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LA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AFFIDATA AGLI ANIMALI - LA TESTIMONIANZA ...

Lezione N.: 
5

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

La sapienza poetica e filosofica dalla seconda metà del ‘600 al secolo dei Lumi

La sapienza poetica e filosofica affidata agli animali

Prof. Giuseppe Nibbi

TERZO ITINERARIO [in attesa di tornare a viaggiare in presenza] ...   10 febbraio 2021

LA TESTIMONIANZA ...

     Care compagne e cari compagni di Scuola, nell’attesa di riprendere il cammino in presenza sul Percorso canonico di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura sulla via che dalla metà del Seicento porta verso il secolo dei Lumi, su consiglio di Jean de La Fontaine [che attende di poter comparire dal vivo negli spazi fisici della nostra Scuola], abbiamo cominciato a leggere una favola dove la Sapienza poetica e filosofica è affidata agli animali perché, come sappiamo, fin dalla notte dei tempi la favola, attraverso gli animali, parla della condizione in cui si trovano gli esseri umani [de te fabula narratur, ci ricorda La Fontaine], ma, purtroppo, gli esseri umani - a causa della loro debolezza cognitiva e del loro istinto predatorio - hanno dimenticato che sono proprio gli animali, attraverso la fabula, a raccontare in metafora la realtà delle cose di questo mondo. E Jean de La Fontaine, in proposito, ci ha consigliato di utilizzare La favola selvaggia, rimaneggiata in tempi moderni, di un umanista rinascimentale di nome Filelfo e, di conseguenza abbiamo portato il testo di questo scritto nella nostra Officina dell’apprendistato cognitivo per poterlo interpretare facendo emergere i riferimenti letterari in esso contenuti, in modo che questa operazione di carattere ermeneutico ci consenta di tenere attivo nella nostra mente il funzionamento delle principali azioni necessarie all’Apprendimento [conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare].

     La Fontaine ci ha ricordato, inoltre, che la vera lettrice e il vero lettore è una persona che sa come “andare incontro al pensiero scritto” in modo da far muovere la mente per sostenere “il carico della scrittura” tanto nelle sue forme quanto nei suoi contenuti. La lettura - come tutte le persone dovrebbero sapere - è un’arte difficile da praticare: sono capaci a leggere nel vero senso della parola solo le persone che sanno conoscere il significato delle parole-chiave, che sanno capire la rilevanza delle idee-cardine, che si sanno applicare metodicamente, che sanno analizzare i pensieri che il testo contiene, che sanno sintetizzare il contenuto del testo e che sanno valutare il grado di soddisfazione che hanno provato leggendo.

     Nello scorso itinerario [come ricorderete] abbiamo letto e commentato il secondo capitolo della favola di Filelfo intitolata L’assemblea degli animali. Nel luogo dove si sta per tenere la grande assemblea i rappresentanti degli animali stanno per prendere la parola per discutere come affrontare la minaccia portata alla Terra da parte del suo più giovane e intemperante colono, l’essere umano. Noi, in proposito, ora leggiamo il terzo capitolo della favola e, nel corso della lettura, ci fermeremo più di una volta a riflettere perché leggere un testo corrisponde a un esercizio di ermeneutica, di interpretazione, di spiegazione, di chiarimento, di complicazione, di analisi, di sintesi, di esegesi [una competenza, l’esegesi, che in greco significa “di lettura attenta”], e un testo va sempre letto con grande attenzione portandolo nell’ambito di un’Officina di apprendistato cognitivo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo III. La testimonianza

Il baccano era ormai diventato, come usa dirsi, bestiale perché tra gli animali riuniti in assemblea era montata l’indignazione generale per i torti che ogni specie aveva subito dagli esseri umani, e nessuno ascoltava più nessuno. E fu allora che roteando in lenti cerchi concentrici, quasi invisibili, da una radura di fiori di timo, inudibile in quel frastuono nel suo tenue ronzio, atterrò sulla testa del giaguaro l’ape regina.

Il popolo degli insetti tacque in segno di venerazione, subito seguito da quello degli uccelli. Anche il cormorano, che insieme all’albatro stava rimuginando tristi memorie di viaggi per mare e chiazze di petrolio, si voltò di scatto e fissò gli occhi in quelli neri e ipnotici della minuscola sovrana.  Il grande orso bruno avanzò tra la folla, che gli fece largo, mentre il silenzio pian piano tornava ad avvolgere il monte e la baia. L’orso si inginocchiò davanti alla regina delle api, in segno di eterna gratitudine per il miele, che addolciva la sua vita e lo rimetteva in forze appena usciva dal letargo, magro, stanco e affamato, facendolo risorgere al ritmo della natura, di cui il popolo dell’ape sovrana assicurava gli eterni legami, nel suo continuo traffico di pollini.

- Signora dei fiori e del lavoro, amica della natura, messaggera d’amore, tu che nella tua saggezza organizzi, tra le stanze dorate dei tuoi alveari, il rinnovarsi della terra, - l’orso chinò il capo, non era abituato ai discorsi, e tagliò corto: - Metti ordine tu, ti prego, nell’assemblea. Parla, nessuno ti interromperà, - aggiunse guardandosi minaccioso intorno.  Il giaguaro si inchinò a sua volta e accettò con fierezza che il velluto maculato del suo capo facesse da trono all’ape regina. La quale, dopo una breve pausa in cui si sentì risuonare il silenzio assoluto, cominciò a parlare: - Fratelli animali, ho difeso più volte la mano dell’essere umano, perché la conosco. Conosco la sua intelligenza e la sua rabbia. Conosco il suo cuore e la sua paura. Anche la sua sofferenza. Il popolo delle api, - sussurrò soavemente, increspando le ali, - è tra i pochi ad avere raggiunto un accordo con quella giovane specie. Le abbiamo insegnato la pazienza e i movimenti lenti, la convivenza sociale, le abbiamo fatto capire che nessuna impresa può essere portata a termine da soli. Abbiamo alleviato le sue malattie e addolcito le sue giornate. Anche se non, - e sorrise con irresistibile fascino, - quanto quelle del gentiluomo che mi ha voluto introdurre, - e guardò l’orso, che arrossì come solo gli orsi sanno fare. - Siamo state generose del nostro tempo e delle nostre arti, perché speravamo che l’essere umano imparasse che c’è una parentela tra la terra e il cielo, la psiche e la carne, il corpo e lo spirito, e questo universo si regge sui loro legami. Che la natura è un unico sistema fatto di infinite e meticolose connessioni, e il mondo ha un’unica anima, fatta di tutto ciò di cui noi, come dice il nostro nome, animali, siamo specchio. Che la sopravvivenza è di tutti, o di nessuno. Che il ciclo della vita, la Legge di natura, sono crudeli ma non stupidi. Si distrugge solo per creare, e ciò che è creato verrà distrutto, e così all’infinito. …

     E adesso ci fermiamo a riflettere su ciò che emerge dal testo che stiamo leggendo in modo da farci carico della scrittura perché la scrittura si presta ad essere presa in esame per mostrarsi in tutta la sua pienezza. Puntiamo, quindi, l’attenzione sulla frase pronunciata dall’ape regina: «c’è una parentela tra la terra e il cielo, la psiche e la carne, il corpo e lo spirito, e questo universo si regge sui loro legami.». Ebbene, queste parole sono tratte da un’opera che mette in evidenza ciò che agli esseri umani - rispetto agli animali - sembra sfuggire: che la natura è un unico sistema fatto di infinite e meticolose connessioni nel senso che, in pratica, se viene abbattuto un albero in più del dovuto in Amazzonia si creano delle ripercussioni globali perché il mondo ha un’unica anima [l’Anima del Mondo, lo Spirito vivificante]. Quest’opera - che veicola un concetto di così stringente attualità - s’intitola Omelie sul Levitico e il suo autore si chiama Origene.

     Capisco che di fronte a questo titolo - il titolo di un Libro che raccoglie delle prediche che hanno per tema un ostico testo biblico - e di fronte a un autore vissuto nel III secolo [che, tuttavia, come molte e molti di voi ricorderanno, abbiamo incontrato più volte nei nostri Percorsi], ebbene, non è che la voglia di leggere si possa manifestare con entusiasmo e, per quanto autorevole possa essere quest’opera ed il suo autore, se c’è una certezza che possiamo avere è che non la leggeremo mai. Ed è di fronte a questa certezza che diventa necessaria l’esigenza di aprire sul territorio “Officine dell’apprendistato cognitivo” nelle quali si possa operare in funzione della didattica della lettura e della scrittura in modo che - mediante l’utilizzo delle azioni dell’Apprendimento - si possano conoscere quali sono le parole-chiave che rendono importante l’esistenza di un’opera e si possano capire quali sono le idee-cardine che l’autrice o l’autore ha voluto veicolare attraverso il suo scritto. Se la persona avrà la possibilità di applicarsi nell’area dell’apprendistato cognitivo potrà essere messa in grado di conoscere i meriti e di capire le finalità di un’opera anche molto ostica da leggere.

     E allora entriamo in Officina facendo della nostra mente un tornio, prendendo atto che il verbo “tornire” - che prevede le azioni di “levigare, arrotondare, smussare, perfezionare, affinare, corredare, rifinire” - si addice all’esercizio del leggere e dello scrivere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di questi termini - levigare, arrotondare, smussare, perfezionare, affinare, corredare, rifinire - mettereste per primo accanto al verbo “tornire”?...

Scrivetelo, esercitatevi nella scelta: scegliere è sintetizzare, e sintetizzare è venire al punto e in ogni punto c’è l’Universo intero e l’Universo ha un’unica anima...

C’è un oggetto che - per dargli una forma prestabilita – avete dovuto levigare o arrotondare o smussare o affinare?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Nell’Officina dell’apprendistato cognitivo possiamo incontrare la figura di Origene, una figura che trova la sua collocazione nella “mappa culturale” della Patristica ellenistica e, per la precisione, la figura di Origene fa parte del gruppo dei cosiddetti Padri Apologisti [vissuti tra il II e il III secolo] del quale fanno parte Giustino, Clemente Alessandrino, Ireneo, Tertulliano, Cipriano [penso li abbiate sentiti nominare questi personaggi, anche perché, a suo tempo, abbiamo studiato il pensiero di ciascuno di loro]. Questi Padri sono i difensori [in greco “apologeti”] della dottrina cristiana nei confronti di chi la critica ma propongono anche soluzioni - in particolare sulla natura di Gesù in relazione alla sua filiazione con Dio [che tipo di Figlio è Gesù rispetto a Dio-Padre?] - che sono considerate non ortodosse e vengono chiamate “eresie” dalla parola greca “haìresis” che significa “scelta” nel senso di “distinzione”, ed è proprio il caso di Origene. Origene di Alessandria è un cristiano che ha studiato insieme a Plotino alla Scuola di Ammonio, il fondatore del Neoplatonismo. Origene, dopo la morte di Ammonio, lascia Alessandria e si trasferisce a Cesarea dove fonda una sua Scuola che ha avuto una grande rinomanza. Origene muore nel 254 a Tiro, in Fenicia, per i maltrattamenti subiti in prigione durante la persecuzione dell’imperatore Decio.

     Con Origene il sistema filosofico del Neoplatonismo e la dottrina del Cristianesimo si “amalgamano” in maniera decisiva, e Origene, utilizzando il pensiero neoplatonico, disegna la struttura trinitaria del Dio cristiano. Secondo Origene l’Uno [il principio neoplatonico - descritto nelle Enneadi di Plotino - dal quale, per emanazione, si genera tutta la realtà,] è il Dio-Padre [un Dio che è Pensiero del proprio Pensiero e che sussiste di per sé dall’eternità]. Mentre l’Intelletto [che, secondo il pensiero neoplatonico, è il primo prodotto dell’emanazione dell’Uno] è il Dio-Figlio, il quale è “generato” dal Padre e, in quanto “generato” [spiega Origene], ha un titolo e una qualità inferiore rispetto al Padre nonostante sia della sua stessa sostanza: ma che importanza ha, afferma Origene, se il Dio-Figlio è di una categoria inferiore rispetto al Padre? L’importante è che la sua natura sia quella di un Vero maestro della Parola e che insegni con umanità la via della salvezza. Questa affermazione, che sembra sottovalutare la figura divina di Gesù, è un’enunciazione di coerente razionalità [derivante dal Timeo di Platone, dal programma della Scuola di Ammonio e dalla riflessione di Plotino] ma con i Concilî del IV e del V secolo il pensiero di Origene, che è morto da più di settant’anni, in un clima di grande conflittualità [soprattutto con il sorgere di tendenze fondamentaliste], viene dichiarato eretico.

     Ma - siccome la struttura trinitaria del Dio cristiano l’ha disegnata lui per primo - sarebbe giusto [anche se non abbiamo nessuna autorità per dirlo] che cessasse la condanna di eresia per Origene il quale conclude il suo ragionamento affermando che è comprensibile il fatto che il Dio-Padre e il Dio-Figlio non siano sullo stesso piano perché è normale che un padre e un figlio stiano su piani diversi mentre è regolare che tra Padre e Figlio s’instauri un rapporto reciproco di amore dal quale, afferma Origene, scaturisce lo Spirito [lo Spirito Santo] così come, nel pensiero del Neoplatonismo, l’Uno emana, attraverso l’Intelletto, l’Anima del Mondo e lo Spirito [lo Spirito Santo trinitario] - così come l’Anima del Mondo nel pensiero neoplatonico - vivifica e unifica tutto il Creato.

     Ma veniamo al dunque per dire che era necessario condurre questa riflessione piuttosto ostica mettendo sul tornio dell’Officina dell’apprendistato cognitivo il pensiero di Origene per capire il senso della frase citata nel testo della Favola di Filelfo su cui stiamo puntando l’attenzione: «c’è una parentela [scrive Origene] tra la terra e il cielo, la psiche e la carne, il corpo e lo spirito, e questo universo si regge sui loro legami. Che la natura è un unico sistema fatto di infinite e meticolose connessioni, e il mondo ha un’unica anima». Origene ha pronunciato ben 574 Omelie ai fedeli di Cesarea, e ce ne sono pervenute 200 che hanno come argomento l’interpretazione del testo di una serie di Libri della Bibbia [di Geremia, della Genesi, dell’Esodo , dei Numeri, di Giosuè, dei Giudici, dei Salmi, del Cantico dei cantici, di Isaia, di Ezechiele, del Vangelo di Luca].

     Nelle sedici Omelie sul Levitico Origene mette in evidenza che il significato del testo dell’Antico Testamento diventa trasparente attraverso la predicazione di Gesù, e con la catechesi di Gesù - che è il Vero maestro della Parola - la Scrittura si “trasfigura” e, mediante un virtuoso mutamento sostanziale, diventa chiara all’intelligenza umana e terreno di studio e palestra dove allenare l’intelletto.

     Origene mette in evidenza che il Libro del Levitico è frutto del lavoro di molti autori che hanno voluto raccogliere in un’unica opera tutta la legislazione religiosa, sociale e morale di un popolo sottolineando il fatto che il rispetto della Legge [la Legge uguale per tutti] è una necessità vitale per gli esseri umani. Origene afferma che Gesù, il Vero maestro della Parola, ha indicato come tutta la legislazione - una legislazione di cui critica le troppe norme spesso strane e anacronistiche - trovi il suo punto di sintesi in un solo comandamento fondamentale. Il rispetto di questo comandamento - scrive Origene - porta l’intelletto della persona a comprendere che «il mondo ha un’unica anima, che la natura è un unico sistema fatto di infinite e meticolose connessioni e c’è una parentela tra la terra e il cielo, la psiche e la carne, il corpo e lo spirito, e questo universo si regge sui loro legami».

     Di quale comandamento sta parlando Origene nelle sue Omelie sul Levitico?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Usufruendo del volume della Bibbia presente nella vostra biblioteca domestica leggete il capitolo 19 del Libro del Levitico concentrando la vostra attenzione sul versetto 18... Poi andate sul testo del Vangelo secondo Luca e leggete dal versetto 25 al versetto 37 del capitolo 10... 

Esercitatevi nell’esegesi nella vostra Officina domestica dell’apprendistato cognitivo...

«Le persone pensanti oggi attendono il loro turno di vaccinazione consapevoli del fatto che devono proteggere sé stesse proprio per fornire protezione a tutte le altre», sicuramente troveremmo una frase del genere nelle Omelie sul Levitico se Origene le avesse scritte oggi...

     E ora riprendiamo a leggere il testo del terzo capitolo della favola di Filelfo: come ricorderete stava parlando l’ape regina.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo III. La testimonianza

Lo sappiamo bene - disse l’ape regina - noi bestie, che incessantemente mangiamo e siamo mangiate, inseguiamo o fuggiamo, cacciamo o ci nascondiamo, dall’inizio dei tempi. Ma proprio per questo, come bene ha scritto un amico poeta inglese, eseguiamo i precetti della natura con prontezza e abilità, senza mai cedere alla cattiva condotta, salvo di tanto in tanto, per caso. Siamo dotate di buone maniere dalla nascita, non sgomitiamo per farci strada. Non supplichiamo, non chiediamo pietà, non ci diamo per vinte. Non mostriamo segno di sapere che siamo condannate, anche se lo sappiamo benissimo. Ma viviamo tenendoci lontane dalle illusioni come dal mare aperto. Gli umani dicono che sia l’istinto a guidarci, mai io lo chiamerei senso comune -. L’ape regina fece una pausa assaporando l’effetto delle sue parole. - Quale senso comune, amiche e amici, vediamo oggi nell’essere umano? Quale? - e gonfiò le ali facendole vibrare: - Quale? - ronzò più forte alzandosi di qualche centimetro in volo dalla testa del giaguaro.

- Quale? - risposero in coro muggiti, ruggiti, bramiti, ululati, guaiti. Un’unica onda sonora percorse il monte, la foresta, il mare. Fu allora che gli sguardi di tutti si posarono sull’ospite d’onore. Fu invitato a parlare il koala.

Una zaffata di eucalipto invase l’aria, mentre il koala avanzava lentamente dal banco dei testimoni al seggio più alto dell’assemblea. Era tra gli animali, il koala, il più timido e riservato. Anche il più indifferente alle classificazioni degli umani: ungulato senza essere feroce, marsupiale senza sentirne il bisogno, di buon carattere ma solitario, mansueto ma non addomesticabile. Le forti emozioni non erano mai rientrate nel suo ideale di vita. Tutto quello che chiedeva alla natura era una quantità sufficiente di foglie di eucalipto - le stesse che certi umani arrotolano e fumano per rilassarsi - e un discreto numero di ore di sonno indisturbato. Ma adesso il koala era turbato. Lo si sarebbe anzi potuto dire in stato di choc. Non dormiva dai giorni del grande incendio: non ne erano passati molti, ma abbastanza, sommati alla fatica del viaggio, per trasformare un animale sereno, pacifico ed equilibrato in un reduce invecchiato di colpo, deperito, tremebondo e con lo sguardo di chi è appena tornato dall’oltretomba. Gli faceva da scorta un gruppo composito di quoll, vombati e opossum pigmei adolescenti, che lo trattavano come un nonno adottivo. Il koala si sedette a fatica, imitato dal suo seguito, e fece una lunga pausa per riprendere fiato, sventolandosi con un rametto di eucalipto. Poi, finalmente, parlò.

- La terra era buia. Era notte sempre. Il fumo soffocava. Gli alberi bruciavano. Non potevamo arrampicarci. I miei amici sono andati a fuoco con le foglie. L’amato odore di eucalipto misto a quello di carne bruciata. Non mangerò mai più l’eucalipto -. Si interruppe con un singhiozzo, trattenendo le lacrime. Non volava, letteralmente, una mosca: anche il popolo degli insetti, maestri di disciplina insuperabili nel mettere alla prova ogni animale o essere umano durante i suoi esercizi di concentrazione o le sue silenziose preghiere, taceva, in ascolto. - Non so come ho fatto a uscire dal bosco. Correvo, la gola bruciava, le forze mi abbandonavano, ero accecato. E però, amiche, amici, - gemette, - quando mi tornò la vista, e questo accadde fuori dal bosco, avrei preferito non vedere. A perdita d’occhio, nella pianura, fino all’orizzonte, sagome nere come rocce, esanimi, l’una dopo l’altra. Animali molto più grandi di me o molto più piccoli, che erano riusciti a emergere dall’inferno del fuoco solo per stramazzare, chi completamente carbonizzato, chi asfissiato, chi, dopo indescrivibili agonie, semplicemente arreso. Chi non moriva per il fuoco era ucciso dalla mancanza d’acqua. E chi cercava di procurarsela veniva abbattuto dai fucili degli umani, così pochi, specie laggiù, rispetto a noi, ma così gelosi delle loro riserve -. 

Il bramito di dolore del popolo dei dromedari e dei cammelli, accovacciati sulla sabbia, salì per le balze della montagna.  - Io stesso morivo di sete. Si dice che il koala sia un animale che non beve. Non è vero. Tutti abbiamo bisogno di acqua. E io, mi vergogno a dirlo, ero così disperato che facendomi largo tra i mucchi di cadaveri raggiunsi la strada degli umani. Gli umani pensano che noi animali non chiediamo perché non capiamo. Non sanno che non lo facciamo solo per gentilezza. …

     E ora - prima di continuare ad ascoltare la parte finale dell’accorata e drammatica testimonianza del koala - dobbiamo soffermare la nostra attenzione su una citazione contenuta nel discorso dell’ape regina: «noi bestie [ha detto l’ape regina], come bene ha scritto un amico poeta inglese, eseguiamo i precetti della natura con prontezza e abilità, senza mai cedere alla cattiva condotta, salvo di tanto in tanto, per caso. Siamo dotate di buone maniere dalla nascita, non sgomitiamo per farci strada. Non supplichiamo, non chiediamo pietà, non ci diamo per vinte. Non mostriamo segno di sapere che siamo condannate, anche se lo sappiamo benissimo. Ma viviamo tenendoci lontane dalle illusioni come dal mare aperto. Gli umani dicono che sia l’istinto a guidarci, mai io lo chiamerei senso comune».

     Ebbene, l’amico poeta del quale l’ape regina cita i versi è Wystan Hugh Auden - nato nel 1907 a York in Inghilterra e morto nel 1973 a Vienna - e questi versi sono tratti da una bella poesia, arguta e solenne, ironica e appassionata intitolata Ode alle bestie, e i versi di questo componimento formano una specie di discorso pubblico pronunciato in privato, per un gruppo di persone amiche. L’attualità di questi versi - scritti quasi mezzo secolo fa - è palese: «Per noi [scrive Auden] che, dal momento in cui veniamo al mondo cadiamo in confusione, | che di rado sappiamo esattamente che cosa ci stiamo a fare, e in generale nemmeno ci teniamo, | quale gioia è sapere, anche quando non vi si vede o non vi si sente, che voi, animali, siete nei dintorni, per quanto, pochissimi di voi, trovate che siamo degni di attenzione, | a meno che non ci avviciniamo troppo». Con questa lode alle bestie in piena regola l’autore vuole soprattutto mettere in evidenza la loro sobrietà, «la buona educazione» e il senso del limite: cosa che a noi umani spesso manca. Gli animali, infatti, eseguono «con abilità e prontezza i disegni della Natura», e non sono presuntuosi, né supponenti, né snob. Non mettono il naso negli affari dei loro simili, e se uccidono è per tenersi in vita, non per fare prodezze e cercare applausi. Gli animali sono, da sempre, maestri di buon senso per gli umani e, fin da principio, hanno ispirato i poeti.

     Ode alle bestie è una poesia contenuta nell’ultima raccolta di W.H. Auden pubblicata nel 1974 e intitolata Grazie, Nebbia. Auden si rivolge agli animali, i veri cittadini della natura, i quali non sanno di morire, e «sarà forse per questo [scrive Auden] che noi umani siamo spesso gelosi della vostra innocenza?». A differenza degli animali, gli umani, scrive Auden, non sanno bene che cosa fare a questo mondo, ma sono chiamati ugualmente a fornire una ragione in difesa delle loro azioni, ed è così che la Storia finisce per essere spesso una menzogna e «non una disciplina di cui poter vantarsi, in quanto è stata creata dall’elemento criminale che si annida dentro di noi: anche perché la bontà è senza tempo». Auden mette bene in evidenza il fatto che gli umani hanno preferito pensare di vivere in un mondo che li ospita loro malgrado, in un modo in cui non sono né ben voluti, né amati. Il mondo è perfetto di per sé e gli umani non vi aggiungono nulla ma vi tolgono tutto. Gli umani, a differenza degli animali, che sono perfettamente integrati nel mondo, si sentono sempre in esilio ma per tornare dove se questo è inequivocabilmente il loro mondo? Quello che gli umani dovrebbero fare, scrive Auden, è far fronte alla loro debolezza cognitiva per interrogarsi su come si debba vivere.

     Per tutta la vita, Auden si è posto la stessa domanda che si pone il personaggio di Socrate nella Repubblica di Platone: qual è la vita giusta? Auden risponde che gli umani dovrebbero cercare di amarsi gli uni con gli altri perché il piacere delle relazioni e degli affetti, unito alla soddisfazione per le cose belle, costituiscono due tratti della coscienza che possono nel contempo giustificare le nostre azioni ed essere la nostra sola virtù: «Nessuno di noi è più giovane come una volta. E allora? L’amicizia non invecchia. Si può anche pensare che la terra sia un brutto posto ma se l’amicizia non invecchia significa che anche un fenomeno atmosferico poco gradito può diventare un attimo speciale, tanto tranquillo quanto festoso, ma soprattutto educante, per cui io non posso [scrive il poeta] che renderti Grazie: Grazie, Grazie, Nebbia». La Nebbia rende rarefatta la forma delle cose e trasfigura l’ambiente su cui cala per cui insegna ad aguzzare la vista, ad acuire l’udito, ad affinare l’olfatto, a raffinare il tatto, a selezionare il gusto, così come quando ci si trova alle perse con un testo di non facile lettura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quando e dove vi siete trovate e trovati immerse e immersi nella nebbia?... Forse non avete detto “grazie, Nebbia”, o forse sì!...

Scrivete quattro righe in proposito...

In biblioteca potete richiedere la raccolta intitolata Grazie, Nebbia di W.H. Auden: leggendo i versi delle poesie in essa contenute si può capire che la parola è una medicina efficace per guarire la mente offesa dalle brutture del mondo...

     E ora, ascoltando la parte finale della testimonianza del koala, terminiamo la lettura del terzo capitolo della Favola selvaggia di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo III. La testimonianza

Il bramito di dolore del popolo dei dromedari e dei cammelli, accovacciati sulla sabbia, salì per le balze della montagna. E il koala continuò a rilasciare la sua testimonianza - Io stesso morivo di sete. Si dice che il koala sia un animale che non beve. Non è vero. Tutti abbiamo bisogno di acqua. E io, mi vergogno a dirlo, ero così disperato che, facendomi largo tra i mucchi di cadaveri, raggiunsi la strada degli umani. Gli umani pensano che noi animali non chiediamo perché non capiamo. Non sanno che non lo facciamo solo per gentilezza. E io chiesi. Fermai una donna, era in bicicletta, aveva una borraccia, gliela indicai, mi diede da bere. I miei amici, milioni, dicono un miliardo in pochi giorni, tutti morti per mano degli umani. E io qui vivo grazie a una di loro. Capite? Capite? - La voce del koala si ruppe definitivamente in uno scroscio di lacrime, e con un ultimo rantolo quasi incomprensibile: - Mi hanno tolto tutto, anche l’odio.   Il koala abbandonò il seggio stremato, sorretto dal suo seguito, nel generale silenzio.

Nessuno se la sentiva, dopo quella testimonianza, di prendere la parola. Fu ovunque un incrocio di sguardi, uno spiarsi, un soppesarsi, un annusarsi. Già in passato gli schieramenti, nell’assemblea degli animali si erano divisi. C’era chi difendeva d’ufficio gli umani e sosteneva la necessità di un compromesso in nome della convivenza tra le specie, che dalle origini rispettavano la Legge di natura: quella del più forte. Gli umani dopotutto, sostenevano questi moderati, non erano altro che grandi predatori, che con le loro forze e la loro intelligenza avevano salito tutti i gradini della scala alimentare, e di ciò gli andava dato atto. Non se ne avessero a male i grandi sovrani del passato, i re delle giungle, dei cieli e degli oceani, avevano sostenuto per millenni i fautori della coesistenza: per ogni èra c’è sempre stato e sempre ci sarà un predatore alfa, e la nostra èra è quella dell’essere umano.

Di tutt’altro avviso era lo schieramento opposto: ma quale sovrano, l’essere umano non era che un usurpatore. Ma quale Legge di natura, gli umani le Leggi se le facevano da soli per distruggerla, la natura. E quale convivenza, se la vita delle specie non umane era minacciata di estinzione.  E non solo gli animali, anche le piante, e l’aria stessa, e l’acqua, e tutto quello che gli umani chiamavano ecosistema, e che gli animali chiamano casa, erano in pericolo.

Questo pensava senza dirselo l’intera assemblea. Tutti sapevano perché erano stati convocati e che era il momento di scegliere da che parte stare. …

     Ad un certo punto della sua testimonianza il koala dice: «Gli umani pensano che noi animali non chiediamo perché non capiamo. Non sanno che non lo facciamo solo per gentilezza. E io chiesi. Fermai una donna, era in bicicletta, aveva una borraccia, gliela indicai, mi diede da bere». Ebbene, questa citazione s’ispira ad un episodio testimoniato da un video postato su Instagram a fine dicembre del 2019 da Anna Heusler [bikebug2019].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Sulla rete potete osservare le molte immagini che supportano la testimonianza del koala sui disastrosi incendi dolosi che si sono registrati soprattutto in Australia...

     Tutti gli animali sanno la ragione per cui sono stati convocati in assemblea e sanno che è venuto il momento di scegliere da che parte stare. E per poter fare una scelta - in modo da intervenire contro l’arroganza degli umani - è necessario formulare delle strategie da seguire, e qual è il primo animale che, a nome della sua specie - una specie che, da sempre, è in competizione con quella degli umani - interviene per proporre un piano strategico? Per assistere al suo intervento bellicoso non perdete la prossima tappa di questo Percorso.

     Vi invito ad esercitarvi rileggendo il testo del terzo capitolo della Favola di Filelfo, e poi vi esorto a fare il compito come è richiesto da ogni punto del REPERTORIO ...  perché il desiderio di apprendere stimola il sistema immunitario e corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito.

     Ci risentiamo prossimamente, presumibilmente fra quindici giorni, per compiere il quarto itinerario di questo Percorso e per continuare a studiare insieme in attesa di poter riprendere a viaggiare in presenza perché lo studio è cura, e lo studio è fare Politica [parola scritta con la P maiuscola, come vedete se avete il testo davanti], e se tra le infrastrutture da creare non si coglierà l’occasione per promuovere il sistema delle Officine di apprendistato cognitivo diffuse sul territorio noi avremo [in Italia, in Europa e nel Mondo] più analfabetismo di partenza e di ritorno, avremo più sindromi depressive, avremo più devianza sociale, avremo più presunte [o illiberali] democrazie fondate sull’incompetenza e avremo meno persone avvezze alle regole.

     Per curare se stessi e per collaborare a governare la comunità in cui si vive bisogna sapere e per sapere bisogna studiare.

     E, per concludere, un abbraccio a tutte e a tutti voi, nell’ambito di quel significativo paradosso che consiste nel mantenere le distanze restando uniti…

 

 

Lezione del: 
Mercoledì, Febbraio 10, 2021