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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE IL TEMA DELL’INCONOSCENZA ESTATICA SI ESTENDE DALL’ECUMENE OCCIDENTALE A QUELLA DELL’ESTREMO ORIENTE ...

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi        La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale         8-9-10  gennaio  2014

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

IL TEMA DELL’INCONOSCENZA ESTATICA SI ESTENDE

DALL’ECUMENE OCCIDENTALE A QUELLA DELL’ESTREMO ORIENTE ...

   Ben tornate e ben tornati a Scuola, e che il 2014 sia un buon anno di “studio” per tutte e per tutti noi!

   Inizia, con il decimo itinerario, la seconda parte di questo Percorso di Alfabetizzazione culturale in funzione della didattica della lettura e della scrittura [inizia la fase più lunga del Percorso, che va da Natale a Pasqua, e che comprende tutta la stagione invernale fino al cuore della prossima primavera] e, quindi, riprendiamo il cammino sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”.

   Noi ora – dal mese di ottobre dello scorso anno – ci troviamo, come ben sapete, ancora di fronte ad un vasto scenario che prende il nome di “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini” e, strada facendo, nei primi tre mesi di questo viaggio, abbiamo incontrato una serie di personaggi e, tra questi, un certo numero [Gerolamo, Cassiodoro, Severino Boezio, Amalasunta, Proclo] che, a vario titolo, hanno operato per conservare i prodotti della cultura e della tradizione antica e tardo-antica: molte Opere classiche hanno rischiato di perdersi [molte sono andate perdute] nel corso del lungo periodo di crisi dovuto al fenomeno dell’implosione che, come ben sapete, ha avuto il suo epicentro in quella che viene chiamata la “caduta” dell’Impero romano d’Occidente [nel 476] le cui fibrillazioni si sono prolungate, provocando ripercussioni su tutto il territorio dell’Ecumene, soprattutto in Italia, con le successive dominazioni [dal 476 al 568, in poco più di novant’anni] degli Eruli di Odoacre, degli Ostrogoti di Teodorico, dei Bizantini di Giustiniano, e la catena delle dominazioni, sul territorio della penisola italica, non finisce qui.

   E, a proposito di Giustiniano [dobbiamo riprendere il passo e recuperare il filo del discorso e, quindi, ripeteremo cose già dette, ma “repetita iuvant - le cose ripetute sono di giovamento”], ebbene,  a proposito di Giustiniano – che viene considerato il più grande degli imperatori bizantini [e quando si parla di Stato bizantino si parla dell’Impero romano d’Oriente con capitale Costantinopoli, l’antica Bisanzio], sappiamo che Giustiniano compie, ai fini della gestione del potere, un gesto deprecabile a scapito della cultura “classica” perché, nel 529, con un editto, impone la chiusura della Scuola filosofica di Atene [e sappiamo anche che c’è un’accreditata corrente di pensiero che pone questa data come l’inizio del Medioevo] e non è l’unico provvedimento repressivo in proposito perché tutte le Scuole ellenistiche delle città più importanti erano già state chiuse.

   Gli imperatori romani, da circa un secolo e mezzo [dall’Editto di Tessalonica di Teodosio contro il paganesimo del 380], conducono una campagna persecutoria nei confronti della filosofia greca, in particolare, neoplatonica che dal III secolo aveva fatto evolvere l’antica cultura ellenica di derivazione orfico-dionisiaca trasformandola in un raffinato pensiero mistico-intellettuale che aveva anche sistematicamente influenzato la “dottrina” del Cristianesimo [senza il decisivo apporto del pensiero neoplatonico la “dottrina” del Cristianesimo non sarebbe mai esistita così come la conosciamo oggi], ma, tuttavia – a mano a mano che la cristianità acquisiva potere, a Roma, a Costantinopoli, e nelle più grandi metropoli dell’Ecumene – si voleva far dimenticare il fatto che la figura di Gesù Cristo si era sovrapposta a quella di Dioniso acquisendone molte prerogative, per cui Cristo e Dioniso [e ne parleremo nella fase finale di questo itinerario] avevano finito per assomigliarsi talmente che i “culti dionisiaci [e i culti misterici in generale: quello di Iside, quello di Mitra]” continuavano ad essere celebrati soprattutto nei villaggi di campagna [nei pagi] e questo fatto rallentava il processo di “cristianizzazione” promosso dal governo di Bisanzio.

   L’intervento repressivo di Giustiniano nei confronti dell’Accademia tardo-neoplatonica di Atene è soprattutto un provvedimento di natura politica preso in vista della dichiarazione di guerra contro i Goti  [la terribile guerra goto-bizantina ha inizio nel 535 e dura diciotto anni, ed è un tragico argomento che abbiamo studiato], dopo che Giustiniano si è auto-nominato Capo della Chiesa d’Oriente e custode dell’ortodossia nicena in chiave anti-ariana [i Goti erano ariani e Giustiniano ci tiene a far sì che questo conflitto diventi una guerra di religione]; il fatto è che con la chiusura della Scuola di Atene si è rischiato di perdere un patrimonio intellettuale di inestimabile valore come i Dialoghi di Platone, i Trattati e la Metafisica di Aristotele, le Enneadi di Plotino e molte altre Opere classiche di straordinaria rilevanza.

   Sappiamo che [e lo abbiamo già ripetuto più volte] Damascio di Damasco, l’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene, insieme ai suoi collaboratori, fugge in Persia [l’Impero persiano è il tradizionale nemico, collocato ad Oriente, dell’Impero bizantino], e il monarca persiano sassanide [il re dei re] Khusraw Anòshakrawan [detto Cosroe]  accoglie di buon grado questi intellettuali perseguitati e fornisce loro gli strumenti per tradurre le Opere filosofiche greche in lingua persiana e questo nuovo movimento di integrazione tra cultura greca e cultura orientale ha permesso il salvataggio di molti preziosi documenti filosofici grazie alle traduzioni siriache e poi arabe [sappiamo che la Metafisica di Aristotele, la maggior parte dei Dialoghi di Platone e le Enneadi di Plotino tornano in Occidente in traduzione araba, intorno all’anno Mille, e questa storia la studieremo a suo tempo].

   La chiusura da parte di Giustiniano dell’Accademia di Atene non decreta però la fine del Neoplatonismo, anche perché, come sappiamo, la resistenza contro la repressione della cultura greco-ellenistica era già cominciata circa quarant’anni prima, quando i filosofi neoplatonici della Scuola di Atene – rifondata da Proclo di Costantinopoli [e lo conosciamo bene questo personaggio] – hanno iniziato a radunare e a rendere trasportabile tutto il materiale che non poteva assolutamente andare perduto [in primo luogo i Dialoghi di Platone, le Opere di Aristotele, le Enneadi di Plotino]; difatti, i reduci della Scuola di Atene, guidati dallo scolarca Damascio, fuggono in Persia portando con loro in esilio una ben fornita biblioteca che, metaforicamente [come ben sappiamo], è stata chiamata “la statua di Atena [la dèa protettrice della Filosofia, la consolatrice di Severino Boezio]” perché il vero monumento della cultura classica [greca e latina] è la raccolta [il corpus, l’àndriás] delle Opere di questa grande stagione [antica e tardo-antica della Storia del Pensiero Umano].

   Sappiamo che questa indispensabile “raccolta [àndriás, la statua]” era stata preordinata a suo tempo [con mezzo secolo di anticipo] da Proclo di Costantinopoli, l’ultimo importante filosofo che ha rifondato e guidato [fino al 485] l’Accademia tardo-neoplatonica di Atene e che abita nel paesaggio intellettuale al quale siamo di fronte, e abbiamo familiarizzato con lui nel corso degli ultimi itinerari e, quindi, sappiamo chi è Proclo di Costantinopoli, sappiamo perché la biblioteca [clandestina, o da viaggio] che Proclo allestisce è stata metaforicamente chiamata “la statua di Atena”, e conosciamo anche – per merito di Lorenzo Valla – il racconto allegorico del famoso “sogno di Proclo”. Sappiamo che le Opere di Proclo [soprattutto i suoi Commenti ai Dialoghi di Platone e ai Trattati di Aristotele] hanno avuto una notevole importanza nel processo di salvaguardia dell’antica cultura classica e le Opere teologiche di Proclo rappresentano una sorta di enciclopedia del Neoplatonismo e la riflessione di questo studioso [l’ultimo filosofo greco dell’Età tardo-antica o il primo filosofo greco dell’Età alto-medioevale? Entrambe le cose] offre un’esposizione completa, in chiave neoplatonica, della struttura gerarchica dell’Essere – che ha fornito, nei secoli, utili strumenti [parole-chiave, idee-cardine] tanto alla “filosofia scolastica” in Età medioevale [compresa la poesia di Dante, e lo abbiamo verificato] quanto alla “dialettica hegeliana” in Età contemporanea.

   Poi sappiamo che Proclo ha compiuto una straordinaria azione di depistaggio: ha composto, in termini neoplatonici, quattro trattati di teologia [autenticamente cristiana], li ha assemblati in un volume [un corpus] e ne ha attribuito la scrittura ad un autore fittizio [autenticamente cristiano] al quale ha dato il nome di Dionigi Areopagita, corrispondente [come abbiamo studiato] all’allegorico personaggio – convertito da Paolo di Tarso dopo la fallimentare conferenza che l’apostolo ha tenuto all’Areopago di Atene – citato nel capitolo 17 al versetto 34 degli Atti degli Apostoli [un frammento appartenente ad un brano sul quale abbiamo concentrato la nostra attenzione].

   Sappiamo che Proclo ha compiuto questa operazione per salvaguardare ed esaltare la potenza [l’energia intellettuale] del pensiero neoplatonico, e abbiamo potuto constatare quale straordinaria incidenza abbia avuto quest’opera, il Dionigi Areopagita, tanto nel salvaguardare la filosofia neoplatonica nei secoli, quanto nel favorire l’inserimento nel canone ideologico del Cristianesimo, in modo definitivo, del concetto orfico-dionisiaco dell’immortalità dell’anima: un’idea [la chiave definitiva del successo] che è servita a potenziare notevolmente la “dottrina” cristiana.

   Abbiamo studiato, prima della vacanza, che nei quattro trattati del Corpus dionysianum – intitolati Teologia mistica, Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini – emergono tre temi fondamentali: la “via per conoscere Dio”, le “caratteristiche delle cose create” e  il “movimento per ascendere a Dio”. Il tema del primato teologico della “negazione”, che il testo del Dionigi Areopagita espone [del fatto che di Dio - o dell’Essere o dell’Uno o del Logos o del Brahman o del Tao - si possa solo dire “ciò che non è”], desterà un interesse straordinario nelle Scuole filosofiche medioevali e quest’opera, il Dionigi Areopagita, sarà citata infinite volte ma, in realtà, la mistica neoplatonica, a cui quest’opera s’ispira, trova anche molti detrattori e spesso sarà sentita come una minaccia nei confronti del messaggio cristiano che conserva un forte connotato materialista [l’idea della resurrezione della carne continua a contendere il primato all’idea dell’anima immortale].

   Si legge nel Dionigi Areopagita che il punto culminante di quel procedimento che si chiama “teologia negativa [il fatto che di Dio si possa solo dire “ciò che non è”, quindi, in pratica, vale il “non-dire, l’allusione”]” è “l’unione contemplativa [l’immergersi nell’accecante luce divina]” e la via per favorire il raggiungimento di questo obiettivo  passa, prima di tutto, attraverso uno stile di vita sobrio, solidale, di studio e meditativo. L’unione contemplativa porta alla “mistica inconoscenza data dell’estasi [secondo le Enneadi di Plotino]” perché non è possibile conoscere Dio per quello che è, e la “contemplazione” è un’esperienza di “non-conoscenza [di inconoscenza]”, e questo termine [a proposito del quale dobbiamo affinare le nostre competenze filologiche] corrisponde alla parola “mistica” – che possiamo tradurre con il termine “inconoscenza” – perché, in greco, deriva dal verbo “mýein” che significa “chiudere gli occhi e le labbra [creare il mystérion]” e, quindi, la “contemplazione” è una disciplina che presuppone un apprendimento del divino dovuto a un’esperienza intima e dato da un’aspirazione intensa che guida l’unione dell’anima con Dio, dell’intelletto con l’Uno. Naturalmente la persona si avvia sulla strada della “contemplazione” [aiutandosi con la lettura, la scrittura, la pratica artistica, l’applicazione intellettuale] attraverso i “simboli” che richiamano la presenza divina. La “inconoscenza estatica, la mistica” è [secondo il Dionigi Areopagita] la più particolare forma di comprensione intellettuale [di illuminazione] fondata sull’intuire, sul captare, sul presentire, sul fiutare, sul presagire, sull’avvertire [«Dio non lo si conosce, lo si avverte» così dice l’incipit  del “Dionigi Areopagita” che abbiamo letto quattro settimane fa].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste azioni – intuire, captare, presentire, fiutare, presagire, avvertire – mettereste al primo posto nell’elenco?...   Che cosa vi ricorda l’azione che avete scelto: quando avete avuto un’intuizione, avete captato un particolare messaggio, avete avuto un presentimento, avete fiutato un’occasione, avete dato ad un fatto la valenza di un presagio, avete avvertito un certo non so che?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

   Spiega il Dionigi Areopagita che il “simbolismo” [e lo abbiamo già detto quattro settimane fa] è la forma più efficace di “inconoscenza” quando si tratta di entrare in contatto con una “realtà indefinibile” dove l’Essere, per la sua ineffabilità, finisce per assomigliare al “non-essere” e, non potendo dire che cosa sia l’Essere, ecco che, attraverso un “oggetto simbolico”, possiamo dire “ciò che non è”, che, riferito ad una “realtà indefinibile”, è già una forma di conoscenza [di inconoscenza] e, in tal caso, la vera parola di commento [di fronte a un simbolo] è il “silenzio intuitivo”, una forma di “disimpegno intellettuale” per lasciare spazio all’intuire, al captare, al presentire, al fiutare, al presagire, all’avvertire ciò che è “essenziale”.

   Per capire meglio il concetto della “inconoscenza ” [l’inconoscenza estatica] pensiamo a quello straordinario apparato che chiamiamo Storia dell’Arte “sacra” medioevale. Per noi che viviamo qui, a Firenze e in Toscana, è abbastanza facile avvicinarci a questo formidabile patrimonio. L’artista raffigura il soggetto“divino” ma la sua opera non porta alla conoscenza di Dio: nessuno, almeno in vita, può conoscere Dio, l’Essere, il Logos, l’Uno, il Tao, il Brahaman. L’artista è tale perché sa intuire, captare, avvertire: sa praticare la “inconoscenza [l’inconoscenza estatica]” che non porta a conoscere Dio [di Dio non si può avere una conoscenza diretta] ma ci mette sulla strada mediante la creazione di un “oggetto simbolico” che serve per farci esercitare ad intuire, a captare, ad avvertire l’idea di Dio, dell’Essere, del Logos, dell’Uno, del Tao, del Brahaman. Un “oggetto simbolico [un prodotto artistico]” che è la Via: è un “non-essere” che facilita la conoscenza dell’inconoscenza.

   Prima della vacanza abbiamo accennato al fatto che un pensiero simile a quello del neoplatonismo contenuto nel Dionigi Areopagita sul tema della “inconoscenza [sul tema della “teologia negativa”]” si era sviluppato in Cina, già dal IV secolo, nell’ambito del Taoismo classico e, quindi, approfittiamo dell’occasione – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – per fare [con una rapida escursione sulle sponde del Fiume Giallo] una visita al misterioso signor Zhuang-zi, detto anche Chuang-tzu, per capire come certe tematiche [con le dovute differenze relative alle coordinate geografiche] siano affini a tutta l’Umanità.

   Lo abbiamo già incontrato più di una volta questo “fantomatico letterato” perché [suo malgrado] è molto famoso anche se di lui non sappiamo nulla – abbiamo solo qualche notizia palesemente falsa messa in circolazione per depistare [per farlo diventare più antico di quello che è, ed è una riflessione che dobbiamo approfondire] – perché, da perfetto “taoista”, Zhuang-zi, detto anche Chuang-tzu [sono due personaggi vissuti in epoche diverse o è un personaggio moderno che s’inventa quello antico?], è riuscito a far perdere le proprie tracce [a fare il vuoto].

   Il pensiero “taoista” invita a riflettere sul fatto che, se l’atto della conoscenza ha bisogno di un contenitore [di una forma concettuale] perché senza un recipiente, senza un involucro [senza un’astratta forma ideale], non si raccolgono le cose da conoscere, ebbene, se è così, bisogna affermare che l’unica realtà dell’involucro [la sua essenza] è quella di “essere vuoto”, è una “non-esistenza”, e, di conseguenza, se solo la “leggerezza del vuoto” ha valore reale, significa che delle “cose pesanti” contenute nel “vuoto” la persona percepisce il loro carattere intangibile e illusorio e, quindi, il “vuoto” corrisponde al “non-essere” e la vera conoscenza non è che “inconoscenza”: è intuizione, intercettazione, avvertimento del “vuoto”.

   Ma, se ora leggiamo questo brano dove l’autore, in modo molto concreto, mette in evidenza che l’intangibile è la realtà stessa, forse, è molto più facile capire questo ragionamento logico che tende a mettere in discussione quel tipo di “logica convenzionale” che vede la realtà nella pesantezza delle cose e non nella leggerezza dello spirito.

LEGERE MULTUM….

Zhuang-zi [Chuang-tzu]

Il macellaio del principe Wen-hui così smembrava un bue: con le mani afferrava la bestia; con la spalla la spingeva e, tenendo i piedi ben fermi al suolo, la sosteneva con le ginocchia. Affondava il coltello con un ritmo così musicale che ricordava quello delle celebri melodie suonate durante la «danza del boschetto dei gelsi» e «l’appuntamento delle teste piumate».

«Ehi!» chiese il principe Wen-hui «come può la tua arte giungere a un tale grado di perfezione?».

Il macellaio posò il coltello e disse: «Amo il Tao e così miglioro nella mia arte. All’inizio della mia carriera non vedevo che il bue. Dopo tre anni di pratica, non vedevo più il bue. Adesso è il mio spirito che opera, più che i miei occhi. I miei sensi non agiscono più, ma soltanto il mio spirito. Conosco la conformazione naturale del bue e attacco solo gli interstizi, i vuoti. Non scalfisco mai né le vene né le arterie, né i muscoli né i nervi, né a maggior ragione le grandi ossa! Un buon macellaio consuma un coltello all’anno perché taglia la carne. Un normale macellaio consuma un coltello al mese perché lo rovina sulle ossa. Lo stesso coltello mi è servito per diciannove anni. Ha smembrato diverse migliaia di buoi e la sua lama è ancora come fosse affilata da poco. In verità, le giunture delle ossa hanno degli interstizi e il taglio del coltello non ha spessore. Colui che sa introdurre il filo della lama in quegli interstizi usa agevolmente il proprio coltello, perché si muove attraverso i vuoti. È per questo che io ho usato il mio coltello per diciannove anni e il suo taglio sembra sempre affilato di fresco. Ogni volta che devo dividere le giunture delle ossa, osservo le difficoltà da superare, mi concentro, fisso lo sguardo e lentamente procedo. Con grande dolcezza maneggio il coltello e le giunture si separano cadendo al suolo come terra che frana perché l’essere è nel vuoto, l’essere è nel non-essere. Ritraggo il mio coltello e mi rialzo; volgo lo sguardo attorno e mi distraggo, compiaciuto; con cura pulisco allora il mio coltello e lo ripongo nel suo astuccio».

«Molto bene,» disse il principe Wen-hui «dopo aver udito le parole del macellaio ho capito l’arte di conservarmi».

   Questo brano molto esemplificativo è tratto dal libro, intitolato con lo stesso nome dell’autore: Zhuang-zi [Chuang-tzu], che viene considerato il capolavoro assoluto della Letteratura cinese [l’opera classica che ne descrive meglio il pensiero creativo]. Zhuang-zi [Chuang-tzu] – e la prima versione del nome è moderna [della fine del IV secolo, l’Età contemporanea al viaggio che stiamo facendo], la seconda [tra parentesi] è una forma più antica, aggiunta [da Zhuang-zi stesso?] per far sembrare più arcaico anche l’autore – riflette in modo nuovo nell’àmbito del pensiero taoista rispetto alla mentalità tradizionale e vorrebbe, forse, che la sua opera fosse considerata un classico antico affinché potesse attingere più autorevolezza [una sorta di intelligente impostura simile a quella messa in atto da Proclo nel comporre il Dionigi Areopagita? Siamo in possesso di competenze che ce lo fanno pensare].

   Il taoismo di Zhuang-zi [Chuang-tzu] è stato definito “estroverso” rispetto a quello “classico” predicato nel testo del Tao-tê-ching [il Libro della potenza del Tao]: un testo [come sapete] fondamentale dell’Età assiale della Storia, un’opera che ha 2500 anni, e per procedere dobbiamo rinfrescarci la memoria su questo oggetto.

   Il Tao-tê-ching – il libro [ching] della potenza [tê] del Tao – contiene la filosofia dell’Umanesimo cinese basato su un’idea madre: esiste una corrispondenza tra le cose e i loro segni. Secondo la saggezza cinese tra le vicende dell’essere umano e quelle del cosmo fisico c’è una correlazione, un rapporto, un legame, un collegamento così stretto che, come i terremoti o le tempeste turbano la società, così i comportamenti umani, nel bene e nel male, si riflettono sul corso stesso della natura: se ci comportiamo male provochiamo anche un disordine, non solo nella società, ma anche nella natura. Se ci comportiamo in modo malvagio partecipiamo a costruire le cause delle alluvioni, dei terremoti, delle tempeste, del degrado ambientale con tutte le conseguenze che comporta. Questa simmetria dinamica tra il mondo mentale del soggetto umano e il mondo esteriore è governata da un principio universale chiamato: “Tao”. Gli Ellenisti [epicurei, stoici, scettici, eclettici] direbbero “Logos”, i neoplatonici dicono “Uno”, e il termine “Tao” viene tradotto con l’espressione [piuttosto riduttiva ma necessaria]: “la legge della natura”. Il Tao [la legge della natura] è dotato di una sua energia vitale, chiamata Tê.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine Tê ha anche dato il nome alla famosa bevanda: il tè…   Con chi avete preso un tè recentemente e di che cosa avete parlato?...  

Scrivete quattro righe in proposito…

   Non c’è aspetto della civiltà classica cinese che non rifletta questa reciprocità, questo scambio, tra il mondo mentale della persona [l’Intelletto] e il cosmo fisico [la Natura]. L’esempio emblematico è quello dell’alfabeto cinese che consiste in raffigurazioni stilizzate degli oggetti [se ne contano a migliaia], e la creazione dell’alfabeto cinese è una straordinaria operazione intellettuale che ha come obiettivo quello di costruire combinazioni simboliche in modo da esprimere concetti astratti [uno degli esempi più significativi di come il simbolismo sia la forma più efficace di “inconoscenza”]. Il rapporto tra la cosa e il segno che la raffigura non è solo convenzionale ma è vitale perché al segno si attribuisce la stessa potenza dell’oggetto raffigurato. La cultura cinese [fin dalle origini] è basata sulla convinzione che esista un’unità fondamentale tra lo spirito e la natura, e su questa corrispondenza tra le cose e i loro segni si è sviluppata una tipica tradizione magica e divinatoria che viene descritta in un Libro “sacro” che ha preso forma ben prima del Tao-tê-ching e anche sulle caratteristiche di questo oggetto dobbiamo rinfrescarci la memoria.

   Il Libro “sacro” della Cina è un antico volume, composto da cinque testi, intitolato I-Ching [i Libri] e in esso è riportata la “dottrina” delle due forze che agiscono nell’intero organismo cosmico e in ogni sua parte, anche minima: lo Yin, che corrisponde al versante ombroso delle montagne, all’inverno, al freddo, al principio femminino, e lo Yang che corrisponde al versante assolato delle montagne, all’estate, al caldo, al principio maschile. I due principi toccano il culmine della loro separatezza rispettivamente nell’inverno e nell’estate ma, in realtà, non sono mai separati perché è dal diverso dosaggio tra la loro contrapposizione e la loro compenetrazione che traggono forma e movimento tutte le cose: questa dottrina ricorda le figure contrapposte ma interdipendenti di “Apollo e Dioniso” nella cultura greca “orfico-dionisiaca” e fa pensare al fatto che nel pensiero dell’Accademia tardo-neoplatonica di Atene si ritiene che tutte le cose traggano forma e movimento dalla sintesi che avviene in ciascuna triade tra Enadi in antitesi tra loro [è il sistema “dialettico” disegnato da Proclo nella sua Teologia Platonica]. Nel pensiero cinese la realtà del Cosmo corrisponde al risalire del Tao dalle radici, dal basso, perché il Tao è immanente a tutte le cose, mentre nel pensiero neoplatonico la realtà corrisponde ad una emanazione dall’Uno verso il basso perché l’Uno trascende tutte le cose: sebbene ci sia questa differenza fondamentale i due pensieri non possono prescindere dal fenomeno della “corrispondenza”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La cultura taoista cinese e la cultura neoplatonica greco-romana sono entrambe dominate dall’idea della “corrispondenza”…   

Il termine “corrispondenza” è legato ad un catalogo di parole significative: uguaglianza, somiglianza, simmetria, correlazione, riscontro, fedeltà, interdipendenza, equilibrio… Quale di queste parole mettereste al primo posto nell’elenco?…

Scrivetela...

   Attorno a I-Ching [i Libri], in Cina, si è sviluppata una tradizione esegetica [d’interpretazione e di commento] che è rimasta privilegio di una categoria di scrivani [Confucio è uno di essi, anche Chuang-tzu era uno di essi?] detti “letterati” che danno vita ad un gran numero di Scuole, tanto che, nella storiografia cinese, c’è un lungo periodo [che corrisponde, più o meno, a quello del nostro viaggio] che viene chiamato delle “Cento scuole”. Gli orientamenti culturali dominanti in queste Scuole sono due: il taoismo e il confucianesimo.

   Il confucianesimo diventa il pensiero dominante [favorito e protetto dagli imperatori] e presenta l’esigenza di opporsi al caos sociale, determinato dalla disgregazione dell’Impero cinese in tanti staterelli in conflitto tra loro [anche nell’estremo Oriente si assiste ad un fenomeno di implosione: vedete quante corrispondenze con tra Occidente e Oriente!]; il confucianesimo si propone di ripristinare un antico ordine tradizionale [ammesso che ci fosse mai stato] fondato sul rigore morale e sul rispetto delle gerarchie familiari e politiche: anche il Dionigi Areopagita propone “gerarchie celesti [buone, belle e giuste]” che possano corrispondere a “gerarchie terrestri” che dovrebbero avere le stesse positive caratteristiche.

   Mentre invece il taoismo s’ispira a un’esigenza di disimpegno dagli affanni della vita sociale in nome di una ricerca interiore del Tao, del principio universale, della legge della Natura e noi adesso – Confucio [non ce ne voglia] non lo possiamo incontrare – dobbiamo occuparci dell’orientamento taoista che, avendo un’impronta “anarchica”, subisce una persecuzione simile a quella che subisce il Neoplatonismo in Occidente più o meno negli stessi secoli.

   Il Taoismo classico, secondo la tradizione, sarebbe stato fondato da un mitico personaggio, Lao-tse, che si oppone nei confronti dell’ideologia confuciana che si identifica col potere politico, ritenendo che il pensiero di Confucio si sia allontanato dalla tradizione originaria del “vero Tao”, basata sul principio della “inconoscenza” e del “disimpegno”. Uno storico cinese del I secolo ha scritto: «Di Lao-tse si può assicurare soltanto, che, avendo amato l’oscurità più di ogni altra cosa, cancellò deliberatamente ogni traccia della sua vita». In realtà Lao-tse non è mai esistito se non come personaggio letterario creato dal movimento taoista, e chi ha costruito il personaggio letterario di Lao-tse? A fare di Lao-tse un contemporaneo di Confucio [551-479 a.C.] – come se fosse una persona realmente esistita tra il VI e il V secolo a.C. – è stato il testo del Zhuang-zi [Chuang-tzu]. Secondo il Zhuang-zi [Chuang-tzu] i due grandi saggi della Cina [Confucio e Lao-tse] si sarebbero incontrati più volte, sempre per iniziativa di Confucio che puntualmente restava sconfitto dall’enigmatica e scontrosa sapienza di Lao-tse.

   Secondo il Zhuang-zi [Chuang-tzu] il nome di Lao-tse è legato al Tao-tê-ching, il libro [ching] della potenza [tê] del Tao: Lao-tse – secondo il Zhuang-zi [Chuang-tzu] –  avrebbe dettato il testo di quest’opera su pressante richiesta del portinaio della Barriera orientale [della Grande Muraglia], Yin-Hsi, mentre, lasciata la corte imperiale dove era stato archivista, fuggiva dal paese per seguire la Via, per andare verso il Tao [la legge suprema che regola la natura e gli eventi umani], ma, chissà, forse è lo sconosciuto scrittore del Zhuang-zi [Chuang-tzu] che è costretto a fuggire e a nascondersi [come i membri dell’Accademia tardo-neoplatonica di Atene?]. Se l’autore del Zhuang-zi [Chuang-tzu], per costruire il suo pensiero, fa l’esegesi del Tao-tê-ching [il Libro della potenza del Tao] dobbiamo fare un [rapido] ripasso sulla forma e sul contenuto di quest’opera anche [e soprattutto] per capire una serie di affinità tra il sistema del Zhuang-zi [Chuang-tzu] e quello del Dionigi Areopagita.

   Il Tao-tê-ching [il Libro della potenza del Tao] è composto da 81 capitoletti e ogni capitoletto è un aforisma, è una massima, è una parabola scritta per mettere in evidenza il fatto che il Tao è indefinibile e ineffabile. Il Tao [secondo il commento di Zhuang-zi] non è, come pensano i confuciani, l’armonia che deriva dall’osservanza dei riti e delle norme di comportamento privato e pubblico, il Tao non è un’armonia prodotta dall’essere umano: l’armonia del Tao, l’armonia della legge di natura, esiste fin da principio e sta oltre la sfera pubblica della vita e oltre il velo delle vicende naturali. Se l’essere umano [si legge nel Tao-tê-ching] è convinto di essere necessario all’andamento dell’universo, e si affanna negli affari e si angustia nella ricerca dei beni e dei poteri materiali, non capirà mai nulla del Principio che nessuno può dominare, anzi, che nessuno può nominare, e questo ragionamento è simile a quello che fa Plotino nelle Enneadi rispetto all’Uno, e che l’Accademia tardo-neoplatonica di Proclo riprende e sviluppa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine “ineffabile” richiama tre parole-chiave: la finzione, la notizia, la somiglianza...

Sceglietene una e scrivete quattro righe in proposito: sono tre termini molto calzanti con la scrittura autobiografica ...

   E ora leggiamo l’incipit [i primi due capitoletti] del Tao-tê-ching per constatare come certe riflessioni del taoismo cinese siano affini a quelle del neoplatonismo alessandrino e ateniese.

LEGERE MULTUM….

Tao-tê-ching

La Via [il Tao] veramente Via non è una via costante. I Termini [i nomi] veramente Termini non sono termini costanti. Il termine Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra; il temine Essere indica la madre delle diecimila cose. Così, è grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell’Essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini. Questi due, sebbene abbiano un’origine comune, sono designati con termini diversi. Ciò che essi hanno in comune, io lo chiamo il Mistero, il Mistero Supremo, la porta di tutti i prodigi.

  Tutti nel mondo riconoscono il bello come bello; in questo modo si ammette il brutto. Tutti riconoscono il bene come bene; in questo modo si ammette il male. Difatti: l’Essere e il Non-essere si generano l’un l’altro; il difficile e il facile si completano l’un l’altro; il lungo e il corto si formano l’un l’altro; l’alto e il basso si invertono l’un l’altro; i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il prima e il dopo si seguono l’un l’altro.

  Vi è qualcosa di indefinibile nata prima del cielo e della terra tanto silenziosa e senza forma, assoluta e immutabile gira e non fa danni, può essere la madre del cielo e della terra, non so il suo nome, sforzandomi lo chiamo Tao.

  Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome, il senza nome è il principio del cielo e della terra.

   La conoscenza del Tao [della legge suprema che regola la natura e gli eventi umani] – così come la conoscenza dell’Uno neoplatonico – può aversi solo con un’intuizione razionale non esprimibile in parole ma, naturalmente, anche nella cultura del pensiero taoista, così come nella cultura neoplatonica, le parole orali e scritte [il simbolo per eccellenza] non mancano.

   Il Tao – contrariamente al pensiero neoplatonico che descrive l’intelletto umano in tensione verso l’Uno – non è considerato come l’Essere supremo a cui tende, pur nella sua impotenza, l’intelletto umano, e questo presupporrebbe che ogni attività interpretativa debba cessare e, invece – così come succede in campo neoplatonico nei confronti dell’Uno – il tema fondamentale del pensiero cinese [specialmente dal IV secolo in avanti] è quello dell’interpretazione del Tao, della definizione del Tao, nonostante si affermi che il Tao non è definibile e neppure nominabile.

   I commentatori – come l’autore del Zhuang-zi [Chuang-tzu] – fanno entrare il Tao, pur negando che possa essere definito come un concetto, nella sfera della ragione. I commentatori – e, per primo, l’autore del Zhuang-zi [Chuang-tzu] – chiamano il Tao  col nome di “Wou”, che può essere tradotto con il termine “nulla”. Il Tao viene considerato come “l’essere privo di ogni determinazione” e dunque si presenta simile al “non-essere”. Tutte le cose sussistono in virtù tanto dell’essere quanto del non-essere e nascendo, le cose, emergono dal Tao, morendo vi ritornano: vita e morte sono una medesima cosa, e ritroviamo lo stesso ragionamento nel pensiero neoplatonico perché anch’esso oscilla tra la priorità dell’Uno e la priorità del molteplice. C’è un momento – tanto nel pensiero neoplatonico del Dionigi Areopagita quanto nel pensiero del taoismo cinese del Zhuang-zi [Chuang-tzu] – in cui si mette al primo posto l’Uno e il Tao, e le cose molteplici si risolvono e si annullano nell’Essere e tutta la realtà è contenuta nell’unità dell’Essere. E poi c’è un altro momento – tanto nel pensiero neoplatonico quanto nel pensiero taoista – dove l’Essere si ramifica nel molteplice e perde la prerogativa di essere Uno o Tao e assume la caratteristica del Non-essere. Un commentatore cinese del Tao-tê-ching descrive questo concetto sotto forma di metafora: «Non c’è ghiaccio separato dall’acqua, né l’acqua costituente il ghiaccio è separata dal ghiaccio, né essa è un’altra entità. Similmente, essendo tutte le cose costituite dal Tao, il Tao, necessariamente, non è separato da tutte le cose e non esiste come altra entità. Se il Tao trascendesse tutte le cose, sarebbe un vuoto, e allora non potrebbe essere chiamato principio cosmico». Dunque il Tao – così come l’Uno – non esiste al di fuori delle cose e nemmeno si identifica con le cose molteplici e mutevoli: «Il Tao è inafferrabile! – si legge nel Tao-tê-ching – sembra esistente ed è elusivo! Io non so di chi sia figlio».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che cosa vorreste afferrare per primo: il tempo, lo spazio, la forma?...

Scrivete quattro righe in proposito su come gestire il vostro tempo, il vostro spazio, la vostra forma in modo che siano meno  “inafferrabili”...

   Perché il taoismo di Zhuang-zi [Chuang-tzu] può essere definito “estroverso”? Il taoismo “classico” dice che il mondo è fatto di “Diecimila cose [il molteplice]” di cui dobbiamo liberarci per tornare all’unità del Tao [la Legge di natura]. Il taoismo “estroverso” preferisce invece aggirarsi tra le “Diecimila cose” di cui è fatto il mondo proprio per mostrare quanto sia incoerente la logica di chi le prende sul serio queste “Diecimila cose”.

   L’opera che rappresenta il manifesto del taoismo “estroverso” è [come sappiamo] il libro intitolato Zhuang-zi [Chuang-tzu]. Il titolo di quest’opera [secondo una tradizione consolidata in Oriente] corrisponde al nome di un autore, Chuang-tzu, che sarebbe vissuto tra il 369 e il 286 a.C., il suo, difatti, è un nome antico che corrisponde a quel periodo [tra il IV e il III secolo a.C. e, forse, questo maestro è esistito davvero] ma, in realtà, questo testo è stato composto – e lo si capisce con una semplice indagine filologica – da un autore del IV secolo [nel periodo che corrisponde a quello del nostro viaggio] chiamato Zhuang-zi, del quale non sappiamo nulla e, con ciò, si realizza un’operazione simile a quella fatta da Proclo il quale firma i suoi trattati col nome di Dionigi Areopagita.

   Mentre il testo del Tao-tê-ching ha lo stile dei grandi libri sacri: è conciso, è enigmatico, è severo, il testo del Zhuang-zi [Chuang-tzu] è invece una geniale mescolanza di lirismo, di sapienza poetica, di vivacità narrativa, di ironia ed è anche un catechismo in funzione dell’insegnamento di uno stile di vita ed è, inoltre, un trattato di abilità dialettica e di iniziazione mistica nel senso laico del termine. Il Zhuang-zi [Chuang-tzu] si presenta, quindi, come un’opera complessa e di grande fascino che, nei secoli, ha attirato l’attenzione delle studiose e degli studiosi di tutto il mondo soprattutto per un elemento fondamentale che riguarda la prassi dell’Apprendimento: la definizione [di un’idea, di un concetto, di un oggetto] non può essere fine a se stessa [un dogma] ma deve essere sempre uno strumento di espansione in funzione della riflessione e dobbiamo vivere in una condizione di riflessione permanente. Il testo del Zhuang-zi [Chuang-tzu] rappresenta l’anima libertaria della Cina che usa la logica per distruggere il conformismo della logica e che svela le contraddizioni delle intelligenze quando, per comodità sociale o per interesse privato, si integrano nel sistema dei luoghi comuni. Il pensiero “estroverso” del Zhuang-zi [Chuang-tzu] invita ad osservare la Natura intesa come un principio indeterminato e, per capire questa idea, dobbiamo pensare agli sfondi nei dipinti di Leonardo da Vinci: in questo sfumare, nel dissolversi, nell’evaporare sta la saggezza della Natura della quale possiamo cogliere ciò che “non è” con un processo di “inconoscenza”. Il grande Tessitore è il Tao che manifesta la sua efficacia mediante l’energia del Tê e le “Diecimila cose [il Mondo creato]” prendono Forma dal Tê che è la manifestazione della potenza indefinibile della Natura; quindi, il Mondo si manifesta attraverso un’organica ramificazione di Forme ricche di forza energetica [l’energia vitale del Tê] e la persona, ripercorrendo a ritroso le ramificazioni può intuire le Forme e arricchirsi di energia vitale; ma, per far questo, bisogna imparare a sorpassare la “logica apparente [il conformismo dei luoghi comini]” mediante un tirocinio che comporta una permanente “ascetica riflessiva” che conduce alla “pace del cuore”, alla “serenità d’animo”. Quello che lo Zhuang-zi [Chuang-tzu] chiama “ascetica riflessiva” è un concetto simile alla “inconoscenza estatica” del Dionigi Areopagita: ambedue i sistemi [taoista e neoplatonico] parlano di una forma di comprensione intellettuale [di illuminazione] fondata sull’intuire, sul captare, sul presentire, sul fiutare, sul presagire, sull’avvertire.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Di fronte a quale situazione avete pensato che dovevate “mettervi il cuore in pace”?...

 Scrivete quattro righe in proposito...

   Il testo del Zhuang-zi [Chuang-tzu] è ricco di aneddoti i cui protagonisti – letterati [tra loro c’è anche Confucio], politici, tecnici – diventano maschere di una comune recitazione spesso comica, a volte grottesca, e questo spirito satirico è rivolto contro chi presume di cercare la felicità nel “potere che fa finta di civilizzare” invece che imparare a dialogare con “l’indefinibile energia della Natura”.

   E ora, prima di ritornare verso Occidente, leggiamo qualche pagina dal Zhuang-zi [Chuang-tzu]. Ricordiamoci che l’autore di questo testo usa la logica per buttare all’aria la logica che considera la definizione come un punto di arrivo e non come un punto di partenza. Nel Zhuang-zi [Chuang-tzu] il paradosso è uno stimolo utile per non cadere nella “pigrizia mentale” che è sempre in agguato ed è propiziata da chi, in posizione dominante, non tollera che le persone riflettano sull’illusorietà del potere.

LEGERE MULTUM….

Zhuang-zi [Chuang-tzu]

Quando vivevano ingenui e schietti, puri nel cuore e mondi di conoscenza, gli umani avevano semplici desideri. Si nutrivano finché erano sazi, passeggiavano finché si sentivano stanchi, senza una meta. Questo facevano, finché vissero secondo la loro natura. Ma vennero i potenti civilizzatori a rompere la spontaneità con le cerimonie e i sacri riti, ad offuscare la limpida natura con una morale sofisticata e convenzionale. Allora gli umani impararono a desiderare la ricchezza e gli onori e a superarsi l’un l’altro, presi dalla febbre di una gara invidiosa. La colpa è dei potenti che fanno finta di civilizzare se le persone si sono allontanate dalla natura del Tao [dalla Legge di natura]

   Guan Yin diceva: «Il principio è la quintessenza, le cose sono grossolane, l’accumulo è insufficienza. Non legatevi al vostro io, e le cose appariranno quali esse sono. Il vostro movimento sia simile a quello dell’acqua, la vostra immobilità simile a quella dello specchio, la vostra risposta simile all’eco; siate fuggitivi come il nulla che non c’è, sereni come l’acqua pura. Chi rende se stesso simile alle altre persone vi si adatterà. Chi si impone verrà sconfitto. Non superate mai le altre persone, tenetevi sempre indietro». Lao Dan occupa l’ultimo posto. La gente si arricchisce, lui si spoglia. Poiché nulla egli possiede, vive nell’abbondanza, simile a una montagna. Possiede la pace interiore, si comporta con parsimonia. Pratica il non-agire e non si cura dell’abilità. Tutti aspirano alla felicità; egli si piega per restare integro, dice: «Tutto ciò che si indurisce sarà distrutto, tutto ciò che si affila sarà smussato»

   Hui Shi rispondeva ai suoi interlocutori senza esitazione, senza curarsi di riflettere. Discorreva a proposito di tutti gli esseri, parlava senza fermarsi, ininterrottamente e si gloriava di saper confondere i suoi interlocutori. Dal punto di vista del Tao il sapere di Hui Shi è simile al vano lavorìo della zanzara o del tafano. Di che utilità sono al mondo? Hui Shi non ha conquistato altro che la fama di abile retore; che peccato! Hui Shi, con tutti i suoi doni, si è disperso nelle cose senza giungere a nulla, che è come voler correre più veloce della propria ombra. Che tristezza!

   L’ombra dell’ombra interroga l’ombra: «Poco fa, tu camminavi e ora ti fermi. Poco fa, tu eri seduta e ora sei in piedi. Perché non hai una condotta indipendente?». L’ombra rispose: «Non dipendo forse da qualcosa, per essere così? Questo qualcosa non dipende a sua volta da un’altra cosa? Io dipendo da qualcosa proprio come il serpente dipende dalle sue scaglie e la cicala dalle sue ali. Come potrei io conoscere ciò che fa sì che io sia ora così, ora altrimenti?».

   Zhuang-zi passò accanto al re di Wei ed era vestito con un abito di tela rozza e rappezzata e le scarpe legate ai piedi con lo spago.  «In che stato miserevole vi trovo, maestro!» disse il re. «Povertà non è miseria» rispose Zhuang-zi. «Quando un letterato non può mettere in pratica la sua dottrina, questa è miseria. Con il vestito rappezzato e le scarpe bucate egli è povero, ma non miserabile. Ciò significa soltanto che i tempi non gli sono stati propizi. Il mio re non ha mai visto la scimmia arrampicatrice? Quando si trova in cima agli alberi di cedro, di catalpa, di quercia e di canfora e vi regna da padrona. Ma quando si sposta tra gli arbusti, i limoni, gli aranci selvatici e i giuggioli, avanza come se fosse in pericolo e si muove tremando. Questo non dipende dal fatto che abbia i muscoli contratti e le articolazioni poco flessibili, ma perché si trova in un ambiente poco propizio, dove non può utilizzare le sue capacità! Così, il letterato che vive sotto il regno di un principe stupido e di ministri turbolenti e imbecilli non scamperà alla miseria. Se sono finito in questa estrema indigenza è forse colpa del Destino? Il re illuminato estende ovunque la sua opera benefica, ma non fa sentire di esserne l’autore. Aiuta e migliora tutti gli esseri senza che questi sentano di essere sotto la sua dipendenza. Il mondo ignora il suo nome ed egli si identifica con il nulla».  Pochi giorni dopo, mentre Zhuang-zi stava morendo, i suoi discepoli gli rivelarono la loro intenzione di fargli un funerale sontuoso. «È inutile, disse il moribondo, perché il cielo e la terra saranno la mia doppia bara, il sole e la luna i miei due dischi di giada, le stelle e la stella polare le mie perle, tutti gli esseri il mio corteo. Il mio arredo funebre non è completo? Che cosa vorreste aggiungervi?»«Ma temiamo, dissero i discepoli, che i corvi vi divorino»«In alto, rispose Zhuang-zi, rischio di essere divorato dai corvi e dagli avvoltoi, in basso dai grillitalpa e dalle formiche. Che parzialità sarebbe quella di volermi levare ai primi per darmi ai secondi? La pace procurata da ciò che non è in pace non è la pace, la prova fornita da ciò che non è provato non è una prova probante. La semplice visione delle cose è asservita alle cose, solo lo spirito è probante. La visione non eguaglia lo spirito ma lo stolto si fida solo di ciò che vede nei suoi rapporti con gli altri. Che tristezza!».

   La vita umana è limitata; il desiderio di esistere è illimitato. Colui che consuma la propria vita limitata per inseguire l’illimitato desiderio di vivere giunge all’esaurimento; esauritosi, vuol desiderare ancora e muore così di esaurimento. Chi fa il bene attira a sé la fama: chi fa il male si vota al castigo. Solo colui che ha per regola la moderazione può conservare il proprio corpo, vivere intera la propria vita, adempiere ai suoi doveri e giungere al limite naturale dell’esistenza.

   Se io discuto con te e tu hai la meglio su di me, hai forse necessariamente ragione e io necessariamente torto? E se io ho la meglio su di te, ho io necessariamente ragione e tu necessariamente torto? Né io né te possiamo saperlo, e un terzo sarebbe nella stessa oscurità. Chi può decidere senza errore? Se interroghiamo qualcuno che è del tuo parere, come potrà decidere, se è del tuo parere? Se è d’accordo con me, come potrà decidere, se è d’accordo con me? Lo stesso accadrà se si tratta di qualcuno che è insieme d’accordo con me e con te, o se è di un parere differente da entrambi. Allora né io, né te, né un terzo possiamo decidere. Dovremmo attendere un quarto?

   Una volta Zhuang-zi sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang-zi. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamano la metamorfosi degli esseri.

   Il libro intitolato Zhuang-zi [Chuang-tzu] e il libro intitolato Dionigi Areopagita, entrambi frutti – sebbene lontanissimi tra loro – di un’intelligente impostura, c’insegnano una cosa molto importante: che il pensiero umano sospetta della validità dei concetti chiari e distinti, e questo sospetto predispone la persona ad investire in intelligenza, a mettersi in ricerca.

   Mentre dalla Cina torniamo verso Occidente facciamo una breve tappa in India dove ci aspetta un personaggio – sappiamo che lo dobbiamo incontrare – che si unisce a noi nel tragitto di ritorno: questo personaggio abita [piuttosto appartato] nel paesaggio intellettuale che continua a fluire sotto i nostri occhi: il paesaggio della “salvaguardia delle Opere dei classici greci e latini”. Con questo personaggio siamo già entrate ed entrati in relazione prima della vacanza: si chiama Nonno di Panopoli ed è una nostra vecchia conoscenza [lo abbiamo incontrato in diverse occasioni nei nostri viaggi] ma adesso lo incontriamo proprio nello scenario intellettuale dove abita: perché era in India? Ogni tanto compie un viaggio in India per rievocare un mito di cui ci dobbiamo occupare.

   Proclo di Costantinopoli e i seguaci dell’Accademia tardo-neoplatonica di Atene non sono gli unici, in questo periodo in cui l’Impero bizantino perseguita la cultura pagana [greca e latina], a volerla salvaguardare ma c’è anche Nonno di Panopoli, il quale compie una straordinaria operazione intellettuale per tutelare l’elemento originario della “sapienza poetica e filosofica greca”: la figura stessa di “Dioniso” e i “simboli” con i quali questa figura è stata rappresentata nel corso dei secoli in Età antica e tardo-antica. Mentre Proclo e i membri della sua Scuola [l’Accademia tardo-neoplatonica di Atene] operano per salvaguardare il patrimonio del “pensiero neoplatonico”, Nonno di Panopoli agisce intellettualmente per salvaguardare le parole-chiave e le idee-cardine del “pensiero neopitagorico” [A Panopoli - fiorente città del delta del Nilo non lantana da Alessandria dove Nonno è nato - c’era la più importante Scuola neopitagorica del bacino del Mediterraneo, anch’essa chiusa per decreto] e il Neopitagorismo, che è affine al Neoplatonismo, viene oltremodo perseguitato dal sistema imperiale giustineaneo.

   C’è un momento nella Storia del Pensiero Umano, nel VI secolo, in cui le studiose e gli studiosi collocano un avvenimento che è stato chiamato: la “rappresentazione dell’ultimo Canto di Orfeo” e questo episodio – così come la metafora del “sogno di Proclo” che accompagna la composizione del Dionigi Areopagita – può essere considerato come l’allegorico atto conclusivo di una cultura morente [assoggettata dall’invadenza della cristianità], ma, in realtà, questo evento è anche il concreto atto di salvaguardia dei modelli culturali del pensiero orfico-dionisiaco che si sono conservati e sono rimasti ben presenti nella società moderna e contemporanea.

   Il complesso tema riguardante la “rappresentazione dell’ultimo Canto di Orfeo” è legato ad un’opera colossale e riguarda uno dei più significativi enigmi della Storia della cultura del quale è protagonista Nonno di Panopoli.

   Nonno [così come Proclo e Zhuang-zi] è un personaggio misterioso e di lui, con certezza, conosciamo solo il luogo di nascita: Panopoli, una ricca città egiziana collocata nel delta del Nilo non lontano da Alessandria. Sappiamo anche che a Panopoli si è sviluppata una delle più importanti Scuole Neopitagoriche dell’antichità [il Neopitagorismo ha contribuito alla nascita del Neoplatonismo e della dottrina cristiana] e c’è una relazione tra la figura di Nonno e il pensiero neopitagorico. Non conosciamo la data di nascita di Nonno di Panopoli ma si capisce che è vissuto nel corso del VI secolo, nel momento in cui il Cristianesimo, ufficialmente, s’impone sulla cultura greca ed inizia la persecuzione delle Scuole ellenistiche.

   L’enigma di Nonno di Panopoli riguarda le sue opere: che cosa ha scritto? Nonno di Panopoli ci ha lasciato in eredità due opere straordinarie, stupefacenti, tanto per il loro valore [poetico ed enigmatico], quanto per il dibattito culturale che hanno suscitato. Delle due opere di Nonno una s’intitola Dionisiache [Dionysiakà] ed è un poema epico in 48 canti [numero pari alla somma dei canti dell’Iliade e dell’Odissea] e l’altra s’intitola Parafrasi del Vangelo di Giovanni [Metàbole kata Ioannin].

   Che cos’è una metàbole o una parafrasi? “Metabole Metàbole”, in greco, significa “trasferimento di un testo in un nuovo testo” e una “metàbole [o una parafrasi]” è la riscrittura di un’opera sviluppandone il testo il più possibile e dilatandolo con commenti e interpretazioni in maniera esagerata. Nonno riscrive il testo del Vangelo secondo Giovanni in versi esametri, commentandolo e interpretandolo concetto per concetto e parola per parola: ne è venuta fuori un’opera spropositata in cento Libri che sta quasi tutta ancora sui codici perché ne è stata pubblicata solo una piccola parte.

   Nonno di Panopoli – per il modo in cui costruisce i suoi testi – è stato spesso definito il primo grande scrittore barocco rococò [dal termine francese “rocaille-rokài” che significa “luogo sassoso” e indica in tipo di ornamentazione, in origine, ispirato alle grotte e ai ninfei dei giardini rinascimentali che prendeva spunto dall’imitazione di elementi naturali come grotte, conchiglie], perché lo stile rococò è ricco d’intarsi, di abbellimenti, di sovrapposizioni decorative: ebbene, la scrittura di Nonno è altrettanto sovrabbondante, debordante, esorbitante, eccedente, traboccante.

   Il poema Dionisiache [Dionysiakà] è scritto in epilli, che sono versi esametri in stile alessandrino: sono versi voluttuosi, sinuosi, sensuali, sovrabbondanti di aggettivi, dove i riferimenti culturali si sovrappongono l’uno all’altro in un continuo gioco decorativo, intarsiato, stupefacente.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per avere un corrispettivo visivo, tradotto in immagini, della scrittura di Nonno di Panopoli è utile ammirare i quadri di un pittore provenzale che si chiama Jean-Honoré Fragonard [1732-1806] L’arte di Fragonard rappresenta la fioritura dello stile rococò in Europa nella seconda metà del ‘700: i colori, la pennellata fanno di questo artista l’interprete di una pittura traboccante, sensuale, sottilmente erotica e “dionisiaca”…     Utilizzando la rete e un Catalogo che trovate in biblioteca osservate le opere di Fragonard [L’altalena, Il giardino di Villa d’Este, Bagnanti…] e scrivete quattro righe in proposito perché in questi quadri c’è senz’altro un particolare che colpisce la vostra fantasia…

   Il poema Dionisiache racconta la storia del viaggio in India di Dioniso e, durante questo viaggio – che è anche una spedizione militare e un pellegrinaggio –, Dioniso narra tutte le tappe della sua leggenda, del suo mytos, del suo culto. Compiere un viaggio in India, per gli intellettuali alessandrini [ecco perché Nonno di Panopoli, periodicamente, fa un’escursione in India], significava risalire alle fonti della cultura universale, riallacciarsi alla cultura dei Libri dei Veda [i Libri della Sapienza] che è la cultura dell’immortalità anima, dell’eccellenza dello spirito, della ricomposizione dell’esistere individuale con l’Essere universale [l’Atman-Brahman]. Nonno, nelle Dionisiache, esalta Dioniso e la cultura orfica, così come nella Parafrasi del Vangelo di Giovanni esalta Gesù Cristo e la cultura evangelica.

   Non si sa quale delle due opere sia stata scritta per prima da Nonno e, quindi, è difficile rispondere alla domanda su chi sia Nonno di Panopoli: è un neopitagorico [o un neoplatonico] che ha celebrato le ultime luci della cultura orfica con il poema su Dioniso e poi si è convertito al Cristianesimo, ormai dominante, scrivendo la Parafrasi del Vangelo di Giovanni? Oppure è avvenuto l’inverso: Nonno è un cristiano che, ad un tratto, viene folgorato dalla cultura orfica e, dopo la Parafrasi sul Vangelo, passa all’onda travolgente delle Dionisiache? Oppure [e oggi questa è la linea di tendenza] si può pensare che Nonno abbia scritto nello stesso tempo le Dionisiache e la Parafrasi. Con una mano disegna le avventure di Dioniso, con l’altra evoca il processo di Gesù di Nazareth. Nonno è un poeta orfico che guarda al cristianesimo o è un cristiano che guarda alla sapienza poetica orfica, oppure è un intellettuale laico che analizza entrambe le correnti cercandone i tratti concomitanti? L’enigma [affascinante] delle opere di Nonno si presenta in tutta la sua complessità.

   Studiando la Parafrasi del Vangelo di Giovanni e le Dionisiache di Nonno di Panopoli si scopre che la mente di questo scrittore è profondamente commossa da entrambi gli “esseri divini” di cui parla: Cristo e Dioniso. E, probabilmente, non ha neppure bisogno di chiedersi quale dei due sia più importante per lui, e perché scriva su di loro: nessun elemento, di fatto, ci può aiutare a risolvere l’enigma, però, lo “stile ridondante” dei testi delle sue opere ci fa capire che Nonno [così come l’autore del Dionigi Areopagita e anche quello del Zhuang-zi] è senza dubbio un poeta che nasconde in sé un cultore della “teologia negativa” il quale ha capito che dell’Essere si può solo dire “ciò che non è” e, quindi, lo si può solo cogliere nel suo “ridondante” manifestarsi come “non-essere”, nel momento in cui si rivela nelle innumerevoli forme del “molteplice”.

   E l’intento teologico di Nonno emerge nella sua scelta stilistica incentrata sulla ridondanza, l’abbondanza, l’eccesso, l’esuberanza, e il suo proposito non è tanto quello di definire un “dio orfico” o un “dio cristiano”, ma quella di presentare un’idea di Dio. Nonno, come teologo [non importa se orfico o cristiano o laico] ci manda a dire, con lo stile della sua scrittura poetica, che bisogna avere fede nella ridondanza e nell’eccesso – nella “molteplicità del non-essere” – perché l’abbondanza di stimoli intellettuali e l’esuberanza del desiderio di conoscere spingono la persona a coltivare l’Eros, l’armonica energia vitale dell’Universo. La Divinità [che s’identifica con l’Armonia, secondo il pensiero di Pitagora] ci dona innumerevoli stimoli – ridondanti, abbondanti, eccedenti – orientati verso la conoscenza [l’Eros] che l’essere umano deve imparare a riconoscere, e per Nonno la “sapienza poetica” è un mezzo per far avvicinare l’intelletto umano all’esuberanza divina di Dioniso e di Cristo.

   Se nelle due opere di Nonno si osservano i dettagli narrativi, ve n’è uno, che ha indirizzato tutte le studiose e gli studiosi, a coltivare l’ipotesi che Nonno abbia scritto nello stesso momento – senza percepire alcuna frattura tra l’una e l’altra opera – le Dionisiache e la Parafrasi del Vangelo di Giovanni. Le due opere di Nonno contengono un concetto-chiave, un’idea determinante che lo scrittore ha sintetizzato nella parola “oistros oìstros” che, in greco, significa il “tafano” [l’insetto dittero, appartenente alla specie dei Tabanidi]. Innumerevoli volte nelle Dionisiache viene mostrato da Nonno l’operare del tafano che rappresenta l’immagine stessa di Dioniso e della sua presenza. La stessa cosa avviene nel testo della Parafrasi del Vangelo di Giovanni dove Gesù viene paragonato al tafano che crea inquietudine nella nostra coscienza. Dioniso e Cristo sono entrambi come un “tafano provocatore” che ci stimola in continuazione affinché non ci si lasci andare al torpore, alla noia, all’alienazione, all’assuefazione: sono due figure scomode che provocano un senso di fastidio e, per questo, Dioniso e Cristo sono stati eliminati con la violenza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che cosa vi fa venire in mente la parola “tafano”? Sicuramente questa parola è legata al “senso di fastidio”: una situazione che può avere una funzione di stimolo oppure creare una frustrazioneIn quale circostanza e con quale valenza [di stimolo o di frustrazione] avete provato un “senso di fastidio”?

Scrivete quattro righe in proposito…

   Le Dionisiache è un’opera dove abbondano le scene erotiche, le scene sensuali. Queste scene sono una metafora della conoscenza: l’educazione dei sensi – con il controllo del desiderio e con l’orientamento dell’energia sensuale – è propedeutica alla conoscenza.

   Le scene amorose nel testo delle Dionisiache sono capolavori poetici, e il fatto che il protagonista [Dioniso] stia compiendo un viaggio in India fa pensare che Nonno di Panopoli conosca la cultura del Kamasutra di Mallanaga Vatsyayana, uno scrittore vissuto tra il III e il IV secolo la cui opera ha avuto una vasta diffusione. “Kamasutra” significa “il testo [sutra] della via dei sensi [kama]” e non è solo un compendio erotico che descrive posizioni e tecniche corporee, ma è un’opera complessa: è un romanzo d’amore, è un trattato di sociologia e di antropologia culturale, è un poema etico, è una guida all’erotismo in funzione della conoscenza ed è un testo sacro perché la vicendevole comunione amorosa avvicina le persone alla beatitudine divina, e l’unione amorosa è un’immagine della ricomposizione dell’Essere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Si consiglia la consultazione, in biblioteca, del testo intitolato “La trappola della giumenta... Andate a scoprire e ad osservare di che cosa si tratta...

   Una delle scene più sensuali delle Dionisiache è, senza dubbio, quella in cui, l’autore, racconta l’incontro amoroso tra Zeus e Semele in cui avviene il concepimento di Dioniso. Molte e molti di voi conoscono questa immagine mitica perché abbiamo già letto questo racconto [nel Percorso sulla tragedia negli anni 2003-2004] nella versione di Ovidio da Le Metamorfosi; adesso a noi non interessa mettere in evidenza il complesso racconto mitico [la mytos-archis] ma vogliamo puntare l’attenzione su alcune parole-chiave per continuare a riflettere sul “tema della salvaguardia” e, quindi, leggiamo solo un frammento dal canto settimo delle Dionisiache in cui incontriamo “l’Oistros Bròmio”, il “tafano fremente”, con il quale Dioniso viene identificato fin dalla nascita. Ma soprattutto leggiamo questo frammento perché in un verso le parole mostrano quello che è stato chiamato “l’enigma pitagorico” di Nonno che è legato al tema della salvaguardia dei concetti della cultura classica che rischiano di perdersi tra le macerie dell’implosione dell’Impero romano occidentale.

LEGERE MULTUM….

Nonno di Panopoli,  Le Dionisiache  Canto 7

Premeva il dio [Zeus] le labbra eccitate sulla bocca della fanciulla [Semele] ridente,

facendola inebriare nell’abbraccio potente, cospargendola col nettare d’amore

perché concepisse un figlio, signore della nettàrea vendemmia

e come presagio di eventi futuri, levava in alto un grappolo,

oblio di tutti gli affanni, farmaco di molti malanni.

In realtà tutta la terra rideva, un vigneto fitto di foglie cresceva

e correva intorno al letto finalmente fecondato

e sulle pareti sbocciavano fiori di prato, stillanti rugiada oleosa e odorosa

per coronare dell’Oistos Bròmio, il tafano fremente, la nascita misteriosa.

Sul letto sgombro di nubi, Zeus fece echeggiare, con sentimento sincero,

dai più lontani e profondi silenzi, gli armoniosi ma inquietanti fragori del tuono,

preannunciando i timpani delle feste notturne di Dioniso a celebrarne il mistero

con il loro incessante, assordante, ritmico, ditirambico, orgasmico suono.

   L’undicesimo verso di questo frammento: «…dai più lontani e profondi silenzi, gli armoniosi ma inquietanti fragori del tuono…» contiene tre parole-chiave – “silenzio armonia e inquietudine” che sono tipiche della cultura neopitagorica [i vertici di un triangolo] che il poeta-filosofo vuole salvaguardare. “Silenzio, armonia e inquietudine” sono tre situazioni [una triade, potrebbe dire Proclo, e anche molto affini al pensiero del Zhuang-zi] strettamente legate tra loro e il concetto de “l’inquietudine provocata dall’armonico silenzio cosmico” si è dimostrato – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – un fenomeno intellettualmente molto produttivo che ha coinvolto scrittrici e scrittori di tutte le epoche. Il concetto del “tafano fremente [Oistos Bròmio]” mette la persona di fronte alla coscienza di esistere, e il prendere coscienza di esistere inquieta profondamente perché suscita una domanda fondamentale: c’è un’essenza nell’esistenza? Questo interrogativo scuoterà con forza le coscienze del filosofi della Scolastica medioevale [C’è un’essenza che trascende l’esistenza? Che natura ha questo “qualcosa”?].

   Ma ora dobbiamo entrare nel testo della Parafrasi del Vangelo di Giovanni per capire come Nonno utilizzi la figura del “tafano pungente” per unire queste due affascinanti figure: Dioniso e Cristo. Non è, forse, anche Gesù Cristo lo stesso insetto fastidioso che incita la persona a superare le ipocrisie che si annidano nel suo animo e che si traducono nei riti con cui le istituzioni manifestano il loro potere? Leggiamo.

LEGERE MULTUM….

Nonno di Panopoli, Parafrasi del Vangelo di Giovanni   8 48-59

I suoi avversari gli dissero: «Non diciamo bene noi, che sei un samaritano [uno straniero] e hai un demonio in corpo e sei pazzo?».

Rispose Gesù: «Io non ho un demonio in corpo, ma onoro il Padre mio, e voi mi disonorate. Io non cerco la mia gloria; vi è Uno che la cerca e che giudica. In verità, vi dico: Se uno osserva la mia parola non vedrà la morte in eterno». Gli dissero: «Ora sappiamo che hai davvero un demonio in corpo. Abramo è morto, come anche i Profeti, e tu dici: Chi osserva la mia parola non gusterà la morte in eterno. Sei tu più grande del nostro padre Abramo, il quale è morto? E anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?». Rispose Gesù: «Se fossi io a glorificare me stesso, la mia gloria sarebbe nulla; c’è il Padre mio che mi glorifica, del quale voi dite: È il nostro Dio! e non lo conoscete, ma io lo conosco bene. E se dicessi di non conoscerlo, sarei come voi, un bugiardo; ma lo conosco, e osservo la sua parola. Abramo, nostro padre, ha esultato nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e ne gioì». Gli dissero allora: «Non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo?»   Rispose loro Gesù: «In verità, vi dico: Prima che Abramo fosse, io sono». Allora presero delle pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose ed uscì dal Tempio.

Gli avversari accusano Gesù, e il testo del Vangelo di Giovanni dice: «Non è vero che sei un Samaritano [uno straniero] e hai un demonio in corpo e sei pazzo [óti daimónion écheis]? Ciò significa che si debba parafrasare: «e ora ti spinge il vagante tafano vendicatore [alàstoros oìstros] del demone Lyssa, la Pazzia».

   Nonno definisce Dioniso con gli stessi attributi ormai assunti da Gesù Cristo: soter [il salvatore], dikaster [il giudice], e poi attribuisce a Gesù Cristo l’attributo più provocatorio di Dioniso: “oìstros [il tafano fremente]”. Questo fatto dimostra che Nonno di Panopoli è uno di quegli intellettuali che, nel VI secolo, si sono schierati contro la cristianizzazione del tempo e della Storia: questo tema lo abbiamo affrontato nell’itinerario prima della vacanza incontrando Dionigi il Piccolo. Nonno di Panopoli pensa che Dioniso e Cristo siano due figure complementari, due personaggi “salvifici” proprio perché sovrastano il tempo [il tempo è tiranno?]. Forse che – sostenevano gli intellettuali [tanto cristiani quanto neoplatonici] contrari alla cristianizzazione del tempo – prima dell’incarnazione di Cristo non c’era la Storia? La Parola di Dio, il Logos, si è incarnato non per cristianizzare la Storia ma per “umanizzare il Mondo” [liberandolo anche dalla tirannide del tempo]: per quale motivo, allora, bisogna cristianizzare il “tempo [il chronos]” quando Gesù Cristo è venuto [come scrive Paolo nella Lettera ai Romani] per “trasformare il tempo che passa in tempo resta [in kairòs]”? La resurrezione di Gesù [l’anastasia] ha cambiato la qualità delle cose e [sostengono gli intellettuali che si oppongono alla cristianizzazione del tempo] voler cristianizzare la Storia significa rendere statico il messaggio evangelico che propone la trasformazione della persona e la trasformazione dell’Umanità, quindi, cristianizzare il tempo significa togliere al messaggio evangelico lo slancio propulsivo: voler cristianizzare il tempo [impadronirsi del tempo e della Storia] è come negare la resurrezione. Nonno, con le sue opere [facendo uso della “sapienza poetica e filosofica”], si è espresso contro la cristianizzazione della Storia, e su questo tema c’è stato uno scontro, non indolore, determinato dal quadro storico e politico di questo periodo, del così detto Alto-medioevo sul cui territorio stiamo viaggiando.

   Chi ha saputo mediare tra l’ideale evangelico [proclamando l’evento a-temporale della resurrezione] e il realismo ecclesiale [stabilendo il tempo liturgico], in modo che la situazione non degenerasse? È stato un certo Gregorio che incontreremo prossimamente: quali sono le competenze di questo personaggio? Tra le sue competenze c’è anche quella di fare dei sogni premonitori [come Gerolamo, come Severino Boezio, come Proclo, come Nonno, come Zhuang-zi?].

   E allora, per concludere, a proposito di sogni, ascoltiamo ancora la voce del misterioso autore del Zhuang-zi [Chuang-tzu].

LEGERE MULTUM….

Zhuang-zi [Chuang-tzu]

Certi sognano banchetti, e al risveglio piangono; altri piangono in sonno, e all’alba partono per la caccia. Gli uni e gli altri nei loro sogni non sanno di sognare e a volte sognano di sognare. Soltanto al momento del risveglio sanno di aver sognato. E solo al grande risveglio sapremo che tutto non è stato che un sogno. La folla si crede desta quando distingue il principe da un pecoraio. Quale pregiudizio!  «Kong-zi e voi stessi, non siete che dei sogni. Io vi dico che voi sognate, e anche questo è un sogno». Queste parole sono straordinarie e paradossali. Nei secoli a venire un grande saggio le capirà, un giorno. Questo giorno verrà così rapidamente come la sera segue il mattino.

   Un pecoraio può valere molto di più di un principe? Certamente, soprattutto in tempo di carestia.

   Questa sera abbiamo disegnato sul territorio dell’Ecumene un ampio triangolo pitagorico i cui vertici sono Costantinopoli [che consideriamo Europa] nella figura di Proclo, Loyang [sul fiume Giallo in Asia] nella figura di Zhuang-zi e Panopoli [nel delta africano del Nilo] nella figura di Nonno. La superficie di questo triangolo è occupata dal concetto della “inconoscenza” secondo il quale i grandi principi assoluti [Uno, Tao, Dio] non sono direttamente conoscibili, ma il fatto che l’Intelletto ne abbia teorizzato l’esistenza mette la persona sulla Via della ricerca: l’atto che dà un senso alla vita umana.

   Il viaggio continua e per questo la Scuola è qui, per spronarci, anche in questo nuovo anno, ad investire in intelligenza…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 10, 2014