sulla terra e come in nessun modo una persona danarosa possa entrare in paradiso. Ah! Con quanta allegrezza ci gettiamo alla perdizione!                            

Ed infine io vado sempre per mare come marinaio a cagione del sano esercizio e dell’aria pura che si respira sul ponte di prua. Dato che a questo mondo i venti di prua prevalgono su quelli di poppa (sempre che non violiate la massima pitagorica), avviene, nella maggior parte dei casi, che il commodoro sul cassero goda la sua aria passatagli di seconda mano dai marinai del castello di prua. Egli crede di respirarla per primo; ma non è così. In modo assai simile i popoli guidano i propri capi in molte faccende, mentre questi nemmeno lo sospettano. Ma perché mai io, dopo aver più volte fiutato l’odore del mare in qualità di marinaio mercantile, mi sia ora cacciato in testa di mettermi in viaggio a caccia di balene, a questo, l’invisibile poliziotto delle Parche che ha la costante sorveglianza su di me e segretamente mi pedina e m’influenza in modo inesplicabile, a questo egli può rispondere meglio di chiunque altro. E, senza dubbio, la mia partenza per questo viaggio nella baleniera faceva parte del grandioso programma, tracciato da gran tempo dalla Provvidenza. Io penso che quella parte del promemoria delle tre suddette misteriose Signore dovesse suonare pressappoco così:

Grande lotta elettorale per la presidenza degli Stati Uniti.

Viaggio a caccia di balene di un certo Ismaele.

Sanguinosa battaglia in Afghanistan.

Benché io non possa dire con precisione perché quelle impresarie teatrali che sono le Parche mi abbiano imposto una parte così meschina qual è un viaggio a caccia di balene, mentre ad altri furono affidate magnifiche parti in grandi tragedie, oppure facili e brevi particciole in commedie garbate e ruoli buffi in farse; benché io non possa dire esattamente per qual motivo ciò accadde, tuttavia, ora che ripenso a tutte le circostanze, credo di poter vedere un po’ più chiaro tra gli impulsi e le ragioni che mi furono presentati artificiosamente sotto vari travestimenti e mi indussero a recitare la parte che effettivamente recitai, accalappiandomi per di più con l’illusione che si trattasse di una scelta del mio libero arbitrio e della mia facoltà di giudizio.

La principale, tra queste ragioni, era l’idea ossessionante della grande balena, in sé e per sé. Un mostro così portentoso e misterioso destava tutta la mia curiosità. Poi, i mari lontani e tempestosi dov’essa rigira la sua mole, simile a un’isola; i pericoli senza nome della caccia; tutto questo, unito alla prospettiva meravigliosa di innumerevoli immagini e suoni della Patagonia, contribuiva a spingermi sempre più verso il mio desiderio. Per altre persone, forse, queste cose non sarebbero state di incitamento; ma, quanto a me, sono tormentato da una smania perenne di cose remote. Amo veleggiare per mari proibiti e prender terra su coste barbariche. Non ignorando ciò che è buono, io sono lesto a rendermi conto di ciò che è orribile e pur tuttavia gli faccio buon viso - sempre che mi sia concesso -, dato che è soltanto una buona regola essere in rapporti di amicizia con tutti i nativi del luogo ove si dimora.

Per queste cose, il viaggio a caccia di balene fu allora il benvenuto; si alzavano le grandi chiuse del mondo meraviglioso e, nel tumulto di idee che mi inducevano a tale proposito, due, particolarmente, mi aleggiavano nel più profondo dell’animo: processioni senza fine di balene e, proprio in mezzo a tutte, un grande fantasma incappucciato, simile a una montagna di neve, nell’aria.

   Faremo ancora, prima di concludere questo itinerario, alcune considerazioni su “Moby Dick” e ne leggeremo nuovamente un frammento. Ora dobbiamo tornare sul nostro sentiero specifico e intraprendere il cammino sulla scia dei dati “significativi [storici e leggendari]” inerenti alla biografia di Muhammad.

   E, in proposito, abbiamo dei dati che le studiose e gli studiosi di filologia considerano “significativi” per la conoscenza di questo personaggio, sono elementi che nel testo del Corano risultano di carattere “autobiografico” e corrispondono ad affermazioni che riguardano le esperienze di vita di Muhammad: queste asserzioni sono state vagliate con varie “metodologie filologiche [di carattere decostruzionista]” per accertare il tasso del loro valore storico.

   Il primo dato che riguarda la biografia di una persona è senz’altro la sua data di nascita. Quando è nato Muhammad? Noi abbiamo citato già più volte una data in proposito: l’anno 570. Sul testo del Corano c’è un unico accenno ad una eventuale data e questo accenno è contenuto nel passo della X. La sura di Giona al versetto 16. Nella X. La sura di Giona al versetto 16 si legge: «Se Dio avesse voluto, io non vi avrei recitato questa Scrittura [non avrei fatto questa recitazione, qu’ran], non ve l’avrei fatta conoscere. E del resto, prima, sono rimasto in silenzio per tutto il tempo in cui una persona [‘umr] raggiunge la maturità fra voi. Non comprendete?». Questo versetto dice che Muhammad, prima di iniziare la recitazione [Qu’ran] del Corano è rimasto in silenzio per la durata del tempo necessario alla persona [‘umr]” per il “raggiungimento della maturità”, quindi, la domanda che ci dobbiamo porre è: quanti anni deve avere una persona, secondo la Letteratura del Corano [secondo la cultura araba e anche ebrea], per raggiungere la maturità? Le studiose e gli studiosi di filologia affermano che la risposta la troviamo in un altro passo, nella XLVI. La sura di Al-Ahqaf [le dune] al versetto 15 dove si legge: «E Noi abbiamo prescritto ad ogni essere umano bontà verso i suoi genitori: lo portò sua madre in seno a fatica e lo ha partorito a fatica e trenta mesi durano la sua gestazione e il suo svezzamento, finché, quando abbia raggiunto la maturità e abbia raggiunto i quarant’anni, egli dica: Signore, permettimi che ti ringrazi per la grazia che hai concesso a me». Quindi, secondo la Letteratura del Corano, la maturità della “vita di una persona [‘umr]” si raggiunge all’età di quarant’anni.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dov’eravate, che cosa facevate e a che cosa pensavate all’età di quarant’anni?

Scrivete quattro righe in proposito…

Le persone che tra noi hanno la fortuna di non aver ancora compiuto quest’età sarebbero esentate da questo compito tuttavia possono fare un pronostico [guardare al futuro, ai propri quarant’anni] e quindi tutte e tutti noi possiamo scrivere quattro righe in proposito

   Di conseguenza, se accettiamo questi dati, Muhammad sarebbe stato “risvegliato alla vita spirituale, all’idea del divino” verso i quarant’anni. La compilazione biografica della “Sira [la vita-modello del Profeta]” tramanda che Muhammad inizia la sua missione pubblica nell’anno 612. E, se questa data, il 612, corrisponde, secondo la tradizione, all’inizio dell’attività pubblica del Profeta, di conseguenza la data di nascita di Muhammad la dovremmo collocare nel 572 [612 – 40 = 572].  Naturalmente in molte tradizioni apocrife [in molti hadit] vengono proposte altre date che spostano la nascita del Profeta fino al 567 o al 569 e questo avviene per esigenze mitiche e liturgiche. Però, sempre sul testo della “Sira [la vita-modello del Profeta]” di Ibn-Ishaq, leggiamo che: «Il Profeta è nato nell’anno dell’Elefante». E, secondo la tradizione, l’anno dell’Elefante corrisponde al 570. Che cosa significa? Che cos’è “l’anno dell’Elefante”? Non possiamo rispondere adesso a questa domanda perché è necessario percorrere un lungo cammino per affrontare questo tema e ce ne occuperemo prossimamente [fra tre itinerari, all’inizio di marzo]. Nell’itinerario di questa sera stiamo evocando animali di grandi proporzioni: la balena, l’elefante.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quando e dove avete visto da vicino un elefante?...

Scrivete quattro righe in proposito ...   

E una balena o, per meglio dire, un cetaceo l’avete visto dal vero?...

È stato creato [e lo sapete senz’altro] un “Santuario dei cetacei” che si chiama “Pelagos” e comprende la parte settentrionale del Mar Tirreno e il Mar Ligure, e la Toscana [l’Arcipelago toscano] ne è parte integrante: se vi collegate alla rete potete entrare in contatto con “l’Osservatorio Toscano dei Cetacei”, e osservare le principali specie di mammiferi marini che si possono incontrare nel mare toscano  Fatevi chiamare Ismaele, e navigate

   Dobbiamo puntualizzare che ufficialmente la cultura islamica fa coincidere la nascita di Muhammad con l’anno 570 e, per tradizione, si ritiene che abbia iniziato la sua vita pubblica a quarant’anni, nel 612, e se dovessimo fare i calcoli dovremmo dire che tra il 570 e il 612 ci sono quarantadue anni ma non ci si deve formalizzare: lo sappiamo che la “storia” e la “tradizione” si sovrappongono sempre in un gioco culturale e intellettuale molto affascinante, in funzione letteraria.

   Sulla nascita di Muhammad – come sulla nascita di tutti i personaggi significativi dell’antichità che abbiamo incontrato in questi decenni – non abbiamo dati anagrafici, non c’era l’anagrafe a La Mecca, né in altri posti, ed è un momento storico questo [l’Alto-medioevo] in cui la scarsa precisione nel computo dell’età delle persone è un dato di fatto generalizzato [sarà così fino al 1700]. Diciamo subito che nella vita di Muhammad – come personaggio pubblico – ci sono due date storiche “certe” [e questo non è poco], e sono la data della Emigrazione a Medina [Ègira] nell’anno 622 e la data della sua morte, il 632, e di questi due avvenimenti ce ne occuperemo a suo tempo.

   Per leggere il testo del Corano è opportuno utilizzare il metodo “biografico”, è utile seguire la scia degli avvenimenti [storici e leggendari] della vita di Muhammad perché il testo del Corano, come abbiamo già detto, è stato messo in ordine in modo “disordinato” e questo paradosso – che riguarda anche la Letteratura dell’Antico Testamento, quella dei Vangeli, quella dei Libri dei Veda [la Sapienza indiana], e via dicendo – non facilita le cose ma non blocca l’esercizio della lettura. Queste opere e, in particolar modo il Corano, sono state “messe in ordine” in modo piuttosto macchinoso [per motivi letterari, storici, antropologici, politici, liturgici], e per superare questa “complicazione [la complessità con cui il testo è stato costruito]” è necessario utilizzare delle “chiavi di lettura introduttive”, ma il rischio è che ci si dilunghi troppo sulle “chiavi introduttive” prima di leggere il testo, e c’è il pericolo che non si finisca più di introdurre. Per trovare un equilibrio tra le necessarie “esigenze introduttive” e la doverosa “lettura del testo” è utile procedere per “categorie culturali”. Quindi noi utilizziamo la categoria “biografica” del Profeta [leggeremo una serie di brani significativi seguendo gli avvenimenti della vita di Muhammad] in parallelo con la categoria della “formazione intellettuale” del Profeta: seguiremo queste due categorie culturali, l’azione e la formazione [che inevitabilmente s’intrecciano], per prendere contatto con la Letteratura del Corano.

   Comunque noi abbiamo già preso contatto con il testo del Corano dalla scorsa settimana per riflettere sulle parole: “Abramo, Ismaele e Ka’ba”, parole che riguardano la formazione culturale del Profeta. E ora, per continuare sistematicamente a stabilire un contatto con quest’opera, dobbiamo procedere domandandoci come inizia il testo del Corano [a questo dato abbiamo già fatto accenno la scorsa settimana]: qual è l’incipit? Anche l’incipit del Corano è comprensibile alla luce della categoria della “formazione intellettuale” del Profeta.

   Il testo del Corano inizia [lo abbiamo già ricordato] con una sura che si chiama “l’Aprente [Fātiha]”. Prima di leggerne il testo facciamo alcune considerazioni necessarie, ma, dopo che avremo letto questo pezzo di letteratura mistica, dovremo prendere atto che non si tratta di cultura “altra” ma di parole e idee tradizionalmente appartenenti alla nostra cultura. La “sura Aprente”, malgrado la sua brevità – sette versetti [e noi sappiamo che il testo del Corano è stato ordinato dalla sura più lunga a quella più corta] –, è stata tuttavia messa al primo posto per ragioni devozionali: è una Preghiera canonica con la quale cominciano, si “aprono”, tutti gli atti della vita e della cultura islamica. L’inizio di questa sura: «Nel nome di Dio [Bismi’llah] clemente [rahman], misericordioso [rahim]!» lo troviamo all’inizio di tutte le sure [meno la IX]. Questo testo è un bellissimo inno di lode a Dio, e lo stile è quello della Letteratura sapienziale e poetica dell’Antico Testamento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

“Clemenza” e “misericordia” sono due parole [tra retorica e speranza] molto evocative...      Scrivete, in una frase, quale situazione vi fanno venire in mente la clemenza e la misericordia...

   E ora leggiamo il testo della “sura Aprente”.

LEGERE MULTUM….

I. La sura Aprente [Fātiha]

Nel nome di Dio [Bismi’llah], clemente [rahman] misericordioso [rahin]!

Sia lode a Dio, il Signore del Creato, il Clemente, il Misericordioso,

il Padrone del giorno del Giudizio! Te noi adoriamo,

Te invochiamo in aiuto: guidaci per la retta via, la via di coloro sui quali

hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato,

la via di quelli che non vagolano nell’errore!

   Anche senza l’intervento delle studiose e degli studiosi di filologia, ma semplicemente con le nostre semplici competenze, noi capiamo che Muhammad conosce bene i Salmi dell’Antico Testamento e li usa per pregare, per meditare e per riflettere. E, a questo proposito, leggiamo ora tredici versetti del Salmo 145 [144] per renderci conto attraverso quali generi letterari passi la formazione intellettuale di Muhammad: i nostri stessi generi letterari.

Libro dei Salmi    145 [144]   8-21

Il Signore è bontà e misericordia, è paziente, costante nell’amore.

Il Signore è buono con tutti, ha misericordia per ogni creatura.

Ti lodino, Signore, tutte le creature, rendano grazie tutti i tuoi fedeli.

Annunzino il tuo regno glorioso, parlino a tutti della tua potenza.

E ogni persona conoscerà le tue imprese, la gloria e lo splendore del tuo regno.

Il tuo regno è un regno eterno, il tuo potere dura nei secoli.

Il Signore è fedele alle sue promesse, misericordioso nelle sue opere.

Sostiene chi sta per cadere, rialza chi è abbattuto.

Gli occhi di tutti sono fissi su di te e tu doni il cibo a tempo opportuno.

Apri la tua mano generosa e sazi ogni vivente.

Il Signore è giusto in tutto, buono in ogni sua azione.

È vicino a chiunque lo invoca, a chi lo cerca con cuore sincero.

Non delude le attese di chi gli è fedele, ascolta il loro grido e li salva.

Il Signore veglia su quanti lo amano, ma distrugge tutti i malvagi.

Canti la mia bocca le lodi del Signore e ogni creatura benedica Dio, per sempre.

   Nell’incipit della Letteratura del Corano, così come nei testi del Libro dei Salmi, domina l’idea della “speranza” ed è facile notare come i sette versetti della “sura Aprente” siano radicati nel testo del Salmo 145 [144].

   La narrazione della storia dei primi quarant’anni della vita di Muhammad è legata [abbiamo detto] ad un’enorme raccolta di “racconti mitici e leggendari”, gli “hadit [in arabo]”, scritti nei decenni successivi alla sua morte con lo stesso stile con cui è stata composta la Letteratura dei Vangeli apocrifi. Adesso noi sappiamo anche [lo abbiamo studiato poco fa] che la più antica compilazione di racconti [di hadit] è intitolata “Sira” che significa “vita-modello del Profeta”: la “Sira” dà origine a quella che si chiama la “tradizione islamica”. E tutto ciò che viene narrato su Muhammad in questi racconti è sempre preceduto dalla dicitura: “secondo la tradizione”, perché ciò che viene tramandato dagli “hadit”, di solito, non è scritto nel Corano.

   E, allora, quali dati significativi, secondo la tradizione, possediamo sulla vita di Muhammad? Prima di tutto dobbiamo dire che la tradizione islamica ha affrontato il “tema genealogico”: l’argomento del catalogo degli antenati di Muhammad. La tradizione islamica degli “hadit [i racconti sulla vita del Profeta]” ha costruito delle complesse “genealogie” di Muhammad fino a farlo arrivare ad Adamo, fino a farlo diventare discendente e parente di Adamo, e anche questa è un’operazione compiuta ad imitazione della Letteratura dell’Antico Testamento. Nella Letteratura dell’Antico Testamento le “genealogie [tôledôt]” sono un genere letterario che serve per descrivere la “creazione”, per “risalire a Dio”: noi troviamo sempre la “genealogia” dei principali personaggi [lui era figlio di ... che era figlio di ... che era figlio di ... fino ad arrivare nelle vicinanze di Dio, presso la fonte della creazione]. La “genealogia” [questo tema lo abbiamo studiato attraversando il territorio della “sapienza poetica beritica”, nell’anno scolastico 2007-2008] è un procedimento, caro alle tribù nomadi e alle società patriarcali, secondo il quale si cerca di fissare nell’archivio mobile della memoria collettiva [grazie a quel calcolatore che è la tradizione orale] l’albero genealogico della propria stirpe come fattore fondamentale di identità sociale.

   Per capire questo concetto – e per riflettere sul tema delle “genealogie” di Muhammad secondo la tradizione islamica – è utile puntare l’attenzione sul capitolo 5 del Libro della Genesi. Gli autori del Libro della Genesi, nel capitolo 5, fanno il riassunto dei capitoli precedenti e il testo di questo capitolo è una “genealogia”, la prima genealogia di tutta una serie, e racconta ancora una volta [perché già è stata raccontata due volte nei capitoli precedenti] la creazione dei progenitori. La genealogia del capitolo 5 del Libro della Genesi è come se fosse una cerniera che unisce insieme il personaggio di Adamo con quello di Noè [due figure che non passano inosservate] e ha dunque la funzione di raccordare la “sequenza del Principio” [i primi quattro capitoli della Genesi], con la “sequenza del diluvio” [narrata dal capitolo 6 al capitolo 11 del Libro della Genesi].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate ad osservare [o a riosservare] sulla vostra Bibbia questa struttura formale: sfogliate le pagine [sono sei pagine] che contengono i primi undici capitoli del “Libro della Genesi” e leggete i titoli dei vari paragrafi per avere chiaro il quadro evolutivo del racconto al cui centro c’è la prima “genealogia” biblica …

   Dopodiché, se puntate l’attenzione sul testo di questo “modello di genealogia” contenuto nel capitolo 5 del Libro della Genesi trovate il riepilogo della “creazione dell’Uomo” e poi l’elenco [la prima genealogia] dei “discendenti del primo essere umano”, e incontrate un catalogo di nomi di personaggi mitici [alcuni molto noti: Adamo, Set, Enos, Kenan, Maalaleel, Iared, Enoc, Matusalemme, Lamech e Noè che genera Sem, Cam e Iafet]: questi personaggi [questi mitici patriarchi] sono i protagonisti di saghe antiche tramandate oralmente [con filastrocche, ballate, canzoni di gesta] delle quali gli scrivani utilizzano l’eco proveniente dalle antiche tradizioni delle tribù cananee. Gli autori conservano il dato, sproporzionato, dell’età dei protagonisti [che hanno centinaia di anni, il più vecchio è Matusalemme che vive 969 anni] e sappiamo che questi “archi di tempo” rappresentano una dimensione temporale mitica ma la tesi delle studiose e degli studiosi di filologia è che la “genealogia”, assumendo la forma di una “filastrocca” [ricordiamoci che la Letteratura biblica - così come quella del Corano - viene scritta innanzi tutto per essere cantata oltre che per essere letta], utilizzi i numeri in senso poetico, in funzione del ritmo [della rima] da dare al verso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Seguendo la scia di queste indicazioni andate a leggere il capitolo 5 del “Libro della Genesi” dal versetto 1 al versetto 32 per cogliere in questo testo il ritmo della filastrocca caratteristico del genere della “genealogia… 

   Nella Letteratura dei Vangeli poi troviamo le “genealogie” di Gesù di Nazareth che deve essere riconosciuto come discendente del re Davide [il Messia - secondo la tradizione - è figlio di Davide], e il testo del Vangelo secondo Matteo inizia proprio con una genealogia: un brano formidabile dal punto di vista letterario anche perché vengono citate quattro donne [quattro antenate del Messia] che rappresentano quattro grandi personaggi dell’Antico Testamento la cui storia è molto accattivante. E noi ci siamo divertiti, a suo tempo, a studiare questi argomenti!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a rileggere i primi 17 versetti del primo capitolo del “Vangelo secondo Matteo” e individuate anche le quattro antenate del Messia…

Tutte e tutti noi abbiamo una genealogia che, in teoria, parte da Adamo, passando per Abramo, anche se, di solito, non riusciamo ad andare molto indietro nella conoscenza dei nostri antenati…

   E, quindi, anche il Profeta dell’islàm, secondo la tradizione, ha le sue “genealogie”, costruite nel tempo, in stile biblico, da devoti esegeti che si preoccupano di far avvicinare il più possibile il Profeta ad Adamo, per farlo avvicinare il più possibile a Dio. Ci sono centinaia di genealogie del Profeta [e quasi tutti gli esegeti vogliono anche farlo passare attraverso la loro famiglia], ma oggi, le studiose e gli studiosi islamici danno a queste “genealogie” il valore di “esercitazioni leggendarie” perché il fatto importante è che nel testo del Corano non ci sono genealogie del Profeta.

   Un altro dato significativo che possediamo sulla vita di Muhammad è che – secondo la tradizione – sarebbe appartenuto alla grande e potente tribù dei Coreisciti [Quraish], i signori de La Mecca, ma questo dato fa nascere una contraddizione [un’aporia] dalla quale scaturiscono alcuni importanti temi su cui è necessario riflettere. La contraddizione sta nel fatto che i primi anni della vita di Muhammad, gli anni della sua infanzia, sono descritti – sempre dalla tradizione e anche dal testo del Corano – come un periodo di grande povertà e indigenza: anni molto duri, difficili, da vivere con grande forza d’animo. E questo fatto contrasta con l’appartenenza ad una grande e potente tribù e, difatti, le studiose e gli studiosi si domandano se Muhammad fosse un membro effettivo della tribù dei Quraish oppure se sia stato adottato: era forse un trovatello affiliato [come garzone] alla tribù dei Coreisciti? Dal punto di vista “storico” non abbiamo nessuna notizia certa, e che cosa dicono gli “hadit”, che cosa si legge nell’enorme raccolta di racconti sulla vita del Profeta? La tradizione islamica cerca di “conciliare” le due situazioni: quella del Muhammad membro della potente tribù coreiscita con quella del Muhammad bambino povero, indigente, economicamente debole. Nei racconti della tradizione, negli hadit, si legge che il padre di Muhammad, Abdallah, sarebbe morto prima della nascita del figlio e la madre Amina, che al momento della nascita del futuro Profeta avrebbe avuto miracolose visioni di gloria, sarebbe morta quando Muhammad aveva sei anni. Quindi, tutta la tradizione prevede, per Muhammad, la condizione di “orfano”: e questa diventa una parola-chiave nella Letteratura del Corano. E di questo tema – sul quale dobbiamo imbastire un articolato ragionamento – ce ne occuperemo nel prossimo itinerario.

   E ora, sulla scia della parola “orfano”, dobbiamo tornare a Moby Dick per dire che il romanzo si conclude proprio con questa parola-chiave: “orfano”. Ma quante interessanti combinazioni si trovano sulla scia della didattica della lettura e della scrittura!

   La trama avventurosa del romanzo di Herman Melville intitolato Moby Dick o la balena ormai la conoscono tutti [anche per merito del cinema, del teatro e delle arti in generale]. Ciò che di questo romanzo deve interessare la lettrice e il lettore sono soprattutto le “riflessioni esistenziali”, a cominciare dal fatto [sostiene Melville] che la vastità terrorizza, sia quella del deserto di sabbia che quella del mare: anche il mare è un deserto, un deserto d’acqua nel quale, paradossalmente, si muore di sete allo stesso modo che nel deserto di sabbia e sassi.

   Noi, sostiene Melville, sentiamo di poter spadroneggiare su ciò che è piccolo, su ciò che è a grandezza d’uomo, ma ciò che è più lungo, più largo e più alto di noi ci spaventa, e le balene, semplicemente esistendo, sostiene Melville, fanno vacillare la nostra identità auto-compiaciuta e le guardiamo con uno sgomento fatto di dubbio, di ammirazione e di stupore. «Vedere una balena, sostiene Melville, non è come vedere un passero sull’albero di una città o un gatto che attraversa la strada. Le balene esistono al di là del normale e, sostiene Melville, possiedono una qualità non tanto animale quanto geografica; se non si muovessero sarebbe addirittura difficile credere che siano vive». Gli antichi racconti [scrive Melville] narrano di isole che si rivelano essere balene che divorano imbarcazioni e viaggiatori e Ludovico Ariosto [ci ricorda Melville] ne L’Orlando furioso [1532] rievoca quest’incubo e racconta di una balena così enorme «ch’ella sia una isoletta ci credemo / Così distante ha l’un dall’altro estremo».

   L’uomo-antogonista delle balene è il capitano Achab che tenta di uccidere “l’immenso biancore” senza rendersi conto [sostiene Melville] che la balena è “lo specchio profetico e rovesciato delle sue tenebre interiori” e Melville è consapevole di rappresentare anche l’immagine del mostro [il Leviatano biblico] che porta «il retaggio delle nostre colpe». «Solo una creatura simile [scrive Melville] può conferire al racconto la sua efficacia, e dopo tutto, il romanzo Moby Dick non avrebbe potuto essere scritto a proposito di una farfalla».

   In funzione della didattica della lettura e della scrittura possiamo ora incontrare due figure letterarie emblematiche evocate da Melville: Sinbad il marinaio e Giona il profeta.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Questo è il momento [consiglia Melville] di prendere in biblioteca il libro intitolato “Mille e una notte [Racconti arabi raccolti da Antoine Galland, un’opera che tra sei itinerari incontreremo ancora]” e di leggere o di rileggere il brano intitolato “Storia di Sinbad il marinaio” [sono circa due pagine] e poi di leggere o rileggere il brano intitolato “Primo viaggio di Sinbad il marinaio” [sono circa cinque pagine], inoltre [consiglia Melville] è il momento di leggere o di rileggere il “Libro di Giona” che trovate sulla Bibbia [è un libro lungo quasi tre pagine]...      

Sebbene siano molto piccoli questi testi sono comunque in grado di contenere una balena...   

Questo esercizio è propedeutico per leggere “Moby Dick...

   È molto strano che solo di recente si sia scoperto come sono fatte esattamente le balene e, benché esistano da prima della comparsa della nostra specie, è come se qualcosa ci rendesse incapaci di vederle: troppo grandi, troppo remote, troppo immerse nella profondità del mare. È stato solo dopo aver visto la Terra dallo spazio [chissà che cosa direbbe Melville in proposito!] che è stata ripresa per la prima volta una balena che nuotava liberamente sott’acqua, nel 1984. E ancora oggi non sappiamo molto di questi animali: sappiamo a quali usi sono destinate le diverse parti del loro corpo [dalle candele ai portaombrelli, dalle bistecche ai profumi], sappiamo che il loro cervello è più grande di quello di qualsiasi altra specie, sappiamo che sono dotate di competenze sociali, che scortano gli esemplari malati e proteggono strenuamente i loro piccoli, sappiamo che il loro canto si propaga nelle vastità degli Oceani, crediamo che sappiano giocare, presumiamo che siano capaci di sognare, ma, nulla di tutto ciò ci dice cos’è esattamente una balena.

   E adesso, per concludere, leggiamo la parte finale dell’Epilogo di Moby Dick che termina [come già sappiamo] con la parola “orfano”. Ma prima di leggere dobbiamo ancora una volta – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – fornire una “chiave”. Per non naufragare nel mare di Moby Dick dobbiamo individuare gli scogli rappresentati dalle citazioni mitologiche di cui il testo di Melville è disseminato [dandogli un tono epico] e, siccome il testo non possiede un apparato di note esplicative, si può anche proseguire la lettura come se niente fosse, ignorando il significato delle citazioni, oppure è bene avere a portata di mano un “Dizionario di mitologia” che trovate in biblioteca: l’esercizio della decodificazione delle citazioni è senz’altro fastidioso, comporta pazienza, ma è un’interessante operazione di investimento in intelligenza che arricchisce le nostre competenze di lettrici e di lettori.

   Nel brano finale dell’Epilogo di Moby Dick, che stiamo per leggere, Melville cita il personaggio di “Issione” [è l’ultima citazione mitologica del romanzo]. Chi è Issione? Issione – figlio di Flegia re dei Làpiti [popolo leggendario della Tessaglia] – sposa la ninfa Dia e poi litiga col suocero Deioneo per la dote e lo uccide. Zeus lo perdona perché il padre di Dia gli stava antipatico e lo invita alla tavola degli dèi, ma l’ingrato Issione si mette ad insidiare la dèa Era, la sposa di Zeus. Era racconta a Zeus i turpi propositi di Issione e allora Zeus irato gli manda una nuvola sotto forma di Era e lo coglie nell’atto di abbracciarla e allora lo fa legare mani e piedi a una ruota infuocata nella quale Issione deve girare in eterno. E Ismaele – che, come Melville, è un cultore di mitologia e di antichità classica – rievoca il mito di Issione nel momento in cui sta girando nel vortice creato dalla baleniera che sta inabissandosi trascinata nel profondo da Moby Dick.

   C’è ancora una spiegazione da dare prima di leggere: Ismaele si salva sostenuto da una “bara-gavitello”: di che oggetto si tratta? Il termine “gavitello” è sinonimo di “galleggiante” e il capitolo CXXV [125] del romanzo s’intitola “Il gavitello”, è lungo due pagine e mezza, e leggendolo si capisce nei particolari di che oggetto si tratta. E ora, dopo queste doverose annotazioni, leggiamo il finale di Moby Dick.

LEGERE MULTUM….

Herman Melville, Moby Dick o la balena  Epilogo

Così, galleggiando al margine della scena che ne seguì, e vedendola tutta, quando il risucchio mezzo esaurito della nave che affondava mi raggiunse, io fui trascinato, lentamente però, verso il vortice che si chiudeva. Quando lo raggiunsi, s’era calmato in un lago di spuma. Intorno intorno, allora, e sempre avvicinandomi al bottone nero della bolla, asse di quel cerchio che lentamente ruotava, come un altro Issione, io girai. Finché, raggiungendo quel centro vitale, la bolla nera scoppiò. Allora, liberato per via della molla ben studiata, sollevata con gran forza, a causa della sua estrema galleggiabilità, la bara-gavitello saltò per il lungo fuori dal mare, ricadde, e venne a galleggiare al mio fianco. Sostenuto da quella bara, per quasi tutto un giorno e una notte, io fluttuai su un oceano morbido e simile a un canto funebre. I pescecani disarmati mi si muovevano intorno come se avessero lucchetti alla bocca: i selvaggi sparvieri marini passavano coi becchi inguainati. Il secondo giorno una vela si avvicinò, e finalmente mi raccolse. Era la «Rachele» [un invito a leggere il capitolo 29 del Libro della Genesi] che incrociava fuori rotta, la quale, ritornando sui suoi passi alla ricerca di un figlio perduto, trovò soltanto un altro orfano.

   Con il nome di “Rachele” – anche questa non è una scelta casuale ed è un invito di Melville a leggere il capitolo 29 del Libro della Genesi – e con la parola-chiave “orfano” termina Moby Dick.

   I primi quarant’anni della vita di Muhammad sono i più oscuri e, secondo la tradizione, vengono narrati con molti racconti [hadit] ricchi di tratti leggendari e mitici: chi è il bambino Muhammad e che ruolo gioca nella sua vita la condizione di orfano?

   Per rispondere a queste domande bisogna continuare a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come le balene]. Per promuovere l’Apprendimento permanente la Scuola è qui perché più importante che sapere è non perdere mai la volontà di imparare e il compito della Scuola è quello di insegnare a “imparare ad imparare”…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 14, 2014