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LA TRAGEDIA È INQUIETUDINE, TARASSE…

Lezione N.: 
13

 

 

Prof. Giuseppe Nibb               Tragòs oidos 2004           14-15-16 gennaio 2004

  LA TRAGEDIA È INQUIETUDINE, TARASSE

   Strada facendo, la madre di tutte le tragedie – cioè la storia di Pelope – prima, ci ha fatto incontrare i figli di Pelope: Atreo e Tieste, poi ci fa incontrare i nipoti. I nipoti maschi più famosi di Pelope sono: Agamennone, Menelao ed Egisto: questi tre modelli simbolici e culturali, questi tre personaggi che troviamo in scena nelle tragedie, sono tre strani fratelli! La rete dei racconti, la tragedia, è una forma nella quale scorre, nella quale è contenuto lo stesso sangue! La tragedia è una tragedia perché l’omogeneità del sangue porta all’estinzione. "Ti vuoi vendicare? – dice Apollo con grande razionalità a Tieste – stupra tua figlia! Imporrai il tuo sangue, ma questo porterà tutti alla rovina…". L’inganno, il tradimento, la vendetta portano tutti alla rovina! Ma, procurano una perfida soddisfazione…

   Non si rinuncia facilmente a questa perfida soddisfazione!

   Il tragòs oidos, cioè la festa per far cantare il caprone nella tribù; il carro di Tespi per far cantare il caprone nella comunità agricola; il teatro per rappresentare il canto del caprone nella polis, si configurano – ci ricorda Aristotele nel libro della Poetica – come strumenti didattici per insegnare che la chiusura in noi stessi porta al fallimento della società: se una comunità non si apre all’esterno, se non si rimescola il sangue (se non si esorcizzano inganni, tradimenti e vendette), la comunità è destinata all’estinzione e, con lei, l’Umanità.

   La tragedia racconta e rappresenta questa tragedia universale!

   Agamennone, Menelao ed Egisto sono tutti e tre, ufficialmente, figli di Atreo, ma sappiamo che nelle loro vene, a causa della catena delle vendette, scorre il sangue di Tieste. Ecco il nodo cruciale nella rete dei racconti, il nodo portante della madre di tutte le tragedie!

   Gli attori del carro di Tespi, 2500 anni fa, nell’area agricola intorno alla polis di Sicione, mettevano in scena (titemi scenos titemi scenos-mettere sul carro), la rete di questi racconti, dove, il tema della fecondità, del sangue, (l’albero con appesi i falli) veniva rappresentato nei suoi aspetti piacevoli e abominevoli. L’attore travestito da caprone (ò tragòs), cantava (oidos), raccontava, sostenuto dal coro (ò choròs) questi avvenimenti che così, in quanto tali, non erano mai avvenuti ma continuavano ad essere sempre.

   In quella società non mancavano gli inganni, le maledizioni, i tradimenti e le vendette da esorcizzare attraverso un rituale. Così nasce il genere letterario del tragòs oidos, della tragedia! Oggi, che abbiamo esorcizzato una volta per tutte gli inganni, le maledizioni, i tradimenti e le vendette (non è così, forse ho esagerato?)…

   Ebbene, oggi, se non è così, sarebbe più che mai necessaria una riflessione collettiva sui modelli, sui simboli, sugli stampi della tragedia. Ancora, per noi, vale l’ammonimento di Sallustio: queste cose non sono mai avvenute, ma sono sempre…

   Nelle vene dei tre nipotini di Pelope – Agamennone, Menelao, Egisto – ufficialmente figli di Atreo, scorre il sangue di Tieste. E Tieste, nella didattica della lettura, ha un ruolo: è un personaggio-chiave. Anche Atreo è un personaggio, ma, quando la madre di tutte le tragedie – la storia dei Pelopidi – verrà ricostruita a frammenti, a episodi, nei testi degli autori tragici, sarà il personaggio di Tieste, non di Atreo, a caratterizzare queste opere, nei secoli: Tieste rappresenta il nodo cruciale nella rete dei racconti, il nodo portante della madre di tutte le tragedie!

   Il primo a parlare in modo letterario e ironico di "trionfo del sangue di Tieste" è Euripide (480-406 o 407 a.C.) e lo abbiamo già anticipato la scorsa settimana. Euripide fa questa affermazione in una tragedia, Le Cretesi, del 438 a.C, di cui possediamo pochi frammenti, e abbiamo letto quel frammento: "Nella casa degli Atridi – scrive Euripide – non vi è più nulla di Atreo: trionfa il sangue di Tieste". Come dire: lo stesso sangue mescolato (con l’inganno) allo stesso sangue, genererà mostri. Basta questo frammento per farci capire che Euripide conosce, per intero, la rete dei racconti della madre di tutte le tragedie…

  A proposito di frammenti, dobbiamo ricordare che Euripide ha scritto 67 tragedie, ce ne sono pervenute 17, integre: delle altre possediamo solo frammenti.

   Il personaggio di Tieste ha navigato, nei secoli, nella Storia della Letteratura e l’opera – considerata la più importante dagli esperti – che ha come protagonista questo personaggio è una tragedia, non scritta in greco, ma scritta in latino, nell’ anno 59 d.C, a Roma, da Lucio Anneo Seneca. Tutti avete sentito nominare questo grande scrittore e filosofo!

   Seneca, sulla scia del frammento di Euripide, codifica il personaggio di Tieste: lo modella come il fuggiasco perseguitato dal fratello Atreo che ricopre il ruolo del tiranno. Le tragedie di Seneca – ne ha scritte nove – assumono un valore di denuncia sociale e politica: Seneca utilizza i simboli, gli stampi della tragedia per smascherare i soprusi della tirannide. Costruisce così, il genere letterario moderno della tragedia.

   Ma, per capire le reali motivazioni del Tieste di Seneca, dobbiamo chiederci: chi è Lucio Anneo Seneca? La storia della sua vita e gli avvenimenti che coincidono con la storia della sua vita costituiscono un punto di riferimento significativo per capire e per riflettere sul valore della tragedia come genere letterario. Lucio Anneo Seneca, si colloca nella tradizione di quegli intellettuali che si sono impegnati in politica e che, per la loro coerenza, hanno pagato volontariamente un prezzo molto alto.

   Seneca nasce in una nobile famiglia a Cordova, nel sud della Spagna, intorno al 4 a.C.. Da adolescente viene mandato a Roma, a studiare, e frequenta due Scuole di valore, quella dello stoico Attalo e quella del pitagorico Sozione. Stoicismo e Pitagorismo: come dire che Apollo e Dioniso vanno consapevolmente tenuti insieme. In queste scuole, Seneca, acquisirà competenze disciplinari (storia, letteratura, diritto, filosofia) ma soprattutto acquisirà i princìpi morali che orienteranno la sua vita.

   Seneca, che è detto il Filosofo (da non confondere con suo padre detto il Rètore), fa ben presto carriera nelle Istituzioni dell'Impero. Ma le Scuole che ha frequentato ne fanno un personaggio, poco incline ai compromessi, e non aspira ad assicurarsi la benevolenza dei più potenti. Potenti che a Roma, in questo momento, erano veramente di una bassezza morale e intellettuale sorprendente (dopo Augusto e Tiberio, ai vertici dell’Impero troviamo: Caligola, Claudio, e Nerone, che, a dirli tutti e tre insieme, viene la pelle d'oca…).

   All’inizio degli anni 30, Seneca viene nominato senatore e sente la responsabilità di rappresentare non tanto la sua famiglia, non solo la sua provincia (la provincia Iberica), ma anche gli interessi generali della res-publica, dello Stato. Nell’anno 39, Seneca pronuncia in Senato una bellissima orazione: Contro Caligola. Seneca mette in evidenza come l’imperatore si disinteressi dei problemi politici, economici, sociali dello Stato – e ne fa l’elenco – e, per contro, faccia promulgare dai Senatori – la maggioranza dei quali era succube e impaurita – solo leggi a vantaggio della sua persona, e anche piuttosto stravaganti (il decreto sul cavallo Incitatus senatore, votato dal Senato!). Quella Contro Caligola è un'orazione ironica, satirica, costruita sulle metafore, che l’imperatore, di basso profilo, non capisce subito: poi gliela spiegano.

   ("Perché non approvo che i Senatori siano considerati cavalli? Perché il politico è animale più affine all’asino, umile animale che tira la carretta nella gestione dell’economia, dell’amministrazione, della pace, della cultura e della pubblica morale. Il politico non è superbo animale da parate, non è cavallo. E l’imperatore, primo Senatore a vita, si senta piuttosto che cavallo, il primo asino di Stato!).

   Seneca ha posto delle domande politiche e aspetta, in Senato, delle risposte. Ma viene informato dalla sorella di Caligola, Giulia Livilla, che se fosse rimasto a Roma gli sarebbe capitato senz’altro qualche brutto incidente. A lei, Seneca sta molto a cuore, e lo prega di allontanarsi subito da Roma, e Seneca – che è molto affezionato, anche lui, a questa persona – decide di partire precipitosamente per Cordova e lì rimane nascosto.

   Alla morte di Caligola, un anno dopo, nell’anno 40, Seneca torna a Roma. A Roma è atteso da Giulia Livilla con la quale Seneca ebbe una relazione affettiva e intellettuale molto importante. Giulia Livilla, era una fanciulla bellissima, ma era soprattutto intelligente e colta, in sintonia con l’animo di Seneca.

   Nel 41, Seneca non ha perso le sue abitudini di polemista e attacca duramente Claudio, il nuovo imperatore, perché, anche lui, non governa! Claudio è un uomo debole, indeciso, aveva affidato praticamente il governo alla moglie Messalina, un personaggio poco raccomandabile, ambiziosa, cinica, corrotta: sono personaggi più adatti per la tragedia che per la storia! Ed è di questo che stiamo parlando: Seneca riterrà opportuno utilizzare il genere letterario della tragedia, non tanto per raccontare, non solo per paragonare – nel Tieste – l’abominevole storia dei Pelopidi con gli orribili avvenimenti della storia contemporanea alla sua vita: ma utilizza il genere letterario della tragedia per dare un giudizio morale sugli avvenimenti, e per fare una valutazione di carattere educativo. Bisogna ribellarsi al tiranno – scrive Seneca – non usando i suoi stessi metodi, quindi: senza inganni, senza maledizioni, senza tradimenti, senza vendette, ma con pacatezza, con ragionevolezza, con tranquillità (atarassέ-atarassé) di animo, senza compromessi e a volto scoperto.

   Messalina non perdona Seneca per i suoi giudizi severi e lo fa accusare ingiustamente di aver tramato, con Giulia Livilla, contro l'Imperatore. Seneca viene processato, anche se non ci sono prove contro di lui, e viene mandato in esilio in Corsica. Il duro esilio in Corsica, che allora era una terra molto inospitale, dura otto anni.

   Nell’anno 49, Messalina viene fatta fuori: muore avvelenata. Claudio, che non era molto oculato nelle scelte, sposa Agrippina: vedova di Domizio Enobarbo, che aveva già un figlio dodicenne certo Lucio Domizio Nerone. Agrippina, nel contratto matrimoniale, pretende che il figlio dell'imperatore Claudio e di Messalina – Britannico – venga emarginato e diseredato, in modo da garantire la successione a suo figlio Nerone. Agrippina è degna di Messalina, ma è una persona molto più astuta, molto più accorta, si costruisce un’immagine di persona tollerante e saggia, e convince facilmente Claudio a concedere la grazia a tutti gli esiliati politici. Così anche Seneca può tornare a Roma.

   Nel 54 Claudio improvvisamente muore, ufficialmente – secondo il referto medico – di indigestione (per troppi funghi?). Quando la storia si identifica con la tragedia ha sempre i suoi risvolti comici! Nerone diventa imperatore a 17 anni e Agrippina affianca a lui, nel governo, due personaggi di valore come precettori e consiglieri: Sesto Afrànio Burro, prefetto del pretorio, e il filosofo Lucio Annèo Seneca.

   I primi cinque anni del governo di Nerone furono esemplari nella storia dell’Impero! Furono fatte scelte politiche oculate: nel ridare slancio all'amministrazione statale, nel farsi carico dei più deboli economicamente, nel privilegiare l’autorità del Senato, nel costruire la pace, dentro l’Impero e ai suoi vasti confini. Ma poi esplodono, negli anni 60, in Nerone, tutti i cattivi istinti ereditati dalla famiglia Claudia: Nerone rivela un carattere perverso, vile, feroce. Nerone si sente grande e onnipotente e rifiuta di ascoltare i suoi consiglieri, vuole imporre una fastosa monarchia di tipo orientale, e quando Burro si irrigidisce, rimproverandolo per i suoi comportamenti immorali, lo fa assassinare.

   Seneca dà le dimissioni, sdegnato, e si ritira a vita privata. Nerone nomina prefetto del pretorio Sofonio Tigellino, uno della sua forza. Nerone odia tutti quelli che costituiscono un'alternativa morale a Roma, e Tigellino lo asseconda. Viene assassinato Britannico che una parte del Senato considerava il legittimo imperatore e anche Agrippina, sua madre, che vorrebbe governare al suo posto, muore avvelenata. Quando nel 64 viene scoperta una congiura contro Nerone, guidata dalla famiglia dei Pisoni, Nerone manda a morte un grandissimo numero di persone, tutte innocenti. (Anche Paolo di Tarso muore in questa circostanza?). Tra queste persone muore anche, tagliandosi le vene, il poeta Lucano, quello che – secondo Dante – abita al Limbo insieme a Omero, a Orazio, a Ovidio, e Virgilio.

LEGERE MULTUM….

 Dante  IV canto dell’Inferno

Quegli è Omero, il poeta sovrano;

l’altro è Orazio satiro, che viene;

Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano.

      Questa è la "bella scuola" di cui ci racconta Dante nel IV canto dell’Inferno, di cui si era consigliata la lettura ad ottobre.

   Chi è Marco Annèo Lucano? Lucano è il nipote di Seneca, è stato compagno d’infanzia di Nerone, ma poi le loro strade si dividono. Lucano è stato un grande poeta: ricordate che anche Nerone aveva velleità di fare il poeta, ma non aveva voglia di studiare, e l’ispirazione non basta.

   Lucano ha scritto un famoso poema-epico-storico intitolato Pharsalia, in dieci libri, in cui racconta la guerra civile tra Cesare e Pompeo in cui manifesta una violenta opposizione contro l’impero e la nostalgia per le istituzioni repubblicane. Lucano fu uno degli organizzatori della congiura dei Pisoni contro Nerone, e si suicida prima di essere arrestato: era nato a Cordova nel 39, aveva 26 anni. Purtroppo, di Lucano, abbiamo perduto – perché sono andati distrutti – gli altri poemi-epici che ha scritto: Iliacon, Silvae, Orpheus e Medea. In questa occasione si taglia le vene anche lo scrittore del Satyricon, Petronio, e naturalmente anche Seneca, nello stile dei filosofi stoici, si toglie la vita: per "non respirare la stessa aria del tiranno", era l'anno 65.

   Se vi capita di andare a Roma a camminare sulla via Appia antica trovate molti monumenti, c'è anche il sepolcro di Seneca.

   Seneca ha scritto tante opere: tra cui i Dialoghi, noi ne possediamo otto, uno dei più significativi è intitolato De tranquillitate animi, La tranquillità dell’animo. Di Seneca poi possediamo venti libri di Lettere morali, 124 lettere, che conosciamo come Lettere a Lucilio, che è il nome del giovane a cui sono indirizzate: una lettura non facile ma molto significativa! Poi sappiamo che Seneca ha scritto nove Tragedie, tra le quali ricordiamo una Medea, una Fedra e naturalmente il Tieste.

   Seneca rappresenta il personaggio di Tieste come il fiero oppositore del tiranno. E utilizza il genere letterario della tragedia – per dare un giudizio morale sugli avvenimenti contemporanei, e per fare una valutazione di carattere educativo. Ribellarsi al tiranno – scrive Seneca – significa rifiutare anche i suoi metodi, quindi, gli inganni, le maledizioni, i tradimenti, le vendette. L’itinerario della conquista della libertà necessita di pacatezza, di ragionevolezza, di tranquillità (atarassé) d’animo.

   Qual è il ruolo educativo della tragedia, secondo Seneca? La tragedia mette a nudo la tarassé, l’inquietudine! La tragedia ci rende consapevoli dell’inquietudine, della tarassé, in modo da poterla dominare.

REPERTORIO E TRAMA... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola "inquietudine" è molto evocativa: scrivi quattro righe in proposito…

   Come in tutte le opere di Seneca anche in questa tragedia, c'è un'idea-chiave: il compito, il fine, il senso che ha la vita di una persona è quello di dedicarsi all'educazione, alla cura della propria anima. Una parte di tempo consistente della nostra vita – secondo Seneca – va dedicato allo "studium", alla cura della propria educazione: voi sapete che, in latino, la parola "studium" e la parola "cura" sono sinonimi, significano la stessa cosa. La persona "realizzata" si presenta, infatti, come un educatore, il quale deve insegnare che la virtù non è un dono della natura, ma è il prodotto dell'esercizio della nostra intelligenza, del nostro intelletto: è il frutto della nostra volontà.

   La tragedia Tieste di Lucio Annèo Seneca non è di facile lettura; soprattutto è difficilissima da rappresentare: cinque atti, con lunghissimi monologhi, che presuppongono la conoscenza della madre di tutte le tragedie. Sono sei o sette ore di rappresentazione (non credo sia mai stata rappresentata!). Ma costituisce, tuttavia, un modello culturale di grande valore che ha veicolato il personaggio di Tieste, e la storia dei Pelopidi, attraverso i secoli: questo ha fatto sì che circa millecinquecento anni dopo Seneca, durante il Rinascimento, il personaggio di Tieste, con tutta la sua storia, fondata su quel formidabile intreccio, è stato utilizzato per costruire letteratura e proporre spunti di riflessione, sui contenuti e sulle forme.

   Una delle opere più significative del Rinascimento che riguarda il personaggio di Tieste è una tragedia omonima Tieste di Ludovico Dolce (1508-1568), letterato, intellettuale nato, vissuto e morto a Venezia. La tragedia Tieste di Ludovico Dolce è stata scritta nel 1559 secondo gli schemi più agili – rispetto a quelli classici – del teatro rinascimentale. A Ludovico Dolce non interessa tanto proclamare, come fa Seneca, i princìpi della morale stoica che prevede di prendere le distanze dalle passioni e dall’inquietudine, imponendosi le virtù stoiche: la pacatezza, la ragionevolezza, la coerenza, l’equilibrio, la tranquillità d’animo: l’atarassia!

   Il Rinascimento – lo abbiamo studiato anni fa – soprattutto attraverso il genere letterario della tragedia e della commedia, tende a far emergere, a far esplodere lo stato d’animo dell’inquietudine, che diventa una componente della creatività. L’inquietudine è come una molla che spinge la fantasia a costruire oggetti artistici! Nel Rinascimento, nell’età moderna, l’inquietudine non è tanto un morbo da debellare, ma piuttosto è un sentimento da elaborare. (Oggi l’inquietudine viene spesso considerata come una malattia, questo dimostra – ci dicono gli studiosi – che non siamo più nell’età moderna, ma in un’età post-moderna, che non ha ancora un nome).

REPERTORIO E TRAMA... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

L’inquietudine (tarassé) fa pensare alla tranquillità (atarassé). Tutti abbiamo certamente detto qualche volta: "Adesso vorrei vivere in tranquillità". Quando, come, dove, perché?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Ludovico Dolce nel Tieste – da intellettuale rinascimentale, moderno – non invita a imporsi regole morali per disattivare l’inquietudine, ma – utilizzando l’abominevole intreccio, l’atroce intreccio, l’osceno intreccio della storia dei Pelopidi – vuole esaltare il senso dell’inquietudine, che deriva dalla condizione umana, e vuole proporre una riflessione: gli uomini e le donne, l’essere umano – indipendentemente dall’abito, dallo status – è fatto così: vive di inganni, di maledizioni, di tradimenti, di vendette, di cattiveria. È una visione pessimistica, ma molto realistica, dell’esistenza! Non c’è più morale? Non ci sono più valori morali – secondo Ludovico Dolce e gli intellettuali rinascimentali? Ma no…

   Il fatto è che: è più vicino alla morale chi riconosce, senza ipocrisia, che, quando è possibile – se si può scantonare – si scelgono situazioni immorali: il fascino perverso dell’immoralità, attira! Tieste, quindi, risulta un eroe perché è un anti-eroe: che cosa significa? Spesso le istituzioni, costruite dagli esseri umani – ci fa percepire Ludovico Dolce nel Tieste – si adattano a mascherare situazioni immorali, coprendole con un ambiguo velo di moralità: e gli esseri umani si adeguano. "Ti vuoi vendicare di tuo fratello? Vuoi fargli più male di quello che lui ha fatto a te? Stupra tua figlia". Questo consiglia Apollo (massima autorità morale) a Tieste. Il dio che rappresenta la massima autorità morale consiglia di dare il via ad una catena di atrocità, per far maturare la vendetta! E pensare che la storia dei Pelopidi, è una significativa ed edificante storia familiare!

   Nella riflessione rinascimentale di Ludovico Dolce non viene affossata la denuncia di Seneca: viene utilizzata, superata e amplificata in termini moderni. Molta Letteratura, e molto Pensiero del Rinascimento – ci dicono gli studiosi – sono influenzati dal Classicismo, ecco che cosa significa. Cambia l’ottica, cambiano le forme, ma l’idea che sia necessaria una profonda riflessione sulla condizione umana e sulla questione morale, persiste e si amplia. Molte opere moderne (del ‘500) contengono i calchi della cultura classica, e gli stampi di questi calchi, dobbiamo andarli a cercare, nel tragòs oidos, nei modelli della tragedia.

   Utilizzando e ricalcando questi stampi tragici, attraverso le loro opere, gli intellettuali rinascimentali, fanno traghettare al di là del Classicismo, e dell’età antica, la Letteratura e la Stopenum: così nasce quella che chiamiamo l’età moderna.

   Voi sapete che la parola "moderno" deriva dalle due parole latine: modus hodiernus, il modo di oggi! Le opere dei Classici – cominciarono a dire i magister della Scolastica – dobbiamo leggerle, interpretarle, utilizzarle in modus hodiernus: che diventerà una parola sola, modernus. Le opere dei Classici dobbiamo leggerle, interpretarle, utilizzarle per quello che ci dicono oggi!

   Questo ragionamento è importante sul piano della didattica della lettura: non basta saper combinare l’alfabeto per leggere, ma è necessario conoscere, capire e applicare le "chiavi di lettura". La conoscenza e la riflessione sugli stampi, sui modelli culturali contenuti nella "madre di tutte le tragedie" facilita la lettura: l’Arte e la Letteratura di tutti i tempi, continua a ricalcare quei modelli. E questo ragionamento vale anche per il Tieste di Ludovico Dolce.

   Sul nostro sentiero se ne apre uno collaterale che, se ci lasciassimo prendere la mano, ci porterebbe da un’altra parte: sempre nel grande territorio della tragedia, che è immenso ed è attraversato – abbiamo detto il primo giorno di scuola – da migliaia di sentieri; noi, ora, però non possiamo perderci, né allungare troppo il nostro tragitto, perché dobbiamo, a breve, sconfinare in un altro territorio: quello del romanticismo.

   Però, ora che siamo qui, una capatina, rapida, su questo sentiero collaterale che si chiama della "tragedia nel Rinascimento" la vogliamo fare: poi vi ci potete anche avventurare per conto vostro, su questo sentiero, avete delle indicazioni, e potete seguirle. Noi, ora, vogliamo solo dare una sbirciatina a un paesaggio culturale significativo. Anche perché – questa sbirciatina – ci può essere utile per il prossimo Percorso su cui viaggeremo, tra 1700 e 1800.

   Quasi tutti gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, i pensatori rinascimentali (per tutto il 1500) imitano le forme e i contenuti dell’età classica, greca e latina. Alcuni di questi intellettuali, però, utilizzano il Classicismo per superarlo, in senso moderno, e li abbiamo incontrati, qualche anno fa, questi personaggi, e ci siamo accompagnati al loro Pensiero. C’è un motivo per ricordare, ora, molto rapidamente, questi personaggi, che vengono considerati i primi padri dell’età moderna: le loro opere contengono la parola-chiave che sta alla base della modernità: la parola autonomia. L’età moderna è caratterizzata dall’esigenza di andare alla ricerca del senso della vita, rifiutando le risposte già prefabbricate: ecco l’esigenza di autonomia!

   La cultura moderna propriamente detta comincia il suo cammino nel 1513 con la pubblicazione de Il Principe di Niccolò Machiavelli, un’opera che, per comune riconoscimento, inaugura il concetto di autonomia della politica: la disciplina su cui si fonda lo Stato moderno, l’autonomia (la laicità) dello Stato moderno.

   Nel 1515, Erasmo da Rotterdam pubblica gli Adagia, una straordinaria raccolta di pensieri, di ragionamenti, di riflessioni. Per Erasmo è necessario proclamare l’autonomia del messaggio evangelico rispetto alle istituzioni clericali: è necessaria l’autonomia della fede rispetto alla religione per poter costruire la famiglia umana.

   Nel 1516, Tommaso Moro, a Londra, pubblica Utopia, un’opera in cui immagina un mondo non più funestato dall'odio teologico e delle guerre di religione, in cui manifesta l'idea di una città ideale nella quale l'individuo è superiore alle Istituzioni perché mette tutto in comune. Per Moro è necessario costruire l'autonomia morale e intellettuale dell'individuo.

   Nel 1517, Martin Lutero affigge le sue Tesi, sulla riforma della Chiesa, sulla porta della cattedrale di Wittenberg, e, il filo conduttore delle Tesi di Lutero è il concetto dell'autonomia della coscienza di ogni singolo individuo.

   Infine ancora un rapido esempio: nel 1514, il giorno di Pasqua, nell’isola caraibica di Haiti, che allora si chiamava Ispaniola, il vescovo Bartolomé de Las Casas, padre domenicano, decide di dare le dimissioni dal ruolo di encomendero, di governatore coloniale, di sfruttatore di quelle terre e di quegli schiavi in nome del re di Spagna. Bartolomé de Las Casas porta, quel giorno, a compimento, con quel gesto, una lunga crisi di coscienza, e diventerà, Bartolomé de Las Casas, il parroco degli Indios oppressi dai conquistadores, fomentando la rivolta contro gli invasori spagnoli e, nel 1542, scriverà la Brevissima relazione della distruzione delle Indie, la più puntuale e la più significativa denuncia contro il colonialismo, in favore dell’autonomia e della auto-determinazione pei popoli: portare il Vangelo significa portare la liberazione, materiale e spirituale, e non la schiavitù.

   Questi personaggi utilizzano tutti – e lo abbiamo studiato a suo tempo – i modelli della cultura greca, gli stampi della tragedia, per andare oltre, per superare il Classicismo, e per traghettarci nell’età moderna, sul filo della parola-chiave: autonomia della politica, della fede, dell’individuo, della coscienza, dei popoli!

   Ma c’è anche qualcuno, meno eroico, meno famoso, meno considerato, ma non meno importante, che rivendica l’autonomia dell’Arte. Rivendica lo sganciamento dai modelli della pacatezza, della ragionevolezza, dell’equilibrio, dell’armonia. Insomma: qualcuno, nel Rinascimento, agli albori della modernità, rivendica l’autonomia dagli attributi di Apollo, predicati dal Classicismo, in nome di un’Arte vissuta come "istintiva fantasia". Qualcuno rivendica, nel Rinascimento, agli albori della modernità, anche il ruolo di Dioniso nella ricerca artistica…Qualcuno, chi?

   Ludovico Dolce, probabilmente, non avrebbe mai scritto tragedie, come Medea o Tieste, né commedie come La Fabrizia, se non fosse stato indirizzato, sollecitato, orientato da un personaggio – uno dei molti personaggi – che ha caratterizzato la cultura del Rinascimento. Il fatto è che le opere di questo personaggio, sono rimaste chiuse per più di trecento anni nelle biblioteche, perché messe all’Indice nel 1558.

   Questo personaggio si chiama Pietro Aretino (Arezzo 1492 - Venezia 1556) e tutti lo avete sentito nominare. Pietro Aretino è stato e viene considerato un grande letterato. È famoso soprattutto per la sua spregiudicatezza e la sua aggressività nei confronti delle autorità costituite, civili e religiose, anche se poi è stato sempre a servizio degli uomini di potere, in particolare di Giovanni dalle Bande Nere che gli muore tra le braccia, a Mantova, nel 1526, per le ferite ricevute nella battaglia di Mantova contro i Lanzichenecchi (è la guerra di Francesco I re di Francia promotore della lega di Cognac, contro l’imperatore Carlo V, dal 1526 al 1529).

   Pietro Aretino, in gioventù, studia a Perugia per fare il pittore, poi comincia anche a scrivere versi. Si trasferisce a Roma dove, ispirato dalla Corte papale, scrive una raccolta di versi – dal titolo le Pasquinate – che gli procura una certa notorietà, ma che risulta poco gradita alla curia pontificia (non tanto ai papi medicei Leone X e Clemente VII, in mezzo a loro c’è Adriano VI) e dovette allontanarsi da Roma. Soggiornò in diverse città: Bologna, Arezzo, Firenze, Reggio Emilia, Mantova. Dopo la morte di Giovanni dalle Bande Nere, di cui era grande amico, si trasferì definitivamente a Venezia, dove conosce il giovane Ludovico Dolce.

   Pietro Aretino cercava un consulente di latino e di greco, due lingue, che conosceva superficialmente, così entra in contatto con questo giovane letterato che era un esperto grecista e latinista, un esperto traduttore. Ludovico Dolce viene indirizzato, orientato, stimolato da Pietro Aretino a dedicarsi alla Letteratura, non solo traducendo i Classici, ma scrivendo tragedie, commedie e dialoghi propri.

   Pietro Aretino ha lasciato alcune opere importanti, prima di tutto le Lettere, pubblicate dal 1537 al 1557, che sono raccolte in sei libri: questa è un’opera importante per capire l’atmosfera, il clima, il dibattito culturale in corso in quegli anni, sull’arte, sulla letteratura, sulla società rinascimentale. Le Lettere dell’Aretino sono un apparato culturale molto importante per capire il Rinascimento nei suoi vari aspetti.

   Poi Pietro Aretino ha scritto cinque famose Commedie (La cortigiana, L’ipocrito, Il marescalco, Il filosofo, e La Talanta) e ha scritto una tragedia, L’Orazia (1546), che viene considerata una della più significative tragedie del ‘500. L’Orazia è ambientata durante il mitico scontro tra la città di Albalonga governtata dal re Mezio Fufezio e la città di Roma governata dal re Tullo Ostilio. Ricordate la leggenda? Le due città si dichiarano guerra per il predominio, e Mezio Fufezio, propose, per limitare le perdite, che la contesa fosse risolta con un duello, cioè che combattessero tre Romani, i fratelli Orazi, contro tre Albani, i fratelli Curiazi. Sapete come andò questo duello: subito caddero due Orazi, poi però l’Orazio superstite, approfittando del fatto che i tre Curiazi erano un po’ feriti, facendo finta di scappare li infilzò tutti e tre.

   Ma chi è questa Orazia del titolo? L’Orazia del titolo è Clelia, sorella degli Orazi che amava uno dei Curiazi che è appena stato ucciso da suo fratello in questo fatale combattimento. Clelia si ribella contro il fratello vincitore, e il fratello vincitore, seccato, la uccide. Per questo viene processato e la tragedia si sviluppa dentro questo processo.

   Ma l’opera più famosa di Pietro Aretino s’intitola Ragionamenti o Sei giornate, o anche Dialoghi delle cortigiane, opera per la quale ha acquisito la fama, ma anche per la quale fu considerato uno scrittore osceno e messo all’Indice nel 1558, dal tribunale dell’Inquisizione (lui era già morto, ma rimase all’Indice per 300 anni).

REPERTORIO E TRAMA... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è qualcosa di "osceno" che tu metteresti all’Indice?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Per giunta Pietro Aretino è anche l’autore di numerose opere sacre, tra queste, tre sono considerate di grande valore poetico e mistico: Vita di Maria Vergine, Vita di Caterina Vergine e Vita di San Tomaso signore d’Aquino, Ma non gli sono valse per salvarsi dall’Indice!

   Ragionamenti o Sei giornate, o Dialoghi delle cortigiane, è un’opera che parla in modo spregiudicato di sesso, e sono le donne le protagoniste. Oggi la prosa spregiudicata de l’Aretino più che fare scandalo, fa tenerezza. Tuttavia, è oggi che emerge lo slancio creativo e fantastico di questo scrittore, soprattutto per la forma, per le invenzioni formali: il contenuto tutto sommato è banale! L’Aretino divide il mondo delle donne, in modo molto strumentale, in tre categorie: le donne possono essere monache, maritate o puttane (potremmo dire con cattiveria: non ci sono vie di mezzo?). Le donne migliori, secondo lui, sono le puttane, e – come recita il Vangelo, scrive Pietro – sono quelle che certamente si salveranno, perché sono le più generose! In questo ragionamento, oltre alla provocazione, si legge il mito della Grande Madre, accogliente.

   Il più famoso dei Ragionamenti, è quello in cui «la Nanna insegna a la Pippa, sua figliuola, a esser puttana»: questo è il titolo! Si tratta di una vera e propria lezione: cinica, ignobile, oscena, scanzonata e divertente, che oggi assume risvolti ironici, e persino moralistici. Più che osceno, questo Ragionamento, è permeato di realismo, di sfrontatezza, di cinismo: questa è l’opera non di un pornografo ma di un letterato, come è stato a pieno titolo Pietro Aretino, inserito in una tradizione antica e illustre. Un letterato arrogante, polemico e violento, ma infatuato del proprio mestiere! È fondamentalmente impegnato a cercare le parole adatte (a rivendicare l’autonomia dell’Arte) per trattare l’argomento nel modo più rispondente all’argomento: per parlar di sesso bisogna parlarne come ne parla la gente comune in un determinato momento.

   In realtà Pietro Aretino è assolutamente indifferente a tutto ciò che non sia letteratura: sociologia, antropologia, psicologia, morale non lo riguardano, lui è un letterato, un filologo che, involontariamente, diventa sociologo e moralista! La grande trovata, letteraria, dell'Aretino è quella di aver preferito ai toni alti e nobili, soliti, della letteratura del cinquecento, i toni popolareschi.

   Oggi l'Aretino risulta un formidabile esteta del linguaggio, un esteta delle forme e dei contenuti proletari e popolari, un filologo della parlata plebea: ci ha lasciato la straordinaria testimonianza di come parlava la gente comune nel cinquecento.

   Naturalmente, anche per questo, è difficile leggere quest’opera, senza un buon apparato di note. La cosa più interessante è leggere il glossario dei termini (il dizionario dei modi di dire), che è stata una vera miniera per i linguisti, gli esegeti e i filologi successivi: una miniera di metafore popolari curiose, buffe, comiche, variopinte. Pietro innesta i toni popolareschi dentro la Letteratura colta, e ha fa per primo, nel Rinascimento, un'operazione culturale che poi doveva diventare piuttosto comune. Ha scelto una realtà – dice lui – "ignobile" da descrivere in modo virtuosistico con toni "ignobili" per creare "meraviglia: molti lo imiteranno (Giorgio Baffo 1694-1768).

   Così, probabilmente senza volerlo e senza esserne consapevole fino in fondo, per motivi soprattutto letterari, fu scrittore satirico, realista e perfino moralista.

   Come tratta l’Aretino il problema del sesso? (È qui che dovevamo arrivare!) Lo tratta nello stile del canto del caprone, del carro di Tespi: ne fa un oggetto di riso, secondo la grande tradizione tragica e dei commediografi greci e romani. Il sesso è una cosa misteriosa, affascinante, venerabile, è un rituale per manifestare la gioia di vivere: un rituale che dovrebbe esorcizzare gli inganni, i tradimenti, le maledizioni, le vendette, le guerre. Purtroppo il sistema di potere – scrive l’Aretino – non celebra la sessualità nei suoi aspetti godibili, ma la usa e la oscura in modo drammatico. E allora, per ora – questo è il senso dei Ragionamenti de l’Aretino – la sola maniera di rispettare questo mistero, affascinante e venerabile, è riderne.

   Pietro Aretino è sempre stato considerato dagli esperti un grande sperimentatore nello stile e nei contenuti, perché secondo lui bisogna superare gli schemi classici, bisogna smetterla di limitarsi ad imitare e basta. Gli schemi classici, i modelli, i calchi e gli stampi greci e latini vanno rimodellati secondo lo spirito del tempo: l’Arte deve dare spazio alla fantasia creativa, a quello che l’Aretino chiama "il ghiribizzo" del momento. Insomma, Apollo sta prendendo tutto lo spazio, ma è uno spazio di facciata – scrive Pietro Aretino – bisogna far emergere Dioniso che cova sotto traccia, e che è il vero depositario del ghiribizzo, dello slancio creativo.

   Pietro Aretino – con queste sue idee – influenza molti artisti (fino a Nietzsche) e influenza soprattutto Ludovico Dolce che raccoglie queste idee in un dialogo del 1557, che s’intitola L’Aretino, o Dialogo sulla pittura. I due interlocutori dialoganti sono l’Aretino e il grammatico fiorentino Fabbrini. Non è una disputa, discutono, ma sono d’accordo nel ritenere che Michelangelo e Raffaello sono due grandi pittori (Raffaello più grande di Michelangelo) ma troppo ancora legati agli schemi del Classicismo, su di loro eccelle Tiziano che va oltre: tanto nell’invenzione, quanto nel disegno e nel colore. Tiziano Vecellio va oltre perché, nelle sue opere, comincia a decomporre la forma, facendola disgregare nella luce, e nei colori, in questa "disgregazione" fa capolino Dioniso! In Tiziano, la fantasia creativa, il ghiribizzo, trova spazio: è Dioniso – fa dire Ludovico Dolce ai dialoganti – che conquista spazio rispetto ad Apollo.

REPERTORIO E TRAMA... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se ti è possibile, su un fascicolo o su una storia dell’arte, osserva le opere di Tiziano: c’è in esse qualcosa che ti colpisce in particolare?

Scrivi quattro righe in proposito…

   E ora dobbiamo uscire da questo sentiero collaterale per tornare sul nostro itinerario, l’itinerario della "madre di tutte le tragedie". Strada facendo, la madre di tutte le tragedie – cioè la storia di Pelope – prima, ci ha fatto incontrare i figli di Pelope: Atreo e Tieste, poi ci fa incontrare i nipoti. I nipoti maschi più famosi di Pelope sono: Agamennone, Menelao ed Egisto. Questi tre personaggi, questi tre modelli simbolici e culturali sono tre strani fratelli! Sono tutti e tre, ufficialmente Atridi, figli di Atreo, ma sappiamo che nelle loro vene, a causa della catena delle vendette, scorre il sangue di Tieste. Agamennone e Menelao sono figli gemelli di Tieste e della cretese Èrope, moglie di Atreo, quindi, risultano figli di Atreo ma sangue di Tieste. Questi figli crescono e Menelao re di Sparta sposa la bellissima, la luminosa Elena, avranno una figlia Ermione! Agamennone sposa Clitennestra, la sorella di Elena, avranno tre figli: Oreste, Elettra ed Ifigenia.

   Egisto è figlio di Tieste e della figlia di Tieste, Pelopia, la quale sposa Atreo, dopo che Atreo ha ripudiato Èrope: Egisto, l’impeccabile, nasce come figlio di Atreo ma, anche lui, è sangue di Tieste.

   Elena fugge da Sparta (sappiamo che non andrà a rinchiudersi dentro le mura di Troia), Menelao, il marito tradito, vuole lavare l’onta nel sangue. Clitennestra invidia Elena che ha avuto il coraggio di fuggire. Agamennone vuole la guerra per poter primeggiare come capo, utilizza anche

   la figlia Ifigenia, sacrificandola per non perdere il potere: Clitennestra non lo perdonerà. Egisto non è un guerriero, tutti partono, assetati di sangue per la guerra, lui resta a Micene. Clitennestra ed Egisto, prima, cominceranno a tenersi compagnia e poi ad amarsi, avranno anche una figlia Erigone che incontreremo sul nostro cammino.

   Per concludere torniamo a Seneca e alla sua tragedia Tieste, che inizia con un lungo Prologo, in cui lo scrittore mette in scena l’ombra di Tantalo, il padre di Pelope: lo ricordate? Tantalo ha invitato a pranzo gli dèi Olimpi (tutto iniziò con un invito a pranzo…) e per loro ha cucinato Pelope, per metterli alla prova: se ne sarebbero accorti? Pelope poi – lo sappiamo, per intervento divino – si salva, perde solo la scapola. Nel Prologo del Tieste di Seneca, si presenta sulla scena – dietro la maschera di un caprone – l’ombra di Tantalo: è pentito per tutto quello che di orribile è successo, e Tantalo, nel Prologo, racconta tutta la storia dei Plelopidi.

   Il prologo di questa tragedia di Seneca (difficilmente rappresentabile) è come se fosse un’opera a parte (staccata dal testo della tragedia), e ha avuto il merito di proiettare la figura di Tieste e le figure dei Pelopidi verso l’età moderna.

   È, per capire questa proiezione, che questa sera abbiamo percorso un breve tratto del sentiero collaterale che attraversa il territorio della tragedia rinascimentale. Questa riflessione serve per capire come, questi stampi, sono stati usati e come li abbiamo ricevuti in eredità.

   Naturalmente, il personaggio di Tieste e i personaggi dei Pelopidi, attraverso il Rinascimento, vengono proiettati ancora più avanti. Ed è per questo che dobbiamo ancora mettere a punto alcuni aspetti del personaggio di Tieste, andando avanti nel tempo, e poi, tornando ancora indietro, tornando alle fonti classiche degli stampi tragici: le tragedie greche di Eschilo, di Sofocle, di Euripide.

   Perché è difficile leggere, capire, le tragedie greche? Perché gli autori di quelle opere non raccontano più le storie delle origini. La madre di tutte le tragedie non la raccontano più: la accennano, alludono, utilizzano gli stampi, o i calchi della grande rete dei racconti, in tutte le loro versioni. Ma danno per scontato che i cittadini della polis, noi – come al solito –, le chiavi di lettura le possediamo già! Danno per scontato che si sappia che, dentro ad ogni personaggio, dentro ad ogni modello culturale c’è una vasta rete di racconti (una mytosàrchis). Eschilo, Sofocle, Euripide non raccontano più, fanno l’esegesi: costruiscono una trama utilizzando i modelli compiuti, iniziatici, perfetti (téleios) della madre di tutte le tragedie, con l’obiettivo di commentare, e di interpretare il loro tempo!

   Così fa Seneca, così fa Pietro Aretino, così fa Ludovico Dolce, così fa Vittorio Alfieri, così farà un certo Ugo Foscolo nel 1796, ma questa è un’altra storia…

   Perché, però, tutti costoro e tutti noi dobbiamo ringraziare, in modo particolare, Lucio Annèo Seneca? Perché Seneca, essendo soprattutto un educatore, non è convinto che i cittadini Romani del suo tempo, del I secolo, lo conoscano davvero il grande reticolo dei racconti della madre di tutte le tragedie, la mytosàrchis. Sa che, in giro, a partire dai palazzi dell’Impero c’è una grande ignoranza. Per questo scrive il Prologo del Tieste, per dare un senso ai modelli culturali, per dare uno spessore intellettuale ai personaggi che mette in scena!

   E ora: vogliamo toglierci una curiosità? Sapete perché Pietro Aretino, a Venezia, nel 1529, cerca il giovanissimo studioso Ludovico Dolce? Ce lo racconta nelle Lettere, mettendoci al corrente di tante cose. Lo cerca per commissionargli la traduzione, dal latino, del Prologo della tragedia Tieste di Lucio Anneo Seneca. Vuole confrontarsi con la madre di tutte le tragedie, vuole assorbire tutto il cinismo, tutto l’orrore, tutta l’oscenità che troviamo nella storia dei Pelopidi!

   Ora, per concludere, leggiamo un frammento del Prologo del Tieste di Seneca, non nella traduzione di Ludovico Dolce (che ci sia l’Aretino lo scrive, dove sia nessun lo sa!) perché credo che nessuno l’abbia mai data alle stampe: sono state ripubblicate le Tragedie, le Commedie, i Dialoghi sulla pittura e sulla volgar lingua, ma le traduzioni di Ludovico Dolce non sono mai state ripubblicate.

   Leggiamo un frammento del Prologo al Tieste di Seneca tradotto, alla lettera, in lingua corrente: questa lettura ci serve per continuare a navigare nella rete dei racconti (nella mytosàrchis), nella trama della madre di tutte le tragedie.

   Prima di leggere – a proposito di navigare – dobbiamo ancora chiarire un avvenimento, per comprendere il testo. Subito dopo lo sbarco dei guerrieri Achei, sulla costa davanti a Troia succede subito un fatto assai increscioso: la catena degli inganni continua! Agamennone, il grancapo della spedizione, teme che Palamede, il giovane figlio di Nauplio (e di Climene), re di Argo – che gode di una certa fama e di un certo prestigio tra i principi Achei – possa insidiare il suo potere e allora, cerca di rovinarlo. Fa nascondere nella sua tenda una falsa lettera di Priamo, il re di Troia, dalla quale egli – Palamede – appariva come un traditore, amico dei Troiani. Palamede – ingiustamente accusato di tradimento – subì un processo sommario e fu lapidato. Il re Nauplio, suo padre, ricevuta la notizia, capì subito, e, anche lui, cominciò a organizzare i suoi inganni, in modo da far girare ancora la macina della vendetta.

 LEGERE MULTUM….

 Lucio Annèo Seneca, Tieste Prologo (59 d.C)

Mentre Agamennone, figlio di Atreo e sangue di Tieste, combatteva sotto le mura di Troia, tutti si aspettavano che Egisto, figlio di Atreo, sangue di Tieste, prendesse il suo posto nel letto di Clitennestra e sul trono di Micene. Eppure gli attori rimasero immobili a lungo. Volevano pregustare l'inevitabile.

Veleggiava, Nauplio, intanto, lungo l'Attica e il Peloponneso. Attraccava nei porti più grandi e visitava i palazzi dove c'era un trono vuoto. La sera, raccontava di Troia, della guerra difficile, senza fine. Rimaneva fino a tardi nella notte con le regine solitarie. E allora le invitava all'adulterio. Non con lui, certo, che ormai era anziano ma con qualche giovane ambizioso di buona famiglia vicino a loro. Era il suo modo di ricordare a quei troni vuoti che avevano assassinato vigliaccamente suo figlio Palamede, laggiù, sotto le mura di Troia. A Micene, quando ripeté la sua scena con Clitennestra, si accorse che la regina non riusciva a nascondere un sorriso sardonico e distratto. C'era forse bisogno di qualcuno che venisse a suggerirle quello che da tempo sapeva che avrebbe fatto? E anche Agamennone lo sapeva, infatti le aveva lasciato alle calcagna l'importuno aedo di corte, con l'incarico di sorvegliarla e scrivergli notizie. Fu il primo intellettuale di Stato. Ma un giorno Egisto lo afferrò alla nuca e lo fece scaraventare su una barca. Lo abbandonarono su un'isola dove crescevano soltanto i cardi, perché i rapaci si satollassero delle sue vecchie carni. Così Egisto, finalmente, entrò nel palazzo di Micene, calzò i sandali di Agamennone, bagnò il suo letto con il suo sudore, sedette sul suo trono, possedette Clitennestra, più con furia che con piacere. Ma proprio questo piaceva a Clitennestra. C'era un accordo profondo fra loro, e cominciarono a somigliarsi fisicamente, come certi vecchi coniugi. A volte la sera, davanti al fuoco, parlavano di come avrebbero ammazzato Agamennone, perfezionavano i dettagli, soppesavano varianti, assaporando l'attesa. E anche dopo, quando i fuochi, dalla cima del monte Athos a quella del monte Aracne, ebbero annunciato il ritorno del capo, quando Agamennone calcò con terrore il tappeto di porpora, quando Egisto lo ebbe due volte trafitto, quando Clitennestra lo ebbe decapitato con l'ascia, anche allora, la sera, si soffermarono a pensare a Oreste, a come lo avrebbero ucciso, a come lui avrebbe tentato di ucciderli. E alla fine giunse il momento in cui Oreste s’introdusse nel palazzo di Micene con l'inganno e uccise la madre e l'amante: il delitto fu facile, come una scena provata da anni e anni, che gli attori hanno fretta di concludere per tornare a casa

    Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra uccide la madre e l’amante Egisto e per questo verrà processato: era l’ora che intervenisse la Magistratura in tutta questa storia infarcita di orribili delitti.

   Il processo ad Oreste, tenuto ad Atene, sull’Areopago, nel cuore della polis, della città civile, è un tema famoso nella rete dei racconti mitici e viene utilizzato in una serie di tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Questi grandi scrittori – abbiamo detto – non si limitano a raccontare, vogliono far riflettere i cittadini sulla necessità che "si faccia giustizia", sulla necessità di restituisca sempre e si conservi la legalità, in una società civile. Ecco che cosa sono soprattutto le Tragedie greche: una riflessione sul valore della legalità! Per garantire la libertà e necessaria la Legge: nessuno è libero di ingannare, di maledire, di tradire, di vendicarsi, ci sono delle Leggi sull’Areopago: e qui, voi capite, che il racconto deve continuare, e con il racconto la riflessione …

   Sapete come si articola il processo ad Oreste? E sapete come va a finire? Con il processo ad Oreste e a Elettra, continua la storia dei Pelopidi? Sapete come continua la storia dei Pelopidi?

   Accorrete, la Scuola è qui!…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 16, 2004
Anno Scolastico: