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LA TRAGEDIA CORRISPONDE ALL’ABOMINEVOLE: AL DEIMOS, AL DOLOS…

Lezione N.: 
11

Prof. Giuseppe Nibbi                Tragòs oidos 2003          17-18-19 dicembre 2003

LA TRAGEDIA CORRISPONDE ALL’ABOMINEVOLE: AL DEIMOS, AL DOLOS…

   La storia di Pelope, che questa sera incontriamo nel vastissimo territorio della tragedia, è un modello culturale molto significativo e drammatico perché implica il racconto della fondazione, della nascita di un dissesto insanabile per l’Umanità. Che cosa significa questa affermazione? La storia di Pelope è una sequenza di vendette familiari, di maledizioni che si ripercuotono, di gesti che inesorabilmente ricadono su chi li ha commessi, di inganni disgustosi, di omicidi orribili, di tradimenti vergognosi. La storia di Pelope è uno stampo dai cui calchi, non ci siamo più (ancòra) liberati. La storia di Pelope si ripete, calco su calco, nella tragedia quotidiana! Oggi, della storia di Pelope, continua a rimanere un groviglio, una rete di calchi, e, calco dopo calco, la tragedia si ripropone, puntuale e quotidiana.

   Ma come cominciò tutto? Ci siamo chiesti la scorsa settimana. Qual è lo stampo originario con il quale si ricalca la complicata rete dei racconti su Pelope? Tutto cominciò con un invito a pranzo, rivolto da un mortale agli dèi Olimpi. Sapete chi era costui? E sapete come si sono svolti i fatti? Ma, questi avvenimenti – la storia di Pelope e dei Pelopidi – che non avvennero mai, ma sono sempre – come facciamo a conoscerli? Chi ce li ha raccontati, chi ce li ha tramandati? Ho in mano questo libro: è uno di quei testi, davvero importanti nella storia della nostra cultura e nella Stopeneum. In greco questo libro s’intitola Ellados peri egesis Ellados peri egesis. Vogliamo tradurre letteralmente? Peri egesis significa guida, Ellados significa della Grecia: letteralmente, il titolo originale di quest’opera è Guida della Grecia. I curatori delle traduzioni nelle lingue moderne, a cominciare dall’Umanesimo, hanno preferito dare a questo testo un titolo più vicino al genere letterario del romanzo: Viaggio in Grecia. Chi è l’autore di quest’opera e che tipo di opera è questa?

   L’autore di quest’opera si chiama Pausania: che cosa sappiamo di lui? Di Pausania conosciamo pochissimo: qualche notizia sicura la troviamo presso gli autori antichi a partire dal VI sec. d.C.. Ma tenendo conto dei numerosi cenni a persone, a monumenti e a fatti storici, e dei frequenti giudizi, commenti e riflessioni che troviamo nella sua opera, possiamo – con l’aiuto degli studiosi, degli esegeti – farci un'idea abbastanza precisa della storia e del pensiero di questo autore. Pausania è nato all'inizio del II sec. d.C. in Asia Minore (che faceva parte dell’Impero romano), nella regione del Sipilo probabilmente nella città di Magnesia, come fanno supporre le frequenti citazioni, nella sua opera, di luoghi, di miti e di fenomeni caratteristici di questa regione, che Pausania sembra definire come la sua. Pausania è vissuto nel II sec. d.C. quindi, sotto i regni degli imperatori Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio, quindi sotto quelli che vengono considerati i più illuminati imperatori romani, ed è vissuto (secondo alcuni indizi) almeno fino al 180 d.C..

   Nonostante la crisi dell’Impero romano abbia cominciato a galoppare sotto tutti i punti di vista (economico, sociale, civile, questa epoca è caratterizzata da un certo ottimismo da parte degli intellettuali perché questi imperatori dimostrano di impegnarsi sul piano culturale, soprattutto nei confronti della cultura greca (Memorie di Adriano!). Pausania, che probabilmente apparteneva a una famiglia benestante e aveva potuto studiare e viaggiare, possiede una solida cultura basata su Omero, Esiodo, Pindaro, sui depositari, quindi, della sapienza e della scienza dei Greci. Pausania, quindi, studia, viaggia, riflette, ricerca e scrive.

   L'opera di Pausania è la più antica guida turistica – potremmo dire – che ci sia stata conservata, lasciata in eredità. Ellados peri egesis, la Guida della Grecia ci è stata conservata divisa in dieci libri, ma – il decimo libro s’interrompe bruscamente – è probabile che manchi qualche libro, (c’è un indizio che fossero quattordici): molti testi, di cui conosciamo l’esistenza perché sono citati in altri testi, sono andati perduti, purtroppo!

   Ellados peri egesis è la guida più completa che uno scrittore della civiltà e della cultura occidentale antica, abbia prodotto.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

 Che cosa ti fa venire in mente la parola: guida? Scrivi quattro righe in proposito…

    Altre "guide" sono state scritte prima, altre dopo, ma noi le conosciamo molto poco o per nulla: si tratta di frammenti, di vaghi accenni, con molte incertezze. L'unica opera dell'antichità, di questo genere, chiara, intera, tangibile e giudicabile, è questa "Guida della Grecia", che però è anche più di una guida, oggi è molto di più!

   Che cosa significa: è molto di più di una Guida? Significa che della guida presenta alcune sostanziali caratteristiche, e la prima ce la presenta subito l'autore: «Mi propongo di illustrare compiutamente tutti i monumenti della Grecia» (1, 26, 4), è chiaro che questo è un obiettivo troppo ambizioso! In effetti Pausania illustra non solo i monumenti, ma anche i luoghi, le strade, i percorsi con le relative distanze, i monti, le isole e i paesaggi, la flora, la fauna della Grecia. Una seconda caratteristica è l’organizzazione della materia per "itinerari", ordinati secondo una successione costante: racconta il territorio dal confine di una regione, fino alla città più importante; poi descrive la città, dal centro (l’agorà) fino alla periferia lungo le strade che si irradiano dal centro; poi descrive la regione lungo le strade che si irradiano dalla città, fino al confine con un'altra regione.

   Quindi, proprio come fosse un metodico moderno viaggiatore.

   Ora, Pausania non descrive tutto: le omissioni sono molte. Pausania, per noi è lontano nel tempo: circa 1800 anni sono passati tra lui e noi. Attenti però! Quello che Pausania vede, cioè i monumenti dell’antica Grecia, sono lontani anche da lui di 700 800 1000 anni. Quei monumenti sono lontani da noi, come lo sono da Pausania. Egli, dei monumenti dell’antica Grecia, vede spesso delle montagne di pietre, vede dei sassi, dei ruderi, dei resti, come vediamo noi.

   Le omissioni di Pausania molto numerose – e qui i critici si sono scatenati – e dipendono dal fatto che quegli oggetti, anche importanti di cui Pausania non parla, sono finiti da tempo sotto terra. Là dove – come in Atene – l’archeologia (dal 1700 in avanti) ha operato più ampiamente, si è trovato molto di più di quello che Pausania descrive perché, molti reperti, erano già sepolti da tempo e altro era stato costruito sopra.

   Per un altro verso, per quasi tutte le regioni della Grecia, Pausania ci informa meglio di quanto, fino a oggi, abbia potuto fare l'archeologia. Molti reperti antichi, che Pausania aveva ancora potuto vedere, sono stati trovati su indicazione del Peri egesis, della Guida della Grecia.

   Tuttavia Pausania, e la sua opera, fu fortemente criticato, alla fine dell’800 (cominciò il giovane Wilamowitz nel 1877), perché la sua scrittura e la sua ricerca fu considerata priva di spirito scientifico, ma Pausania non aveva e non poteva neppure avere questa intenzione. Pausania è ispirato da un’altra intenzione: quando descrive il paesaggio naturale, per esempio, non si pone problemi di conoscenza scientifica, ma c’è dell’altro. Se avessimo tempo di leggere il libro VIII del Peri egesis, dedicato alla regione dell’Arcadia, potremmo apprezzare la capacità dell’autore di sentire e di rappresentare la natura e il paesaggio, con i suoi monti e i suoi boschi di querce e di faggi, con i suoi burroni, e i suoi ripidi corsi d’acqua, con la fauna inquietante che popola, quella regione, di serpi, di lupi, di cinghiali, di lepri, di daini e di uccelli singolari: viene voglia di andarla a visitare, quella regione!

   Ma qualunque riserva naturale offre queste cose: diventa un’Arcadia! Questo perché – e va riconosciuto a Pausania – l’immagine del paesaggio è come filtrata attraverso, non la scienza, non la biologia, ma attraverso la mitologia, che – e questo Pausania ci fa cogliere – è inscritta nel paesaggio attraverso la rete dei racconti delle origini, e a ogni monte, a ogni albero, a ogni fiume, a ogni animale corrisponde un mytos, un racconto. Camminare in quei luoghi diventa un culto, è cultura, e diventa un incontro con lo straordinario e il meraviglioso.

   Il libro di Pausania è molto più di una "guida". Pausania vede spesso monumenti ridotti a mucchi di pietre, e di quelle pietre, per fortuna, ci racconta il mito e la storia, la leggenda e i rituali, i costumi e le usanze, il curioso e l’erudito, la novella, la favola, l’aneddoto e le impressioni della sua esperienza personale di viaggiatore che si informa sul significato di quei sassi da chi ancora ricorda le antiche tradizioni e le leggendarie narrazioni. Il lettore trova, nella Guida di Pausania, una straordinaria rete di racconti, un repertorio di logos, di epos e di mytos, un trama narrativa di straordinaria importanza, che ha appassionato gli Umanisti del 1400, i Romantici tra 1700 e 1800, e appassiona noi post-moderni. Questo elemento – il racconto mitologico – non tanto i monumenti in sé, rende formidabile l’opera di Pausania. E lui ci mette, via via, al corrente dello sforzo che fa, da bravo ricercatore. Spesso non riesce a venire a capo delle sue ricerche perché, quello che cerca, non c’è già più, e quando non riesce a constatare di persona la realtà di un fatto, lo scrive: «Ma io non sono riuscito a scovare la tomba di Crocone» (1, 38, 2); «Ma, per ciò che riguarda questo santuario, scrivo quello che ho sentito dire e che altri ha detto facendone menzione» (8, 10, 2); «Ho cercato di informarmi su chi fossero costoro, ma null’altro sono riuscito a sapere, se non che…» (1, 28, 3); «Circa questo nome non sono riuscito a sapere nulla dalle guide.» (2, 31. 4).

   Come è generalmente riconosciuto, il modello di Pausania è Erodoto. In effetti per lo stile, per i procedimenti narrativi, per gli interessi nei confronti dell’etnografia, dei miti, delle leggende, della storia antica, Pausania si potrebbe considerare un "nuovo" Erodoto (vissuto circa settecento anni dopo). Ma Pusania vorrebbe distinguersi da Erodoto, il quale si sforzava di essere imparziale, ma poi, sotto sotto, parteggiava sempre per i Greci, rispetto agli altri popoli., cioè Erodoto non giudica mai il comportamento dei Greci, e chi tace acconsente.

   Pausania vorrebbe fare una passo in avanti su problema della formulazione dei giudizi e scrive (6, 3, 8): «Io sono obbligato a esporre quello che i Greci dicono, ma non ho già l'obbligo di credere a tutti». Pausania poi non nasconde il legittimo orgoglio di aver visto più di Erodoto (3,25, 7)!

   Anche per quanto riguarda la ricerca (le historiae), Pausania si pone come un "nuovo" Erodoto, perché alla semplice registrazione dei risultati dell'inchiesta aggiunge la valutazione critica di quanto ha scoperto. Quante volte ripete: "ho cercato", "mi sono informato", "ho chiesto"! Solo quando non trova soddisfacenti risposte si arrischia a formulare una propria tesi (1,31,5) e scrive: «Sul significato di questi racconti ho cercato di indagare, ma ho scoperto che le guide non sanno nulla di chiaro al riguardo. Posso però esporre questa mia congettura…».

   A noi, di Pausania, colpisce soprattutto la riflessione che fa sulla varietà e sulla contraddittorietà delle leggende greche (9, 16, 7); in rapporto alla stabilità degli stampi, scrive: «La maggior parte delle leggende greche sono in disaccordo tra loro, l’unica cosa certa è che derivano dagli stessi stampi (typoi)». In questo Pausania si dimostra davvero moderno.

   Pausania può essere considerato il primo grande esegeta della letteratura omerica e tragica, dando inizio a una filologia che fiorì dal III sec. in poi, e che produsse grandi opere a noi pervenute attraverso gli Umanisti.

   Per concludere questa nostra escursione nella vita e nell’opera di Pausania dobbiamo dire che, da Costantinopoli, i dotti bizantini, nel corso del 1400, portarono in Italia molti codici – e purtroppo molti di questi sono andati perduti –, tra cui fu portato anche un codice (assai malridotto) con la Guida di Pausania che fu acquistato dall’umanista fiorentino Niccolò Niccoli che lo copiò, lo studiò e lo tradusse in latino. Alla sua morte, avvenuta nel 1437, il Niccoli lasciò il manoscritto alla Biblioteca di San Marco a Firenze: questo manoscritto è ancora lì ed è stato un punto di riferimento per chi abbia voluto poi studiare e pubblicare l’opera di Pausania.

   Ancora una cosa, il titolo dell’opera di Pausania: Ellados peri egesis ha creato anche un nuovo vocabolo periegeta. Che cosa significa? Il periegeta è quel "viaggiatore" che non si accontenta di fare il turista, ma vuole "far parlare ciò che vede", vuole scoprire l’anima culturale degli oggetti che incontra sul suo cammino. Pausania, il periegeta, cerca di scoprire sempre che cosa hanno da raccontare quei sassi che, erano stati – anche per lui – grandi monumenti del passato.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

 In quale occasione hai provato la sensazione di essere "periegeta", cioè viaggiatore che "fa parlare ciò che vede"?

Scrivi quattro righe in proposito…

   E allora, veniamo al dunque: se noi conosciamo la storia di Pelope, lo dobbiamo all’opera di Pausania e la sua Ellados peri egesis, la guida. il viaggio in Grecia. Che cosa ci racconta Pausania – attraverso frammenti, che devono essere ricostruiti, come in un puzzle – della storia di Pelope e dei Pelopidi? Guardate, prima di "raccontare", Pausania si fa una domanda importante e, con lui, ce la facciamo anche noi: è giusto, è lecito, è conveniente raccontare l’abominevole, il riprovevole? Si esorcizza il male raccontando l’abominevole, l’orrore?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale altra parola ti fa venire in mente la parola: abominevole?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Il racconto mitico, la rapsodia epica – si domanda Pusania – nasce come fosse un vaccino per prevenire il male? Quale risposta si dà Pausania, in proposito? Egli si dà una risposta rifacendosi alla tradizione – che ai suoi tempi è un po’ trascurata – del genere letterario della tragedia: i grandi tragediografi Eschilo, Sofocle, Euripide hanno utilizzato l’abominevole, il riprovevole, il senso dell’orrore per stimolare una riflessione, nella società della polis, sul problema del "male", della "natura del male". Pausania scrive: "In fin dei conti i più grandi monumenti della nostra cultura (greca) sono i testi delle tragedie, la produzione più raffinata della nostra cultura è la tragedia, e alla tragedia, nella polis, era affidato un forte valore etico e formativo". Difatti, nelle vicende narrate sulla scena – mentre viene rappresentata una tragedia – si esprimono, in modo esemplare, le nozioni sulle quali è necessario che i cittadini riflettano. Pensate che nella polis il teatro è uno degli elementi fondamentali e costitutivi: con l’agorà (la piazza), con l’acropoli, con il tempio. Pensate che nella polis, di 2500 anni fa, il cittadino, non solo non comprava il biglietto per andare a teatro, ma veniva pagato perché partecipasse al rito della tragedia, alle rappresentazioni. La città-Stato favoriva la generale partecipazione a teatro con "gettoni di presenza" e la tragedia era l'unica occasione sociale alla quale partecipassero anche le donne e gli schiavi.

   Secondo la definizione di Aristotele, nel suo famoso trattato Poetica, di cui possediamo solo il primo Libro (del secondo Libro conosciamo solo l’indice, perché il testo lo abbiamo perduto) il genere letterario della tragedia mette in evidenza l'assurdità dell'esistenza: il fatto che l'innocente spesso paga per colpe non sue e questo deve suscitare, nello spettatore, timore e pietà. Questa rappresentazione cruda della realtà della vita, senza la mistificazione del "lieto fine", conduce a una purificazione delle emozioni che Aristotele chiama catarsi, purificazione. La tragedia insegna a padroneggiare il dolore, l'insensatezza e l'insicurezza della vita, sviluppando una sorta di abitudine all'idea della soluzione, inevitabilmente "tragica", di ogni vicenda della vita umana. La tragedia nasce come rievocazione della vita di Dioniso, di un dio ingiustamente ucciso, e da rito, consistente nello squartamento di un animale, diventa una rappresentazione astratta di una vicenda emblematica, diventa un raffinatissimo oggetto intellettuale che avrebbe la funzione – scrive Pausania parafrasando Aristotele – di produrre catarsi, purificazione, riflessione, nella società.

   Noi ora utilizziamo Pausania non tanto come guida ai monumenti della Grecia – per questo ci sono guide moderne più utili e più agili – ma come guida all’interno della fittissima rete dei racconti che hanno costituito e costituiscono la base della tragedia. E allora, veniamo al dunque: per conoscere il racconto della storia di Pelope, utilizziamo l’opera di Pausania Ellados peri egesis, la guida, il viaggio in Grecia.

   Pausania ci racconta che Pelope è il figlio di un re della Lidia immensamente ricco, che frequentava gli dèi. Quel re, che si chiamava Tantalo (uno immensamente ricco non poteva chiamarsi che Tanta-lo!), parlava molto, forse troppo: era un gran chiacchierone! Nel suo palazzo, ai suoi invitati, raccontava delle sue visite sull’Olimpo, raccontava del nettare e dell'ambrosia (il cibo degli dèi) che aveva assaggiato quando era stato invitato dagli dèi! Del nettare e dell’ambrosia ne aveva sottratto anche piccole (modiche) quantità, e le offriva. Parlava anche (troppo) dei segreti divini di cui era venuto a conoscenza. Sull’Olimpo teneva discorsi sfrenati, che non sempre piacevano agli dèi. Ma Zeus continuava a mostrargli favore e a invitarlo. Secondo alcuni, Tantalo era suo figlio: ma neppure Zeus sapeva quanti figli aveva seminato per il mondo.

   Una situazione incuriosiva Tantalo: ma questi dèi dell’Olimpo, erano davvero onniscienti? Sapevano davvero tutto, anche prima che succedesse? Un giorno, volle lui invitare a pranzo gli dèi Olimpi: e tutto cominciò con un invito a pranzo! Pelope, il figlio di Tantalo, era allora poco più di un bambino. Vide i preparativi per questo pranzo, vide una grossa pentola di bronzo che venne messa sul fuoco. Poi ricordava qualcuno che lo smembrava, che, con le mani, lo faceva a pezzi, ma non perdeva la coscienza.

   Gli dèi erano seduti intorno alla pentola di bronzo, dove il piccolo Pelope bolliva, fatto a pezzi, per benino. Tantalo offrì agli dèi quel cibo squisito che aveva preparato per loro. Tutti tacevano, la carne rimaneva nel piatto. Solo la dèa Demetra, che era particolarmente assorta, stordita, distratta, in quei giorni, perché sua figlia Core (ma questa è un’altra storia…) era scomparsa, prese un pezzo di quella carne e, soprapensiero, lo mangiò: era la scapola di Pelope. Subito dopo Zeus, consapevole del menù cannibalico, rivela la sua furia! Tutti i favori che sino ad allora aveva riservato a Tantalo si capovolsero in atroci punizioni. Gli altri dèi, fortemente innervositi, continuavano a tacere davanti ai loro piatti. Zeus ordinò a Hermes di raccogliere i pezzi del corpo di Pelope, rimetterli nella pentola e farli bollire ancora. Poi Cloto, una delle Moire, che era un’esperta artigiana, li tirò fuori a uno a uno e cominciò a cucirli, come se accomodasse una bambola. I pezzi c’erano tutti, meno uno! Rimaneva un grosso buco nella schiena. La dèa Demetra, che quel pezzo se l’era mangiato, allora creò una scapola d’avorio. La dèa Rea insufflò a Pelope il respiro. E il ragazzo Pelope, vivo, integro, e radioso (dìos): tornò a vivere. Il dio Pan gli ballava intorno per l'allegria (ma non è forse lo stessa trama della storia di Dioniso, della storia di Orfeo? Certamente!

   La storia di Pelope si identifica con "il canto del caprone", è culto dionisiaco, è rito orfico, è tragedia! Non c’è dentro solo la storia di un personaggio, ma anche la storia di un bel pezzo dell’Umanità! Perché? Perché è caratteristica dell’essere umano la capacità di prendere coscienza di poter essere abominevole: Apollo e Dioniso si agitano nell’Umanità! Apollo è l’armonia, l’equilibrio, l’euritmia, ma – secondo la tradizione – punisce gli umani perché hanno un comportamento abominevole. Il fatto è che si arrabbia talmente che, a sua volta, li punisce in modo abominevole, con tutta la carica dionisiaca, istintuale, irrazionale e animalesca che cova nel suo profondo. Apollo punisce per esorcizzare il male: il racconto – nella sua forma – è perfetto, ma nel suo contenuto è abominevole, è orribile.

   E come continua il racconto? Pelope tornò a vivere: integro e radioso (dìos). Il seguito del racconto ce lo facciamo raccontare direttamente da Pausania. Se vi capita di andare a visitare o di tornare a visitare Olimpia non potete ignorare i personaggi di questi racconti che fanno parlare i sassi. Ma questa settimana a visitare Olimpia, ci potete andare anche in modo virtuale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La storia di Pèlope ci porta a Olimpia e utilizzando l’atlante, l’enciclopedia o una guida della Grecia puoi andare in visita a questo famoso sito archeologico: che cosa scopri d’interessante?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Ora leggiamo, che queste cose non avvennero mai, ma sono sempre…

LEGERE MULTUM….

 Pausania di Magnesia, Periegesis-Viaggio in Grecia 41,3.5.6.7; 14,4; 18,7; 22,3 (II sec.)

Il dio del mare Poseidone fu folgorato dalla bellezza di Pelope e decise di rapirlo subito. Su un carro guidato da cavalli d'oro, fuggì con lui verso l'Olimpo.

Voleva Pelope come amante e come coppiere.

Dopo aver soggiornato – non sappiamo quanto a lungo – presso Poseidone, Pelope si trovò alla testa del regno paterno di Lidia. Presto i confinanti lo assillarono con attacchi. Pelope decise di traversare il mare con i suoi uomini e i suoi tesori, in cerca di una donna. Si sarebbe presentato a una principessa lontana, della Grecia che guarda verso Occidente: Ippodamia (domatrice di cavalli), figlia di Enomao. Intorno all'entrata del palazzo di Enomao, sulla collina di Crono, a Olimpia, erano infìsse tredici teste umane. Pelope varcò quella soglia come straniero, quattordicesimo pretendente di Ippodamia. Gli raccontarono che Enomao voleva raccogliere qualche altra testa, per la sua collezione, per comporle poi tutte in un tempio per Ares, suo padre. Due violente passioni dominavano il re di Olimpia: i cavalli e la figlia Ippodamia. Proteggeva gli uni e l'altra con una legge (Le leggi razziali…). Nella regione dell’Elide non dovevano nascere muli. Chi avesse fatto accoppiare un asino e una giumenta sarebbe stato ucciso. I pretendenti di Ippodamia avrebbero dovuto battere in velocità i magici cavalli di Enomao, dono di Ares.

Considerava i pretendenti – quei re stranieri – animali inferiori, che volevano umiliare la magnifica giumenta Ippodamia, ingravidandola di un bastardo. Per lui i cavalli e la figlia, la "domatrice di cavalli", formavano un anello. Un arco proseguiva nell'altro. A volte, a letto, vedeva spuntare dalla coperta una testa di giumenta bianca, ed era la figlia. Pelope si guardò intorno e pensò che avrebbe vinto l'inganno con l'inganno. Se i cavalli di Enomao erano un dono di Ares, chi disponeva, se non Poseidone, di cavalli invincibili? E Poseidone non era stato il suo primo amante? Solo, sulla spiaggia, Pelope evocò il dio ricordando il tempo dei loro amori. Voleva lasciarlo infilzare dalla lancia di un re truculento? Voleva che la sua testa finisse appesa accanto alle altre come un trofeo di caccia? Un giorno lo aveva rapito, con un carro volante: quegli stessi cavalli dovevano ora rapirlo alla morte. Poseidone accettò. Pelope guardava i suoi mirabili cavalli e rifletteva che Ares è, sì, un dio potente, ma non paragonabile a Poseidone, che spacca le rocce per aprire la via alle sue bestie, e le fa emergere dalla schiuma delle onde. Ma neppure quello bastava. Pelope pensò che tre imbrogli erano più sicuri di uno soltanto. E volle conquistare Ippodamia già prima della gara. Ippodamia era abituata, da sempre, ad essere prigioniera del padre, senza accorgersene difendeva questa situazione: aveva visto arrivare tredici stranieri, era salita sul loro carro, li aveva disturbati o distratti nella corsa, come il padre voleva. Sapeva dove andavano a finire le loro carcasse. Ma Pelope aveva un certo fascino e Ippodamia scoprì di essere cresciuta, e fu folgorata da quello straniero che luccicava (dìos) d'avorio sulla schiena. Desiderò per la prima volta un contatto che non fosse quello del padre, anzi, scoprì di provare una forte repulsione per il padre. Decise di ribellarsi, decise di rovinare il padre. L'auriga di Enomao era un ragazzo, Mirtilo, che smaniava per Ippodamia. La sera prima della gara, Ippodamia gli promise il suo corpo se avesse messo nelle ruote del carro di Enomao un perno di cera, invece che di ferro. Mirtilo pensava soltanto al corpo di Ippodamia e accettò. Pelope e Ippodamia concordarono che avrebbero eliminato Mirtilo appena possibile, una volta vinta la gara. Il mattino della gara, ci fu un momento di quiete spaventosa. Erano tutti presenti, e quasi pronti. In mezzo a loro, più grande e invisibile, Zeus (A Olimpia ci sono i resti – un ammasso di enormi colonne – del tempio di Zeus così come li ha visti Pausania). Teneva la folgore con la sinistra, l'altra mano era abbandonata sul fianco, ma emanava tensione. Il suo torace era un muro. Tutti sembravano concentrati sulla propria sorte, non sapevano che la sorte di quei luoghi, e di molti altri celati dalla linea verde dell'orizzonte, stava per decidersi in quei momenti. La scena cruenta che Enomao aveva predisposto, e intorno a cui ruotava ormai da tempo la sua vita, prevedeva le seguenti fasi: il pretendente rapisce Ippodamia sul suo carro; Enomao gli concede, come vantaggio, il tempo di sacrificare un ariete nero (tragòs melas). Poi monta sul carro, insieme a Mirtilo, e insegue i fuggitivi. Un'ancella stava allacciando i sandali a Ippodamia. Era quello il momento in cui, per tredici volte, la figlia e il padre si erano scambiati uno sguardo d'intesa. Ippodamia guardò il padre. Il corpo di Enomao aveva la sicurezza dell'età e dei molti morti, trafìtti dalla sua lancia. Era nudo, salvo un panno sulle spalle, e stava calcandosi l'elmo sino alle sopracciglia, in modo che fra la barba e l'elmo spiccassero solo gli occhi, fermi. Ippodamia indossava il complicato peplo dorico, inadatto a una corsa. Aveva i capelli arricciati sulla fronte in piccoli cerchi perfetti e un'improvvisa freddezza nel cuore, come se tutto fosse già finito prima di cominciare, come se il padre, la madre Stèrope, il palazzo, le carcasse accumulate fossero già inceneriti. Pelope era completamente nudo e si appoggiava alla lancia. Luceva l'avorio della sua scapola.

Mirtilo, fremente, aspettava gli ordini accucciato, con una mano magra e abile si tormentava un alluce. Quello che seguì, fu rapidissimo: si intravidero le ruote del carro di Enomao schizzare via sotto il sole e i cavalli straziare il corpo del re. Si udì la sua voce che malediva Mirtilo. Ma era solo l'inizio: per quattro generazioni la corsa, la polvere, il sangue, lo schianto delle ruote non si arrestarono mai. E pochi ormai ricordavano che tutto era partito in quel momento, quando Enomao aveva sollevato il coltello sull'ariete nero (tragòs melas) e i cavalli di Poseidone avevano fatto sparire in una nube Pelope e Ippodamia, che si guardavano, complici nel delitto e nella vittoria.

   Alcuni capitoli più avanti quando ci descrive l’isola Eubea, Pausania continua e conclude questa prima parte della storia.

LEGERE MULTUM….

Pausania di Magnesia, Periegesis-Viaggio in Grecia 26,2; 30,8; 33, 1; 34,3 (II sec.)

La sera dopo la gara, fu una triste sera, perché tutto avvenne come previsto e concordato. Sullo slancio della corsa, i cavalli di Poseidone dispiegarono le ali e condussero i tre vincitori sino all'isola Eubea. Ippodamia disse: "Ho sete". Pelope andò a raccogliere acqua nell'elmo.

Il giovane Mirtilo guardava Ippodamia e tentò di abbracciarla. Ippodamia si svincolò facilmente e disse: "Aspetta". Quando Pelope tornò con l'acqua, gli fece un minimo cenno con la testa. I due amanti conoscevano la prima legge della malavita: dopo aver ucciso il nemico, è necessario uccidere subito il traditore che ti ha permesso di uccidere il nemico. Più tardi fermarono i cavalli sulla punta meridionale dell'Eubea, dove la scogliera precipita nel mare (Kàriston, il balcone dell’Egeo). Mirtilo guardava le rocce. Da dietro, Pelope, lo spinse nel vuoto. La scogliera è alta, e, prima di sfracellarsi sulle rocce, Mirtilo, ebbe il tempo di pensare e di parlare. Lontana, ma percepibile, si udì la maledizione che Mirtilo, morendo, gettava sulla stirpe di Pelope.

   Che cosa disse Mirtilo, urlando, mentre precipitava dalla scogliera del Kàriston? Il fatto è, che quello che disse Mirtilo (secondo il racconto mitico, secondo questa rapsodia di epos, che Pausania, con grande maestrìa ci racconta) si avverò, nel racconto.

   No, queste cose non avvennero mai, ma continuano a succedere: queste cose hanno un nome, si chiamano: tradimento, inganno, maledizione, rinnegamento, imprecazione, vendetta; ecco l’abominevole, l’orribile, l’orrendo che si configura! L’orrendo, in greco: daimos, daimos (Socrate…) si configura in queste parole-chiave, fondamentali nella Stopenum, tutte parole-chiave che incontriamo sul percorso della tragedia, e che danno un taglio particolare a questa parola: tragedia! Il taglio che ne caratterizzerà per sempre il significato!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Tradimento, maledizione, rinnegamento, imprecazione, vendetta: rifletti su queste parole…

Hai tradito? Hai subìto un tradimento? Hai lanciato maledizioni, imprecazioni su cose, avvenimenti, persone? Qualcuno ti ha insultato, ti ha maledetto, ti ha rinnegato? Dove, come, quando, perché?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Non è facile, ma queste cose – per quanto si possano rimuovere – sono sempre, e la voce di Mìrtilo, sprovveduto innamorato, che precipita dalla scogliera eubea: continua a male-dire: Pelope, Ippodamia, cattivi! Se fate così, chissà quanto male causerete! Il male si riproduce con determinazione, cova e poi si schiude.

   Ippodamia e Pelope si amarono con passione e generarono ventidue figli. Fra questi, ci furono re, artisti, fattucchiere, banditi. Ma il figlio preferito di Pelope era il ventitreesimo, che egli aveva generato, non con Ippodamia, ma da un’altra relazione.

   Questo avvenimento mitico ha stimolato anche la creatività di uno scrittore che conoscete benissimo perché è il padre di due, ormai, famosissimi personaggi letterari: il parroco don Camillo e il sindaco Giuseppe Bottazzi detto Peppone. Ma Giovanni Guareschi (1908-1968) è autore di molti testi che invitano alla lettura. Il suo capolavoro può essere considerato Il destino si chiama Clotilde, un romanzo surreale (1942), in cui il gioco delle metafore risulta quasi profetico. Guareschi gioca volutamente con il mito, dimostrando di non essere un "gazzettiere (un giornalista di seconda categoria)" come molti lo consideravano. Dimostra invece di essere uno scrittore colto: Il destino si chiama Clotilde – sotto le apparenze del romanzetto surreale – è un romanzo filosofico, e per gustare questo testo sono necessarie le chiavi di lettura della Stopenum.

   Leggete questo romanzo, in particolare il capitolo "Digressione" dove si parla di "ventitre figli...". Per capirne e per gustarne il senso e per coglierne l’inquietudine, è necessario conoscere la "madre di tutte le tragedie", come la chiama Pausania.

   Siamo alla fine anche di questo anno solare e ci rincontreremo nell’anno 2004 che segna il ventesimo anno di questa esperienza scolastica. Siamo appena all’inizio della storia di Pelope e dei Pelopidi? Siamo appena all’inizio della "madre di tutte le tragedie", come la chiama Pausania. Ippodamia e Pelope generarono ventidue figli, ma il figlio preferito di Pelope era il ventitreesimo: chi era costui? È necessario sapere come continua questa storia: per questo la Scuola è qui…

   Siamo arrivati a Natale, e anche il Natale celebra la "nascita di un bambino", anche la vita di questo bambino è profondamente segnata della tragedia, e la Letteratura dei Vangeli contiene tutti i più importanti modelli della tragedia, ed è una Letteratura scritta in greco che abbiamo studiato, forse un decennio fa:,non ricordo bene; ricordo bene invece che molti di voi c’erano ed è bello constatare che siete ancora qui, come è motivo di gioia il fatto che, nuovi cittadini, siano entrati in questo viaggio culturale, intellettuale. L’augurio che faccio, è che – antichi e novelli viaggiatori – continuiate, tutti, a segnare il cammino sui sentieri della cultura: la Scuola è delle cittadine e dei cittadini!

   Un buon Natale di studio a tutti…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 19, 2003
Anno Scolastico: