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TRAGEDIA È COLTIVARE LE BELLE PAROLE…

Lezione N.: 
16

 

Prof. Giuseppe Nibbi        Tragòs oidos 2004        4-5-6 febbraio 2004

TRAGEDIA È COLTIVARE LE BELLE PAROLE

   Qui si conclude il nostro viaggio nel territorio dei modelli, degli stampi della tragedia, e termina, ancora una volta, in modo interlocutorio. La tragedia – abbiamo capito la scorsa settimana – è anche stoikéia, è l’alfabeto: lo strumento della promozione umana. E la tragedia ha cominciato ad esistere, è esistita, ed esiste, nelle sue parole scritte! La tragedia – intesa come il racconto delle origini – quando incontra l’alfabeto, diventa una proposta di riflessione sulla condizione umana, in funzione dello sviluppo della promozione umana.

   Che cosa facciamo tutte le volte che scriviamo? Tutte le volte che scriviamo, noi avviciniamo, mettiamo insieme, uniamo, in modo armonico, dei simboli astratti per costruire le parole, per costruire le frasi. Quando scriviamo parola per parola, idea per idea, uniamo, mettiamo insieme simboli astratti e discorso, forma e contenuto, segni e significato, racconto e riflessione. Noi, quando scriviamo – abbiamo detto – continuiamo a rinnovare l’unione tra Cadmo: che rappresenta l’alfabeto, e Armonia: che rappresenta il racconto e la riflessione.

   Ecco quale metafora – nella nostra cultura – rappresentano le nozze di Cadmo e Armonia: l’esercizio della scrittura, la costruzione del racconto, lo sviluppo di una riflessione, la creazione della tragedia. Le nozze di Cadmo e Armonia rappresentano la metafora del momento in cui, il canto del caprone, espresso come racconto orale, diventa scrittura, diventa la tragedia, diventa riflessione sulla condizione umana.

   Dal racconto mitico delle nozze di Cadmo e Armonia nasce Semèle, da Semèle nasce Dioniso, e il culto di Dioniso è la culla dei grandi racconti delle origini, da prima racconti orali di carattere rituale in funzione del culto, poi testi scritti di carattere intellettuale in funzione delle riflessione esistenziale.Ecco come si sviluppa quel fenomeno che chiamiamo la tragedia, tragòs oidos, "il canto del caprone".

   Tutte le volte che scriviamo, che raccontiamo in modo autobiografico, continuiamo a celebrare le nozze di Cadmo e Armonia, e siamo invitati, tutti, a quel banchetto. La festa del banchetto delle nozze di Cadmo e Armonia è l’immagine dello spazio che siamo capaci di dedicare alla lettura e alla scrittura. Le nozze di Cadmo e Armonia sono il momento mitico che presuppone la nascita di Dioniso, e quindi l’esistenza di tutta la rete dei racconti delle origini, legata al culto di Dioniso.

   Di questa rete, ora, noi, conosciamo meglio qualche segmento. Sono segmenti che contengono motivi complicati: stampi, calchi, idee, modelli simbolici, e soprattutto chiavi di lettura.

   Quali chiavi di lettura abbiamo acquisto, strada facendo, itinerario dopo itinerario, in questo Percorso? Prima di rispondere a questa domanda con una riflessione individuale, che vuole diventare collettiva – in modo da poter investire in intelligenza – dobbiamo percorrere l’ultimo tratto del sentiero che abbiamo seguito in queste settimane, il quale ci conduce al punto di arrivo che, per noi, è un ulteriore punto di partenza.

   La tragedia – abbiamo detto – è anche stoikéia, è l’alfabeto, che è lo strumento per eccellenza della promozione umana. E, ci dicono gli esperti, che la tragedia – quella scritta da Eschilo, Sofocle, Euripide e da tutti coloro i quali hanno scritto tragedie – è il campo in cui si coltiva la bella parola, è lo spazio in cui: ci si può far incantare dall’influsso dell’armonia delle parole! Gli scrittori di tragedie vogliono invitare il cittadino a vivere nel culto delle belle parole, e vogliono che il cittadino – affascinato dall’armonia delle parole – impari a penetrare il significato di queste parole: per vivere la gioia, il gusto, il piacere di possedere questo significato, e capire invita a riflettere…

   Gli scrittori di tragedie – Eschilo, Sofocle, Euripide – coltivano l’arte di persuadere con la parola, di essere persuasivi con l’uso della bella parola, con il fascino che le belle parole ispirano.

   Questa questione – che incontriamo sull’ultimo tratto del nostro sentiero – è una questione molto delicata. Dobbiamo affrontare un tema scottante: chi scrive tragedie usa l’arte di persuadere con la parola, chi scrive tragedie vuole essere persuasivo con l’uso della bella parola perché sa di non presentare il vero (quelle cose infatti non sono mai avvenute…), ma sa di presentare il verosimile (ne sono avvenute altre, simili). Che cosa significano queste affermazioni?

   Per cercare di capire dobbiamo incontrare un personaggio importante. Difatti abbiamo preannunciato che questa sera saremmo andati a Lentini, saremmo passati per la polis di Leòntinoi, come si chiamava 2500 anni fa.

 REPERTORIO E TRAMA... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La polis di Leòntinoi, oggi Lentini, si trova in provincia di Siracusa (tra Siracusa, Catania e Piazza Armerina: un triangolo delle meraviglie da visitare subito con l’atlante e con una guida della Sicilia)… A Lentini c’è un bel museo e un’interessante zona archeologica: puoi visitarli sempre utilizzando una guida della Sicilia. Lentini è stata distrutta (e sempre tenacemente ricostruita) da due violenti terremoti: in quali anni ?… Qual è il Santo patrono di questa cittadina ?… In località Piscitello, all’interno delle antiche mura della polis di Leòntinoi, si trova "la Casa dello Scirocco": che tipo di monumento è ?

Vai alla ricerca e scrivi quattro righe in proposito…

   Perché siamo a Lentini, a Leòntinoi, questa sera? Poi ci trasferiremo ad Atene. Chi scrive tragedie usa l’arte di persuadere con la parola, abbiamo detto! E, l’arte di persuadere con la parola – quella disciplina che poi è stata chiamata la retorica – nacque in Sicilia, nel VI secolo a.C... Questa disciplina, la retorica – l’arte di persuadere con la parola – nacque nelle aule dei tribunali, e noi sappiamo che, l’aula del tribunale, è spesso lo spazio scenico della tragedia.

   I due primi prìncipi del foro che la storia della retorica ci ricorda sono due avvocati di Leòntinoi, di Lentini – Coràce e Tisia – che difendevano con successo i loro clienti senza porsi ulteriori finalità: erano famosissimi e poverissimi e vissero tutta la vita sostenuti dalla pubblica assistenza: perché? Perché, si facevano pagare solo in caso di perdita della causa, e loro vincevano sempre! La gloria, per la vittoria ottenuta, era la ricompensa. Poi i retori cominciarono a farsi pagare e questo meccanismo modificò le cose!

   Ma noi siamo a Lentini questa sera per incontrare il discepolo più importante di Coràce e Tisia, il quale è passato alla Storia del Pensiero Umano come il più famoso dei rètori e si chiama Gorgia da Lentini (485 ca. - 388 ca. a.C..), che tutti avete sentito nominare! Gorgia da Lentini è stato un rètore e un filosofo famosissimo, che coltivò quel genere di elocuzione, di linguaggio detto elogiativo, che è in grado di affascinare il pubblico. Perché incontriamo Gorgia da Lentini? Perché Gorgia da Lentini ha scritto un famoso Encomio, un discorso in difesa di Elena di Sparta, la donna più vituperata dell’antichità! Con Elena di Sparta abbiamo iniziato il nostro viaggio e con Elena di Sparta, la luminosa, lo terminiamo!

   Voi ricorderete senz’altro che abbiamo incontrato – a metà novembre – Isocrate di Atene, che ha scritto un Elogio di Elena (nel 380 circa a.C.), di cui abbiamo letto un frammento. Isocrate scrive l’Elogio di Elena con un intento di carattere politico: vuol far diventare Elena di Sparta un kallé profasé, un bel pretesto per gli Ateniesi per far la guerra a Sparta!

   Gorgia da Lentini scrive un discorso in difesa di Elena di Sparta con un diverso intento rispetto ad Isocrate. Gorgia vuole scagionare Elena – la donna più biasimata dell’antichità – per dimostrare una cosa, per affermare un’idea, per dare spazio a un ragionamento: quale cosa, quale idea. quale ragionamento? Gorgia da Lentini – secondo la leggenda – visse più di cento anni e, non appena si accorse che le forze lo stavano abbandonando per sempre, sembra abbia proferito queste armoniose parole: "Ede Hypnos epì-trepo auton Thanatos" Già Hypnos comincia a consegnarmi a suo fratello Thanatos. Hypnos, in greco è il sonno, e Thanatos è la morte. Insomma, la morte è come un bel sonno tranquillo: perché averne paura? Sappiamo che molti illustri pensatori, a partire dall’antichità, hanno esalato l’ultimo respiro, solo, dopo aver pronunciato una graziosa frase di congedo da questo mondo. Dell’autenticità di quasi tutte queste frasi è lecito dubitare, ma: quella attribuita a Gorgia da Lentini, molto probabilmente, è autentica, e ci permette di constatare come egli abbia voluto morire, così come era vissuto: nel culto della bella parola, dell’armonia della parola!

   L’Atene del V secolo a.C. è un centro internazionale, che accoglie volentieri gli intellettuali di valore. Quando Gorgia da Lentini vi giunge, nel 427 a.C., come ambasciatore delle città, delle polis siciliane che intendevano ribellarsi contro il tiranno di Siracusa, gli Ateniesi restarono incantati dalla sua eloquenza. Lo pregarono di restare, lo fecero cittadino onorario e lo trattarono con grande rispetto. Ad Atene, Gorgia da Lentini, ebbe la conferma di quello che da tempo si pensava in Sicilia, sulla potenza della parola: da un secolo, nella sua città, a Leòntinoi, era attiva una straordinaria Scuola di retorica! Questa scuola, in cui Gorgia era cresciuto e si era formato, considerava la parola uno strumento capace di influenzare la psiche, alla maniera di una medicina che agisce sul corpo, e alla maniera di un farmaco capace di creare un incantesimo che scatena fortissime emozioni.

   Gorgia da Lentini fonda una scuola ad Atene, in cui insegna l’arte della retorica. Ma, ad Atene, rispetto a Leòntinoi, vigevano ormai spregiudicate leggi di mercato! Gorgia – dobbiamo rendere giustizia a questo personaggio – non riuscì ad infondere ai suoi studenti i valori che animavano i rètori di Leòntinoi. Ad Atene la retorica divenne subito un’arte per procacciarsi – da parte di chi la praticava – non la gloria, ma il successo e lauti guadagni.

   Ad Atene, non tutti vedevano di buon occhio questi maghi della parola: Platone, in un suo famoso dialogo chiama i rètori incantatori di serpenti. Platone intitola questo dialogo, col nome di Gorgia, e questo contribuirà ingiustamente a gettare discredito sul maestro di Lentini! Gorgia decide allora di chiudere la sua scuola di retorica perché considerava immorale il comportamento di coloro che aveva istruito, e fonde una nuova scuola di pensiero – che divenne molto importante nella Storia del Pensiero Umano– intitolata sofistiké, dall’accoppiamento delle parole sophia e tecné: una scuola che insegnava l’arte (tecné) di trasmettere la conoscenza (sophia) attraverso la parola.

   Ed è proprio per mettere in evidenza la potenza, e il fascino della parola nel bene e nel male, che, un giorno, Gorgia da Lentini, diede una memorabile prova di bravura. Per dimostrare l’utilità della parola nel trasmettere la conoscenza e nel divulgare i ragionamenti, e per dimostrare contemporaneamente anche quanto possa essere pericoloso l’uso suadente della parola, elaborò un discorso, serio, ma pervaso da una profonda ironia, dal titolo Encomio di Elena di Sparta.

REPERTORIO E TRAMA... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Un encomio è un elogio, è una lode: che cosa ti fa venire in mente questa parola?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Questa esercitazione retorica appartiene al genere letterario dei pàignia, gli scherzi con i quali gli oratori esibivano la propria abilità. Quale miglior "scherzo", dunque, di quello di elogiare ciò che è considerato spregevole o condannabile? O insopportabile? Gorgia aveva scritto in gioventù – quando viveva ancora a Lentini – l’Elogio di una mosca per dimostrare che non sono le mosche ad essere noiose, ma siamo noi incapaci di governare la sopportazione, e questo scherzo aveva avuto un grande successo: purtroppo è andato perduto. Poi Gorgia aveva scritto la Difesa di Palamede, il giovane figlio di Climene e di Nauplio, re di Argo, il quale con l’inganno fu ingiustamente accusato da Agamennone di essere complice dei Troiani, e fu processato e lapidato. Anche se Palamede è solo un personaggio mitico, immaginario, Gorgia lo riabilita. Poi Gorgia, sceglie Elena, l’adultera per eccellenza, con tutta la sua storia che – si sapeva – non essere mai avvenuta, ma che era sempre…

   L’Encomio di Elena di Gorgia da Lentini non è però, come poteva sembrare, sulle prime, agli Ateniesi, un’opera buffa, uno scherzo! L’Encomio di Elena risulta soprattutto oggi – ed è per questo che ci interessa e lo incontriamo – un serio trattato di filosofia del linguaggio! In quest’opera, Gorgia – con il pretesto di difendere Elena – esemplifica una teoria importante, quella per cui l’arte della parola risulta essere un "dolce inganno": che cosa significa?

   Il mito di Elena, la moglie del re di Sparta, Menelao, lo conosciamo. E Gorgia usa il mito tradizionale di Elena, quello della cultura omerica, che fa di Elena il fedifrago pretesto per la guerra di Troia. Sappiamo tutti che un giorno alla corte di Sparta arriva un affascinante giovanotto, il troiano Paride, caro alla dea dell’amore Afrodite perché l’ha premiata come giudice in una importantissima gara di bellezza. Sappiamo che Elena e Paride si piacciono subito, per cui, quando un giorno Menelao si assenta, i due amanti, si danno alla fuga. Ne deriva la guerra raccontata dalla tradizione omerica nell’Iliade, al termine della quale Menelao ricondurrà Elena a Sparta. Chi non condannerebbe una donna infedele, responsabile di una tremenda carneficina decennale? Ma Gorgia da Lentini è l’avvocato dei miracoli.

   Chi era veramente Elena, si domanda Gorgia all’inizio della sua orazione? È una divoratrice di uomini, avvenente e trasgressiva? Oppure una sposa devota, bella e fedele a suo marito? In ogni caso andrebbe assolta – scrive Gorgia – perché, prima di tutto, la sua fuga non fu dovuta a libera volontà, ma a cause di forza maggiore. Ella fece quel che fece – scrive Gorgia – per i seguenti motivi: o per una meditata decisione di dèi, oppure perché rapita per forza, oppure perché presa dall’amore, oppure perché indotta con parole.

   Se fece quel che fece, per il primo motivo – per una decisione degli dèi – ebbene, scrive Gorgia, sappiamo che l’azione della provvidenza divina non si può impedire con la previdenza umana: chi può mettersi contro la volontà degli dèi? E se fu rapita con la forza, è chiaro che la colpa è del rapitore: è lui che commette l’oltraggio, ed è la rapita – in quanto oltraggiata – che subisce una sventura! Già questi primi due motivi, propri del buon senso, darebbero ragione a Gorgia, per cui l’adulterio di Elena era inevitabile: ed Elena sarebbe già assolta.

   Ma c’è una terza causa, addotta da Gorgia nella difesa di Elena. Gorgia sostiene che lei si sia concessa a Paride, spinta dall’eterna forza dell’amore, a cui sempre è stata attribuita una divina potenza: alla dèa dell’amore, Afrodite, e al dio dell’amore, Eros, e al loro segretario, Cupido, nessun essere umano può resistere! Come si doveva e si poteva pretendere da Elena di resistere ad Afrodite?

   Ma Gorgia da Lentini a questo punto, aggiunge la parte più originale del suo discorso, il quarto argomento di difesa. Probabilmente Elena è stata indotta con le parole, con la forza, il fascino, l’incantesimo delle parole a fare quel che ha fatto! E allora andiamo a leggere questo frammento dall’Encomio di Elena, ascoltando la viva voce di Gorgia:

LEGERE MULTUM….

Gorgia da Lentini, Encomio di Elena (424 ca. a.C.)

Se invece fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppure questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi. La parola è infatti un gran dominatore, che con corpo assai piccolo e invisibile sa compiere cose molto divine. Riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore, a suscitare la gioia e ad aumentare la pietà Chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimentoC’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che c’è tra la funzione dei farmaci e la natura del corpo. Come infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri e alcuni troncano la malattia, altri la vita, così anche dei discorsi, alcuni producono dolore, altri diletto, altri paura, altri ispirano coraggio agli uditori altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano. Ecco così spiegato che, se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata

    Il nocciolo del discorso di Gorgia in difesa di Elena fa leva e coincide con la stessa dottrina della retorica che egli professava. Mentre gli altri rètori erano convinti che la persuasione avvenisse sempre attraverso il ragionamento, Gorgia sostiene che la forza del convincimento risiede anzitutto nella potenza delle parole con cui il ragionamento viene presentato. Non è il ragionamento che rende persuasive le belle parole, ma è la forza delle parole che rende persuasivo il ragionamento! Lo stesso ragionamento, a seconda delle parole con cui viene sviluppato, risulta inefficace o trascinatore.

   È forse questo un invito alla superficialità? Significa, forse, che anche ragionamenti futili, banali, stupidi, possono diventare decisivi se presentati con parole ad effetto? Non è così – ci spiga Gorgia – e per capirlo basta collegare il quarto argomento di difesa col terzo. Attenzione – scrive Gorgia – la parola è uno strumento potente perché consegna chi l’ascolta, disarmata o disarmato, nelle mani della dèa dell’amore, Afrodite e del dio dell’amore, Eros e del loro segretario Cupido. E così, per la prima volta nella Storia del Pensiero Umano, il linguaggio viene inteso non come un semplice tramite di concetti, ma come una forza che permette al concetto di agire sulla psiche. Insomma: sono le parole – non i ragionamenti – che producono un effetto straordinario!

   Gorgia ha dato a questo effetto il nome di goeteia goèteia, di incantesimo: le parole sono capaci di produrre l’incantesimo! Questa parola goèteia, incantesimo, è stata mutuata dalle cultura pitagorica. I pitagorici pensavano che la pronuncia di alcune parole magiche, durante la meditazione, durante la contemplazione, potessero produrre una goèteia, un incantesimo, tale da favorire l’ascolto, la percezione, dell’armonia universale.

   Gorgia pensa che tutte le parole – non solo alcune parole magiche – siano capaci di produrre una goèteia, un incantesimo, e la sua teoria retorica resterà sempre la prima tra tutte le teorie che vedono nella parola qualcosa di più che non un semplice un vocabolo. Nel mondo immaginifico del Romanticismo – dove approderemo – questo incantesimo delle parole verrà descritto come la voce del profondo o come il richiamo dell’invisibile.

   La dottrina di Gorgia sulla forza delle parole viene particolarmente avversata e attaccata con durezza, dai razionalisti. Per loro, chi segue questa idea perde di vista il bene supremo della verità. Ma Gorgia difese sempre con passione il suo pensiero: la retorica – scrive – non è affatto una vuota esercitazione, ma un’autentica filosofia che soppianta il criterio del vero – che funziona poco e male – con il criterio, assai più valido, del verosimile, cioè del persuasivo. L’essere umano non è in grado di conoscere la verità: può accostarsi al verosimile! E una cosa è vera, per ciascuno, sempre in modo diverso, e allora: dov’è il vero? E sbaglia – scrive Gorgia – chi considera il verosimile come un nemico del vero. Una verità avrebbe tutto da guadagnare, e nulla da perdere, se riuscisse anche a essere persuasiva. Ma seguendo il criterio del vero: una cosa, o è vera, oppure è falsa. Seguendo il criterio del verosimile: una cosa è sempre, comunque, persuasiva!

   La storia di Elena (che tutti sanno non essere mai esistita) – come le storie dei Pelopidi – non è vera! Allora è falsa, quella storia? Attenzione – scrive Gorgia – Elena, Paride, Menelao, non sono mai esistiti e quella storia non è vera, ma – possiamo dire – che è verosimile! Se usiamo il criterio del vero, ebbene questa storia è falsa! Se usiamo il criterio del verosimile (succedono simili cose!), ebbene, questa storia è persuasiva: c’insegna qualcosa!

   Per questo Aristotele nella Poetica scrive che:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Poetica (341 ca. a.C..)

 Il verosimile si dovrebbe preferirlo alla verità! A teatro è sempre preferibile quel che è verosimile e persuasivo a ciò che è vero senza essere convincente. Se così non fosse, sarebbero vani tutti gli artifici scenici, i finti combattimenti, le finte morti. A teatro è migliore lo spettatore che si lascia ingannare e s’immedesima nel verosimile subendo l’incantesimo della potenza delle parole, piuttosto che, colui il quale non accetta la finzione. Chi non accetta la finzione, saldo nel criterio del vero a tutti i costi, non è soggetto al salutare processo della catarsi, della purificazione Chi si lascia ingannare e s’immedesima nel verosimile subendo l’incantesimo della potenza delle parole accetta come persuasivo il fatto che: quella spada (finta) possa fare male a nessuno, e che, quel sangue, sia solo acqua tinta di rosso porpora!

    Gorgia di Lentini ha anticipato questo pensiero di Aristotele sostenendo che chi non accetta il verosimile, saldo nel criterio del vero a tutti i costi, è pericoloso, perché non è capace di assoggettarsi alla catarsi, alla purificazione data dalle belle parole. E ci dicono gli esperti che la tragedia – quella scritta da Eschilo, Sofocle, Euripide e da tutti coloro i quali hanno scritto tragedie – è il campo in cui si coltiva la bella parola, è lo spazio in cui: ci si può far incantare dall’armonia delle parole! Gli scrittori di tragedie sono dei rètori che preferiscono il criterio del verosimile e del persuasivo, e vogliono invitare il cittadino a vivere nel culto delle belle parole, e vogliono che il cittadino – affascinato dall’armonia delle parole – impari a penetrare il significato di queste parole: per vivere la gioia, il gusto, il piacere di possederlo, questo significato in modo da poter accedere alla catarsi, alla purificazione. Gli scrittori di tragedie – Eschilo, Sofocle, Euripide – coltivano l’arte di essere persuasivi attraverso l’uso della bella parola, con il fascino catartico e la forza purificatrice che le belle parole contengono in sé.

   La festa del banchetto delle nozze di Cadmo e Armonia è l’immagine dello spazio che siamo capaci di dedicare alla lettura e alla scrittura. Le nozze di Cadmo e Armonia sono il momento mitico che presuppone la nascita di Dioniso e quindi l’esistenza di tutta la rete dei racconti delle origini, legata al culto di Dioniso. Di questa rete, ora, noi conosciamo meglio alcuni segmenti che contengono motivi complicati: stampi, calchi, idee, modelli simbolici, e chiavi di lettura…

   Quali chiavi di lettura abbiamo acquisto, strada facendo, itinerario dopo itinerario, in questo Percorso? Questa domanda corrisponde a un’altra domanda, che ci siamo fatti sistematicamente in questi mesi: che cos’è la tragedia? Di che cosa parliamo quando evochiamo la tragedia? Ora sappiamo che la risposta è complessa e merita un’ulteriore riflessione che ci possa servire per investire in intelligenza

   Qui troviamo una sintesi operativa, un catalogo di parole in tutta la loro potenza, di queste parole, scritte in greco, di cui ora noi conosciamo il significato: è il catalogo delle nostre competenze acquisite. Leggiamo questo catalogo con attenzione:

   Tragedia è mytosàrchis, la rete dei racconti primordiali…

   Tragedia è gènesis, il racconto delle origini…

   Tragedia è téleios, il compiuto, l’iniziatico, il perfetto nella mente…

   Tragedia è dìos, lo splendore, che permette di distinguere e di dividere la luce dalle tenebre …

   Tragedia è stèphanos, la corona nel suo doppio senso di castigo e di premio…

   Tragedia è abrosyné, la delicatezza, lo splendore, la grazia, il gusto…

   Tragedia è pìros, il fuoco che brucia…

   Tragedia è sòphos, il fuoco del sapere che illumina…

   Tragedia è deimòs, l’abominevole, l’atroce, l’orribile…

   Tragedia è typos, il contenitore, lo stampo, la forma, l’idea…

   Tragedia è dòlos, l’inganno, la maledizione, il tradimento, la vendetta…

   Tragedia è symbolos, il talismano, l’oggetto simbolico, l’astratto…

   Tragedia è tarassé, inquietudine di fronte all’orrore…

   Tragedia è dicastèrios, il tribunale, è la riflessione sulla legalità, sulla questione morale…

   Tragedia è òistros, il tafano fastidioso che stimola a scegliere…

   Tragedia è stoikéia, l’alfabeto, lo strumento della promozione umana…

REPERTORIO E TRAMA... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Riflettete e scegliete: quale di queste parole greche (sceglietene una sola) ha per voi la maggiore forza evocativa? Scrivila subito…

Non ci sono parole giuste o parole sbagliate, in questo catalogo: ci sono tutte le parole fondamentali che l’antropologia culturale ci suggerisce in rapporto alla tragedia…

Vedremo così – secondo le nostre scelte personali – come si configura collettivamente il territorio che abbiamo attraversato…

Avremo un territorio di parole-chiave – che rappresentano i principali modelli culturali della tragedia – il cui paesaggio è determinato dalle nostre scelte…

   E ora dobbiamo concludere: la tragedia – molti di voi lo hanno detto e scritto – s’identifica con la vita stessa. Infatti la vita comincia a esistere quando la raccontiamo, quando diventa un racconto, e quando l’esercizio del raccontare diventa una riflessione sulla condizione umana. La Storia del Pensiero Umano dell’800 e del ‘900 ha riflettuto ininterrottamente su questo concetto! Nella storia della cultura, la tragedia documenta la prima grande riflessione – senza remore, senza alibi, senza censure – sulla condizione umana!

   I testi delle tragedie di Eschilo, di Sofocle, di Euripide sono di difficile lettura! Come fare, per leggere le tragedie, oggi? Esiste una strada – tortuosa quanto volete – ma ben praticabile. I modelli culturali, gli stampi, le parole-chiave delle tragedia sono presenti in modo evidente in molti romanzi dell’800 e del ‘900! La lista degli esempi – per fortuna – è lunga: limitiamoci all’esempio più classico! Lo scrittore contemporaneo più famoso che ha utilizzato con maggior determinazione i modelli della tragedia è Fëdor Dostoevskij (1821-1881). C’è un romanzo che contiene tutte le parole-chiave che noi abbiamo incontrato sul nostro Percorso, e abbiamo catalogato: s’intitola Delitto e castigo (1866):leggerlo significa – in un colpo solo – leggere le tragedie! In Delitto e castigo ( Prestuplenie i nakazanie, il più celebre romanzo di Dostoevskij) incontriamo – come nella storia dei Pelopidi – l’orrore, il degrado umano e una manciata di soldi (!) che scatenano una sequela di sangue nella vita del protagonista Raskòl’nikov, il quale, per affrancarsi dal giogo dei debiti che lo costringono a fare una vita da bestie, uccide un’anziana usuraia a colpi d’accetta. Con questo delitto si sente finalmente liberato, nel corpo. Ma la tragedia non si presenta in questi avvenimenti orribili: la tragedia vera e propria comincia quando la coscienza non permette a Raskòl’nikov di godere del suo nuovo stato, e trasforma le sue certezze in paura, e poi in terrore, in orrore, in abominio!

   La riflessione di Dostoevskij è perfettamente tragica: egli vuole affermare che ci sono anche le colpe della società, ma fondamentalmente ognuno è responsabile dei propri atti e la coscienza è il vero giudice di noi stessi, e la guida suprema della coscienza è l’amore solidale.

   Dostoevskij fu criticato – dovette sostenere una polemica con l’editore Katkov – per il finale del suo romanzo, ed è probabile che dal punto di vista artistico questo finale tutto teso alla purificazione del protagonista, non sia la cosa migliore in un romanzo, ma Dostoevskij scriverà sempre utilizzando scrupolosamente il registro della tragedia.

   E il lettore, che conosce i modelli della tragedia, è capace di percepire che questo romanzo è pervaso – senza respiro, dall’inizio alla fine – da un formidabile pathos tragico: che cosa significa? Significa che i personaggi sono costretti drammaticamente – dal grande scrittore – a riflettere senza alibi e senza giustificazioni, per fare chiarezza sul proprio destino, così essi si rivelano a se stessi e anche il lettore è invitato a fare chiarezza sul proprio destino, sulla tragedia della propria vita, e a rivelare a se stesso, a se stessa, il proprio intimo, la dimensione della propria intimità.

   Dostoevskij è lo scrittore tragico per eccellenza perché c’insegna che il luogo fondamentale dove la tragedia si svolge è la coscienza: con la sua capacità "vitale" di capire che cosa sia il bene e che cosa sia il male.

   Se leggete Delitto e castigo, che è considerato un romanzo polifonico, perché ci sono decine e decine di personaggi – come nei romanzi di Tolstòj, di Balzac, di Hugo, di Stendhal – si incontra un personaggio originale: è la figura del commissario Porfirio Petrovic, che risulta il modello letterario (poi ce ne saranno tutta una serie nella letteratura del ‘900) del commissario di polizia calmo, colto, saggio, benevolo, è un deus ex machina (come in Euripide) e rappresenta la voce amplificata della coscienza. Dostoevskij affida a Porfirio Petrovic le affermazioni filosofiche, educative: "Il vero giudice è la tua coscienza, abbandonati al fiume della vita, ti condurrà in qualche posto". La vita – scrive Dostoevskij – di per sé è un bene: sono gli esseri umani, con i loro atti che propendono al male, e che la fanno orribile, atroce, abominevole(a Wiesbaden!). Ma la coscienza è capace di ribellarsi a noi stessi e la tragedia è la manifestazione della ribellione della coscienza! L’epifania della coscienza è la presa di coscienza. La tragedia, come manifestazione della ribellione della coscienza, è un punto fermo nella cultura moderna e deve indirizzare l’individuo verso la catarsi, verso la purificazione, in modo che i valori dell’esistenza possano opporsi alla paura, al terrore, all’orrore, all’atrocità, all’abominio!

REPERTORIO E TRAMA... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leggere Delitto e castigo (1866) significa – in un colpo solo – leggere le tragedie: cercalo in biblioteca e utilizzatelo con il metodo del LEGERE MULTUM …

   E così siamo arrivati, davvero, anche alla fine di questo itinerario, e anche alla fine di questo Percorso.

   Ma siccome nella Storia del Pensiero Umano per fortuna non ci sono barriere, la fine di questo Percorso corrisponde con l’inizio di un nuovo sentiero!

   Tra il 1700 e il 1800, le scoperte archeologiche – lo sapete già - contribuiscono a rilanciare in tutta Europa gli studi, le ricerche, le riflessioni sulla cultura greca. E la riflessione sulla cultura greca s’innesta con un grande dibattito che ha caratterizzato tutto il corso del 1700: un dibattito sul tema dell’educazione. Un dibattito molto importante dal quale scaturiranno nuove correnti di pensiero come il Romanticismo e l’Idealismo. Come e perché si sviluppa questo importante dibattito sul tema dell’educazione? Sapete chi dobbiamo incontrare di nuovo per affrontare tema? Dobbiamo incontrare una nostra vecchia conoscenza (per lo meno, per molti di noi): Emmanuele Kant. E proprio dalla modesta casa di Kant, proprio dal quartiere popolare dove vive Kant a Königsberg, inizia il sentiero che ci porta verso un nuovo e grande territorio della Storia del Pensiero Umano: ricco di accattivanti trame culturali e di vertiginosi paesaggi intellettuali.

   Quindi il gesto finale, l’esercizio conclusivo dell’itinerario di questa sera non può che essere un incipit, un inizio: l'inizio – nelle viuzze di una Pietroburgo indimenticabile – di Delitto e castigo (Prestuplenie i nakazanie) di Fëdor Dostoevskij:

LEGERE MULTUM….

 Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo (1866)

Ai primi di luglio, in una giornata straordinariamente calda, un giovane usciva verso sera dalla sua cameretta in subaffitto nel vicolo S. dirigendosi lentamente, con passo incerto, verso il ponte K. Per le scale il giovane riuscì fortunatamente a evitare d'incontrarsi con la padrona. La stanzetta da lui presa in subaffitto si trovava proprio sotto il tetto di un alto caseggiato a cinque piani, e aveva più l'aspetto di un armadio che di un'abitazione. La padrona che gli aveva affittato la stanzetta, vitto e servizi compresi, abitava al piano subito sotto, in un appartamento separato, e ogni volta che il giovane usciva di casa, gli toccava immancabilmente passare accanto alla cucina della padrona, la cui porta era quasi sempre spalancata sulle scale. E ogni volta il giovane, passando lì davanti, provava una fastidiosa sensazione di viltà di cui si vergognava e che gli faceva aggrottare la fronte. Era gravemente indebitato con la padrona e aveva paura d'incontrarla.

    Posso affermare con cognizione di causa – come farebbe il commissario Porfirio Petrovic – che voi non avete debiti nei confronti della Scuola! Perché la Scuola pubblica è dei cittadini!

   Quindi, senza remore, né timori, né psicosi: accorrete numerosi! La Scuola è qui! Ci vediamo a casa di Kant…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 6, 2004
Anno Scolastico: