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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE LA “VULGATA EDITIO” DI GEROLAMO SI PRESENTA COME UN ATTO DI SALVAGUARDIA DELLA CULTURA ANTICA ...

Lezione N.: 
4

Prof. Giuseppe Nibbi     La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale     6-7-8  novembre  2013

San Gerolamo nel suo studio - Guercino

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

LA “VULGATA EDITIO” DI GEROLAMO SI PRESENTA

COME UN ATTO DI SALVAGUARDIA DELLA CULTURA ANTICA ...

   Ben tornate e ben tornati a Scuola dopo la prima pausa stagionale.

   Iniziamo il quarto itinerario del nostro viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” in compagnia di Gerolamo di Betlemme [in arte San Gerolamo] che viene considerato il più istruito fra tutti i Padri della Chiesa per la sua vasta conoscenza dei classici latini e greci, e per la sua competenza nella lingua ebraica dell’Antico Testamento: un personaggio che si è meritato il titolo di “vir trilinguis [uomo trilingue]” per la sua perfetta conoscenza del latino, del greco e dell’ebraico. Gerolamo è una persona che sa recitare a memoria, oltre al Libro dei Salmi, al Libro della Sapienza, al Cantico dei Cantici, ai Libri del Siracide [Ecclesisticus], di Qoelet, di Giobbe e dei Profeti, anche i trattati di Cicerone, le tragedie di Seneca ed il Manuale di Epitteto. Per queste sue caratteristiche intellettuali nel 382 Gerolamo viene invitato a Roma [per partecipare ad un sinodo dei Vescovi sul tema dei principi dell’ortodossia] da papa Damaso, il quale gli chiede di fargli da segretario, e Gerolamo accetta. Tra Damaso [papa dal 366 al 384] e Gerolamo si stabilisce una profonda amicizia perché sono entrambi amanti dello studio e dell’esercizio della lettura e della scrittura e di papa Damaso scrittore – autore dei famosi Tituli – abbiamo già parlato nell’itinerario di due settimane fa.

   Ora noi ci troviamo, ancora in compagnia di Gerolamo [che ci fa da guida], dinnanzi al primo vasto scenario culturale dell’Età alto-medioevale: il paesaggio intellettuale chiamato della “salvaguardia delle antiche Opere dei Classici greci e latini” che rischiano di perdersi [e i testi di molte opere purtroppo li abbiamo perduti] a causa della confusione e del disordine causato dall’implosione dell’Impero romano d’Occidente [un fenomeno che è in atto e che stiamo osservando]. Anche papa Damaso [San Damaso] è ancora presente sulla scena del paesaggio intellettuale che abbiamo di fronte e questo personaggio, governando la Chiesa di Roma, si è trovato a dover gestire, usando la massima determinazione, una congiuntura molto difficile.

   Il pontificato di papa Damaso s’inserisce in una situazione di grande conflittualità per la Chiesa [c’è un violento contrasto in corso che dura ormai da circa mezzo secolo, ed è un tema che abbiamo studiato, in primavera, nel corso del viaggio dello scorso anno scolastico quando abbiamo virtualmente partecipato al primo Concilio di Nicea]: questa permanente ostilità è causata dell’insanabile scontro dottrinale tra la Chiesa di Roma [fedele all’ortodossia cioè alla dottrina stabilita, nel 325, dal primo Concilio di Nicea, voluto da Costantino, per cui Gesù è vero Dio e vero Uomo ed è stato generato con la stessa sostanza del Padre,  omoousios omoousios, ed è una persona distinta dal Padre ma di natura divina identica a quella del Padre] e gli Ariani [per i quali Gesù è la prima creatura del Padre, una persona di natura angelica che assomiglia al Padre,  omoiousios omoiousios, e, quindi, di natura divina inferiore rispetto al Padre]. Questa conflittualità dottrinale – nella quale interferiscono anche gli imperatori [a volte fedeli alla dottrina nicena come Teodosio, altre volte simpatizzanti della visione ariana come Costanzo e Valente] e s’intromettono anche i re delle popolazioni germaniche [dei Visigoti e dei Vandali] che stanno occupando [come sappiamo] i territori dell’Impero d’Occidente – provoca, nella seconda metà del IV secolo, il sorgere di violente contese per l’acquisizione e il controllo del papato perché al Vescovo di Roma viene ormai riconosciuto un “primato” universale, e questa figura comincia ad avere un peso politico sul territorio dell’Ecumene [abbiamo già ricordato, tre settimane fa, la figura di papa Leone Magno che, circa settant’anni dopo Damaso, con la sua autorità ferma gli Unni, e si serve dei Vandali per punire l’avara e strafottente aristocrazia mercantile romana]; tuttavia, l’elezione del Vescovo di Roma [nella seconda metà del IV secolo] è un avvenimento ancora direttamente legato all’Urbe [in questo momento i grandi elettori del Vescovo di Roma sono: il clero romano, il popolo romano, il senato romano e l’imperatore che, oramai, è l’unico soggetto estraneo alla Città Eterna che, da tempo, non è più capitale] per cui, intorno all’elezione del Vescovo di Roma, sale il tasso di conflittualità [si moltiplicano le interferenze] e succede che, ad un papa eletto [quando non ha il sostegno di tutte le componenti], spesso, si contrappone un antipapa nominato da una fazione avversa. Al tempo di papa Damaso questo conflitto si acuisce e il personaggio di Damaso [papa legittimo dal 366 al 384] si colloca tra le figure di due antipapi [Felice II e Ursino]. Dobbiamo renderci conto, quindi, del fatto che anche la Cristianità è investita [e continuerà ad essere investita] da molte fibrillazioni negative che rientrano nel fenomeno più generale dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente [un fenomeno che stiamo osservando mentre c’incamminiamo nel territorio dell’alto-medioevo].

    E, a questo proposito, sul tema della comparsa nella Storia della Chiesa delle figure degli “antipapi” – che caratterizzano tutta l’Età medioevale – dobbiamo raccontare una storia [piuttosto complessa] che si configura in una serie di episodi che preludono al più importante incarico intellettuale che Gerolamo riceve da papa Damaso e che gli assicura il titolo di Padre della Chiesa.

   Il predecessore di papa Damaso si chiama Liberio ed è stato eletto, a larga maggioranza, nel 352 ed è il legittimo depositario della dottrina del Concilio di Nicea [Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo, generato, non creato, una persona della stessa sostanza del Padre, omoousios]. L’imperatore Costanzo parteggia per la fazione ariana e chiede a papa Liberio [a nome di trecento vescovi che simpatizzano per l’arianesimo] che riconosca anche la formulazione dottrinaria degli Ariani [Gesù Cristo è la prima creatura angelica, la persona più somigliante al Padre, omoiousios, ma dipendente e sottomessa al Padre], ma Liberio [sostenuto da Atanasio, vescovo di Alessandria] rifiuta di cedere a questa  imposizione e, di conseguenza, viene fatto arrestare dall’imperatore, processato per lesa maestà, e mandato in esilio in Tracia: il diacono Damaso parte insieme a lui. Mentre Liberio è in esilio, a Roma, la fazione ariana elegge un antipapa [siamo all’apice della conflittualità ai vertici della Chiesa universale] che si chiama Felice II.

   Papa Liberio [che continua ad essere ritenuto il papa legittimo dal popolo romano e dal Senato] nel 358 decide di scendere a compromessi con l’imperatore e, dopo aver firmato una formula – la “formula di Sirmio [città della Pannonia]” che contiene delle aperture dottrinali nei confronti degli Ariani [questa formula viene considerata da Gerolamo e da Atanasio non ortodossa e famigerata], con questo espediente ottiene la grazia e, quindi, può tornare a Roma dove viene accolto trionfalmente dal Senato e dal popolo che mette in fuga Felice II considerato un usurpatore [il fatto curioso è che Felice II è l’unico antipapa che viene conteggiato anche nel catalogo ufficiale dei papi legittimi e tale fatto ha determinato l’irregolarità nella numerazione dei papi che si chiamano Felice].

   Alla morte di Liberio [nel 366] viene eletto papa il suo più stretto collaboratore, Damaso [sappiamo che Damaso è nato nel 305 ed è figlio di Laurentia e di Antonio che era uno dei vescovi rurali dell’Agro romano], ma la fazione ariana dei seguaci dell’antipapa Felice II organizza una contro-elezione e gli oppone il diacono Ursino: le due parti che si contendono il papato si scontrano sanguinosamente nella basilica romana di Giulio, oggi Santa Maria in Trastevere. Non è bene ricordare la chiesa di Santa Maria in Trastevere solo per questo drammatico episodio: sarebbe ingiusto e, quindi, è doveroso aprire una piccola parentesi utile ad allargare il campo delle nostre conoscenze.

   Il quartiere di Trastevere, che nasce come zona povera della città, conserva due tra i monumenti più antichi e significativi di Roma: al centro della piazza di Santa Maria in Trastevere si trova la fontana – a vasca ottagonale, elaborata dall’architetto Carlo Fontana nel 1692, restaurata nel 1873 – posta davanti alla basilica paleocristiana di Santa Maria in Trastevere, una delle chiese più importanti e ricche di opere d’arte di Roma. Qui, in questo luogo, nel 38 a.C., dove c’era una fonte, avvenne un prodigio: cominciò a fuoriuscire un getto di olio extra-vergine e, questo fatto, nella successiva interpretazione cristiana, venne interpretato come la prefigurazione dell’avvento di Gesù Cristo [l’Unto del Signore]. Papa Callisto I [papa dal 215 al 222] sceglie questo posto come luogo di riunione della comunità per celebrare il rito della Cena del Signore e, nel IV secolo, papa Giulio I [papa dal 337 al 352, il predecessore di Liberio] vi costruisce la prima chiesa in Roma dedicata alla Vergine Maria che prende il nome di Basilica romana di Giulio, e questo edificio è stato, nei secoli, più volte ricostruito divenendo una delle chiese più ricche di splendide opere d’arte della città.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Alla Chiesa di Santa Maria in Trastevere sono dedicati numerosi siti corredati da molte immagini e tra queste spicca quella della miniatura bizantina della “Madonna Theotokòs [Madre di Dio]” datata intorno al VII secolo dove Maria appare nei panni di una regina bizantina

Fate una visita a questa basilica… 

   E ora torniamo sul nostro cammino specifico.

   Naturalmente in questa lotta per il controllo del papato [dove il sacramento dell’Amore passa molto spesso in secondo piano] entrano anche gli imperatori: prima Valente che parteggia per gli Ariani e sostiene l’antipapa Ursino e, poi, il suo successore Teodosio che invece si schiera con Damaso [in favore dell’ortodossia nicena] ed è a questo punto che, nel 380 [come abbiamo già studiato], Teodosio emana l’Editto di Tessalonica il cui testo condanna l’Arianesimo, il Paganesimo [la scienza greca e la filosofia neoplatonica], e il Cristianesimo romano viene dichiarato religione di Stato.

   Papa Damaso – proprio in ragione di queste negative fibrillazioni e per mettere l’imprimatur papale sulla Sacra Scrittura – dà a Gerolamo un incarico di grande importanza: quello di realizzare una nuova traduzione in latino dei Libri della Bibbia a cominciare dal Nuovo Testamento, e nasce così quella redazione della Bibbia che prende il nome di Vulgata editio e che rappresenta uno dei più grandi monumenti letterari della Storia della cultura. Un’accreditata corrente di pensiero sostiene che il Medioevo ha inizio con questa opera di traduzione, che è, in primo luogo, un’operazione di salvaguardia del patrimonio culturale antico e tardo-antico [greco, latino ed ebraico], che gli intellettuali dell’Età alto-medioevale ricevono in eredità.

   Il catalogo delle Opere che abbiamo ereditato da Gerolamo è ricchissimo: le Lettere [di cui abbiamo già parlato nello scorso itinerario], la Vulgata editio [la traduzione latina della Bibbia di cui stiamo per studiare le caratteristiche] e poi il Chronicon [Cronaca], che è un’opera storiografica di grande importanza che noi, in questi ultimi anni [nel corso dei nostri viaggi] abbiamo citato in continuazione perché è una miniera di informazioni sulla cultura classica: il Chronicon [Cronaca] è, nella sua struttura, un compendio di Storia universale a cominciare da Abramo, e Gerolamo lo traduce dall’opera omonima del vescovo greco Eusebio di Cesarea [il primo storico della Chiesa] che era arrivato a raccontare gli avvenimenti più importanti fino al 325 [al Concilio di Nicea], Gerolamo integra il racconto di Eusebio con le vicende storiche e politiche [desumendole dall’Opera dello storico Svetonio] fino al 378 [l’anno della morte dell’imperatore Valente], ma l’importanza di quest’opera sta nel fatto che Gerolamo, di suo, aggiunge una serie lunghissima di notizie letterarie, un deposito di preziosissime informazioni che sono servite per completare la conoscenza della Storia del Pensiero Umano dell’Età antica e tardo-antica.

   Questo vale anche per l’opera che Gerolamo [imitando Svetonio] intitola De viris illustrubus [Gli uomini illustri] formata da 135 brevi biografie di personaggi che non sono né condottieri, né re, né imperatori ma “buoni cristiani [scrive Gerolamo] che compongono opere letterarie”, a partire da san Pietro [il quale è da considerarsi un autore letterario solo secondo la tradizione], e poi Gerolamo [con la sua mentalità ecumenica] inserisce anche tre personaggi che non sono cristiani: due intellettuali ebrei, lo storico Giuseppe Flavio e l’esegeta biblico Filone Alessandrino [due personaggi che conosciamo] e lo storico romano Svetonio; con questa scelta Gerolamo vuole dimostrare che si è comunque cristiani quando si coltiva la cultura con l’intento di migliorare la società in cui si vive; l’ultima biografia di quest’opera è l’autobiografia di Gerolamo [questa sera, a fine itinerario, torneremo su quest’opera  perché c’è un motivo di genere].

   Infine, tra le opere di Gerolamo, dobbiamo ricordare ancora le Biografie di tre monaci che si chiamano Paolo, Malco e Ilarione, tre testi piacevoli per lo stile vivace e semplice e per il tono fiabesco che li contraddistingue: è interessante notare come Gerolamo, tra le righe, coltivi una velata invidia per questi sant’uomini che sono fiduciosi, calmi, tranquilli nella loro fede semplice e rassicurante, mentre lui è perennemente scosso dall’inquietudine e [facendo una serie di allusioni alla maniera di Irène Némirovsky] sembra domandarsi se la caratteristica della Fede sia la serenità, la tranquillità, la pacatezza o se, invece, le componenti necessarie per coltivare la Fede siamo piuttosto l’agitazione e il turbamento.

   Da questo prezioso catalogo di Opere si capisce – da come sono strutturate – che Gerolamo è il primo intellettuale a coltivare l’intento di salvaguardare le “forme grammaticali e sintattiche” con cui sono scritte le Opere dell’antica cultura classica ed è per questo motivo che vive nel primo grande scenario culturale che s’incontra sul territorio dell’Età alto-medievale al quale è stato dato il nome di “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini”. Questa caratteristica di Gerolamo – che studia, che legge, che scrive, che traduce – emerge in tutte le opere d’arte che lo ritraggono [esiste una vastissima iconografia su Gerolamo e a lui non dispiace, sebbene dica di non voler apparire].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando i siti della rete e i cataloghi d’arte reperibili in biblioteca potete osservare l’opera intitolata “San Girolamo nel suo studio” dipinta dal Guercino [1591–1666] e conservata al Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo… E poi di Domenico Ghirlandaio potete osservare ancora un “San Girolamo nel suo studio” dipinto nel 1480 che si trova nella Chiesa di Ognissanti a Firenze e, in questo caso, potete far visita direttamente a Gerolamo [in questa raffigurazione può sembrare che Gerolamo se la rida sotto i baffi?]…

   Un altro argomento su cui – utilizzando l’enciclopedia, la rete e la biblioteca – potete fare un piccola ricerca riguarda la figura di Atanasio [che abbiamo citato poco fa] vescovo di Alessandria e Padre della Chiesa [295 circa - 373]. Atanasio [e non possiamo ignorarlo] è considerato santo dalla Chiesa cattolica, da quella ortodossa e da quella copta [egiziana] che lo nomina come il primo “papa di Alessandria”, e anche le Chiese luterana e anglicana lo ricordano nel loro calendario.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tra le molte opere scritte da Atanasio c’è la “Vita di Antonio”  - Sant’Antonio è il primo dei Padri del deserto e lo si conosce come “lu nemicu de lu dimoniu”, come dice il testo di una famosa canzone popolare che prende spunto dall’opera di Atanasio [Antonio lo nomineremo ancora strada facendo] -: ebbene, richiedete in biblioteca questo testo e leggetene qualche pagina…

   Atanasio dopo la sua morte, avvenuta il 2 maggio nel 373, viene sepolto ad Alessandria ma nel Medioevo la sua tomba compare a Venezia nell’antica Chiesa di San Zaccaria e, quando, nel maggio del 1973 il Patriarca di Alessandria [il papa copto], Shenouda III, incontra papa Paolo VI [erano 1500 anni che cattolici e copti non s’incontravano], il papa di Roma [Giovanni Battista Montini] gli propone [gli offre], in nome dell’ecumenismo, la traslazione della salma di Atanasio presso la cattedrale copta di San Marco ad Alessandria d’Egitto dove tuttora riposa in pace.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con l’ausilio della rete potete avvicinarvi alla cattedrale di San Marco di Alessandria d’Egitto collegandovi al sito del “Patriarcato di Alessandria” perché, senza tener conto di questo dato specifico, vi potreste trovare a far visita [è comunque un’interessante visita in più] al Duomo della città di Alessandria in Piemonte che è una cattedrale dedicata anch’essa a San Marco

Divertitevi a fare ricerca su temi e luoghi che sono solo apparentemente lontani da noi

 

   E adesso ci dobbiamo occupare della più importante opera di Gerolamo: la Vulgata editio, la traduzione in latino dei Libri della Bibbia a cominciare da quelli della Letteratura dei Vangeli scritti in greco.

   Gerolamo però vorrebbe che, prima di occuparci di questo tema, ci rammentassimo del fatto che, quindici giorni fa, abbiamo iniziato a leggere un romanzo il cui titolo, Il calore del sangue, si rifà ad un argomento che anche Gerolamo tratta spesso: nessuna persona può sentirsi mai al riparo dalla passione [la passione amorosa] quando questa è infiammata dal calore del sangue.

   Irène Némirovsky ha scritto il romanzo intitolato Il calore del sangue tra il 1937 e il 1938, e ambienta il suo racconto nel paese di Issy-l’Évêque, nel Morvan, dove si è rifugiata con la famiglia e dove viene arrestata nel luglio del 1942 e trasferita ad Auschwitz dove muore di tifo circa un mese dopo. In questo breve romanzo l’autrice – con la sua tipica fluidità narrativa punteggiata da quella “soave crudeltà” che la contraddistingue [c’è sempre un sottile pessimismo, che assomiglia a quello dei Classici, nel pensiero di Irène Némirovsky, lo stesso pessimismo che emerge nelle Lettere di Gerolamo] – punta il suo sguardo tagliente sull’ambiente della provincia francese [la Francia profonda del mondo agricolo] dove tutto sembra scorrere lentamente alla luce di una quieta e rassicurante agiatezza campagnola.

   Siamo in Borgogna nell’autunno del 1930 dove il tempo è scandito dal susseguirsi delle stagioni [abbiamo letto due settimane fa l’incipit di questo romanzo che ci porta dentro la stagione autunnale con i suoi difetti che, paradossalmente, diventano dei pregi da gustare], e questa ciclica lentezza stagionale è, o per lo meno sembra, consolante, mentre la giovane Colette, figlia di due ricchi proprietari terrieri, François e Hélène Érard, sta per sposarsi con un bravo ragazzo, Jean Dorin, appartenente ad una famiglia simile alla sua e, quindi, per loro si prospetta un felice avvenire [apparentemente uguale a quello degli affiatatissimi genitori di Colette]; ma la realtà – quella sentimentale, quella passionale [la realtà che Gerolamo, soprattutto nel deserto, sente emergere in lui a causa del “calore del sangue”] – è molto più complessa di quello che sembra in apparenza e tutto ciò lo si capisce attraverso la voce del personaggio che fa da narratore, il cugino Sylvestre [l’alter-ego della scrittrice], il quale ascolta e guarda distrattamente ciò che succede intorno a lui ma poi racconta puntigliosamente e commenta [per se stesso e per noi lettrici e lettori] i fatti intessendo una sottile rete fatta di preoccupanti e un po’ inquietanti allusioni che, via via, diventano inaspettate rivelazioni.

   Gerolamo ci ricorda che siamo stati invitati anche noi al matrimonio di Colette e di Jean e allora andiamo a leggere e a farci raccontare dal narratore [il cugino Sylvestre] come avviene la festa di nozze e quali altri personaggi entrano in scena.

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Il calore del sangue

Colette si è sposata il 30 novembre a mezzogiorno. La famiglia si è riunita per un grande pranzo seguito da un ballo. Sono tornato a casa al mattino, passando per il bosco della Maie, i cui sentieri in autunno sono ricoperti da un tappeto di foglie tanto spesso e da una così alta coltre di fango che si avanza a fatica, come in una palude. Mi ero trattenuto a casa dei miei cugini fino a tardi. Aspettavo l’arrivo di una persona che volevo veder ballare Moulin-Neuf è attiguo a Coudray, dove un tempo abitava Cécile, la sorellastra di Hélène: lei è morta, ma ha lasciato Coudray in eredità alla sua pupilla, una bambina che aveva preso con sé e che ora è una donna sposata; si chiama Brigitte Declos. Supponevo che tra Coudray e Moulin-Neuf corressero rapporti di buon vicinato, e che l’avrei vista al matrimonio. Infatti fece la sua comparsa.

È una ragazza alta e di grande bellezza, con l’aria sfrontata, piena di forza e salute. Gli occhi sono verdi, i capelli nerissimi. Ha ventiquattro anni. Indossava un abito corto e nero. Fra tutte le donne presenti, era la sola a non essersi messa in ghingheri per le nozze. Ebbi persino l’impressione che si fosse vestita in modo così semplice di proposito, per mostrare il disprezzo che nutre nei confronti di questi provinciali diffidenti, che non l’hanno mai accettata. Tutti sanno che è solo una figlia adottiva, niente di più, in fin dei conti, delle trovatelle che lavorano nelle nostre fattorie. Fra l’altro, ha sposato un mezzo contadino, un vecchio, avaro e scaltro, che possiede i terreni migliori della regione ma parla solo in dialetto e conduce lui stesso le vacche al pascolo. A quanto pare, per lei non è un problema scialacquare i soldi del marito: il vestito veniva da Parigi, e alle dita portava diversi anelli con grossi diamanti. 

Conosco bene il vecchio: è stato lui a comprare, pezzo per pezzo, tutta la mia modesta eredità. A volte la domenica lo incontro lungo i sentieri: si è messo le scarpe buone e il berretto, si è fatto la barba e viene a rimirare da vicino i prati che gli ho ceduto, dove ora pascolano le sue bestie. Io gli passo accanto. Passeggio col cane o vado a caccia; rincaso quando fa notte, e lui è ancora lì, non si è spostato di un millimetro: ha contemplato i suoi beni ed è felice. La giovane moglie non viene mai dalle mie parti, e avevo voglia di vederla. Avevo chiesto di lei a Jean Dorin: «La conoscete?» ha domandato. «Siamo vicini di casa e il marito è un mio cliente. Li inviterò al mio matrimonio e ci toccherà frequentarli, ma non mi piacerebbe che lei facesse amicizia con Colette. Non mi va giù l’atteggiamento disinvolto che ha con gli uomini».  Quando Brigitte fece il suo ingresso, Hélène era in piedi non lontano da me. Era commossa e stremata. Il pranzo era finito. Avevano servito cento coperti su una pista da ballo fatta portare da Moulins e collocata all’esterno, sotto un tendone.

La temperatura era gradevole, il tempo sereno e umido. Di tanto in tanto un lembo della tenda si sollevava e lasciava scorgere il grande giardino degli Érard, gli alberi spogli, la vasca colma di foglie morte. Alle cinque i tavoli furono rimossi e si iniziò a ballare. Arrivavano ancora degli invitati, i più giovani, desiderosi di partecipare alle danze: dalle nostre parti le occasioni di divertimento sono rare. Brigitte Declos era fra questi, ma sembrava che non conoscesse bene nessuno, ed era venuta da sola. Hélène le strinse la mano come agli altri; per un istante soltanto le si contrassero le labbra e il suo volto assunse quell’espressione sorridente e piena di coraggio che le donne usano per celare i loro pensieri più segreti.  Poi i vecchi lasciarono ai giovani la sala da ballo improvvisata e si ritirarono in casa. Ci disponemmo in cerchio attorno ai caminetti; nel chiuso delle stanze l’aria era soffocante. Gli uomini parlarono del raccolto, delle fattorie date a mezzadria, del prezzo del bestiame. Un gruppo di persone in età matura emana un senso di imperturbabilità: i loro organismi danno l’impressione di aver digerito tutte le portate pesanti, amare o piccanti della vita, eliminato tutti i veleni, e per dieci o quindici anni essi si trovano in uno stato di equilibrio perfetto, di invidiabile salute morale. Sono soddisfatti di sé. Il faticoso e vano lavorio con cui la giovinezza tenta di adattare il mondo ai propri desideri l’hanno già compiuto. Hanno fallito, e ora si riposano. Dopo qualche anno tornerà a invaderli una sorda inquietudine, e stavolta sarà quella della morte: essa altererà i loro gusti in modo imprevedibile, li renderà indifferenti, stravaganti o bisbetici, impenetrabili per le loro famiglie, estranei ai loro figli. Ma tra i quaranta e i sessant’anni queste persone godono di un’effimera pace.

Così mi sentivo dopo il buon pranzo e i vini eccellenti, ripensando al passato e al crudele nemico che mi aveva spinto a fuggire la regione. Avevo tentato di fare il funzionario in Congo, il commerciante a Tahiti, il cacciatore di pelli in Canada. Niente mi dava soddisfazione. Credevo di andare in cerca di fortuna, ma in realtà a sospingermi era il mio giovane sangue caldo. E ora che il suo ardore si è spento, non capisco più me stesso. Mi pare di aver percorso inutilmente molta strada, per poi tornarmene al punto di partenza. La sola cosa di cui sia soddisfatto è di non essermi sposato, ma non avrei mai dovuto girare il mondo. Sarei dovuto rimanere qui a coltivare le mie terre: oggi sarei più ricco di quanto non sia. Sarei lo zio che lascia una bella eredità. Mi sentirei a mio agio in società, invece di fluttuare come una brezza tra gli alberi in mezzo a questi esseri calmi e massicci.      Andai a guardare i giovani che ballavano. Nel buio si stagliava l’enorme tendone trasparente, da cui fuoriuscivano le note squillanti dell’orchestra. All’interno era stata allestita un’illuminazione di fortuna: alcune file di lampadine elettriche, la cui vivida luce proiettava sulla tela le ombre dei ballerini. Tutto questo mi ricordava i balli per il 14 luglio e le sagre, ma da noi usa così Il vento soffiava tra gli alberi autunnali e il tendone a tratti pareva oscillare, un po’ come una nave. Visto dall’esterno, dal buio, un simile spettacolo dava un senso di estraneità e tristezza. Non so perché. Forse per il contrasto tra la natura immobile e la gioventù in movimento. Poveri ragazzi! Se la godevano il più possibile. Soprattutto le ragazze: dalle nostre parti sono educate in modo estremamente rigido e casto. Fino a diciott’anni il collegio, a Moulins o a Nevers; poi, sotto lo sguardo vigile delle madri, imparano a occuparsi della casa e a dirigerla, e questo finché non si sposano. Così corpo e anima traboccano di forza, salute e desideri.

Entrai sotto il tendone: guardai i ballerini, udii le loro risa, e mi chiesi quale piacere potessero mai trarre dal dimenarsi a tempo di musica. Da un po’ di tempo, di fronte alle creature giovani provo una sorta di stupore, quasi stessi contemplando una specie animale estranea alla mia, come un vecchio cane che guardi ballare i topi. Ho chiesto a Hélène e François se provano qualcosa di simile. Hanno riso e mi hanno risposto che sono un vecchio egoista e che loro, grazie a Dio, sono ancora vicini ai loro ragazzi. Figuriamoci! Credo si facciano molte illusioni. Se gli comparisse davanti la loro giovinezza inorridirebbero, o meglio, non saprebbero riconoscerla: le passerebbero accanto e direbbero: «Questo amore, questi sogni, questo ardore ci sono estranei». La loro stessa giovinezza Quindi, che potranno mai capire di quella altrui?      Mentre l’orchestra riprendeva fiato, udii il rumore dell’auto che portava i novelli sposi a Moulin-Neuf. Cercai con lo sguardo Brigitte Declos tra le coppie. Stava ballando con un giovane alto e bruno. Pensai al marito. Che imprudente. Eppure, forse, a modo suo è saggio. Scalda il vecchio corpo sotto una trapunta rossa e la vecchia anima con i titoli di proprietà, mentre la moglie si gode la giovinezza.

   A Gerolamo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – piace il ritmo narrativo di Irène Némirovsky e il suo modo di tradurre le sensazioni, i sentimenti, le allusioni e le ambiguità di cui ciascun personaggio è depositario: ambiguità che, gradualmente, verranno svelate nel corso del racconto. Anche il modo di tradurre di Gerolamo, sebbene in un altro contesto, è molto originale e ha lasciato un’impronta nella Storia del Pensiero Umano.

   Gerolamo [come sappiamo] riceve da papa Damaso l’incarico di riordinare e rivedere la versione latina della Bibbia [c’era già, da quasi tre secoli, una versione latina] ma lui decide di ritradurre i testi del Nuovo e dell’Antico Testamento. In realtà Gerolamo aveva già iniziato a fare questa operazione quando seguiva, come consulente spirituale, un folto gruppo di matrone [signore dell’alta società romana] che si riunivano ogni settimana in casa di Marcella per studiare le Sacre Scritture.

   La fama di Gerolamo è legata indissolubilmente alla Vulgata editio [l’edizione in lingua latina della Bibbia] riconosciuta dal Concilio di Trento [nel 1546], come l’unica valida versione dei testi sacri [e questa disciplina è durata fino al 1965, fino al Concilio Ecumenico Vaticano II]. Durante il suo soggiorno a Roma, su incarico di papa Damaso, Gerolamo [nel 382] intraprende la revisione della versione latina, che allora era in uso, del testo dei Vangeli: questa versione è chiamata Itala [ed è una traduzione realizzata da vari autori nell’arco di quasi tre secoli, dal tempo di Clemente Romano e della Scuola ellenistica clementina], ma Gerolamo non si limita a rivedere il testo dell’Itala [che è ormai antiquato] ma produce una nuova versione latina della Letteratura dei Vangeli ritraducendo gli originali testi greci.

   Quando dopo la morte di papa Damaso [nel 384] si trasferisce a Betlemme [insieme a Paola ed Eustochio], Gerolamo si dedica a tradurre in latino i Libri dell’Antico Testamento: prima lavora sui testi della versione greca dei Settanta [e abbiamo studiato a suo tempo questa grande operazione culturale: la traduzione in greco dei testi della Bibbia avvenuta ad Alessandria dal III al I secolo a.C.] e, in seguito, non soddisfatto della traduzione dal testo greco [Gerolamo non è convinto di dover fare una traduzione di una traduzione], passa direttamente a tradurre dal testo originale ebraico ed aramaico, due lingue che Gerolamo conosce bene avendole studiate meticolosamente durante la sua permanenza da asceta nel deserto di Calcide [Gerolamo non è un mistico asceta che va a fare lo studioso nel deserto ma è uno studioso che va a fare il mistico asceta].

   Gerolamo realizza un’ingegnosa versione biblica in un linguaggio semplice e chiaro, adatto ad essere compreso da tutte le persone [soprattutto da quelle meno acculturate], utilizzando il latino popolare parlato dalla gente comune ma applicando una forma colta [una sintassi classica] seguendo lo stile di Cicerone [uno stile - la rotunditas ciceroniana - che lui conosce benissimo e che costituisce il suo modello ideale nella composizione della struttura del testo latino].

   Gerolamo non si limita alle traduzioni dei Libri, ma commenta anche un certo numero di testi – quello dei Salmi, quelli dei Dodici Profeti minori e dei Quattro maggiori, quello dell’Ecclesiaste, quelli di quattro Lettere di Paolo di Tarso, quello del Vangelo secondo Matteo e dell’Apocalisse di Giovanni – facendo molte importanti considerazioni metodologiche di natura filologica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tutte e tutti noi abbiamo fatto l’esperienza del tradurre: in quale occasione vi siete dovute e dovuti cimentare in una traduzione? …  

Scrivete quattro righe in proposito…

Quale di queste parole – spiegazione, interpretazione, trasferimento, o quale altra parola – mettereste per prima accanto al termine “traduzione”

   Il termine “traduzione” – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci fa pensare a due libri, a due romanzi che, volendo, dopo averli sfogliati, possono essere letti.

   Il primo è un romanzo che s’intitola La traduzione, scritto dal livornese Silvano Ceccherini [1915-1974] un personaggio [da conoscere] molto particolare [che si è alfabetizzato in galera e poi ha utilizzato la scrittura come forma di riscatto personale] e, in questo caso, il termine “traduzione” si riferisce al trasferimento di un carcerato: un’esperienza che assume anche, e soprattutto, una valenza di carattere intellettuale perché costringe a spiegare, a interpretare, a “tradurre” la propria vita in parole.

   Il secondo romanzo s’intitola La traduttrice, ed stato scritto dal libanese Rabih Alameddine, il quale ci porta in Libano, a Beirut [dove si combatte una guerra sanguinosa, e tutte e tutti noi ce lo ricordiamo quel conflitto], in un vecchio appartamento nel quale vive una donna di settantadue anni, di professione libraia, appassionata di libri, che ci parla della sua vita dedicata a leggere i capolavori della Letteratura mondiale che lei traduce, in silenzio, in arabo [e noi con l’arabo del Corano avremo a che fare, strada facendo in questo viaggio], e li traduce non per pubblicarli ma per puro amore, perché noi –afferma – diventiamo ciò che leggiamo: la Letteratura si traduce in vita più di quanto la vita si traduca in Letteratura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Richiedete in biblioteca i romanzi intitolati “La traduzione” di Silvano Ceccherini e “La traduttrice” di Rabih Alameddine: sfogliateli, ed eventualmente leggeteli

   Gerolamo, come studioso di filologia, è attento soprattutto al significato letterale delle parole [alla etimologia], e il suo modo di studiare e di sperimentare in proposito è tutto improntato ai canoni dell’antichità classica: nelle sue Opere di commento ai testi biblici mette spesso in evidenza l’importanza esistenziale che ha la “Parola [il Logos, che Gerolamo traduce con il termine latino Verbum]” e lo fa utilizzando la visione che ha di questo oggetto creativo [la parola crea e interpreta la realtà] la cultura delle Scuole ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche] che – elaborando il pensiero di Platone e di Aristotele – hanno dato forma al concetto del “Logos [la Parola creatrice e salvifica]”.

   Leggiamo un celebre brano significativo tratto dal Commentario al Libro dei Salmi in cui Gerolamo riflette, in modo problematico [come farebbe Seneca, il filosofo stoico che lo scorso anno ci ha accompagnato per un lungo tratto del nostro viaggio] sul tema dei rapporti che intercorrono tra la parola umana, la Parola divina, la fiducia e la Fede [il tema del rapporto tra la Parola e la Fede sarà uno degli argomenti preminenti di dibattito quando fra qualche secolo, strada facendo, vedremo svilupparsi il movimento della Scolastica e l’opera filologica di Gerolamo ispirerà questo movimento filosofico]. Leggiamo questo famoso frammento che verrà spesso utilizzato, nei secoli a venire [fino al Concilio Ecumenico Vaticano II], per richiamare la laicità della Fede [la Fede esclude la religione perché la religione finisce per incatenare la Fede con le sue pastoie burocratico-dottrinali svuotando spesso di significato le parole salvifiche della Letteratura dei Vangeli].

LEGERE MULTUM….

Gerolamo, Commentario al Libro dei Salmi

Ignorare l’importanza che ha il senso etimologico della parola è ignorare che Cristo è la Parola, perciò è doveroso che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con le parole della Sacra Scrittura. Il dialogo con il significato di ogni parola della Sacra Scrittura ha due dimensioni: da una parte, dev’essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ogni persona tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio per ciascuna persona. Dobbiamo leggere la Parola non come un oggetto del passato, ma come un bene presente che si rivolge a noi ora. Ma per non cadere nell’individualismo dobbiamo tener presente che la Parola ci è data proprio per costruire comunione, per unirci in modo solidale agli altri perché la Parola costruisce comunità, costruisce la Chiesa. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno, quanto è oggi nuovissimo domani sarà vecchissimo. La Parola, invece, è l’oggetto della fede e bisogna avere fiducia in questo strumento perché porta in sé l’eternità, ciò che vale per sempre.

Si può vivere senza parola? Nessuno può veramente vivere senza parola perché è una qualità del nostro essere, è una dimensione costitutiva senza la quale sarebbe difficile capire chi siamo. Non c’è vita vera senza parola: se io non parlassi mai con nessuno finirei per impazzire, e molto rapidamente. Quello che diciamo per la parola vale anche per la fede: si può vivere senza fede? Senza dubbio si può vivere senza fede religiosa, ma senza fede in assoluto? Nessuno può vivere senza fede, si tratta di una componente esistenziale del nostro essere senza la quale sarebbe difficile comprenderci. Non c’è vita senza fede: se io non avessi fiducia in qualcuno e in qualcosa finirei per impazzire in breve tempo.  Noi abbiamo fiducia nella parola umana perché ci offre la possibilità di avere fede in Cristo che è la Parola [Verbum] divina. …

   Le studiose e gli studiosi di filologia si domandano [e noi con loro]: perché la traduzione in latino della Bibbia realizzata da Gerolamo è da considerarsi il primo importante esercizio di “sapienza poetica e filosofica” dell’Età alto-medioevale, perché si può affermare che con quest’opera ha inizio il Medioevo?

   La traduzione in latino della Bibbia realizzata da Gerolamo è da considerarsi il primo importante esercizio di “sapienza poetica e filosofica” dell’Età alto-medioevale e – per quanto riguarda la “sapienza poetica” – questo dipende dal metodo con cui il traduttore struttura il testo della Vulgata. Il metodo di Gerolamo si basa sul recupero e sulla salvaguardia del patrimonio grammaticale e sintattico della lingua latina classica: Gerolamo [amante dei Classici, di Cicerone in particolare] conserva e rivitalizza lo stile classico e lo fa diventare una forma che possa funzionare da contenitore per raccogliere il lessico della lingua corrente [la lingua latina alto-medioevale] che era ormai molto diversa da quella tardo-antica perché, nel IV secolo, nessuno più parla il latino che si parlava nel I secolo a.C. al tempo di Cicerone [il latino dei Classici, nel IV secolo, lo capiscono ormai solo gli intellettuali]; Gerolamo compie – componendo il testo della sua traduzione – un’opera di integrazione tra la forma sintattica antica che lui vuole salvaguardare per la sua bellezza, per il suo equilibrio e il lessico della lingua popolare contemporanea [il latino alto-medioevale] comprensibile da qualunque persona. Gerolamo con il suo stile [con il latino della Vulgata: classico nella forma e alto-medioevale nel lessico] prepara quello che sarà lo strumento linguistico [il tardo latino medioevale] del movimento filosofico della Scolastica [e di questo movimento ce ne occuperemo strada facendo].

   Poi, per quanto riguarda la “sapienza filosofica”, Gerolamo affronta la traduzione dei testi biblici dell’Antico Testamento con una mentalità “Cristo-Logica [Gerolamo divide volutamente i due termini con un trattino in modo che risaltino due sostantivi: Kristos e Logos]” e vuole dimostrare [essendo personalmente convinto del fatto che Dio ha ispirato la scrittura dell’Antico Testamento in funzione dell’avvento di Gesù Cristo], vuole ribadire che Gesù è il Messia [è il Redentore] perché è il Logos, perché è la Parola di Dio che si è fatta carne per salvare l’Umanità e, quindi, vuole farlo risaltare questo concetto [Cristo-Logico]: Gerolamo non coltiva questa idea per una pregiudiziale di tipo ideologico [dottrinale] ma, piuttosto, come un’opportunità per assaporare il gusto della ricerca filologica [per una ragione di carattere intellettuale]. Gerolamo scrive: «In verbis Verbum » [nelle parole umane - formulate dalla penna degli scrivani - c’è l’impronta della Parola divina] e, quindi, ritiene che nella etimologia delle parole dei testi biblici, soprattutto in quelle che evocano il Messia, sia radicata l’essenza del Logos e, di conseguenza [pensa Gerolamo], l’etimologia delle parole bibliche in lingua ebraica deve essere accuratamente studiata perché il traduttore possa trovare il termine latino corrispettivo che abbia la forza di contenere l’essenza del Logos.

   Gerolamo pensa che, praticando una vita ascetica, lo scrivano-traduttore possa ottenere da Dio l’illuminazione necessaria per rilevare correttamente il potenziale di Verità contenuto nella parola ebraica in modo da poter trovare il termine corrispettivo latino che possa contenere lo stesso potenziale di Verità. Il “tradurre” per Gerolamo non è semplicemente far passare un testo da una lingua all’altra ma è un paziente esercizio intellettuale di indagine etimologica perché il compito del traduttore è quello di salvaguardare non solo il significato ma l’essenza  del significato [il potenziale divino] di una parola, e Gerolamo pensa che questo esercizio si possa realizzare pienamente solo praticando uno stile di vita ascetico.

   Ci troviamo, con Gerolamo, di fronte al vasto paesaggio intellettuale della “salvaguardia delle antiche Opere dei Classici greci e latini” che rischiano di perdersi [e i testi di molte opere purtroppo li abbiamo perduti] a causa della confusione e del disordine causato dall’implosione dell’Impero romano d’Occidente [un fenomeno che stiamo osservando] e, con la Vulgata editio di Gerolamo il patrimonio delle Opere classiche si arricchisce.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Abbiamo usato già molte volte il termine “salvaguardare”, ebbene, quale di queste parole [di queste azioni] – difendere, proteggere, tutelare, riparare, preservare, custodire, vigilare, mantenere – mettereste per prima accanto al termine “salvaguardare”?… 

Scrivetela [scegliere su un catalogo di parole quella che più si richiama alla nostra esperienza è un utile esercizio di investimento in intelligenza] …

Quando avete dovuto compiere un’azione di salvaguardia?…

Scrivete quattro righe in proposito…

   E adesso Gerolamo [soddisfatto del trattamento che gli andiamo riservando] chiede di proseguire nella lettura del romanzo Il calore del sangue: siamo ancora all’inizio di questo racconto ma la scrittrice [attraverso il narratore, il cugino Sylvestre] ha già cominciato a farci capire che la vita – apparentemente calma e rassicurante – degli abitanti del paese di campagna dove questa storia si svolge sta andando incontro, mentre passano le stagioni, al fenomeno dell’implosione. Nella vita non tutto va sempre bene: ci sono anche gli imprevisti che, tuttavia, –soprattutto quando si può rimediare – servono a far riflettere sui valori esistenziali, in primo luogo sul tema dell’amore [non è forse l’amore un potente fenomeno implosivo?].

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Il calore del sangue

Il primo dell’anno pranzo sempre dai cugini Érard. Secondo l’usanza locale, è una visita lunga, che inizia a mezzogiorno e si protrae per le ore successive, concludendosi con una cena a base degli avanzi del pranzo e con il rientro a casa a notte fonda. François doveva andare a ispezionare uno dei suoi terreni. L’inverno è severo e le strade sono ricoperte di neve. Era partito intorno alle cinque e lo aspettavamo per cena, ma erano le otto e non si era ancora fatto vedere.

«Sarà stato trattenuto» dissi. «Dormirà alla fattoria».

«No, sa che lo aspetto» rispose Hélène. «Da quando ci siamo sposati, non ha mai passato la notte fuori senza avvisarmi. Mettiamoci a tavola: non tarderà».

I tre ragazzi erano a casa della sorella a Moulin-Neuf, dove si sarebbero fermati a dormire. Da un pezzo non mi capitava di stare solo con Hélène. Parlammo del tempo e del raccolto, gli unici argomenti di conversazione dalle nostre parti; niente turbava il nostro pasto. Questa terra ha davvero un che di schivo e selvatico, di florido e diffidente, che ricorda epoche remote. Il tavolo della sala da pranzo sembrava troppo grande per i nostri due coperti. Tutto brillava, tutto emanava un senso di lindore e di calma: i mobili in legno di quercia, il parquet luccicante, i piatti a fiori, l’ampia tavola incavata nella parte centrale, come ormai se ne vedono solo dalle nostre parti, l’orologio da parete, gli ornamenti di rame del caminetto, il lampadario, lo sportello in legno di quercia scolpito comunicante con la cucina per il passaggio dei piatti. Che padrona di casa esemplare mia cugina Hélène! Com’è brava a preparare marmellate, conserve, dolci! Come sa occuparsi del giardino e del pollaio! Ma sembrava distratta. Guardava l’orologio e tendeva l’orecchio per cogliere il rumore dell’automobile.   «Suvvia, siete preoccupata per François, è evidente. Cosa volete che gli succeda?».       «Niente. Ma, amico mio, io e François ci separiamo talmente di rado, siamo così vicini l’uno all’altro che quando non è al mio fianco soffro e sono in ansia. So che è sciocco…».        «Durante la guerra siete stati separati…».     «Ah,» fece lei, rabbrividendo al ricordo «furono cinque anni durissimi, tremendi A volte penso che abbiano riscattato tutto il passato».   Tra noi calò il silenzio; il passavivande si aprì con un cigolio e la domestica sporse una torta di mele, le ultime dell’inverno. L’orologio batté nove rintocchi. Dal fondo della cucina la donna disse: «Il signore non era mai rincasato così tardi».

Nevicava. Noi stavamo in silenzio. Telefonarono da Moulin-Neuf: laggiù le cose andavano bene. Hélène mi rinfacciò la mia pigrizia: «Quando vi deciderete a far visita a Colette?».   «È lontano» dissi io.   «Vecchio gufo Non si riesce più a tirarvi fuori dalla vostra tana. E dire che un tempo Se penso che avete vissuto con i selvaggi, Dio sa dove E ora, Moulin-Neuf, è lontano» ripeté, facendomi il verso. «Vale la pena vederli, Sylvestre. Quei ragazzi sono talmente felici. Colette si occupa della fattoria: hanno un caseificio modello. Qui batteva un po’ la fiacca, si lasciava coccolare. A casa sua è la prima ad alzarsi al mattino e a mettersi all’opera, prendendo a cuore ogni cosa. Prima di morire, Dorin padre ha interamente ristrutturato Moulin-Neuf. Hanno già ricevuto un’offerta di novecentomila franchi. Ovviamente non ci pensano nemmeno a vendere: il mulino è della famiglia da centocinquant’anni. Pensano solo a vivere in pace; hanno tutto ciò che occorre per essere felici: il lavoro e la giovinezza». Continuò su questo tono, fantasticando sul futuro e immaginando già i bambini di Colette. Fuori il grande cedro carico di neve scricchiolava e gemeva. Alle nove e mezzo Hélène si interruppe di botto: «Eppure è strano. Doveva essere a casa alle sette».

Non aveva più fame; spinse via il piatto e aspettammo in silenzio. Ma la serata scorreva senza che François facesse ritorno. Hélène levò lo sguardo verso di me.

«Quando una moglie ama il marito come io amo il mio, non dovrebbe sopravvivergli. Lui e più vecchio e più fragile di meA volte ho paura».  Gettò un ceppo nel camino.

«Amico mio, di fronte a certi episodi della vostra vita, vi accade mai di pensare all’istante da cui sono sorti, al germe di cui sono frutto? Non so come spiegare Immaginate un campo al momento della semina, tutto quel che ha in sé un chicco di grano, i raccolti futuri Be’, nella vita è esattamente lo stesso. L’attimo in cui ho visto François per la prima volta, in cui ci siamo guardati, tutto ciò che esso conteneva È terribile, è pazzesco, dà le vertigini! Il nostro amore, la separazione, i tre anni che ha trascorso in Boemia, quando ero sposata con un altro, e tutto il resto, amico mio E poi la guerra, i bambini Cose piacevoli, e anche cose dolorose, la sua morte o la mia, la disperazione di colui che resterà in vita».

«Sì,» dissi io «se si conoscesse in anticipo il raccolto, chi mai seminerebbe il proprio campo?».        «Ma tutti, Sylvestre, tutti quanti» rispose.   «La vita è questo: gioia e pianti. Tutti hanno voglia di vivere, tranne voi».   La guardai sorridendo: «Quanto amate François!». Rispose semplicemente: «Lo amo molto».

Qualcuno bussò alla porta della cucina. Era un ragazzino che il giorno prima aveva chiesto in prestito una gabbia per le galline e veniva a restituirla alla domestica. Attraverso il passavivande rimasto socchiuso, udii la sua voce acuta: «C’è stato un incidente allo stagno di Buire»«Che incidente?» chiese la cuoca.  «Un’auto è andata a sbattere; c’è un ferito: l’hanno portato a Buire»«Sai per caso come si chiami?». «Eh no, questo non lo so» fece il ragazzo.

«È François» disse Hélène, pallidissima.   «Via, siete impazzita!»

«So che è François».      «Se avesse subito un incidente vi avrebbe fatta chiamare».

«Proprio non lo conoscete? Pur di risparmiarmi un’emozione, una corsa a Buire in piena notte, tenterà di farsi portare qui, anche ferito o in fin di vita».

«Ma non troverà una macchina, a quest’ora e con questa neve».  Hélène uscì dalla sala da pranzo e andò a prendere cappotto e scialle in anticamera. Non potei far altro se non ripeterle: «Siete matta. Non sapete nemmeno se si tratti davvero di François. E poi, come arriverete a Buire?».    «Be’ a piedi, se non si può fare altrimenti».

«Undici chilometri!». Non mi rispose neppure. Tentai invano di procurarmi una macchina dai vicini. Malauguratamente, una era in panne, e quella del dottore era occupata da un malato. Le biciclette, con quella coltre di neve, non circolavano più. Dovemmo giocoforza andare a piedi. Faceva un gran freddo. Hélène camminava in fretta, senza parlare: era certa che François l’aspettasse a Buire. Io non la dissuasi, convinto com’ero che fosse in grado di percepire a distanza il richiamo del marito ferito. Nell’amore coniugale c’è una potenza sovrumana. Come dice la Chiesa, è un grande mistero. E molte altre cose sono misteriose in amore. Lei non sembrava stancarsi. Avanzava con sicurezza sulla crosta ghiacciata che ricopriva la strada, in piena notte, tra due solchi innevati, senza mai incespicare né perdere il passo. Mi chiesi che faccia avrebbe fatto se, arrivata a Buire, non vi avesse trovato François. Ma non si sbagliava. L’auto che si era schiantata vicino allo stagno era proprio la sua. Al nostro ingresso nella fattoria François, disteso sul letto vicino al camino, con una gamba rotta e la febbre alta, levò un debole grido di gioia: «Oh, Hélène Perché? Non occorreva venire Stavano preparando un carretto per riportarmi a casa. Che sciocco essere venuti» ripeté. Ma mentre lei gli scopriva la gamba e iniziava a bendarla con movimenti leggeri, cauti, abili (durante la guerra ha fatto l’infermiera), vidi che lui le prendeva la mano: «Sapevo che saresti venuta,» mormorò «stavo male e ti chiamavo».

   Gerolamo è soddisfatto [e ride sotto i baffi] perché questa scrittrice lo coinvolge. C’è da aspettarsi però che, fra poco, cambi umore visto che dobbiamo occuparci di un argomento che lui non ha mai ben digerito: di che cosa si tratta?

   Sappiamo che l’atto del “tradurre” per Gerolamo non è semplicemente far passare un testo da una lingua all’altra ma è un meticoloso esercizio intellettuale di indagine etimologica [saper smontare la parola, identificarne la radice, conoscerne la storia, vagliarne il contenuto semantico], Gerolamo pensa che sia necessario capire bene l’essenza del significato di ogni parola del testo ebraico della Bibbia, e ritiene sia fondamentale studiare il “potenziale divino ” [come lui lo chiama] di ogni parola in modo da poter trovare in ogni vocabolo [con l’aiuto dell’illuminazione celeste] l’impronta del Logos, cioè, quel segno distintivo [signum Verbi, il sigillo della Parola di Dio] che il traduttore deve scoprire nel termine latino corrispondente perché la parola latina che traduce la parola ebraica deve avere la forza di garantire la continuità della sacralità del testo ebraico in modo da trasmettere la stessa venerabilità anche al testo latino. Quindi, il lavoro etimologico di Gerolamo – tanto sulle parole ebraiche che su quelle latine [e greche] – è improntato ad una pignoleria tale che, in diversi casi, questa cavillosità lo porta a commettere degli “errori”, ma [siccome non vogliamo che Gerolamo si arrabbi, già sta facendo il broncio] mettiamo la parola “errori” tra virgolette, diciamo piuttosto che certe parole, certe frasi, sono state rese da Gerolamo in modo “strano”. Tra i molti esempi che potremmo fare in proposito [la maggior parte dei cosiddetti “errori di traduzione” di Gerolamo comporta una discussione di carattere dottrinale che ha impegnato il movimento della Scolastica dall’XI al XIII secolo, la Riforma protestante e poi i protagonisti del Concilio di Trento nel XVI secolo, quindi questo è un argomento che emerge costantemente sulla strada della Storia del Pensiero Umano] noi ne abbiamo scelto uno che è anche quello più consono alla natura del nostro viaggio perché riguarda la didattica della lettura e della scrittura associata alla Storia dell’Arte-

   Quando Gerolamo traduce dall’ebraico in latino il Libro dell’Esodo si trova a dover affrontare diversi ostacoli di natura filologica perché l’etimologia di molte parole è plurivalente per cui Gerolamo tende ad usare tutta la sua inventiva e, di conseguenza, la creatività [ma dovremmo dire la pignoleria] che mette in atto nel tradurre [in virtù delle sue convinzioni filologiche] ha fatto sì che un personaggio come Mosè [che è il principale protagonista del Libro dell’Esodo] ha acquisito, nell’ambito della Storia dell’Arte, particolari [e curiose] caratteristiche iconografiche proprio a motivo della traduzione di Gerolamo. Il testo originale ebraico del versetto 29 del capitolo 34 del Libro dell’Esodo riferisce che, dopo aver ricevuto da Dio le tavole della Legge [la Toràh, i dieci comandamenti], Mosè ignora che la sua pelle è diventata “raggiante”, secondo il termine ebraico “qrn [qaran, nella scrittura ebraica non compaiono le vocali]”, la cui radice indica l’idea di “radialità” e, quindi, questa parola significa “irradiazione luminosa” per cui si può pensare che lo scrivano ebraico volesse indicare appunto che il volto di Mosè era luminoso: che irradiava luce. Il puntiglioso Gerolamo scopre però che la stessa radice “qrn” si ritrova nel sostantivo che traduce la parola “corno [qeren]” e, di conseguenza, quando Girolamo traduce il testo ebraico di questo versetto in latino pensa di dover adottare anche questa lezione, e traduce: «[Mosès] ignorabat quod cornuta esset facies sua» cioè «[Mosè] ignorava che la sua faccia [fosse cornuta] emanasse corna di luce», e questa traduzione è stata per secoli fonte d’ispirazione per tutte le artiste e per tutti gli artisti che hanno raffigurato Mosè.

   L’esegesi moderna evita di tirare il ballo le corna [Gerolamo, a sentirne parlare, è piuttosto contrariato] e il testo odierno in lingua corrente del versetto 29 del capitolo 34 del Libro dell’Esodo viene tradotto: «[Mosè] non sapeva che la pelle della sua faccia era diventata splendente poiché aveva parlato con il Signore», quindi, le “corna” sono sparite dal testo ma non dalla nota a fondo pagina e, difatti, qualunque edizione della Bibbia puntualizza in nota che l’antica Vulgata editio di Gerolamo riporta che «la faccia di Mosè aveva corni di luce», ed è questo il motivo letterario che ha influenzato l’iconografia di Mosè: Gerolamo non si deve preoccupare, nessuno vuole denigrare il suo puntiglioso lavoro etimologico, anche perché il prodotto più significativo della sua [per quanto “strana”] traduzione è il celebre “Mosè di Michelangelo” [il Mosè “cornuto” scolpito tra il 1513 e il 1515 per la tomba di papa Giulio II] che si può ammirare a Roma nella chiesa di San Pietro in Vincoli in tutta la sua “terribilità”, una “terribilità” che, forse, le corna attenuano un po’.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il Mosè di Michelangelo - alla luce della riflessione che abbiamo fatto - merita di essere osservato e, a questo proposito, ci si può collegare alla rete – molti sono i siti che presentano quest’opera e le leggende che ne accompagnano la realizzazione – e, per studiare quest’opera, si può usufruire anche di uno dei tanti Cataloghi d’Arte michelangiolesca reperibile in biblioteca [non esclusa la vostra biblioteca domestica]… 

Con quale aggettivo definireste le corna del Mosè di Michelangelo?…

Scrivete l’aggettivo che – secondo voi – si adatta meglio a queste corna, basta una parola…

   Con la moderna esegesi biblica ha preso progressivamente piede la consapevolezza che la traduzione di Girolamo fosse “strana” ma molte artiste e molti artisti in generale non si sono mai voluti allontanare dall’iconografia tradizionale di Mosè “cornuto” stabilita da Gerolamo: questo attributo è un marchio di garanzia.

   Tra le opere di Gerolamo, questa sera, abbiamo citato De viris illustribus [Gli uomini illustri]: quest’opera è stata scritta a Betlemme nel 393 e dobbiamo specificare che rappresenta il primo tentativo di realizzare una biografia letteraria degli scrittori cristiani antichi e comprende [come già abbiamo detto] 135 brevi vite di “buoni cristiani [anche se non sono tutti cristiani quelli che Gerolamo cita]”, greci, latini ed ebrei, che si sono distinti particolarmente per i loro studi biblici e letterari. De viris illustribus [Gli uomini illustri] è un’opera che – come tutte le opere di Gerolamo – ha avuto nel corso dei secoli un notevole successo perché, essendo un esercizio di salvaguardia, ha fornito moltissime utili notizie sulla storia antica, tardo-antica e alto-medioevale, e noi abbiamo detto che, nell’ultima parte di questo itinerario, saremmo tornati [e ora ci siamo] su quest’opera per un motivo di genere: che cosa significa?

   Tutte le 135 biografie che compongono quest’opera sono di uomini ma Gerolamo, come al solito, parla volentieri anche di donne che, secondo lui, per molti versi, sembrano avere una marcia in più [dietro ad un uomo importate c’è sempre una grande donna: una madre, una sorella, una moglie, un’amante, una suocera, una figlia]. Tra le figure femminili che Gerolamo cita in De viris illustribus [Gli uomini illustri] c’è quella di Flavia Giulia Elena [Sant’Elena], la madre dell’imperatore Costantino. Gerolamo, fra tutti coloro che hanno fornito notizie su Elena, è lo studioso che, per primo, crede di dover inserire questa donna nel paesaggio intellettuale dove abitano quelli che hanno compiuto un’importante azione di salvaguarda culturale [il paesaggio che stiamo osservando, il primo importante scenario dell’Età alto-medioevale].

   Quale importante azione di salvaguardia culturale ha compiuto Elena, e chi è la madre di Costantino? Flavia Giulia Elena sembra sia nata a Drepanim [o Drepamum] in Bitinia, perché Costantino ha cambiato il nome di questa città in Helenopolis [la città di Elena] in suo onore, ed è per questo motivo che si pensa che la madre dell’imperatore vi sia nata nel 248 o nel 250.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Drepanim [o Drepamum] si trova nel golfo di Nicomedia, [oggi la città di Nicomedia si chiama Izmit] e con la guida della Turchia, oltre che navigando in rete, potete fare un’escursione in questa zona: sulla costa orientale del mar di Marmara, buon viaggio …

   Quando Gerolamo decide di citare Elena nella sua opera De viris illustribus [Gli uomini illustri] lei è morta da circa sessant’anni e quello che sa di questa donna lo conosce attraverso la Vita di Costantino scritta da Eusebio di Cesarea, il quale afferma che Elena aveva 80 anni al suo ritorno dalla Palestina, dove aveva viaggiato dal 326 al 328 prima di morire nel 329 a Trèviri. Poi Gerolamo viene a sapere da una Lettera di Ambrogio [il vescovo di Milano] che Elena era di bassa condizione sociale, faceva la “stabularia”, un termine traducibile come “ragazza addetta alle stalle” o come “locandiera”, e Ambrogio ne parla come se si trattasse di una virtù, perché la definisce una “bona stabularia [una buona locandiera]”. Tutte le altre fonti [che non sono molte], specie quelle scritte dopo l’elevazione al trono imperiale di Costantino, ignorano la bassa condizione sociale di Elena. Gerolamo allude al fatto che Costantino sapeva di dover gran parte della sua fortuna politica e militare a sua madre, per questo, una volta diventato padrone di tutto l’Impero, nel 324, vuole che Elena assuma il titolo di “Augusta”, una qualifica in genere destinata alle mogli, ed Elena non è moglie.

   Il generale Costanzo Cloro, il padre di Costantino, deve averla incontrata in una taverna mentre faceva la locandiera e, prima ancora di diventare imperatore, la prende con sé come concubina e si rifiuta di sposarla perché deve convogliare a nozze [in modo combinato, per fare carriera] con Teodora, la figlia dell’imperatore Massimiano: Elena, quindi, è stata un’amante e una madre costretta a vivere nell’ombra. Gerolamo sembra intuire che ci sono donne le quali non solo segnano il loro tempo, ma anticipano il futuro: Elena ha capito di vivere all’incrocio di due mondi, quello pagano [antico e tardo-antico] e quello cristiano [alto-medioevale], e ha saputo guardare ad entrambi come imperatrice e santa e come donna di potere e viaggiatrice devota in Palestina. È grazie a lei [afferma Gerolamo] che Costantino si avvicina alla fede cristiana e all’idea della tolleranza nei confronti di tutti i culti.

   Gerolamo nota che Elena ama indossare gioielli ma in lei non c’è alcuna civetteria perché non aspira a sembrare più giovane: piuttosto vuole mettere in evidenza la “securitas [la sicurezza]” e non c’è maggior sicurezza [afferma Gerolamo] di quella di una donna che regna sovrana sul tempo che passa. Per questo Elena sceglie di farsi sempre effigiare con la sua età reale, con il suo naso aquilino, con il viso stanco e scavato, e sempre comunque segnato da profonde occhiaie, come accade in una donna matura che punta più sui simboli del rango e del ruolo imperiale che sulla bellezza: dalle opere d’Arte che la rappresentano [dalle monete alle statue] noi capiamo che Elena [come afferma Gerolamo] è consapevole di sé, ed è una donna forte [padrona della “securitas, la sicurezza”] e questo modo di essere lo trasmette anche nel modo di vestire o nelle acconciature che sceglie, adornando e impreziosendo la sua figura con un diadema incastonato tra i capelli che ha determinato uno stile [la prima acconciatura femminile di moda nell’alto-medioevo].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Sulla rete – nel sito “Elena immagini” – è raccolta una vastissima iconografia che si riferisce ad Elena e, molto significativa, in relazione a ciò che abbiamo detto, è la “Statua seduta di Elena” in marmo greco scolpita in età costantiniana [nella prima metà del IV secolo] e conservata a Roma nei Musei Capitolini: intercettate questa immagine per osservare la posa sicura, l’abito, l’acconciatura, il profilo del naso aquilino, il risalto dato all’età non più giovanile

   Gerolamo sottolinea che l’ultimo atto coraggioso della vita di Elena è stato quello di compiere, tra il 326 e il 328 un viaggio in Palestina. Elena va pellegrina in Terra Santa alla ricerca – una ricerca riuscita secondo la tradizione – di tutti gli “oggetti” che caratterizzano la passione di Gesù: il legno della croce, i chiodi [due chiodi], la corona di spine, la canna con la spugna per dissetare, con aceto, il condannato, la colonna e la frusta della flagellazione, il sepolcro. Questa ricerca spinge Elena – allo scopo di contenere questi oggetti – a costruire chiese a Gerusalemme e sul Monte degli Olivi [gli oggetti sono diventati irrilevanti ma le chiese sono rimaste e hanno simbolicamente sostituito gli oggetti]. Elena diventa la vera e unica “ambasciatrice culturale” del potere del figlio all’interno dell’Impero e il “ritrovamento” della Vera Croce da parte di Elena fa nascere una straordinaria leggenda [da qui parte un sentiero collaterale che non possiamo imboccare ora: voi però lo potete percorrere per conto vostro].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se non conoscete il racconto della “Leggenda della Vera Croce” potete leggerlo collegandovi alla reteSu questo argomento ci sono molti siti che danno la possibilità di osservare le numerose opere d’arte che questa Leggenda – che vede Elena come protagonista - ha ispirato

Un esercizio interessante consiste nel prendere visione – si può utilizzare anche un Catalogo reperibile in biblioteca o effettuare direttamente una visita [la bella città di Arezzo non è lontana] – del ciclo di affreschi [1458-1466] di Piero Della Francesca conservato nella Basilica di San Francesco ad Arezzo…

A Firenze c’è la Basilica di Santa Croce che prende il nome dal tema che stiamo trattando e, naturalmente, la Cattedrale contiene l’iconografia della Leggenda della Vera Croce…

Andate a fare una visita in Santa Croce non senza prima esservi documentate e documentati – con l’enciclopedia, navigando in rete, frequentando la biblioteca – sul pittore Agnolo Gaddi che ha affrescato, su commissione di Jacopo degli Alberti, la Cappella Maggiore della chiesa di Santa Croce con la Leggenda della Vera Croce… Fate una scappata a trovare Elena in Santa Croce [Gerolamo è già pronto, si è tirato sulle spalle il pelo di cammello e non ha neppur bisogno di mettersi i sandali]

   Gerolamo, fra tutti coloro che hanno fornito notizie su Elena, è lo studioso che, per primo, crede di dover inserire questa donna nello scenario dove abitano gli intellettuali che hanno compiuto un’importante azione di salvaguarda culturale [ed è il paesaggio che stiamo osservando, il primo importante scenario dell’Età alto-medioevale]. Quale importante azione di salvaguardia culturale ha compiuto Elena? Gerolamo pensa che Elena, cercando, trovando e mettendo in salvo gli oggetti della passione di Gesù, abbia creato una rete di salvaguardia per avvalorare i racconti della Letteratura dei Vangeli, per dare loro un tono più realistico Elena [secondo Gerolamo] è come se avesse compiuto un esercizio di “traduzione”: ha “tradotto” le parole evangeliche in oggetti reali [che importanza ha se non erano quelli originali] e le parole evangeliche hanno manifestato la loro carica di Verità.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La vita di Elena ha affascinato molte scrittrici e molti scrittori e, tra questi, il britannico Evelyn Waugh [1903-1966] che è considerato il più grande scrittore satirico inglese, erede diretto di Jonathan Swift…     

Evelyn Waugh racconta la storia di Elena e ci porta in viaggio con lei in un romanzo del 1950 intitolato “Elena” di cui la Scuola consiglia la lettura, richiedetelo in biblioteca

   E ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, con il beneplacito di Gerolamo, terminiamo il nostro itinerario con Il calore del sangue, leggendone un quarto di pagina. Prima di tutto vogliamo sapere come sta François che ha avuto un brutto incidente con la macchina e poi dobbiamo sapere che c’è già stato un lieto evento.

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Il calore del sangue

François è rimasto a letto per tutto l’inverno: la gamba si era rotta in due punti. Ci sono state delle complicazioni, non saprei dire con esattezza È in piedi da otto giorni soltanto.

Abbiamo avuto un’estate davvero fredda e ben poca frutta. Niente di nuovo nelle nostre campagne. Il 20 settembre mia cugina Colette Dorin ha dato alla luce un bambino. È un maschio. Dopo il matrimonio ero stato a Moulin-Neuf una sola volta; ci sono tornato in occasione della nascita. Hélène era al capezzale della figlia. Di nuovo l’inverno, stagione monotona. Non c’è un altro luogo al mondo in cui valga quanto qui il proverbio orientale secondo cui i giorni si trascinano e gli anni volano. Di nuovo la notte che scende alle tre, il volo dei corvi, la neve sui sentieri, mentre in ogni dimora isolata la vita pare restringersi, mostrando all’esterno la sua superficie più ridotta. Lunghe ore trascorse accanto al fuoco senza far nulla, senza leggere, senza bere, senza neppure un sogno.

   Gerolamo muore a Betlemme nel 419 e quindi [a parte il sacco di Roma da parte dei Visigoti, nel 410] non vive i drammatici avvenimenti che caratterizzano l’ultima fase dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente e che noi abbiamo già raccontato. Ma come si svolge l’ultimo atto: quello che porta al definitivo svuotamento delle istituzioni imperiali?

   Con la definitiva “caduta” dell’Impero occidentale è stato necessario incrementare l’azione di conservazione della cultura antica: Gerolamo, con “l’esercizio della traduzione come atto di salvaguardia”, ha creato un metodo che, nei decenni successivi, si è trasformato in una Scuola e i discepoli di questa Scuola ci stanno aspettando nel paesaggio intellettuale che abbiamo cominciato ad osservare: chi sono questi personaggi? Gerolamo poi – vivissimo in spirito – ci continua ad accompagnare perché è curioso di sapere quali avvenimenti si celano dietro alle allusioni che la scrittrice fa nel testo del romanzo Il calore del sangue.

   Per rispondere a queste domande bisogna percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come la traduzione, quando è un atto di salvaguardia] perché lo studio è un’attività utile per promuovere l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui, per spronarci ad investire in intelligenza…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 8, 2013