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LA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AFFIDATA AGLI ANIMALI - LA PREDICA DELL’AQUILA E IL RUGGITO DEL LEONE ......

Lezione N.: 
7

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

La sapienza poetica e filosofica dalla seconda metà del ‘600 al secolo dei Lumi

La sapienza poetica e filosofica affidata agli animali

Prof. Giuseppe Nibbi

QUiNTO ITINERARIO [in attesa di tornare a viaggiare in presenza] ...   10 marzo 2021

LA PREDICA DELL’AQUILA E IL RUGGITO DEL LEONE ...

     Care compagne e cari compagni di Scuola, non sappiamo quando riprenderemo il cammino in presenza sul Percorso canonico di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura che porta dalla metà del Seicento verso il secolo dei Lumi.

     Nell’attesa, su consiglio di Jean de La Fontaine [che, come sapete, spera di poter comparire dal vivo al più presto negli spazi fisici della nostra Scuola], abbiamo cominciato a leggere una favola dove “la Sapienza poetica e filosofica” è affidata agli animali perché, da che mondo è mondo, “la favola”, attraverso la voce degli animali, parla degli esseri umani per invitarli a compiere una riflessione sulla loro condizione esistenziale [de te fabula narratur, ci ricorda La Fontaine], ma gli umani - a causa della loro debolezza cognitiva e del loro istinto predatorio - non hanno recepito l’insegnamento che, anche attraverso la fabula, deve contribuire a formare una mentalità fondata sui valori dell’Umanesimo: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia. E, in proposito, Jean de La Fontaine ci ha consigliato di utilizzare il testo della Favola Selvaggia, riscritta in lingua corrente, di un umanista rinascimentale di nome Filelfo. Di conseguenza, il testo di questo scritto lo stiamo esaminando nella nostra Officina dell’apprendistato cognitivo per far emergere i riferimenti letterari in esso contenuti, in modo che questo esercizio di carattere ermeneutico ci consenta di tenere attiva nella nostra mente la funzionalità delle principali azioni mediante le quali avviene il processo di apprendimento perché per andare incontro al pensiero scritto e per sostenere il carico della scrittura [tanto nelle sue forme quanto nei suoi contenuti] è necessario saper utilizzare le azioni cognitive [conoscere capire applicare analizzare sintetizzare valutare]. La lettura non è un’arte facile da praticare [infatti le persone che leggono sono una minoranza in Italia, in Europa e nel Mondo], e sono capaci a leggere nel vero senso della parola solo le persone che sanno conoscere il significato delle parole-chiave, che sanno capire la rilevanza delle idee-cardine, che si sanno applicare metodicamente, che sanno analizzare i pensieri che il testo contiene, che sanno sintetizzare il contenuto del testo e che sanno valutare quanto abbiano imparato da quella lettura.

     Nell’itinerario scorso abbiamo letto e commentato il quarto capitolo della Favola di Filelfo intitolata L’assemblea degli animali e abbiamo ascoltato il bellicoso intervento del re dei topi che per far fronte alla minaccia portata alla Terra da parte del suo più giovane e intemperante colono, l’essere umano - il quale si è dimostrato il predatore più efficace e più nocivo di tutti tanto da mettere a repentaglio la vita sul pianeta -, ha proposto come strategia efficace quella di affidare ai topi, per la loro competenza in materia, la diffusione di una pestifera epidemia.

     Noi, ora, leggiamo il quinto capitolo della Favola e, nel corso della lettura, ci fermeremo per condurre alcune lunghe riflessioni perché leggere un testo corrisponde a un esercizio di ermeneutica, di interpretazione, di spiegazione, di chiarimento, di complicazione, di analisi, di sintesi, di esegesi [cioè “di lettura attenta”], e un testo va sempre letto con grande attenzione portandolo nell’ambito di un’Officina di apprendistato cognitivo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo V. La predica dell'aquila e il ruggito del leone

Forse il re dei topi pensava che, dopo tanti secoli il suo momento era finalmente arrivato, ed era convinto che il suo popolo avesse l’importante missione di diffondere pestilenziali epidemie capaci tanto di purificare la terra quanto di esortare gli umani a riflettere sulla loro condizione esistenziale sollecitandoli a meditare sul tema del trionfo della morte e, difatti, il risultato delle gesta dei topi è stato descritto dai massimi storici, è stato cantato dai più grandi poeti e ha ispirato le trame di molti celebri romanzi nei quali si legge che il bacillo della peste non muore né scompare mai, anche perché - pensava il re dei topi - il suo popolo sarebbe stato l’ultimo ad estinguersi.   Ma il re dei topi non fece in tempo a godersi gli applausi che stavano cominciando a levarsi da alcuni settori dell’assemblea, ed ecco che una grande ombra roteante si proiettò sul parlamento degli animali, oscurando a tratti il sole.

Planando con grazia antica scese dal cielo turchese la feroce aquila reale. Il topo ebbe un riflesso di terrore e, dimenticando il decreto di sospensione della Legge di natura, si nascose, ratto come il suo nome, dentro una felce. …

     E adesso ci fermiamo a riflettere su ciò che emerge dal testo che stiamo leggendo perché il re dei topi - per quanto le sue parole possano sembrare paradossali - ha ragione quando afferma che: «La diffusione della peste è il gesto più significativo compiuto dal suo popolo, un gesto epico che è stato descritto dai massimi storici, cantato dai più grandi poeti e rimarcato nelle trame di molti celebri romanzi.»: difatti, il re dei topi, nel suo dire, ha voluto parafrasare un noto romanzo in cui l’autore ha saputo mettere ben in evidenza, sotto forma di metafora, il fatto che “il bacillo della peste non muore né scompare mai”.

     Ma prima di approdare al romanzo a cui stiamo alludendo è necessario procedere con ordine sulla scia di un argomento che, come ricorderete, abbiamo lasciato in sospeso per scarsità di tempo e mancanza di spazio quindici giorni fa quando abbiamo affermato che il tema dell’epidemia è direttamente legato a quello del “trionfo della morte”: un argomento che ha sempre avuto molta rilevanza nella Storia della Letteratura, della Musica, dell’Arte in generale e del Pensiero umano, e che per noi è diventato una realtà sulla quale dobbiamo meditare in chiave propedeutica [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] confidando sul fatto che lo studio è cura, e più si sa e più la mente è in grado di sviluppare anticorpi utili ad affrontare situazioni calamitose, dolorose, nefaste come quella che l’Umanità intera sta ora vivendo.

     Quindici giorni fa, come ricorderete, abbiamo cominciato a trattare questo argomento mettendo al centro della nostra attenzione il VI Libro del De rerum natura di Lucrezio nel quale il poeta descrive, con uno straordinario realismo, le conseguenze della spaventosa epidemia di peste che colpisce Atene e, così facendo, presenta per la prima volta uno scenario a cui è stato dato il nome di “trionfo della morte”. Abbiamo ricordato che Lucrezio mette in versi un avvenimento ponendolo al di fuori di qualsiasi collocazione cronologica, ed è come se avesse scritto per ammonire anche noi che, oggi, siamo alle prese con un’esperienza simile a quella che lui, con sapienza poetica, descrive alla fine del suo poema, e mi auguro [ma siete sempre in tempo] che abbiate letto i 48 versi [dal 1138 al 1286] tratti dal VI Libro del De rerum natura di Lucrezio dei quali si consigliava la lettura nell’itinerario precedente. Lucrezio mette in versi l’epidemia di peste che ha colpito Atene nel 430 a.C. seguendo l’asciutto ed essenziale resoconto in prosa dello storico greco Tucidide [460-400 circa a.C.] contenuto nel II Libro della sua Storia della guerra del Peloponneso [un’opera che abbiamo incontrato più volte in questi anni di Scuola], e ora dobbiamo dare un po’ di spazio anche a Tucidide per ribadire che nella sua opera fa emergere una serie di elementi che accompagneranno sempre lo svolgersi di ogni epidemia [anche dell’attuale pandemia]. Il racconto di Tucidide [di 2451 anni fa] è didascalico: vuole avere un carattere educativo in modo che ogni persona possa imparare con quale spirito e con quale disciplina si gestisce un’emergenza di tal genere che, puntualmente, si ripresenta con caratteristiche simili che richiedono sempre lo stesso comportamento responsabile.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Potete consultare in biblioteca – o nella vostra libreria domestica - la Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide: se leggete le prime venti righe del capitolo 53 del II Libro potete rendervi conto di come l’autore [che sembra scrivere riferendosi al giorno d’oggi] metta bene in evidenza il nesso tra il dilagare dell’epidemia e l’infrazione delle Leggi, e l’inosservanza delle regole: «... in caso di epidemia la libertà individuale [il diritto di non ammalarsi] è garantita solo dal dovere collettivo di rispettare le regole generali di prevenzione dettate da Asclepio» …   Con l’enciclopedia, e sulla rete, fate una piccola ricerca sulla figura di Asclepio che i Romani hanno chiamato Esculapio quando, nel 291, il suo culto [la fedeltà al catalogo delle regole di comportamento individuale e collettivo da rispettare] è stato introdotto in città in seguito ad una pestilenza ... 

     E ora dal mondo greco-romano spostiamoci nella valle del Nilo per dire che nella Storia della Letteratura uno dei racconti più antichi sul tema dell’epidemia lo troviamo nel biblico Libro dell’Esodo dove si narra il celebre episodio de “le piaghe d’Egitto” [in ebraico la parola “piaga” rimanda al flagello della peste].

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In ogni casa c’è un volume della Bibbia e, di conseguenza, potete leggere o rileggere il racconto de “le piaghe d’Egitto” dal capitolo 7 al capitolo 11 del Libro dell’Esodo: l’esegesi biblica ci suggerisce che questo racconto contiene un ammonimento in chiave allegorica perché gli scrivani hanno voluto affermare che Dio lancia un avvertimento per mostrare a coloro che si ritengono i padroni della Terra sfruttandone le risorse a dismisura, come, con il loro comportamento vessatorio, possano degradare, piagare, ferire, lacerare, ledere, sfregiare, sfigurare, lesionare, lordare il Creato ... “Le piaghe d’Egitto” sono tutte riconoscibili nel degrado ambientale e umano di oggi: se volete fare qualche esempio potete scrivere quattro righe in proposito ...

     E poi [come sapete] il tema dell’epidemia, con tutta la sua potenzialità di carattere realistico e metaforico, fa da pretesto per la composizione del Decamerone di Giovanni Boccaccio [opera scritta tra il 1349 e il 1351]. Boccaccio - e lo racconta nella Introduzione alla Prima giornata - immagina che, durante l’epidemia di peste [la mortal pestilenza a Firenze nel 1348], sette ragazze e tre ragazzi si rifugino per dieci giorni [“deka-emera”, in greco, significa “dieci giorni”] in una villa per evitare il contagio e lì, per passare il tempo, giocano a inventar novelle, e l’allegra brigata - perché una tragica epidemia fa scatenare spesso una sorta di euforia [ricordate l’eccitazione della prima quarantena un anno fa?] -, entrando nella penna dello scrittore, produce ben cento novelle, dieci novelle per giornata.

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Il testo del Decamerone è facilmente reperibile anche nelle biblioteche domestiche e, quindi, l’Introduzione alla Prima giornata è facilmente consultabile anche se la prosa trecentesca del Boccaccio non è facile da leggere senza l’ausilio delle note: per esercizio potete far scorrere sotto gli occhi il testo di questa Introduzione in modo da rintracciare la parola “pestilenza” – la trovate sette volte – e, quindi, potete leggere, e anche trascrivere, il testo della frase che contiene questa parola per coglierne il senso… Ogni volta che lo scrittore cita la parola “pestilenza” coglie l’occasione per arricchirla di significato quasi a volerla esorcizzare...

     Tra i testi della Letteratura che raccontano le conseguenze del contagio da epidemia di peste uno dei più lucidi è sicuramente il resoconto di Daniel Defoe [1660-1731] che nel suo Diario dell’anno della peste racconta la terribile epidemia che ha infuriato in Inghilterra dal 1664 al 1666. Quest’opera è stata tradotta in italiano nel 1940 con il titolo La peste di Londra da Elio Vittorini. Defoe - che aveva cinque anni all’epoca dell’epidemia - ricostruisce fedelmente, un po’ di anni dopo, questo avvenimento con grande precisione documentaria ma narrandolo in modo talmente incalzante e con uno stile così incisivo che sembra di leggere un romanzo d’avventure. Mi auguro che si possa tornare al più presto a Scuola per viaggiare in presenza sulla via che porta verso il secolo dei Lumi in modo da poter parlare ancora di quest’opera coinvolgendo anche Isaac Newton, ma questa è un’altra storia.

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Il romanzo La peste di Londra di Daniel Defoe lo trovate in biblioteca e, se lo sfogliate, non vi sarà difficile trovare il brano che riporta, in 8 punti, gli obblighi imposti per impedire il diffondersi del contagio: le regole proposte continuano, e continueranno, ad avere validità perché, anche se noi avremo il privilegio di usufruire della copertura vaccinale, tuttavia, non dovremo abbassare la guardia…

     Il tema dell’epidemia in Letteratura è stato interpretato anche in chiave fantastica e simbolica e, a questo proposito, tra gli esempi più celebri, dobbiamo annoverare il racconto di un autore amante del mistero incombente: stiamo parlando del racconto intitolato La maschera della morte rossa dello scrittore americano Edgar Allan Poe [1809-1849] dove “la morte rossa” è il nome simbolico che viene dato alla peste, un elemento che lo scrittore utilizza anche in altri due racconti intitolati Re Peste e L’ombra.

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I Racconti di Poe sono composti da brevi e avvincenti composizioni, e se amate “il genere horror” sappiate che questo autore viene considerato il maestro in materia…

     Altra trasfigurazione simbolica sul tema dell’epidemia è quella creata dal grande scrittore russo Aleksandr Puškin [1799-1837] nella tragedia intitolata Il festino in tempo di peste. Puškin prende spunto da un episodio marginale di un dramma - l’episodio del suntuoso banchetto organizzato per sfuggire all’infuriare dell’epidemia - dello scrittore romantico inglese John Wilson. Il festino in tempo di peste fa parte dei cosiddetti quattro “piccoli drammi in versi” che Puškin ha scritto nel 1830, gli altri tre s’intitolano Mozart e Salieri, Il cavaliere nero e Il convitato di pietra e anche nei testi di queste tre opere s’insinua una sorta di epidemia che determina il trionfo della morte.

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In biblioteca, e anche sulla rete, potete entrare in contatto con il testo de Il festino in tempo di peste e potete rintracciare e leggere L’inno alla peste che si presenta come una specie di gioioso duello [Puškin ha sempre avuto la mania dei duelli], di festosa battaglia tra il cuore umano e il contagio: un tema di grande attualità…

     Tra gli autori che, in età contemporanea, hanno saputo meglio compiere un’analisi delle conseguenze dell’epidemia, si distinguono Thomas Mann [1875-1955] con il romanzo La morte a Venezia [1912] e Giovanni Verga [1840-1922] con il romanzo I Malavoglia [1881]. Questi due scrittori offrono sul tema due prospettive antitetiche ma complementari perché in La morte a Venezia il campo di osservazione è la società in generale, mentre ne I Malavoglia è sotto osservazione il nucleo famigliare. Entrambi i protagonisti di questi due romanzi [due classici che abbiamo incontrato a suo tempo] pensano che la fuga [dal colera asiatico di Venezia e dal colera di Catania] sia l’unica reazione possibile e l’unica via di salvezza, ma trovano ugualmente la morte perché s’incantano a osservare la fuga degli altri: uno si estasia a contemplare l’ideale della bellezza, l’altro è bloccato dall’imbattibile forza del destino.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

A questo proposito, per dare un significato agli stati d’animo descritti nel testo di questi due romanzi [che immagino abbiate letto, ma una loro rilettura non nuoce certo alla salute], potete riascoltare tanto l’Adagietto della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler [1860-1911] quanto l’ouverture da La forza del destino di Giuseppe Verdi [1813-1901]...

     Per concludere questa rassegna dobbiamo ancora fare due citazioni, e m’immagino che stiate subendo il peso di questa vera e propria epidemia sul tema dell’epidemia che, secondo quanto detto in partenza, si propone come una forma di vaccinazione intellettiva alla quale bisogna sottoporsi altrimenti come potremmo dire, dal cuore della nostra Officina di apprendistato cognitivo, che: lo studio è cura? Se riflettiamo dobbiamo dire che, oggi, la peste è una malattia praticamente debellata e noi - in quanto abitatrici e abitatori del mondo progredito - pensavamo, sulla scorta di questa constatazione, di essere ormai immuni da tutte le epidemie, ma stiamo constatando che non è così e dobbiamo anche constatare che è stato un bene che le epidemie abbiano contagiato la Letteratura perché le autrici e gli autori hanno utilizzato il concetto di “pestilenza” affinché la lettura e la scrittura fungessero da vaccini e avessero un ruolo di stimolo per la produzione di anticorpi in modo da spronare le persone alla riflessione sui mali procurati dalla superstizione, dalla corruzione, dalla prevaricazione e, a questo proposito [come abbiamo detto], dobbiamo ancora fare due esempi.

     Ma prima dobbiamo proseguire nella lettura del testo della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo V. La predica dell'aquila e il ruggito del leone

Dopo essere planata con grazia antica la feroce aquila reale scese dal cielo turchese e stringendosi con gli artigli alla pietra del seggio, così parlò: - In principio era il grido, e il grido sono io, che sono immagine e sembianza del loro dio -. Le schiere delle intelligenze alate erano disposte, secondo la loro celeste gerarchia, a rispecchiare la formazione di volo delle grandi migrazioni. Sotto i troni dei rapaci imperiali stavano le dominazioni delle oche, quindi le candide potestà dei cigni e i principati delle bionde casarche. Più in basso ancora le anatre dalle piume tinte di nero, bianco e rosso come serafini, e così a scendere fino ai pivieri cherubici sul pelo del lago. E poiché nell’ordinamento degli uccelli i gradi inferiori hanno anche le illuminazioni e i poteri dei gradi superiori, tutti compresero con uguale intelletto e accolsero le parole della regina con uno scintillio d’orgoglio negli occhi.

- Per i poteri che mi conferisce la mia regalità in ogni angolo del cielo, - proseguì l’aquila, - per la vastità delle distese e dei regni che conosco e osservo col mio occhio imparziale, per la sapienza che anche gli umani nei millenni mi hanno riconosciuto e dei cui dèi sono divenuta il simbolo e l’avatar, vi dico: non c’è niente di nuovo sotto il sole. A tutti tocca la stessa sorte. Il destino degli umani e quello delle bestie è lo stesso. Come muoiono queste, muoiono quelli. Non c’è superiorità degli umani sulle bestie. È vero che il cuore degli umani è pieno di male e che la stoltezza vi alloggia mentre sono in vita, ma poi se ne vanno tra i morti. Queste generazioni umane periranno, altre ne verranno, e ancora periranno. Il loro amore, il loro odio, la loro ignoranza, tutto sarà finito. La loro nuda e fragile mano è solo un fuscello che ora fa attrito nella grande ruota dell’Universo, ma non può fermare il suo congegno né spezzare la sacra alleanza della natura vivente: meglio un cane vivo che un leone morto, è scritto. Da eoni - principi intelligibili eterni mediatori tra Dio e gli umani - noi aquile vediamo brulicare le miserie umane sotto il sole. Imperi che nascono e muoiono, popoli che migrano, figli caduti in guerra come formiche schiacciate dal piede incurante del contadino, come i soldati di Achille; città annientate come alveari in fiamme, ladri divenuti re, giusti finiti al rogo come vittime sacrificali. Questo è il destino dell’essere umano sotto il sole. Se deve estinguersi si estinguerà, se deve prevalere sarà solo per il tempo assegnatogli. Guai ad anticipare gli eventi, io vi dico, noi avvezzi alla pazienza, custodi dei cieli delle stagioni, testimoni di infiniti equinozi. Non c’è niente di nuovo sotto il sole, né noi possiamo cambiare ciò che avviene sotto il sole -.   La felce sotto cui si era nascosto non bastò a proteggere il topo dallo sguardo di eterno disprezzo che l’aquila gli aveva lanciato.

Non era abituata, la regina del cielo, a essere contraddetta. Ma questa volta lo fu. ...

     Prima di ascoltare l’intervento di chi osa - per altrettanta regalità - criticare il discorso della regina del cielo, e prima di fare ancora due esempi sul tema dell’epidemia in Letteratura dobbiamo tener conto del fatto importante che l’aquila - per sviluppare il suo interessante ragionamento - ha citato ampiamente il biblico Libro del Qoelet, un testo significativo che contribuisce notevolmente a potenziare la riflessione sul tema del “trionfo della morte”. L’incipit del Libro del Qoelet è famoso: «Tutto è come un soffio di vento, vanità, vanità, tutto è vanità». I dodici capitoletti di questo capolavoro della Letteratura sapienziale e poetica sono stati scritti intorno al III secolo a.C. da un saggio intellettuale che fa dire ciò che lui pensa e scrive al re Salomone [in quanto simbolo di sapienza] per dare - come era costume fare - autorevolezza al suo testo. Nel testo del Qoelet ci sono tre grandi idee-chiave, molto semplici: la prima è che “la vita umana è contraddittoria e assurda”, la seconda è che “solo Dio - in quanto padrone della Storia - conosce il senso segreto della vita” e la terza è che “l’unica via d’uscita per gli esseri umani è il timor di Dio cioè affidarsi con fiducia a Lui”. Ma l’importanza di questo Libro - per cui vale la pena leggerlo - consiste nel fatto che è uno dei testi fondamentali da cui prende spunto la corrente filosofica dell’esistenzialismo: l’autore, attraverso le sue riflessioni, ha constatato l’inutilità degli sforzi umani, la difficoltà di capire il senso della vita, l’impossibilità di dare una risposta di fronte ai problemi posti dall’ingiustizia, dal progresso dissennato e dal mistero della morte.

     Lo scrittore del Qoelet ha constatato che i tradizionali consigli, basati sull’ipocrisia benpensante, non bastano a dare un senso all’esistenza, anche perché il significato del destino umano non si riuscirà mai a scoprire, e allora la persona deve accettare molto umilmente il suo posto nel mondo accogliendo con sobrietà quel che di buono la vita offre nel momento presente mantenendo sempre un atteggiamento orientato verso lo scetticismo per rimettere sempre tutto in discussione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Leggete il testo del capitolo 9 del Libro del Qoelet: è un testo sorprendente per la sua perenne attualità nel ricordarci, per esempio, che «È meglio ascoltare nella calma le parole di persone sapienti piuttosto che le urla di un capo in una banda di sciocchi»...

     E ora proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo V della Favola di Filelfo ...   

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo V. La predica dell'aquila e il ruggito del leone

Mentre ancora col grande becco arcuato stava concludendo il suo discorso, la cima del monte risuonò di un terribile ruggito, che impietrì l’assemblea: - Meglio un cane vivo che un leone morto, hai detto? Un solo leone? Tu sarai la regina del cielo, aquila reale, ma io sono il leone, il re delle foreste e delle terre sotto il sole. E il mio occhio, forse non cantato dai poeti quanto il tuo, vede però la terra, per così dire, terra terra. E ciò che vede sono i pochi di noi, infelici pochi, rimasti dopo gli stermini, e i pochi dei nostri pari. -   E cinto del collare della sua criniera, nel manto di velluto che seguiva i suoi muscoli come la corrente il corso del fiume, gonfiò il suo cuore di leone e indicò le tigri, le pantere e gli altri grandi felini adagiati accanto a lui. Poi si volse e con la grande mascella protesa invitò a mostrarsi i vassalli, i cavalieri, i fanti e anche i più umili servi venuti fin li a rendere testimonianza. Secondo il cerimoniale in uso nei feudi del re, tutti i sudditi raccolti di fronte a lui si disposero al rito. Come il giunco che si cala aspettando che passi la piena, le creature della savana chinarono il capo ed emisero il verso universale dell’obbedienza di natura: - Evoè -. I manti delle lepri e dei lemuri, delle manguste e dei mandrilli, dei bufali e degli gnu, degli sciacalli e delle linci si distesero in atto di prostrazione, rivestendo la radura come tappeti da preghiera in una grande moschea. - Evoè, evoè, evoè, - ripetevano. E mai come allora quell’esclamazione di gioia parve un grido di guerra.

- Tu parli di eoni, di principi eterni, aquila, - riprese il leone, - ma tutto si è consumato in poche stagioni. Il mio popolo viene decimato a vista d’occhio. Ciò che avviene nell’ocra delle savane si trasmette all’azzurro degli oceani, al verde delle foreste pluviali, al bianco accecante dei poli. Il nostro sterminio è lo sterminio di tutti, poiché un’unica interruzione nella connessione tra i viventi dissolve i legami della natura. L’azione iniqua del cacciatore d’avorio, - e si rivolse al gigantesco e gentile popolo degli elefanti dalle lente proboscidi che annuivano luttuose, - provoca una simultanea reazione all’altro capo del globo, come un uragano è generato dal lontano battito d’ali di una farfalla. Gli umani stanno portando il caos in ciò che tu chiami ordine, in ciò che loro chiamano cosmo. ...

     E ora facciamo gli ultimi due esempi sul tema dell’epidemia in Letteratura. Nella pagina finale del capitolo XXXI de I promessi sposi - con il quale Manzoni inizia il racconto dell’epidemia di peste a Milano nel 1630 - emergono due elementi che sono sempre presenti nelle narrazioni riguardanti le epidemie a cominciare da Tucidide.

     Il primo elemento è la ricerca di un capo espiatorio [l’untore] al quale, cavalcando le bestie indomabili della superstizione e dell’ignoranza, dar la colpa dell’epidemia: questo elemento - denuncia il Manzoni - distorce il fatto che ci si salva solo rispettando tutti le regole utili per evitare o contenere il contagio e non sfogando la propria ira contro dei fantasmi, contro dei simulacri, contro gente innocente [primi fra tutti i forestieri].

     Il secondo elemento, collegato al primo, è che la parola “peste o epidemia” non si può usare esplicitamente, non si può citarla in modo palese: il potere economico e affaristico tende sempre a sdrammatizzare, a sminuire, a negare, vuole “aprire” per poter continuare a lucrare.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Se qualcuna e qualcuno di voi non lo avesse ancora fatto – visto che il volume de I promessi sposi è sicuramente nella vostra biblioteca domestica – leggete dal capitolo XXXI al capitolo XXXIV del romanzo manzoniano per capire con quale “sapienza poetica” e con quale “perizia artigianale” lo scrittore costruisce questo testo…  

     E, infine, per concludere la nostra rassegna - assai nutrita [ma non vedete su quanta ricchezza possiamo contare! Di quanti “ristori intellettuali” possiamo usufruire!] - terminiamo tornando alla citazione dalla quale abbiamo preso il passo, una citazione che, certamente, risulterebbe gradita a Lucrezio perché rispecchia la sua mentalità e riprende quell’idea di “un pessimismo fiducioso” che caratterizza il suo pensiero, di cui abbiamo parlato a suo tempo qualche anno fa. Il poema di Lucrezio si chiude con la descrizione della peste, derivata dalle pagine di Tucidide sull’epidemia che ha devastato Atene, ma nel De rerum natura la peste non devasta la città, devasta l’intero genere umano e, nell’infuriare dell’epidemia, la persona saggia non ha rimedi miracolosi da offrire ma ha soltanto la fredda luce della ragione da opporre al trionfo dell’assurdo proprio come fanno i protagonisti del romanzo di Albert Camus [un ammiratore di Lucrezio] intitolato, appunto, La peste.

     Albert Camus [1913-1960, e per saperne di più sulla sua vita e sulle sue opere potete consultare l’enciclopedia e navigare in rete] inizia a scrivere La peste nel 1939, ma il romanzo viene pubblicato nel 1947. Il testo de La peste riporta la cronaca di un’immaginaria epidemia scoppiata nella città di Orano, in Algeria e gli avvenimenti sono narrati in terza persona dal medico che, preoccupato per l’imminente trasferimento della moglie in un sanatorio, scopre in un topo morto la ragione del contagio e questo avvenimento segna l’inizio della peste che assedierà la città [«... la peste sveglierà i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice», ci ha fatto sapere il re dei topi la scorsa settimana]. Naturalmente la peste - a detta dell’autore - è, prima di tutto, una metafora che rappresenta la lotta della Resistenza europea contro il nazifascismo, e poi è un’allegoria che raffigura tutte le forme del male contro cui combatte l’essere umano. Orano viene isolata con un cordone sanitario dal resto del mondo, è affamata, è incapace di fermare la pestilenza e diventa, quindi, il palcoscenico dello scatenarsi delle passioni di un’umanità che viene a trovarsi sempre al limite tra la disgregazione e la solidarietà: i protagonisti del romanzo sono persone sagge che sanno di non avere rimedi miracolosi da offrire ma, nonostante questo, sono consapevoli del fatto che non possono perdere il lume della ragione con la quale è necessario darsi delle regole, confidando nel ruolo che deve avere l’intelletto nel guidare i comportamenti umani.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Questo romanzo – La peste di Camus - merita di essere letto, o riletto, ora...

     E adesso concludiamo la lettura del testo del Capitolo V della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo V. La predica dell'aquila e il ruggito del leone

Tutti gli sguardi si appuntarono sull’orso bianco, che aveva lasciato la sua erosa zattera di ghiaccio, residuo della banchisa polare in cui viveva, condannato alla fame e a una sconfinata solitudine. Ma lui restò immobile e, come suo solito, non proferì parola. E il suo silenzio parve rumoroso come l’urlo perenne dei ghiacciai che, sciogliendosi sempre più rapidamente, si frangono e precipitano in mare. L’orango, invece, cominciò a battersi il petto con le mani rosee: - Dei nostri, nelle foreste pluviali scacciate dall’avanzata dei palmeti piantati dagli umani, ne muore di fame uno ogni ora, - gridò da dietro il totem tondo e schiacciato del suo volto, mentre dalle quinte dei bambù emergevano le maschere bianche e nere dei panda, che portano su di sé come il segno del tao la lotta tra la vita e la morte della loro specie.

- Noi pochi, - ruggì il re leone. - Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli. Poiché chi verserà il suo sangue con me, ghepardo o ragno, sarà mio fratello, e per quanto umile la sua specie, sarà d’ora in poi innalzata, e tanti vertebrati o invertebrati ora nelle loro tane si sentiranno maledetti per non essersi trovati oggi qui, e sentiranno venire meno la propria forza riproduttiva a sentire i racconti di chi avrà combattuto questa legittima guerra agli esseri umani! ...

     Dopo gli autorevoli interventi di due monarchi, l’aquila e il leone, toccherebbe al cane intervenire in assembla.

     Certo che la posizione del cane in relazione al suo rapporto con gli umani lo mette molto in difficoltà e, quindi, per ascoltare non tanto l’unica parola che lui riesce a pronunciare ma soprattutto per conoscere i suoi più intimi pensieri non perdete la prossima tappa di questo Percorso.

     Vi invito ad esercitarvi rileggendo il testo del quinto capitolo della Favola di Filelfo, e poi vi esorto a fare il compito come è richiesto da ogni punto del REPERTORIO ...  perché il desiderio di apprendere stimola il sistema immunitario e corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito.

     Ci risentiamo prossimamente [presumibilmente fra quindici giorni] per compiere il sesto itinerario di questo Percorso in modo da continuare a studiare insieme in attesa di poter riprendere a viaggiare in presenza perché lo studio è cura.

     E, infine, un abbraccio a tutte e a tutti voi, nell’ambito di quel significativo paradosso che consiste nel mantenere le distanze restando uniti…

 

 

 

Lezione del: 
Mercoledì, Marzo 10, 2021