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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE SI SVILUPPA LA MITOLOGIA PANARABA ATTRAVERSO iL PROCESSO DI INTEGRAZIONE TRA I RACCONTI DELLA GENESI, L’EREDITÀ DELLA KA’BA E LA POETICA DELLE PIETRE …

Lezione N.: 
14

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale       5-6-7  febbraio  2014

 

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

SI SVILUPPA LA MITOLOGIA PANARABA ATTRAVERSO

iL PROCESSO DI INTEGRAZIONE TRA I RACCONTI DELLA GENESI,

L’EREDITÀ DELLA KA’BA E LA POETICA DELLE PIETRE

   Con il quattordicesimo itinerario del nostro viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” ci troviamo di fronte ad un nuovo vasto scenario: il complesso “paesaggio intellettuale della Letteratura del Corano”. La scorsa settimana – dopo avere prefigurato l’esistenza di “radici comuni” tra la Letteratura dell’Antico Testamento, la Letteratura dei Vangeli e la Letteratura del Corano – abbiamo concluso il nostro itinerario in modo interlocutorio, con una domanda: perché, nonostante le “radici comuni”, la Letteratura del Corano risulta per noi come se fosse “qualche cosa d’altro”.         

   Eppure sappiamo – e tutte le studiose e gli studiosi ce lo confermano – che la “cultura coranica” è “cultura che ci appartiene”, e allora come mai ci risulta estranea? C’è un problema che riguarda la lingua, l’Arabo, che si presenta come sinonimo di incomprensibilità? [L’espressione “parli arabo?” corrisponde a “non ti capisco!”]. Ma anche l’ebraico dell’Antico Testamento e anche il greco della Letteratura dei Vangeli è per noi [quasi] sullo stesso piano dell’arabo! Allora: la difficoltà di comprensione riguarda le strutture proprie del testo del Corano? Sì, questo costituisce un problema ma il testo del Corano è scritto fondamentalmente [e lo studieremo] con le strutture del “genere letterario sapienziale e poetico” e utilizza spesso lo “stile apocalittico”: due elementi che sono tipici della Letteratura giudaico-cristiana.

   Quindi le studiose e gli studiosi di filologia ci informano che la “lingua” e i “generi letterari” sono argomenti che possono essere affrontati [per lo meno a grandi linee] facendo un’esperienza di studio [che è il nostro obiettivo], e scrivono che: «La difficoltà maggiore nella comprensione della Letteratura del Corano consiste nei filtri, cioè nel modo con cui la cultura occidentale ha guardato la cultura araba, come se ad un tratto si fosse steso un velo che ci fa vedere solo i contorni dell’oggetto». E perché è successo questo?

   Ci sono delle ragioni storiche, economiche, politiche, religiose che rimandano al fenomeno [travolgente] dell’espansione territoriale e della “conversione” al messaggio del Corano dei popoli della Palestina, della Siria, dell’Egitto, dell’Africa del Nord che costituivano circa un terzo del territorio dell’Impero romano e, soprattutto, rappresentavano l’area che, per prima, era stata evangelizzata dal Cristianesimo. Il fatto che questi popoli, dal VII all’VIII secolo, entrino a far parte di una diversa storia politica e culturale diventa un aspetto sconcertante per l’Europa occidentale dell’alto Medioevo.

   Che cosa sconcerta le autorità dell’Occidente [papi, imperatori, vescovi, feudatari] per cui si tende a non distinguere più le “radici comuni”, ciò che unisce culturalmente? Gli Arabi che invadono questi territori non chiedono ai popoli sottomessi una conversione forzata alla loro religione: la loro mentalità è fondamentalmente “mercantile [tollerante]”. Impongono, a Ebrei e Cristiani – li chiamano i popoli fratelli del Libro [delle radici comuni] – una tassa, la “dhimma”, che letteralmente significa “garanzia”, perché il pagamento di questa tassa “garantisce” ai membri della comunità ebraica e cristiana la libertà di culto, la salvaguardia della proprietà privata e una certa autonomia legislativa e giurisdizionale in modo che le varie comunità, all’interno, si governino con le loro Leggi. La “dhimma” viene imposta con un senso oculato di equità: è una tassa in proporzione al reddito e i più ricchi devono pagare di più, mentre sui meno abbienti pesa di meno, e ai nullatenenti viene chiesto solo un gesto [un sassolino].

   Evidentemente nell’ottica della cultura del Corano – come nella cultura dell’Antico Testamento – c’è una certa severità, un certo rigore nel far pagare le tasse: e oggi, che questo problema non esiste più [o mi sbaglio], sentir parlare di severità ci pare eccessivo. Pagare le tasse “proporzionalmente” ha sempre dato noia soprattutto a chi aveva redditi più alti e allora si verifica un fenomeno curioso – che ci viene spiegato molto bene da Paolo Pieraccini nel saggio di storia e di scienze politiche intitolato  Gerusalemme, luoghi santi e comunità religiose nella politica internazionale – per cui in venticinque anni di governo arabo [dal 685 al 700] in Palestina, in Egitto, in Africa del Nord assistiamo ad una conversione di massa alla religione di Muhammad, da parte dei Cristiani [c’era anche disaffezione nei confronti dell’impero bizantino] e anche da parte degli Ebrei: una conversione, denominata dalle studiose e dagli studiosi, di tipo “economico”. Molti Ebrei e moltissimi Cristiani, cominciando dai più ricchi, cominciano a dire: «È quasi uguale alla nostra questa religione di Muhammad e, a conti fatti, costa meno!».

   La religione di Muhammad si chiama “Islàm [un verbo arabo che significa “abbandonarsi”]” e si presenta con un messaggio semplice e chiaro rispetto a quello dell’Ebraismo e, soprattutto, in confronto a quello del Cristianesimo che, nel VII secolo, si era in larga misura irrigidito in complicate correnti teologiche [un tema che abbiamo studiato] monopolio delle classi sacerdotali spesso in lotta tra loro. L’Islàm delle origini non ha né clero, né chiese, né templi, né rituali [un bel risparmio!], mentre presenta alcune semplici regole di comportamento pratico sia in ambito religioso che civile. Si presenta, quindi, come un messaggio liberatore nei confronti di molti vincoli, rituali ed economici, imposti dall’Ebraismo e dal Cristianesimo per cui grandi masse di persone che abitano nei territori conquistati dagli Arabi preferiscono smettere di pagare la dhimma [la tassa sul culto] pensando che “la salvezza eterna possa comunque arrivare dalla stessa fonte”. Ed è questo – per concludere questa prima nostra riflessione – l’aspetto sconcertante che colpisce le autorità dell’Occidente: il fatto che ci sia stata una mancanza di tenuta del Cristianesimo nei luoghi della prima evangelizzazione, ed è per questo motivo che viene steso come un velo, che si comincia ad usare un filtro, perché non si vuole ammettere che “la salvezza possa arrivare dalla stessa fonte”.

   E questa situazione, in Occidente, viene vissuta, nel corso di tutto il Medioevo, come un incubo [come il Male, come l’Errore, come l’impero di Satana], senza la dovuta comprensione razionale del fatto che i governi arabi erano “tolleranti [anche se la tolleranza non è propriamente una virtù]” e utilizzavano “sistemi di garanzia” e di “persuasione economica” che favoriva l’adesione religiosa di masse di persone al Corano. Il guardare le cose con questo filtro ha creato molti effetti negativi che sono ancora avvertibili, come luoghi comuni, nella nostra società. Il primo effetto è la sbrigativa identificazione di ciò che è arabo e ciò che è islamico, attenzione: non si devono confondere i termini “arabo” e “islamico” perché contrariamente si snaturano. Gli Arabi sono stati il gruppo etnico che ha fornito ad altri popoli la religione e la lingua ma l’Islàm abbraccia in sé culture diverse, con radici del tutto autonome, anteriori all’influenza araba, quindi quando si dice “cultura islamica”, e anche “cultura del Corano”, si va ben al di là di ciò che è arabo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A voi il termine “Corano” – che in arabo significa “la recitazione” – quale altra parola o quale idea fa venire in mente?...   

Scrivete la parola, mentre per descrivere l’idea è necessaria una frase, quattro righe in proposito ...

   La settimana scorsa siamo arrivate ed arrivati dinnanzi al vasto “paesaggio intellettuale della Letteratura del Corano” e abbiamo preso atto del fatto che le “origini letterarie” di questo testo sono da ricercarsi nel Libro della Genesi: avete letto, o riletto, il “romanzo di Abramo” che si sviluppa dal capitolo 12 al capitolo 23 del Libro della Genesi? [Siete sempre in tempo].

   Abbiamo studiato la scorsa settimana che, in area mesopotamica [sulla riva occidentale del fiume Eufrate] – nel periodo della fine dell’esilio degli Ebrei a Babilonia [al tempo dell’Editto di Ciro, nel 538 a.C.] – i racconti [che sono dei veri e propri romanzi] contenuti nella prima parte del Libro della Genesi [con i personaggi del Dio Unico, del Serpente, di Adamo, di Eva, di Caino, di Abele, di Noè, di Abramo, e via dicendo] si amalgamano con la cultura orale delle tribù arabe e viene a formarsi un’epopea pan-araba con una tradizione religiosa parallela a quella dell’Ebraismo. I racconti della prima parte del Libro della Genesi diventano, quindi, il primo patrimonio culturale comune delle tribù dell’Arabia e questo fatto [e lo abbiamo studiato la scorsa settimana] fa emergere nella cultura intellettuale delle tribù arabe tre questioni fondamentali: l’importanza di avere un “Capostipite comune” che unifichi le tribù e che le diversifichi dagli altri gruppi etnici, l’importanza di avere un “Santuario comune” dove ritrovarsi uniti e l’esigenza di avere una “Lingua e una scrittura comune” che favorisca la comunicazione intertribale. Queste tre questioni fondamentali [il Capostipite, il Santuario, la Lingua e la scrittura], come sappiamo, sono alla base della formazione della Letteratura del Corano [come lo sono state nella formazione della Letteratura dell’Antico Testamento] e sono alla base della formazione culturale di Muhammad.

   Il “Capostipite comune della Nazione araba” viene identificato con la figura di Ismaele, il figlio della schiava Agar fecondata da Abram, con il consenso di sua moglie Sarai, incapace di generare. Ma poi [secondo il pensiero degli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia] il “Dio Unico” fa un “patto [una berit]” con Abramo e annulla la sterilità di Sara ed Abramo genera un figlio “legittimo”, Isacco, e Agar ed Ismaele [che assume il ruolo di figlio illegittimo] vengono allontanati – anche se Abramo non avrebbe voluto [lui lo ama comunque questo figlio illegittimo] – e si perdono nel deserto, ma il “Dio Unico”, attraverso il suo Angelo, non permette che Ismaele muoia di sete perché deve essere il padre, il Capostipite di una grande Nazione. La scorsa settimana abbiamo letto questa avvincente narrazione nei capitoli 16 e 21 del Libro della Genesi.

   Nella formazione della cultura pan-araba il tema legato al personaggio biblico di Ismaele, amato da Abramo, benedetto dal “Dio Unico” e identificato come “capostipite”, si collega a quello del “Santuario comune” perché questo luogo già esiste e si trova nella valle di Baka [nella valle delle oasi, dell’acqua, wādī al-qurà], nella valle de La Mecca, e il testo del Libro della Genesi, al capitolo 21, sembra proprio identificare questo luogo sacro agli Arabi con il posto in cui Agar vede la fonte da cui attinge per dissetare il giovane Ismaele. In questo luogo, a circa cinquanta giornate di cammino a sud della terra di Canaan, c’è, da tempo immemorabile, il Santuario de La Mecca, ed è in questo luogo di aggregazione [religioso e commerciale] che dal V secolo a.C. gli straordinari racconti del Libro della Genesi, che narrano di Abramo e di Ismaele, vanno ad integrare la liturgia della venerazione della “pietra nera” che avviene con il rito antichissimo della “circumambulazione [ţawāf]” al grido di “Eccomi a Te! [labbayka]”, perché la “pietra nera” viene conservata in una tenda circolare [tipica delle tribù nomadi] montata accanto ad una fonte chiamata “Zamzam”. Intorno a questo Santuario primordiale, situato nella parte più bassa dell’altopiano, e a questa Fonte, che ne determina l’esistenza, si sviluppa quindi il florido mercato de La Mecca, un insediamento in espansione meta di pellegrinaggi, di commerci, di affari, di vita attiva e, intorno al Santuario, nasce anche una categoria di “custodi della pietra”, rappresentanti delle tribù più eminenti: il politeismo [tante divinità intorno al dio Hubal] è la forma più diffusa di religione e i monoteisti puri [gli hanīf] sono una minoranza.

   Abbiamo già accennato a questo tema la scorsa settimana e sappiamo che gli “hanīf” sono una minoranza intellettuale attiva e creativa: sono loro che sostituiscono la “tenda circolare primordiale” con una costruzione più stabile di forma cubica, la Ka’ba, lunga 12 metri, larga 10 e alta 15, che assume il ruolo di un vero e proprio Santuario divino: nella Ka’ba viene incastonata, nell’angolo orientale, la “pietra nera”, un misterioso oggetto di origine meteorica, ormai in pezzi, tenuti insieme da una cornice d’argento. Gli “hanīf [i monoteisti puri]” hanno potuto fare questa operazione perché sono stati capaci di costruire una tradizione mitica, un racconto cerimoniale: sono costoro, in quanto depositari della “sapienza poetica”, che hanno collegato la tradizione del Santuario della Ka’ba al personaggio biblico di Ismaele, il figlio amato da Abramo e dichiarato capostipite della Nazione araba dal “Dio Unico”.

   C’è un momento in cui gli “hanīf” [i monoteisti puri] conquistano un forte potere spirituale ma, nel tempo, intorno al Santuario de La Mecca, si formano due gruppi contrapposti che si scontreranno sempre: i “custodi del santuario” depositari del culto politeista orientati a fare affari commerciali attraverso la religione e gli “hanīf” i custodi del “monoteismo abramitico” orientati alla spiritualità, allo studio, alla riflessione sulla lingua e alla pratica della scrittura [questo diverbio sfocia in uno scontro armato].

   Che cosa racconta la tradizione orale creata dagli hanīf, che diventa patrimonio delle tribù arabe? Gli hanīf mettono in pratica le loro competenze nel campo della “sapienza poetica” e, nel far conciliare la “tradizione abramitica” con la tradizione della venerazione della “pietra nera”, creano dei bellissimi racconti, e la maggior parte di questi racconti, tramandati nei secoli, diventerà la base della Letteratura del Corano. La “tradizione degli hanīf” – una tradizione poetica tramandata oralmente dal IV secolo a.C. – racconta che nell’alto dei cieli c’è una Ka’ba [una Casa cubica] attorno alla quale girano gli angeli proclamando la gloria di Dio. Purtroppo, in seguito alla disubbidienza, Adamo ed Eva sono costretti a scendere sulla terra: Dio li perdona e li guida fino alla valle della Baka, a La Mecca, dove ordina loro di costruire una Casa a immagine di quella che hanno visto nell’alto dei cieli, e comanda di praticarvi il culto della “circumambulazione [ţawāf]” che hanno visto fare agli angeli nel Paradiso. Ma la Ka’ba di Adamo, che a quel tempo era una tenda circolare, non è destinata a durare, difatti viene spazzata via dal diluvio. Adamo ha portato con sé dal Paradiso uno dei fiori di quel giardino, un giacinto, il quale è diventato nero e pietrificato a causa dei peccati degli uomini. Dopo il diluvio la “pietra nera” viene recuperata dal fango dall’angelo del Signore, il quale guida Abramo sul luogo dove sorgeva l’antica Ka’ba: lì si alza un vento impetuoso che sgombra il terreno e una nube indica con la sua ombra i contorni dell’edificio e Abramo la ricostruisce aiutato da suo figlio, l’angelo vi deposita la Pietra Nera e il figlio di Abramo, Ismaele, ottiene in eredità la Casa di Dio.

   Abbiamo sintetizzato a grandi linee i racconti che gli hanīf compongono amplificando le narrazioni contenute nel testo del Libro della Genesi e questi racconti sono una vera e propria operazione di esegesi [di interpretazione] del testo biblico: una sorta di parafrasi in forma di recitazione con cui il movimento sapienziale e poetico  degli hanīf fornisce una mitologia propria e comune alle tribù arabe.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’atto rituale della “circumambulazione” fa pensare a varie espressioni come “il girotondo”, “il circuito”, “il raccordo anulare”, “la rotonda”, “girare intorno al problema”... Quale situazione vi ricorda l’azione del “girare attorno” ?...

Scrivete quattro righe in proposito...

   Il Libro della Genesi menziona la “preghiera di Abramo affinché Dio benedica Ismaele e faccia sorgere [faccia sgorgare] da lui una grande Nazione”, ma naturalmente non c’è nessun cenno alla costruzione della Ka’ba da parte di Abramo e di suo figlio Ismaele, però, qualcosa di allusivo in tal senso si trova soprattutto in un punto della Letteratura dell’Antico Testamento: una citazione contenuta nel Libro dei Salmi.

   Nella Letteratura dell’Antico Testamento l’unica allusione che si possa ipotizzare nei confronti della Ka’ba – intesa come “Casa di Dio”, come “Tempio primordiale del Dio Unico” situato nella valle di Baka accanto alla sorgente di Agar – si trova nel Libro dei Salmi, precisamente nel Salmo 84 [83]: ricordate [lo abbiamo studiato a suo tempo] che la traduzione in lingua corrente, a scanso di equivoci, adotta una doppia numerazione dei Salmi perché nelle antiche traduzioni greca [dei Settanta] e latina [la Vulgata di Gerolamo] i salmi 9 e 10 sono considerati un unico salmo che ha il numero 9 e questo fatto provoca, in molte traduzioni, un cambiamento nella numerazione dei salmi che seguono. Nei versetti 4, 5 e 6 del Salmo 84 [83] leggiamo: «Beati quelli che dimorano nella Tua Casa e Ti lodano di continuo. Benedetti quelli che hanno in Te la loro forza, che hanno il cuore alle vie del Santuario, quando passando nella valle di Baka fecero scaturire una sorgente d’acqua». Questa allusione [dicono le studiose e gli studiosi di filologia] è un frammento dei racconti mitici arabi entrati nel Libro dei Salmi.

   Il testo di questi versetti è interessante per riflettere sul concetto del “travaso culturale [poetico]”: i racconti mitici del Libro della Genesi vengono travasati nella tradizione religiosa araba e, a sua volta, c’è anche un travaso di antichi elementi leggendari arabi nella poetica degli scrivani d’Israele.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’azione del “travaso” – che sia di carattere strettamente intellettuale oppure di natura materiale – è un’operazione importante...

Che cosa vi fa venire in mente il verbo “travasare”    ?...     

Scrivete quattro righe in proposito...

   Abbiamo capito come abbia preso forma la “mitologia araba” attraverso la competenza “poetico sapienziale” degli aderenti al movimento degli hanīf e, quindi, ora dobbiamo cominciare ad entrare in contatto con il testo del Corano e, a questo proposito, ci prepariamo a fare [non subito, fra un po’, a fine itinerario] un primo esercizio di lettura anche se non sappiamo ancora nulla sul processo di composizione di quest’opera [uno degli apparati culturali più significativi della Storia del Pensiero Umano], e anche se non sappiamo ancora nulla di Muhammad, il Profeta del Corano: abbiamo, per ora, solo accennato alla sua data di nascita e al fatto [da approfondire] che in gioventù ha partecipato al movimento degli “hanīf” in una corrente che ha preso il nome di “Hunafa’ [salvaguardare il culto monoteista]”.

   Alla corrente degli “Hunafa’ [salvaguardare il monoteismo]” – della quale il futuro Profeta Muhammad ha fatto parte – aderiscono molti poeti tra i quali si distinguono Umayya [Umayya ibn Abī’s-Şalt] e Wàraqa ben Naufal [secondo la tradizione, la prima persona ad essere informato che Muhammad ha delle visioni] che sono stati definiti “poeti delle pietre” perché – alludendo alla “pietra nera” – utilizzano le caratteristiche [la durezza, la durevolezza eterna, la lucentezza, la potenza] di questi elementi [i sassi, le rocce, i massi, i macigni, le gemme] per esaltare, con metafore poetiche, l’idea del monoteismo, l’essenza di un Dio “grande e onnipotente [come una roccia]”.

   E, a proposito di travasi culturali, possiamo dire che i poeti arabi “delle pietre” hanno, di sicuro, in mente il linguaggio metaforico che ricorre nella Letteratura dell’Antico Testamento in cui il “Dio Unico” viene paragonato ad una “roccia”. Se andate a leggere, per esempio, l’incipit del Salmo 18 [17] trovate l’emblematica espressione: «Signore, mia roccia e mia salvezza!».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è un masso, una roccia, un macigno che fa parte della vostra esperienza?...

Si sa che questi termini – masso, roccia, macigno – definiscono concreti elementi naturali ma sono anche significative metafore...

Scrivete quattro righe in proposito...

   Ora però – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non possiamo fare a meno di aprire una parentesi a proposito della “poetica delle pietre” [passando repentinamente dalla Penisola araba alla Mitteleuropa] perché su questo tema esiste un significativo filone letterario che unisce mondi apparentemente diversi. Ed è per questo motivo che incontriamo adesso uno scrittore che si chiama Adalbert Stifter. Uno degli avvenimenti editoriali dell’inizio degli anni ’80 in Italia è stata la traduzione e la pubblicazione delle opere di Adalbert Stifter ed è in ragione di questo fatto che la Scuola, all’incirca trent’anni fa, ha citato per la prima volta questo autore che è considerato uno dei grandi scrittori dell’800 [Le opere di Stifter sono nella Biblioteca di Impruneta anche su suggerimento della Scuola degli Adulti].

   Adalbert Stifter [1805-1868] è un pittore e uno scrittore che decanta la vita appartata dell’ambiente montano della provincia austriaca e boema. Stifter è considerato un autore significativo perché ha saputo sapientemente fondere insieme gli stili letterari tipici del Romanticismo e scrive mescolando i generi del “romanzo di formazione”, del “romanzo sentimentale”, del “poema fantastico” e del “poema idillico”, ed ha il pregio di comporre raccontando in modo semplice e lineare, costruendo un testo di carattere nostalgico e dotato di leggerezza nel quale introduce riflessioni cariche di ironia: la scrittura di Stifter è semplice [i suoi detrattori hanno usato il termine “noiosa”] ma non è né semplicistica né superficiale.

   Adalbert Stifter è nato il 23 ottobre 1805 a Horní Planá [Oberplan, in tedesco], un paese della Boemia sud-occidentale di lingua tedesca, in una modesta famiglia di coltivatori e tessitori di lino. Quando ha dodici anni muore suo padre e nel 1818 [in quanto orfano e povero] entra nel collegio benedettino di Kremsmünster in Austria e – avendo noi studiato da poco la Regola di San Benedetto scritta da papa Gregorio Magno nel Libro II dei suoi Dialoghi – non possiamo rinunciare a far visita all’importante abbazia benedettina dove ha studiato Stifter.

   Kremsmünster è un borgo situato in posizione elevata sulla riva sinistra del fiume Krems [affluente del Danubio] e la sua celebre abbazia benedettina è un poderoso edificio che sovrasta il borgo. Questa abbazia è stata fondata nel 777 dal conte Tassilo III di Baviera e ha conosciuto momenti di grande splendore dal IX al XII secolo quando è stata la sede di una famosa Scuola di amanuensi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida dell’Austria e collegandovi alla rete fate un’escursione a Kremsmünster e visitate l’abbazia benedettina, salite sulle sue strutture architettoniche dalle quali si domina la valle del Krems, entrate nei numerosi edifici che contengono oggetti preziosi risalenti all’Età alto-medioevale come un esemplare del “Codex Millenarius minor” del IX secolo e molti capolavori di oreficeria [sacra e profana] realizzati nell’VIII secolo…  Buon viaggio…  

   Alla Scuola benedettina di Kremsmünster Adalbert Stifter ha acquisito una buona e vasta cultura [è molto bravo in fisica e in matematica], ed è nato in lui un grande amore per la Natura [per gli ambienti naturali], per l’Arte e per la pittura. E poi il giovane Adalbert ha anche avuto la possibilità, utilizzando la ben fornita biblioteca dell’abbazia, di conoscere le opere di molti scrittori tra i quali J.G. Herder, Jean Paul e soprattutto J.W. Goethe del quale legge tutti i romanzi e gli scritti poetici.

   Nel 1826 Adalbert – dopo una breve interruzione perché si è ammalato di vaiolo – conclude il ginnasio, lascia l’abbazia di Kremsmünster e si trasferisce a Vienna dove si iscrive alla facoltà di giurisprudenza [per mantenersi dà lezioni di matematica]. Nel 1827, durante le vacanze estive a Frymburk, nella Selva Boema, Adalbert incontra Fanny Greipl e tra questi due giovani ha inizio una relazione amorosa: Adalbert dedica a Fanny una lunga serie di dipinti e di poesie, ma la famiglia di lei è ostile: il padre, un ricco commerciante, non approva che la figlia frequenti un individuo dalle umili origini come Stifter. Dal 1833 Adalbert e Fanny non possono più incontrarsi: ambedue vivono con grande sofferenza questo forzato distacco. Qualche anno dopo Adalbert conosce una modista, Amalie [Amalla Mohaupt]: i due diventano amici molto affiatati e, quindi, nel 1837, decidono di sposarsi.

   Tra il 1839 e il 1854 Stifter produce le sue opere pittoriche più importanti [riesce anche a vendere qualche quadro] – e se volete potete fare una ricerca su “Stifter pittore” – e poi dà alle stampe una raccolta di romanzi brevi intitolata Pietre colorate [Bunte Steine] e anche la raccolta di tutte le sue novelle sotto il nome di Studi [Studien]. Dal marzo all’ottobre del 1848 Adalbert Stifter partecipa a Vienna ai moti popolari e rivoluzionari che investono tutte le più importanti città europee e subisce un trauma perché rimane sconvolto dal manifestarsi della violenza: dalla violenza dell’esercito che spara sulle folle inermi, ma è anche colpito dalla violenza esercitata dalle masse in rivolta che si ritorce su loro stesse perché crea il pretesto per alzare il livello della repressione e, difatti, il movimento del 1848 viene ovunque represso nel sangue dai regimi polizieschi e anche Stifter, come molti altri intellettuali, si deve defilare e, sulle prime, cade in un profondo stato di prostrazione e di malinconia dal quale si risolleva dipingendo e iniziando a scrivere un grande romanzo, quello che è considerato il suo capolavoro [“Der Nachsommer”, in italiano “Tarda Estate”], del quale però ora noi non diciamo nulla [ne parleremo nei viaggi a venire] perché rischiamo di sconfinare in altri territori, di andare oltre la “poetica delle pietre”, oltre il tema che stiamo trattando.

   Adalbert Stifter non si laurea in giurisprudenza e la sua attività di pittore e di scrittore non gli dà mangiare e, quindi – essendo una persona di vasta cultura e con delle spiccate qualità da educatore –, comincia a svolgere il lavoro del precettore e, per le sue buone referenze, viene assunto da tutte le più nobili famiglie di Vienna tra cui quella del principe di Metternich dove insegna matematica e fisica al figlio Richard e, nel 1853, per le sue competenze, viene nominato sovrintendente per i Beni culturali ed artistici dell’Alta Austria. Nel 1854 Adalbert – che intanto si è trasferito a Linz – si ammala di una grave malattia epatica e cade in una profonda depressione per cui è costretto, amorosamente assistito da Amalie, a ripetuti soggiorni terapeutici a Lackenhäuser, località termale della Foresta bavarese. Nel giugno del 1857 gli Stifter soggiornano a Trieste e per la prima volta vedono il mare e Adalbert descrive con emozione questa esperienza.

   Purtroppo negli anni seguenti due gravi avvenimenti incidono sullo stato d’animo dello scrittore: la morte della madre nel 1858 e della figlia adottiva, Juliane, la nipote diciottenne di Amalie, che si uccide gettandosi nel Danubio. La malattia di Stifter diventa incurabile e allora decide di mettere fine alla sua vita: nella notte tra il 25 e il 26 gennaio del 1868 si taglia le vene con il rasoio morendo, dopo un’agonia durata due giorni, il 28 gennaio 1868.

   È curioso il fatto di come questa morte violenta sia in contrasto con il suo rifiuto di tutto ciò che è aggressivo e irruente e con il suo carattere di cantore della bontà e della bellezza della Natura. A questo proposito è significativo fare un’escursione nei “luoghi stifteriani” dove lo scrittore è nato e dove spesso è tornato a villeggiare che si trovano nel bel “Parco Nazionale della Selva Boema [Šumava]” nella Repubblica Ceca. Il “Parco Nazionale della Selva Boema” è dotato [dal 1991] di una rete di sentieri ben segnati che attraversano boschi [di latifoglie e di conifere] con una ricca fauna [i cervi, in particolare] costeggiando la Moldava e il lago di Lipno, in un paesaggio di notevole bellezza naturale [non intaccato dall’inquinamento], privo di grandi insediamenti ma con un susseguirsi di piccoli centri attrezzati per il soggiorno estivo ed invernale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Repubblica Ceca e collegandovi alla rete fate un’escursione nel “Parco Nazionale della Selva Boema”: visitate Horní Planá il paese natale di Adalbert Stifter [trovate un sito con delle belle immagini di questa località compreso uno dei dipinti in cui Stifter la raffigura] e poi visitate Frymburk [dove Adalbert ha conosciuto Fanny]…    Buon viaggio…

   Su Adalbert Stifter cala [per quasi mezzo secolo] l’oblio finché non comincia ad avere degli illustri estimatori: il primo è Friedrich Nietzsche che, dopo aver letto con grande interesse le opere di Stifter dichiara che è l’interprete più autentico dell’Età post-romantica, colui che interpreta meglio la fine del “tonante carattere faustiano” per descrivere gli umori intimi dell’anima che cerca la pace e la tranquillità nel mistero sublime della Natura [anche Nietzsche ne avrebbe avuto bisogno di questa tranquillità pur non ammettendolo]. Nel 1914 il più internazionale degli scrittori e critici letterari e teatrali austriaci, Hermann Bahr, definisce Adalbert Stifter: «Uno dei più importanti scrittori realisti europei, che si discosta decisamente dagli slanci titanici del Romanticismo tedesco per proporre uno stile dai toni più crepuscolari e malinconici, che trasmette la calma e la pacatezza piuttosto che l’ardimento e la spavalderia, e che ha il suo punto di forza nel ritmo lento e cadenzato del racconto, nella descrizione minuziosa dei sentimenti e degli eventi naturali che poi perdono la loro forma dissolvendosi nell’arcano…e [scrive ancora Hermann Bahr] Stifter è un autore che narra come se dipingesse un acquarello e comincia col definire gli oggetti per poi, con le successive pennellate, farli sfumare nel mistero con la consapevolezza che la sola intelligenza non può rispondere a tutto e che, spesso, la ragione umana non può capire il modo in cui si comporta la Natura». Poi è Thomas Mann che definisce Adalbert Stifter: «Uno dei narratori più strani, profondi, celatamente audaci e travolgenti della letteratura universale, che sa far risaltare i lati meno appariscenti della vita ed è riuscito a donare un tono “epico” al lento ritmo degli eventi quotidiani e degli oggetti che li circondano».

   Le protagoniste e i protagonisti dei racconti di Stifter vivono in un mondo che è quanto di più lontano vi possa essere dalla modernità e dalle sue angosce e, di riflesso, si avvicinano alla città con curiosità ma con paura, sempre desiderosi di ritornare alla campagna e ai suoi ritmi. I personaggi di Stifter provano una particolare tensione emotiva a contatto con le “piccole cose [che sembrano erroneamente di poco conto]” e lo scrittore riesce a dare un profondo significato alla polvere sulle suppellettili, al cadere delle foglie nel bosco, al tambureggiare della pioggia, all’alito di vento, alla silenziosa sinfonia di una fitta nevicata [e l’elenco da fare sarebbe lungo di queste cose apparentemente insignificanti].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Vi è capitato che una “cosa apparentemente insignificante” abbia suscitato in voi una particolare tensione emotiva?...    

Scrivete quattro righe in proposito...

   Sulla modesta lucentezza delle pietre considerate non preziose Stifter [come abbiamo detto] scrive una raccolta di sei brevi romanzi intitolata Pietre colorate. In quest’opera – esemplare per la “poetica delle pietre” – Stifter manifesta il suo pensiero sulla grandezza delle cose apparentemente piccole [sulle pietre non-preziose che sembrano insignificanti] o apparentemente amorfe [come le grandi rocce la cui muta presenza non è mai casuale]; è un modo metaforico che Stifter utilizza anche per riflettere sulle virtù silenziose delle persone generose e caritatevoli che agiscono in modo disinteressato. I sei brevi romanzi contenuti nella raccolta Pietre colorate [pubblicati anche singolarmente] meritano di essere letti: noi puntiamo l’attenzione sul testo intitolato Cristallo di rocca; il cristallo di rocca è un diamante non realizzato: è solo un vetro ma luminosissimo. Questo breve romanzo è stato immaginato e scritto nella seconda metà del 1845 ed è stato concepito come “racconto per bambini” [da buon pedagogista Stfter dice sempre di scrivere per le bambine e i bambini ma in realtà scrive per gli adulti, vuole educare quelli che pensano di essere i grandi], ebbene, questo racconto era destinato a far parte di un “Libro di Natale” che non è stato mai realizzato: infatti l’incipit di Cristallo di rocca – che merita di essere letto – è una vera e propria elegia sul Natale [in cui molte e molti di noi si possono riconoscere]. Questo romanzo è invece entrato a far parte del libro Pietre colorate.

   Il libro Pietre colorate, pubblicato nel 1853, contiene sei racconti intitolati ciascuno con un nome di pietra: Granito, Pietra calcarea, Tormalina, Cristallo di rocca, Mica e Argilla lattea. Stifter, per scrivere Cristallo di rocca, si è ispirato ad un momento particolarmente felice della sua vita: nell’estate del 1845 Stifter, insieme a sua moglie, va in ferie nel suo paese natale, immerso nella Selva Boema, e si spinge, con una lunga camminata, fino a Hallstatt, in montagna, per fare visita a Friedrich Simony. Simony è un giovane geografo e geologo, è un audace scalatore di quelle montagne a cui dedica il suo studio come scienziato, e le descrive anche con la penna e con il pennello con sensibilità artistica. Stifter lo ha conosciuto l’anno prima a Vienna in casa del principe Metternich, dove lavorava come precettore, e naturalmente i due, che hanno molte cose in comune, diventano subito amici. È Simony che, molti anni dopo, racconta quell’incontro: nonostante la giornata sia piovosa i due amici fanno subito una passeggiata lungo un torrente, Stifter osserva il bellissimo paesaggio, Simony gli racconta delle sue scalate invernali sui ghiacciai della zona e gli descrive una meravigliosa grotta di ghiaccio in cui è penetrato, simile al “palazzo di un re delle Alpi”, costruito di smeraldi, zaffiri e cristallo di rocca. All’improvviso da dietro a un gruppo di rocce gigantesche che Stifter sta ammirando, sbucano un bambino e una bambina fradici di pioggia, che tornano dalla montagna dove hanno fatto visita ai nonni e dove, dopo essersi riparati dal temporale sotto la sporgenza di una roccia, hanno colto delle fragole che offrono ai due signori forestieri: Stifter le compra e poi gliele regala. Il giorno seguente, nello studio di Simony, che gli mostra gli schizzi che ha fatto in montagna, Stifter si ferma ad osservare un acquarello che rappresenta la grotta di ghiaccio di cui l’amico gli ha parlato e improvvisamente dice: «Mi sono immaginato i bambini di ieri sotto questa volta di ghiaccio, in questa splendida, paurosa, gelida cornice». Sei mesi dopo, sotto Natale, il racconto Cristallo di rocca di Stifter comincia ad uscire [a puntate] su un quotidiano di Vienna, e poi entra a far parte di Pietre colorate.

   I racconti di Pietre colorate trattano tutti di bambine e bambini salvati: salvati dalla peste, dalla guerra, dal fuoco, dall’acqua, dal ghiaccio, e il ruolo delle pietre – mute, sorde, immobili, dure – nell’azione della salvezza è fondamentale, forse che [riflette Stifter] la Natura ha un cuore più tenero di quello umano?

   Perché, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, la Scuola propone di esercitarci a leggere le opere di Adalbert Stifter? In primo luogo perché, fin da subito, è stato detto da molti presunti critici che Stifter è un autore “noioso”. Ed è vero che la scrittura di Stifter può far pensare a questo perché si nutre di due elementi che, tuttavia, sono insiti nel carattere della scrittura stessa: la lentezza e il silenzio [Stifter racconta comunicando che lo sta facendo sottovoce]. Oggi, in questa società dove la comunicazione è schiacciata dalla schizofrenia e dall’alto volume, per fortuna, il movimento delle persone che aspirano a praticare la lentezza e a dare spazio alla voce del silenzio, gradualmente si allarga e il ritmo narrativo stifteriano è, quindi, appropriato.

   Con il suo modo di scrivere Stifter vuole contrastare quello che lui chiama il “demòne [il demonio] dell’azione” per cui tutto ciò che è lento e silenzioso va spazzato via: i dittatori che prenderanno il potere in Europa nel secolo successivo denigreranno la lentezza e starnazzeranno urlando parole d’odio. È, quindi, un esercizio utile la lettura dei testi di quel “noioso” di Adalbert Stifter: un antidoto nei confronti del “decadimento dell’intelligenza”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cercate in biblioteca alcune opere di Adalbert Stifter e leggetele cominciando dalla raccolta  “Pietre colorate”, dai brevi romanzi “Abdia” e “Il sentiero nel bosco”…

   La trama del breve romanzo Cristallo di rocca è semplice. C’è una montagna che separa due valli, e in ogni valle c’è un villaggio isolato: i due villaggi sono uniti da un solo sentiero che passa su un colle a ridosso del dorso della montagna stessa. Il calzolaio di uno dei due villaggi, dopo una gioventù scapestrata, ha sposato la figlia del tintore dell’altro villaggio e sono nati due figli, Corrado il maggiore e Susanna, detta Sanna, la minore. I due bambini molto spesso vanno nell’altro villaggio a trovare i nonni percorrendo il sentiero. I contatti tra i due paesi sono comunque molto rari tanto che la figlia del tintore e moglie del calzolaio continua ad essere considerata come una straniera. Il giorno della vigilia di Natale, Corrado e Sanna vanno a trovare i nonni. Il tempo è bello e in cima al colle che separa i villaggi i bambini notano che il palo rosso, che porta una croce e un dipinto, e segnala la sommità del colle, è stato abbattuto, probabilmente dal vento. Dopo la visita ai nonni si mettono in cammino per tornare a casa, ma comincia a nevicare e c’è una fittissima nebbia e la neve ricopre subito le orme dei bambini che sono gli unici a percorrere il sentiero quel giorno. Il palo rosso non può più servire da riferimento, così Sanna e Corrado si perdono, e invece di dirigersi verso il paese salgono fino ai ghiacciai del monte: la situazione è pericolosa ma avvincente. Corrado cerca di ritrovare l’orientamento e rincuora la sorellina ma scende la notte e i due sono costretti a fermarsi e a trascorrere la notte in una specie di caverna formata da rocce appoggiate l’una all’altra. Mangiano il pane che hanno con sé e per non addormentarsi, e non rischiare di morire di freddo, bevono il caffè che la nonna ha dato loro da portare alla mamma. Il mattino seguente la nevicata finisce ma orientarsi sul ghiacciaio è difficile, però, dopo aver percorso un tratto di cammino i due bambini vedono una bandiera rossa, che dapprima sembra loro un fuoco, e odono il suono di un corno: sono gli abitanti dei due paesi, tra cui c’è anche il nonno tintore, che si sono messi alla loro ricerca. Corrado e Sanna gridano per farsi notare e possono finalmente riunirsi agli altri, e in una capanna sul monte trovano ad attenderli la madre. Infine tutti tornano in paese, Sanna e Corrado ricevono i doni di Natale e da quel giorno la figlia del tintore diventa meno estranea.

   Ora leggiamo alcune pagine di questo romanzo dove le pietre – mute, sorde, immobili, dure – sono elemento di salvezza: le rocce che proteggono i bambini [salvandoli dall’assideramento] sono solo apparentemente disposte casualmente perché nella Natura c’è un disegno volto al Bene, e bisogna saperlo cogliere. Stifter sa che non è sempre così perché è la persona che – con la sua saggezza, con la sua volontà, con il rispetto – deve aiutare la Natura ad essere buona [ed è un tema d’attualità].

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Cristallo di rocca

Con il coraggio dell’incoscienza Corrado e Sanna si arrampicarono sul ghiaccio, per oltrepassare la fiumana che avevano davanti e ridiscendere poi dall’altra parte. Si insinuarono fra gli interstizi, posero il piede su ogni corpo solido munito di un bianco berretto di neve, fosse roccia o ghiaccio, si aiutarono colle mani, andarono carponi dove non potevano camminare, e si inerpicarono coi loro corpi leggeri, fino a che non ebbero superato il fianco del bastione e furono in cima.

Al di là volevano ridiscendere. Ma non c’era un al di là. Fin dove poteva giungere l’occhio dei bambini tutto era ghiaccio. Punte e creste e lastre si ergevano come tutto un pauroso ammasso di ghiaccio ricoperto di neve.  Non era un bastione che si potesse oltrepassare e poi ritrovare la neve, come avevano creduto dal basso; dalla volta del bastione salivano altre pareti di ghiaccio, e fenditure e crepacci, percorse da innumerevoli vene azzurre serpeggianti, e dietro a esse altre pareti simili, e dietro a queste altre ancora, fin dove la neve, cadendo, copriva il resto con il suo grigiore.

I bambini cercarono dunque di ridiscendere dal bastione di ghiaccio nel punto dove si erano arrampicati, ma non vi riuscirono. Presero di qui, presero di là, tentarono invano di uscirne, pareva che il ghiaccio li avesse imprigionati. Infine, seguendo sempre la direzione, da cui secondo il ragazzo erano venuti, giunsero a dei massi più radi, ma ancora più grandi e spaventosi, come spesso si trovano al limite dei ghiacciai, e i bambini riuscirono a venirne fuori solo strisciando e arrampicandosi. Al margine del ghiaccio macigni giganteschi stavano ammonticchiati l’uno sull’altro, come i bambini non avevano mai visto in vita loro. Molti erano avvolti di bianco, molti erano appoggiati l’uno all’altro come capanne e tetti e molti giacevano l’uno sull’altro come massi informi. Non lontano dal luogo dov’erano i bambini, alcuni massi stavano appoggiati l’uno all’altro con le teste, e larghi blocchi piatti posavano su di essi a guisa di tetto. Venivano a formare una casina, aperta sul davanti, ma riparata dietro e sui lati. Nell’interno era asciutto, perché la neve cadendo a piombo non aveva portato dentro neppure un fiocco. I bambini erano felici di non esser più sul ghiaccio e di avere sotto i piedi la loro terra. Ma intanto si era fatto buio. «Sanna,» disse il ragazzo «non possiamo più scendere, perché è venuta notte, e potremmo cadere o magari finire in una buca. Andiamo là sotto i sassi, dove è così asciutto e così caldo, e lì aspetteremo. Presto il sole si leva di nuovo; e allora corriamo giù».

Quando furono entrati sotto la tettoia di pietra, dove non solo potevano stare comodamente seduti, ma anche in piedi e camminare, la bambina si mise a sedere stretta a lui e rimase quieta. «La mamma» disse Corrado «non si arrabbierà, le diremo di tutta questa neve che ci ha impedito di tornare, e lei non dirà niente; e neanche il babbo. Se ci viene freddo, devi battere le mani contro il corpo, sai, come facevano gli spaccalegna, e così ti scalderai».   «Sì, Corrado» disse la bambina. Sanna era meno disperata di non tornare a casa, di quanto lui potesse pensare, e l’immenso sforzo, di cui i bambini non si erano neppure resi conto, faceva che lo stare a sedere paresse loro dolce, infinitamente dolce, e a questa dolcezza si abbandonarono. Ma ora si fece sentire anche la fame. Quasi allo stesso tempo tutti e due tolsero di tasca il pane e lo mangiarono. Mangiarono anche le altre cosette - pezzettini di dolce, mandorle e noci e altre inezie - che la nonna aveva messo nelle loro tasche. «Sanna, ora dobbiamo anche togliere la neve dai nostri vestiti» disse il ragazzo «se no ci bagniamo». «Sì, Corrado» rispose Sanna. I bambini uscirono dalla loro casetta, e prima Corrado ripulì la sorellina dalla neve. Poi, come meglio poté, liberò anche se stesso dalla neve che aveva addosso. La nevicata era ormai cessata del tutto. Tornarono nella capanna di pietra e sedettero. Soltanto alzandosi avevano sentito quanto grande fosse la loro stanchezza e ora erano felici di stare seduti. Corrado posò la borsa di cuoio. Ne tolse il panno in cui la nonna aveva involtato una scatola e diversi sacchettini di carta e se lo mise sulle spalle per avere più caldo. Dalla borsa trasse anche i due pani bianchi e li porse tutti e due a Sanna: la bimba mangiò avidamente. Mangiò uno dei pani e anche un pezzo dell’altro. Il resto lo porse però a Corrado, quando vide che non mangiava. Egli lo prese e lo finì. Da quel momento i bambini rimasero seduti e guardarono. Fin dove il crepuscolo lo permetteva, vedevano lungo i pendii stendersi e luccicare la neve, e qua e là le sue lastrine minuscole presero a scintillare stranamente nelle tenebre, come se la neve avesse assorbito la luce del giorno e ora la rendesse.

Si faceva notte con la rapidità consueta alle grandi altezze. Presto tutto intorno fu buio, solo la neve continuò a luccicare, ma anche il velo nel cielo principiò a diradare e a dividersi, e i bambini videro brillare una piccola stella. Poiché la neve emanava veramente come un chiarore, e dalle nuvole non scendeva più nessun velo, dalla loro caverna i bambini potevano vedere le colline di neve delinearsi contro il cielo scuro.

Nella caverna era tanto più caldo che in ogni altro luogo durante tutto quel giorno, e i bambini riposarono seduti stretti l’uno all’altro e dimenticarono persino di aver paura del buio. Presto si moltiplicarono anche le stelle, ora ne spuntava una qua, ora una là, finché parve che non ci fosse più una nuvola in tutto il cielo. Era l’ora in cui nelle valli si accendono le luci. Prima se ne accende una e si mette sulla tavola, per rischiarare la stanza, oppure è solo un tizzone che arde, o arde la fiamma nella lanterna, e s’illuminano tutte le finestre delle stanze abitate e brillano di lontano nella notte di neve, ma quella sera - la vigilia di Natale - se ne accendevano molte di più, per rischiarare i doni disposti sui tavoli o appesi agli alberi per i bambini, se ne accendevano innumerevoli; che in quasi ogni casa, in ogni capanna, in ogni stanza, c’erano uno o più fanciulli, a cui Gesù Bambino aveva portato qualcosa che bisognava illuminare. Il ragazzo aveva creduto di poter scendere in poco tempo dalla montagna, eppure, di tutte le luci che quella sera erano accese nella valle, non una saliva fino a loro. A quell’ora in tutte le valli i bambini ricevevano i doni portati da Gesù; solo quei due sedevano lassù al margine del ghiacciaio, e i regali più belli, che avrebbero dovuto ricevere quel giorno, stavano in pacchetti ben chiusi nella borsa di cuoio, in fondo alla caverna.

La notte avanzava. I bambini non sapevano che le stelle avanzano verso occidente e camminano, se no avrebbero potuto riconoscere dal loro cammino a che punto era la notte; ma nuove venivano e vecchie andavano, ed essi credevano fossero sempre le stesse. Con la luce delle stelle si era fatto più chiaro intorno ai bambini; ma non videro né valle, né paesaggio, dovunque bianco - null’altro che bianco. Solo una guglia scura emergeva qua e là dal chiarore. In nessuna parte del cielo si vedeva la luna, forse era già tramontata presto col sole, forse non era ancora apparsa. Dopo che fu passato un lungo tratto di tempo, il ragazzo disse: «Sanna, non devi dormire; se ci si addormenta in montagna, ti ricordi, l’ha detto il babbo, si muore di freddo, così come è accaduto al vecchio cacciatore del Frassino, che s’è addormentato ed è rimasto quattro mesi morto, seduto su un sasso, e nessuno sapeva dove fosse».

Corrado l’aveva scossa per un lembo del vestito, perché si svegliasse e l’ascoltasse. Poi fu di nuovo silenzio. Dopo un certo tempo il ragazzo sentì contro il suo braccio una leggera pressione, che si faceva sempre più forte. Sanna si era addormentata e si era abbandonata addosso a lui. «Sanna, non dormire, non dormire» disse il ragazzo. «No,» balbettò la bambina cadendo dal sonno «non dormo». Egli si scostò da lei, per farla muovere, ma lei cadde e avrebbe continuato a dormire per terra. Corrado balzò in piedi. Afferrò la sorella, la scosse più forte e disse: «Sanna, alzati un momento, stiamo un poco in piedi, e vedrai che staremo meglio»«Non ho freddo, Corrado» rispose lei.   «Sì, sì, hai freddo. Sanna, alzati» gridò lui.   «La giacca di pelliccia è calda» disse lei.  «Ti aiuterò ad alzarti» disse lui.   «No» rispose lei e tacque. Allora al ragazzo venne in mente un’altra cosa. La nonna aveva detto: anche un sorso solo riscalda tanto lo stomaco che il corpo non ha più freddo nemmeno nei giorni più gelidi dell’inverno. Prese la borsa di cuoio, l’aprì e vi trovò la bottiglietta, nella quale la nonna aveva mandato alla mamma un estratto di caffè. Tirò fuori la bottiglietta, la scartò e ne tolse a fatica il turacciolo. Poi si chinò verso Sanna e disse: «Questo è il caffè che la nonna manda alla mamma, assaggiane un poco, ti riscalderà. La mamma ce lo dà volentieri, sa che ne abbiamo bisogno». La bambina rispose: «Non ho freddo».   «Prendine solo un pochino,» disse il ragazzo «e dopo puoi dormire».

Questa previsione tentò Sanna, e ne bevve un sorso. Quindi anche il ragazzo ne bevette un poco. Il fortissimo estratto agì subito, e tanto più fortemente in quanto i ragazzi non avevano assaggiato caffè in vita loro. Invece di dormire Sanna diventò più vivace e disse lei stessa che aveva freddo, ma che dentro era molto caldo e cominciava anche ad arrivare alle mani e ai piedi. I bambini chiacchierarono persino qualche tempo. Così, nonostante il sapore amaro, ricorsero al caffè ogni volta che l’effetto accennava a diminuire, e portarono i loro nervi innocenti a uno stato capace di reagire alle forze che li spingevano al sonno. S’era fatta ormai mezzanotte. Tutte le sere di Natale per l’eccitazione gioiosa si addormentavano molto tardi, sopraffatti dalla stanchezza non avevano mai udito il suono delle campane di mezzanotte, né l’organo della chiesa, quando si celebrava la festa, sebbene alla chiesa abitassero vicini. In quel momento della notte, tutte le campane si misero a suonare, suonavano le campane di tutti e due i paesi, e dietro la montagna c’era un’altra chiesina con tre campanelle chiare, che suonavano. Laggiù in paesi lontani c’erano innumerevoli chiese e campane, e tutte a quell’ora suonavano, di villaggio in villaggio andava l’onda del suono; solo ai bambini lassù non giungeva alcun suono, non si udiva nulla; che lì non vi era alcun annuncio da dare. Nelle svolte delle valli, lungo le pendici dei monti, si muovevano ora le luci delle lanterne, e da più di una fattoria suonava la campanellina di casa, per richiamare la gente; ma luci e suoni non potevano arrivare lassù, splendevano solo le stelle, e seguitavano tranquillamente a scintillare. Sebbene Corrado avesse sempre presente la sorte del cacciatore assiderato, sebbene i bambini avessero quasi vuotato la bottiglietta del caffè forte, essi non avrebbero potuto vincere il sonno, la cui suadente dolcezza è più forte di ogni ragione, se la natura nella sua grandezza non li avesse assistiti, destando in loro una forza capace di resistere. Nello sterminato silenzio che regnava, nel silenzio in cui non sembrava muoversi neanche un aghetto di neve, i bambini udirono tre volte lo schianto del ghiaccio. Ciò che sembra la cosa più rigida ed è invece la più mobile e viva, il ghiacciaio, aveva prodotto quei suoni.

I bambini rimasero a sedere a occhi aperti e guardavano le stelle e fiorì davanti a loro nel cielo una pallida luce in mezzo alle stelle e tese un arco tenue tra di esse. Anche in altre parti del cielo si diffuse un chiarore verdelucente che corse dolcemente fra le stelle come un’onda viva. Era un fluire di luce per le zone attigue del cielo, uno scintillar blando e un diffondersi in lenti palpiti per ampi spazi. I bambini non si dicevano una parola, continuavano a rimanere seduti e guardavano a occhi spalancati nel cielo. Non accadde più nulla di singolare.

Finalmente il cielo incominciò a farsi più chiaro, lentamente più chiaro, le stelle più smorte si spensero e le altre diradarono. Poi scomparvero anche le più vive, e si vide più chiaramente la neve delle alture. Tutte le cose si distinguevano chiaramente e le lontane colline di neve si disegnavano nette nell’aria. «Sanna, fa giorno» disse il ragazzo. «Sì, Corrado» rispose la bambina. «Appena si fa un pochino più chiaro, usciamo dalla caverna e scendiamo dalla montagna». Si fece più chiaro, in tutto il cielo non si vedeva più una stella, e tutte le cose posavano nella luce dell’alba.

«E ora andiamo» disse il ragazzo. «Sì, andiamo» rispose Sanna. I bambini si alzarono e provarono le loro membra, soltanto ora veramente stanche. Sebbene non avessero dormito affatto, il mattino li aveva rinvigoriti, come sempre avviene. Il ragazzo si appese alla spalla la borsa di cuoio e chiuse meglio la giacchetta di pelliccia di Sanna.

Poi la condusse fuori della caverna. Non avendo, secondo loro, che da scendere dalla montagna, non pensarono al cibo, e non guardarono se nella borsa ci fosse ancora del pane o altre cose da mangiare. Poiché il cielo era tutto sereno, Corrado volle guardare giù nelle valli, per riconoscere la loro e scendere in quella. Ma non vide valli. Non era come trovarsi su una montagna, da cui si può guardar giù, ma in una strana contrada sconosciuta, in cui sono solo cose mai viste. Videro oggi anche più lontano sorgere dalla neve rocce spaventose, che ieri non avevano visto; videro il ghiaccio, videro levarsi gobbe e pendici di neve, e dietro a queste non c’era che il cielo, o, all’estremo limite della neve, si drizzava la punta azzurra di un monte molto lontano. In quel momento si levò il sole. Un gigantesco disco sanguigno si alzò nel cielo all’orlo della neve, e in quell’attimo si colorò di rosso la neve intorno ai bambini, come vi fossero sparse milioni di rose.

   E ora, come abbiamo anticipato prima di aprire questa parentesi, dobbiamo cominciare ad entrare in contatto con il testo del Corano [noi ci avvaliamo del lavoro intellettuale del professor Alessandro Bausani, il maggior arabista italiano, che ha tradotto, anche per noi, la letteratura del Corano con quella grande competenza che gli viene riconosciuta a livello internazionale, soprattutto dagli ambienti culturali islamici] e, a questo proposito, facciamo un primo esercizio di lettura anche se non sappiamo ancora nulla sul processo di composizione, sulla forma e sui contenuti di quest’opera [che è uno degli apparati culturali più significativi della Storia del Pensiero Umano], e anche se non sappiamo ancora nulla di Muhammad, il Profeta del Corano, né sotto il profilo storico né sotto il profilo leggendario.

   Tuttavia possiamo cominciare subito a confrontarci con il linguaggio coranico perché, durante gli ultimi due itinerari, abbiamo gettato le basi per capire il senso [se non proprio il pieno significato] dei brani che stiamo per leggere e che riguardano due parole-chiave fondamentali: il termine “Abramo [che è il nome del padre di Ismaele]” e il termine “Ka’ba”[che è il nome della Casa di Dio, del primo Tempio pan-arabo]. È necessario, quindi, per fare questo esercizio, conoscere solo alcune chiavi per poter entrare in sintonia con i sette brani che ci permettono di cominciare a muoverci sul sentiero della Letteratura del Corano.

   La prima cosa che ci dobbiamo chiedere, e sulla quale abbiamo già in parte riflettuto strada facendo, è: che tipo di intellettuale è Muhammad, il principale protagonista della cultura e della Letteratura del Corano [dopo la figura di Allah]?

   Muhammad è prima di tutto un attento lettore [un esegeta] delle Scritture ebraiche e cristiane, conosce bene – in forma diretta e non per sentito dire – molte parti dell’Antico Testamento e della Letteratura dei Vangeli e poi, come sappiamo, aderisce al movimento poetico sapienziale degli Hunafa’ [abbiamo citato i “poeti delle pietre”: Umayya e Wàraqa] che a La Mecca coltiva, in lingua araba, la tradizione del monoteismo primordiale abramitico. L’ipotesi che Muhammad non sapesse leggere e scrivere – come vuole una tradizione conservatrice per avvalorare il fatto che il Corano non è un Libro “scritto”  ma un’opera divina da “recitare” impressa nella mente e nel cuore – è assolutamente inverosimile, il testo stesso del Corano, in alcuni versetti, smentisce questo fatto, tuttavia nessun islamico afferma che Muhammad ha scritto il Corano, ma dichiara che, come rivelazione di Dio, il Corano “sarebbe sceso su Muhammad tramite l’arcangelo Gabriele”.

   Complessivamente, dal punto di vista letterario, il testo del Corano è una straordinaria opera di esegesi biblica che va ad integrarsi con i principali elementi della mitologia pan-araba, e il fatto che nel testo del Corano ci siano delle “citazioni imprecise” della Letteratura dell’Antico Testamento non significa che Muhammad non ne avesse conoscenza: oggi tutte le studiose e gli studiosi di filologia concordano nel dire che Muhammad conosce molto bene la Letteratura dell’Antico Testamento e dei Vangeli e le “citazioni imprecise” sono delle “variazioni volute”, sono dei “meditati adeguamenti” per dare coerenza ad una dottrina originale.

   La seconda cosa che ci dobbiamo chiedere è: come è fatto il testo del Corano, che forma ha? Il testo del Corano è composto da 114 capitoli, detti “sure”, e ogni sura [sūrah] è divisa in versetti e ha un nome significativo. La prima sura è molto particolare: si chiama la “sura aprente [fātiha, che apre, che incomincia]” perché “apre” tutte le altre sure e “apre la porta della salvezza”. La “sura aprente” è formata da 7 versetti e, a suo tempo, la leggeremo.

   Il Libro del Corano – dalla seconda sura fino alla centoquattordicesima – è stato messo in ordine in base alla lunghezza delle sure, in base al numero dei versetti delle sure, cioè dalla più lunga, la seconda, che è 286 versetti, alle più corte, composte di 3 versetti, e le ultime sure sono anche le più antiche [le più lunghe sono le più recenti]. Perché è stato diviso così il Libro del Corano? Non si può rispondere con una battuta a questa domanda ma è necessario imbastire un ragionamento e questo esercizio lo faremo a suo tempo.

   Le sure si dividono in due grandi categorie: le “sure meccane”, quelle elaborate nell’ambiente culturale e spirituale de La Mecca e quelle “medinesi”, elaborate nell’ambiente culturale e spirituale della città di Medina.

   Dal punto di vista dei generi letterari, il testo del Corano contiene: racconti, leggende, esortazioni, precetti, ammonimenti e inni religiosi che sono stati ricuciti insieme [rapsodiati], mescolati insieme apparentemente senza un preciso criterio. Il Libro del Corano, quindi – come tutti i grandi testi dell’Età assiale della Storia – non è diviso per argomenti ma i temi li troviamo in ordine sparso nel testo, e questi aspetti – la mancanza di ordine nei generi [nella forma] e nei contenuti – ne rendono più complicata la lettura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca trovate il testo del Corano: sfogliatelo, in modo da osservare che forma ha...

   Se i compilatori del Libro del Corano avessero seguito un ordine per temi avrebbero dovuto mettere per prime le affermazioni sui due argomenti più antichi: “Abramo” e la “Ka’ba”.

   Il tema di “Abramo” ha le sue radici [come sappiamo] nel Libro della Genesi e il tema della “Ka’ba” ha le sue radici [come abbiamo studiato ] nella tradizione culturale delle tribù arabe e nella mitologia pan-araba creata dagli autori della “poetica delle pietre”. Le parole-chiave “Abramo” e “Ka’ba” sono le prime due radici su cui si fonda la cultura da cui deriva la Letteratura del Corano e allora andiamo a constatare come queste parole emergano, in ordine sparso, in sette sure diverse.

   Leggiamo questi sette brani, provenienti da sette diverse sure, per riconoscere, prima di tutto, parole e concetti che già conosciamo, tralasciando, per ora [anche perché ora siamo in conclusione di questo itinerario], di dare spiegazioni su “personaggi”, “modi di dire” e su “forme sintattiche”: argomenti su cui, strada facendo, rifletteremo con la dovuta attenzione e senza fretta.

   Facciamo un solo appunto che riguarda il primo brevissimo brano formato da un versetto [il 67] de La sura III [una delle più lunghe, 200 versetti] che, come vedete, ha un titolo che si rifà ad un personaggio della Letteratura dei Vangeli apocrifi, Gioacchino [a cui corrisponde il nome arabo di ‘Imran] lo sposo di Anna, il padre di Maria, la madre di Gesù, per cui viene spontaneo chiedersi: Muhammad conosce il Proto-vangelo di Giacomo, il più significativo dei Vangeli apocrifi [sul cui testo abbiamo più volte indagato in questi anni]? È una domanda molto interessante, per rispondere alla quale dobbiamo conoscere la vita di Muhammad e i particolari della sua formazione culturale e della sua preparazione intellettuale.

   Leggiamo questi brani specificando che la nostra esperienza didattica non prevede la lettura de “il Corano” cioè dell’oggetto sacro in lingua araba originale che viene recitato dai fedeli islamici, perché la Scuola pubblica e laica non ha competenza in questo: noi stiamo studiando [con il dovuto rispetto, che va riservato a tutti i grandi apparati di impronta sacra che abbiamo incontrato in questi anni] la “Letteratura del Corano”, le caratteristiche inerenti alla “sapienza poetica e filosofica” contenuta un questo straordinario Libro, patrimonio dell’Età alto-medioevale. E ora leggiamo questi frammenti nei quali emerge lo spirito alternativo della Recitazione di Muhammad che proclama Abramo come “il padre comune del monoteismo” e vuole liberare il Santuario della Ka’ba dai mercanti che strumentalizzano la religione per fare affari rimuovendo la “fede” tutta spirituale nel Dio Unico [Muhammad si muove sull’esempio di Gesù che caccia i mercanti dal Tempio].

LEGERE MULTUM….

Il Corano     

III. La sura della famiglia di ‘Imran [Gioacchino, il padre di Maria]  67

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

Abramo non era né ebreo né cristiano: era un hanif, cioè dedito interamente a dio, e non era idolatra.

 

IV. La sura delle donne  74-88

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

E ricorda quando Abramo disse a suo padre Àsar: prenderai degli idoli come dèi? Io vedo che tu e il tuo popolo siete in errore.

E così Noi [Dio] mostrammo ad Abramo il regno dei cieli e della terra perché fosse di quelli che hanno solide convinzioni.

E quando la notte lo avvolse con le sue tenebre vide una stella e disse: ecco il mio Signore. Ma quando vide la stella tramontare disse: non amo ciò che tramonta.

E quando vide la Luna levarsi all’orizzonte disse: se il mio Signore non mi guida sarò anch’io tra i traviati.

Quando vide sorgere il sole disse: questo è molto più grande. Questo è il mio Signore. Poi quando esso tramontò, egli disse: o mio popolo, io sono innocente della vostra idolatria. Io volgo la faccia a chi ha creato i cieli e la terra, con fede pura, e nessun compagno intendo a lui associare.

E il suo popolo prese a ribattere contro di lui ed egli rispose: volete ancora discutere su Dio con me quando egli mi ha diretto sulla via giusta? Quelli che credono e non confondono la loro fede con l’idolatria sono sicuri e sono ben guidati.

Queste sono le argomentazioni che Noi [Dio] forniamo ad Abramo contro l’idolatria. Noi eleviamo per gradi chi vogliamo: In verità il Signore è il saggio sapiente.

 

XVI. La sura dell’ape   120-122

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

E certo Abramo fu un modello per ogni persona, devoto a Dio, di fede pura e non fu idolatra, grato a Dio per i favori che gli aveva concesso; Dio l’aveva prescelto e l’aveva guidato per un sentiero giusto, e Noi [Dio] gli demmo nel mondo terreno molti beni e nell’altro è tra i santi.

 

II. La sura della vacca   125-128

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

E ricorda quando Noi [Dio] facemmo la santa casa come luogo di riunione e di rifugio sicuro – utilizzate dunque il luogo dove si fermò Abramo, come luogo di preghiera – e quando Noi [Dio] comandammo ad Abramo e a Ismaele: purificate la mia casa per tutti coloro che vi correranno attorno in segno di venerazione, sosteranno a pregare, si inchineranno e si prostreranno con riverenza.

E quando Abramo disse: Signore, fa’ di questo paese un luogo di rifugio sicuro e nella tua provvidenza dona i tuoi frutti ai suoi abitanti che credono in Dio e nell’ultimo giorno.

E quando Abramo e Ismaele ebbero costruito le fondamenta della casa, invocarono il Signore dicendo: accettala da noi, o Signore, tu che tutto ascolti e conosci.

O Signore, fa’ dei nostri discendenti una nazione che ti sia devota, mostraci i tuoi riti sacri e vòlgiti con benignità verso di noi, tu che sei clemente e perdoni sempre.

 

V. La sura della mensa  97

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

Dio ha fatto della Ka’ba, la casa sacra, un sostegno per tutti gli esseri umani.

 

XXII. La sura del pellegrinaggio  26-29

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

Ricorda quando Noi [Dio] facemmo abitare Abramo nel recinto della casa di Dio dicendogli: invita tutti al pellegrinaggio, in modo che vengano qui a piedi su cammelli veloci, anche dalle vallate. Perché possano testimoniare i vantaggi che ottengono, e in giorni stabiliti nominano il nome del Signore sugli animali dei greggi che Dio ha loro donato. Mangiate di essi e datene anche a chi ne ha bisogno e al povero. Smettano di trascurare la propria persona, sciolgano i voti e compiano i giri attorno alla casa antica con spirito di venerazione.

 

CVI. La sura dei Qurays  3-4

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

Adorino, dunque, il Signore di questa Casa [Ka’ba], della quale Abramo e Ismaele hanno costruito le fondamenta, che gli diede da mangiare quando ebbero fame, e li rassicurò da ogni timore.

   Tutte le sure del Corano, meno una, si aprono con la dicitura “Nel nome di Dio, clemente misericordioso” e in tutte le sure del Corano – anche in questi brani che abbiamo letto – emergono le caratteristiche di questo Dio che è l’Unico, l’Altissimo, il Creatore, la Provvidenza e il Giudice: il Dio islamico possiede le stesse caratteristiche di quello ebraico e di quello cristiano?

   La prossima settimana cominceremo ad occuparci – tra storia e leggenda – della vita di Muhammad: quando nasce, dove nasce, come cresce, che carattere ha, che lavori fa, di chi s’innamora, che cosa studia?

   E poi ci dobbiamo chiedere: perché la frase “Chiamatemi Ismaele.” non può non attirare – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – la nostra attenzione? Perché questa frase è un incipit: e perché possiamo dire che questo brevissimo incipit è, in realtà, grande come una balena?

   Per rispondere a queste domande bisogna continuare a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come l’esercizio della recitazione]. Per promuovere l’Apprendimento permanente la Scuola è qui perché più importante che sapere è non perdere mai la volontà di imparare e il compito della Scuola è quello di insegnare a “imparare ad imparare”…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 7, 2014