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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600 SI RIFLETTE SUL TEMA DELLA NECESSITÀ DI IMPARARE A DISTINGUERE TRA LA PELLE E LA CAMICIA ...

Lezione N.: 
3

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza  24-25-26  ottobre  2018

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600  

SI RIFLETTE SUL TEMA DELLA NECESSITÀ DI IMPARARE A DISTINGUERE

TRA LA PELLE E LA CAMICIA ...

     Questo è il terzo itinerario del nostro viaggio sul territorio de “la sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza” e, come da calendario, la prossima settimana faremo una pausa dovuta alla festività di tutti i Santi [giovedì prossimo è il 1° novembre] e della commemorazione dei Defunti [venerdì prossimo è il 2 novembre].

     La scorsa settimana, per concludere il tradizionale e ripetitivo “rituale della partenza”, abbiamo letto l’incipit dei Saggi di Michel de Montaigne, la grande opera del primo personaggio che ci accompagna sul nostro Percorso. L’incipit dei Saggi è un testo che Montaigne scrive il primo marzo 1580, sotto forma di Lettera indirizzata alle lettrici e ai lettori, in occasione della pubblicazione della prima edizione della sua opera. In questo brano emerge una parola-chiave che indica la direzione verso la quale stiamo per prendere il passo: di che parola si tratta e quali nuovi interrogativi pone la riflessione su di essa?

     In occasione della pubblicazione dei primi due Libri dei Saggi, il 1° marzo 1580, Montaigne scrive, secondo l’uso, un’importante avvertenza rivolta alle lettrici e ai lettori: «Questo, lettrice e lettore, è un Libro sincero, scritto in buona fede. Ti avverte fin dall’inizio che non mi sono proposto, con esso, alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. Le mie forze non sono sufficienti per un tale proposito». È una consuetudine delle autrici e degli autori quella di scrivere una prefazione, un testo che presenti l’opera che hanno composto; Montaigne però, rispetto al tono che hanno i testi delle prefazioni delle opere di questo periodo, si comporta in modo diverso ed esordisce mettendo in evidenza una qualità umana che lui ritiene di possedere [l’unica qualità che lui ritiene di avere] e sulla quale punta l’attenzione dall’inizio alla fine della sua opera: si tratta della “fede”, cioè della “buona fede”. “La buona fede” è per Montaigne una qualità di grande importanza [e dovremmo supporre che questa qualità abbia anche tutt’oggi molte estimatrici e molti estimatori] perché lui ritiene che sia una virtù indispensabile per la costruzione di ogni rapporto umano [e come dargli torto?]. Bisogna chiarire che Montaigne non si riferisce a “la fede” intesa come concetto di carattere religioso così come viene enunciato dalla Letteratura dei Vangeli [la fede dei teologi] ma Montaigne si riferisce, con spirito laico, alla parola latina “fides” che significa in primo luogo “fedeltà”, vale a dire, “rispetto della parola data”: l’atteggiamento che, secondo Cicerone e Seneca, due autori di cui Montaigne conosce bene le opere, è il fondamento di ogni forma di fiducia.

     I termini “fedeltà e fiducia” [secondo il significato della voce “fides”] rimandano alla parola “confidenza” [confidentia] che, nel lessico filosofico latino [degli stoici, degli epicurei, degli eclettici, degli scettici], esprime proprio il concetto di quanto sia importante mantenere la parola data ad una persona [che è l’atteggiamento alternativo rispetto al fare vaghe promesse sapendo di non poterle mantenere]. Per Montaigne “la fede” è, quindi, una virtù che va attinta dal mondo classico, e la “bona fides” [la buona fede] che Montaigne s’impegna a mantenere nei confronti della lettrice a del lettore è un modo di porsi privo di malizia, di astuzia, di inganno che deve, inequivocabilmente, corrispondere all’onestà, alla lealtà e alla conformità fra l’essere e l’apparire.  Montaigne vuole assicurare la lettrice e il lettore che ci si può e ci si deve fidare del Libro che lui ha scritto perché lo ha fatto “in buona fede” e, quindi, nella prefazione vuole stabilire con chi legge un rapporto di fiducia mettendo in evidenza che alla base di ogni rapporto fiduciario ci deve essere, afferma Montaigne, l’assenza di interesse [di tornaconto] che si manifesta con la gratuità: è per questo, dichiara Montaigne, che ha voluto scrivere il suo Libro per la cerchia dei suoi intimi [famigliari e amici] in modo che si ricordino di lui dopo la sua morte e possano ritrovarlo nella sua opera, ma con questa affermazione, avvolta in un soffice velo di nostalgia, Montaigne vuole alludere esplicitamente al fatto di quanto sia difficile potersi fidare degli altri e di quanto sia complesso il tema della “fiducia”.

     I Saggi di Montaigne - già dalle prime righe della prefazione - propongono, come in filigrana, una riflessione continua strettamente legata come sappiamo alla domanda: «Come vivere?». Ebbene, Montaigne, tra le righe [in mezzo a parole che possono sembrare scontate in quanto dotate di leggerezza] fa emergere una serie di interrogativi: dobbiamo vivere avendo completa fiducia nelle altre persone oppure dubitando sistematicamente della fiducia altrui, dobbiamo vivere fidandoci solo degli intimi e diffidando costantemente degli estranei, ma è proprio vero che degli intimi ci possiamo sempre fidare e degli estranei mai? Montaigne ci assomiglia: tutte e tutti noi ci poniamo queste domande anche perché, allude Montaigne, dubitiamo di noi stesse e di noi stessi. Montaigne scrive che non vuole insegnare delle cose alle sue lettrici e ai suoi lettori ma, implicitamente, suggerisce che è sempre necessario ragionare su come si possano fare le cose.

     Ecco perché non vuole innalzare un monumento a se stesso ma intende presentarsi senza maschera: «Se avessi scritto il mio Libro [afferma Montaigne] per procacciarmi il favore della gente mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato. Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo». Poi aggiunge che, se le convenienze lo avessero permesso, avrebbe fatto come gli indigeni del Nuovo Mondo [del Brasile] e si sarebbe «molto volentieri dipinto per intero e tutto nudo »[sull’argomento dell’incontro con gli indigeni torneremo a suo tempo].

     I Saggi di Montaigne sono un’opera che si presenta come se fosse un autoritratto anche se non era questo il progetto iniziale dello scrittore e, difatti, nei testi dei brani che compone per primi, Montaigne non dipinge se stesso: solo poco per volta giunge allo studio di sé e lo fa per capire se si possa avvicinare alla saggezza, e il dedicarsi, gradualmente, alla composizione del proprio autoritratto è come se fosse un esercizio per mettere in pratica la regola socratica del “Conosci te stesso, prendi coscienza del fatto che la tua condizione umana è un universo”.

     A questo proposito, viene spontaneo domandarsi quando e perché Montaigne abbia iniziato a scrivere i Saggi [e, naturalmente, a tempo debito, risponderemo a queste domande]. Montaigne scrive: «E così, lettrice e lettore, sono io stesso la materia del mio libro. Non è il caso che tu sprechi il tuo tempo con un argomento così frivolo e vano»: ma allora [come sarebbe a dire?] se il Libro è stato un intimo esercizio spirituale, se è stato una sorta di esame di coscienza, se non mira alla gloria dell’autore, e tanto meno all’istruzione delle lettrici e dei lettori, perché renderlo pubblico, farlo pubblicare? Montaigne ci fa capire, in buona fede, che sta ironicamente facendo finta di voler scoraggiare le lettrici e i lettori, bensì in realtà, con questa affermazione [“non c’è ragione che voi perdiate tempo a leggermi”] vuole stimolare la curiosità, vuole attirare l’attenzione delle sue potenziali lettrici e dei suoi possibili lettori.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A proposito di fiducia: quali precauzioni prendete per capire se vi potete fidare di una persona?...  

Scrivete quattro righe a riguardo, come avvertenza...

     I Saggi di Montaigne sono un’opera che si presenta come se fosse un autoritratto ma abbiamo detto che questo non era il progetto iniziale dello scrittore e, difatti, nei testi dei brani che Montaigne compone per primi non dipinge se stesso. Montaigne giunge allo studio di sé solo gradualmente e con l’intento di potersi avvicinare alla saggezza. Ebbene [ci siamo domandate e domandati poco fa]: quando inizia Montaigne a comporre i Saggi, e perché? Naturalmente, strada facendo, risponderemo a queste domande ma ci vorrà un po’ di tempo prima di poterlo fare perché, prima di rispondere a queste domande, è necessario conoscere la biografia di Montaigne in quanto, come sappiamo, esiste una relazione tra il testo dei Saggi e l’esperienza di vita dell’autore.

     La scorsa settimana abbiamo detto che all’età di tre anni il piccolo Michel [che è nato il 28 febbraio 1533 nel castello di Saint-Michel-de-Montaigne nel Périgord, un luogo che siete state invitate e invitati a visitare, almeno dall’esterno, con una guida della Francia e navigando in rete],  dopo essere stato a balia nel villaggio di Papessus in casa di contadini, entra in famiglia e suo padre Pierre, che sa quanto sia importante coltivare la cultura e ha molte ambizioni per il figlio, seguendo le indicazioni di Erasmo da Rotterdam, invece che fargli insegnare la lingua madre, il francese [tanto quella Michel l’avrebbe comunque imparata], vuole che apprenda bene la lingua internazionale, il latino e, a questo proposito, come abbiamo già ricordato la scorsa settimana, assume, come precettore per Michel, un medico tedesco di nome Hortanus, un latinista che non conosce il francese e deve parlargli solo in latino così come anche il resto della famiglia. Michel impara alla perfezione a parlare, a leggere e a scrivere in latino senza pedanteria come se fosse un gioco.

     Michel de Montaigne all’età di sette anni nel 1540 parla e scrive in latino come se fosse la sua lingua madre e inizia la lettura, sotto la guida del suo precettore, il medico Hortanus, delle principali opere della Letteratura latina, e questa si dimostra un’esperienza fondamentale per la sua formazione [anche noi abbiamo qualche anno fa, nel 2012-2013, abbiamo viaggiato sul territorio dei Classici latini]. Michel, fin da bambino, si diverte molto a leggere Le metamorfosi e L’arte di amare di Ovidio e le Bucoliche, le Georgiche e l’Eneide di Virgilio: tutte opere che, nel corso della sua istruzione elementare, traduce per esercizio anche in francese.

     Appena adolescente legge e studia con interesse soprattutto i Trattati di Cicerone [ne parleremo nella parte finale di questo itinerario] e le Lettere a Lucilio di Lucio Anneo Seneca e poi, quando scopre Le commedie di Plauto e di Terenzio, comincia ad amare il teatro e recita persino in una compagnia dove, precocemente, vive anche le sue prime esperienze amorose. Poi viene mandato a studiare a Bordeaux nel severo collegio di Guyenne dove rimane fino al 1548, e di questa esperienza Montaigne non conserva un buon ricordo sia per la scarsa preparazione degli insegnanti [anche se fra questi non mancano umanisti di fama come Buchanan e Muret], sia per la rigida disciplina ottenuta con metodi spesso assai violenti.

     E, a proposito di violenza, tenendo conto del fatto [come ben sappiamo e al quale ci atteniamo] che esiste una relazione tra il testo dei Saggi e la biografia dell’autore, dobbiamo ricordare un episodio drammatico che Montaigne rievoca e sul quale riflette, molti anni dopo, nel testo dei Saggi. Succede che, nel 1548, il re Enrico II di Navarra decide di ripristinare nella regione della Guyenne la tassa sul sale [elemento fondamentale per l’economia di questa regione], e questa decisione provoca un’insurrezione, la cosiddetta rivolta della gabella, durante la quale, il 21 agosto 1548, il luogotenente del re, Tristan de Moneins, inviato a Bordeaux per ristabilire l’ordine, viene trucidato dagli insorti e il giovane Montaigne, che ha quindici anni, assiste a questa drammatica vicenda e, per giunta, suo padre, Pierre Eyquem, in questo momento detiene la carica di “giurato” cioè di magistrato municipale [di giudice che deve far rispettare la Legge]. Nel capitolo XXIV del Libro I dei Saggi, intitolato Effetti diversi di una medesima risoluzione, Montaigne scrive: «Nella mia fanciullezza vidi un gentiluomo, governatore di una grande città, che si trovò a fronteggiare la sedizione di un popolo in preda al furore. Per spegnere quel principio di rivolta, si risolse a uscire dal luogo ben protetto in cui era e ad andare verso la folla in tumulto, e mal gliene incolse, poiché fu miseramente ucciso». Michel ha vissuto in modo traumatico questo episodio di bestiale efferatezza: Tristan de Moneins viene sgozzato, fatto a pezzi e «salato come un quarto di bue per significare che si erano ribellati in odio della gabella». Il giovane Montaigne rimane traumatizzato e, a distanza di tempo, non ha certo rimosso questo episodio dalla sua mente e non rinuncia a riflettere, e la sua riflessione contiene un rimprovero nei confronti del comportamento di questo gentiluomo il quale, non essendo alle prime armi, avrebbe dovuto sapere che una folla inferocita è un mostro, è un animale feroce che bisogna saper domare con sagacia e autorevolezza. Montaigne afferma che Moneins è stato massacrato a causa della sua irresolutezza [della sua indecisione] perché dinanzi alla furia della folla un gentiluomo che ha il compito di governare una delicata situazione, afferma Montaigne, non può esitare [deve saper ragionare lucidamente] e, in primo luogo, non deve esporsi ma, rimanendo ben protetto, deve saper comandare con abilità le proprie forze armate per contenere, provocando il minor danno possibile, l’urto degli insorti [quasi tutti disarmati], facendone poi catturare un certo numero per poterli rilasciare al più presto, senza aver fatto loro del male, con l’incarico di fare da portavoce per invitare la popolazione a rinunciare alla violenza e a nominare propri rappresentanti in modo da poter aprire una trattativa: «A me pare che l’errore di quel gentiluomo [scrive Montaigne] non fu tanto l’essere uscito allo scoperto, come perlopiù si rimprovera alla memoria sua, ma l’essere uscito senza garantirsi la necessaria protezione dando prova di sottomissione e di insicurezza». E Montaigne, quindi, ritiene che Moneins sia responsabile della propria sorte a causa della sua condotta superficiale.

     Il re [Enrico II], ricevuta la notizia del feroce assassinio del suo luogotenente, ordina immediatamente una violenta [e altrettanto feroce] repressione della rivolta ed è una carneficina. La città di Bordeaux viene commissariata, perde i suoi privilegi e anche “i giurati” [i magistrati municipali] vengono rimossi dalla loro carica e, quindi, anche Pierre Eyquem, il padre di Michel, viene destituito.

     Questo episodio ha segnato per sempre Montaigne e gli ha insegnato che una persona investita di responsabilità istituzionali non può essere indecisa così come non può essere spietata: una persona responsabile deve essere dotata di autorevolezza [di prestigio, di stima, di considerazione, di esperienza] non di autoritarismo.

     Montaigne afferma di essersi ricordato di questo episodio quando, da sindaco di Bordeaux, si è venuto a trovare [circa quarant’anni dopo] di fronte a una folla ostile. Nel maggio del 1585 Montaigne è alla fine del suo secondo mandato di primo cittadino e a Bordeaux si è venuta a creare una situazione di forte tensione fra gli esponenti della Lega cattolica [fondamentalisti, violenti, intolleranti nei confronti dei protestanti e degli ebrei] e i giurati [i magistrati municipali i quali devono garantire che la Legge sia uguale per tutti]. I leghisti cattolici aizzano il popolo contro i giurati con l’obiettivo di far scoppiare un’insurrezione, il sindaco Michel de Montaigne si trova a dover governare una delicata situazione “gravida di conseguenze” e, quindi, decide - nonostante il parere contrario della maggioranza dei suoi consiglieri che temono per la sua incolumità - di procedere comunque all’annuale rassegna delle forze di polizia cittadina: «Si doveva stabilire [scrive Montaigne, sempre nel capitolo XXIV del Libro I dei Saggi] se fosse opportuno fare una rivista generale di molte truppe armate (perché è quello il luogo delle vendette segrete, ed è quella l’occasione più adatta per mettere in atto un attentato). Furono espressi diversi pareri, trattandosi di una circostanza delicata e gravida di conseguenze. Il mio parere fu di evitare a tutti i costi di lasciar trasparire la nostra incertezza, e di andare, con fare autorevole, tra le loro file e mescolarvisi, a testa alta e a viso aperto. Questo comportamento [scrive Montaigne] servì a guadagnarsi il favore di quelle truppe sospette e fece nascere da quel momento in poi una fiducia reciproca e proficua». Montaigne attribuisce il proprio successo alla sicurezza e alla fiducia di cui ha dato prova nel momento del pericolo, a differenza di Moneins, che, circa quarant’anni prima, si era mostrato esitante, il fatto è che, probabilmente, Montaigne - essendo stato “un sindaco franco e aperto” [come dicono le cronache del tempo] - l’autorevolezza, anche se lui non se ne fa un vanto, se l’era guadagnata nel corso dei suoi mandati.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - prestigio, stima, considerazione, esperienza, o quale altra - mettereste per prima accanto al termine “autorevolezza”?...

Scrivetela...

     Ma torniamo alla biografia di Michel de Montaigne con la consapevolezza che esiste, come ben sappiamo, una relazione tra il testo dei Saggi e la biografia dell’autore: dopo gli studi preparatori Michel s’iscrive all’Università. Dal 1548 al 1554 Michel de Montaigne studia Legge senza però frequentare l’Università di Bordeaux che, all’epoca, era considerata mediocre e, quindi, preferisce, per i suoi studi di giurisprudenza, iscriversi a quella di Tolosa che era considerata la migliore in Francia insieme con quella di Parigi.

     La disciplina è durissima, sono previste nove ore di studio quotidiano, e, strano a dirsi, dei suoi maestri di diritto Montaigne non fa alcun cenno nei Saggi: ricorda invece, esaltandone la figura di umanista, di filologo e di filosofo, Adrien Turnèbe [noto anche come Adrianus Turnebus, nato in Normandia, a Les Andelys nel 1512], docente di Letteratura [di belle lettere] prima a Tolosa e poi a Parigi, dove muore nel giugno 1565.

     Adrien Turnèbe è noto soprattutto perché ha curato mirabili edizioni dei Classici greci e latini e ha condizionato positivamente la formazione intellettuale dei suoi studenti e, difatti, da Tolosa, Montaigne si sposta a Parigi proprio per continuare a seguire le Lezioni di Turnèbe in modo da poter perfezionare non solo la cultura giuridica ma anche quella umanistica, e sono proprio gli studi umanistici [scrive Montaigne] che contribuiscono ad alimentare il suo spirito critico, a formare il suo carattere un po’ ribelle che non tollera le affermazioni dogmatiche ma preferisce la riflessione e la formulazione di tutte le ipotesi che il pensiero è capace di produrre. L’opera più importante di Adrien Turnèbe pubblicata nel 1564 s’intitola Adversaria [termine latino, neutro plurale, che significa “appunti” e anche “quaderno degli appunti”], una raccolta di preziose osservazioni, e di commento, su molti brani tratti dalle opere di autori soprattutto greci. Ed è da Turnèbe che il giovane Michel de Montaigne impara a tenere un [adversaria] quaderno su cui appunta le frasi secondo lui più significative che scopre leggendo le opere dei Classici, e questa buona abitudine, acquisita con le Lezioni parigine di Turnèbe, continua poi nei testi dei Saggi che sono infarciti di citazioni sulle quali Montaigne compie le sue riflessioni e poi le scrive.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Voi tenete un quaderno [un adversaria] su cui prendete appunti, su cui raccogliete frasi significative?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

     Il magister Adrien Turnèbe propone ai suoi studenti, oltre ai Classici greci e latini, anche opere più recenti [del 1300, del 1400, frutti della stagione dell’Umanesimo come la Divina Commedia di Dante Alighieri, il Canzoniere di Francesco Petrarca e il Decamerone di Giovanni Boccaccio] e tiene dei corsi in proposito traducendo i testi e spiegandone i significati, e poi, in particolare, fa puntare l’attenzione dei suoi allievi [e non è un’impresa facile a causa dei divieti imposti dalle autorità ecclesiastiche] sul testo di un’opera contemporanea della quale Montaigne ha potuto apprezzare il valore nonostante la condanna del Sant’Uffizio attraverso l’insegnamento di Adrien Turnèbe: stiamo parlando di un’opera molto famosa ma poco conosciuta capace di far esercitare chi la legge nell’investire in intelligenza [quest’opera l’abbiamo già citata la scorsa settimana nel corso della celebrazione del tradizionale rituale della partenza dicendo che ne avremmo parlato questa sera].

     Michel de Montaigne, nel capitolo X del Libro II dei Saggi, intitolato Dei libri, scrive di aver conosciuto e letto, per merito dell’illustre umanista Adrien Turnèbe - suo insegnate di belle lettere a Parigi - un’opera di recente pubblicazione che ha contribuito alla formazione del suo spirito critico e del suo carattere ribelle, si tratta di Gargantua e Pantagruel composta da François Rabelais. Montaigne consiglia alle sue lettrici e ai suoi lettori di leggere quest’opera e noi, di conseguenza [per capire la ragione per cui un umanista di tendenza antichista come Adrien Turnèbe s’impegna a divulgare quest’opera moderna], ci dobbiamo fare due domande alle quali - in funzione della didattica della lettura e della scrittura - dobbiamo rispondere: chi è François Rabelais [visto che quando s’incontra Montaigne non si può prescindere dall’incontro con Rabelais] e poi quali sono le caratteristiche dell’opera intitolata Gargantua e Pantagruel [e perché dovremmo (al condizionale) leggerla]?

     François Rabelais è figlio di Antoine Rabelais, un facoltoso avvocato, ed è nato probabilmente [manca un documento che comprovi esattamente questa data] nel 1494 [forse il 4 febbraio] a La Devinière, una località non lontano da Chinon, nella regione dell’Angiò, e c’è ancora il castello dove è nato, ed è in questa zona della Francia [l’Angiò, la Turenna] che Rabelais ambienta l’azione del suo romanzo intitolato Gargantua e Pantagruel.

     François, fin da bambino, viene destinato dalla famiglia alla carriera ecclesiastica [intorno al 1510 è novizio in un convento francescano vicino ad Angers dove riceve un’ampia formazione teologica] anche se lui non ha alcuna vocazione religiosa, e nel 1520 viene tuttavia ordinato sacerdote in quanto frate francescano nel convento di Puy-Saint-Martin [un piccolo comune nella ragione dell’Alvernia-Rodano-Alpi che ha Lione come capoluogo] dove ha la possibilità di studiare i classici greci e latini [François la vocazione la nutre per lo studio e nel convento di Puy-Saint-Martin c’è una buona Scuola e un’ampia biblioteca] e da lì può anche tenere corrispondenza con Erasmo da Rotterdam di cui ha letto con grande interesse le opere.

     Nel 1528 François Rabelais abbandona la vita conventuale e si trasferisce a Parigi come prete secolare e comincia a studiare medicina all’Università della Sorbona [oltre che per l’anima divina comincia a nutrire un forte interesse per il corpo umano]. Inizia quindi una vita di vagabondaggi nel sud della Francia e si laurea dottore in medicina a Montpellier nel 1537 ed esercita la professione a Lione dove comincia anche a pubblicare ciò che scrive [dal 1532] entrando subito in contrasto con l’autorità ecclesiastica. Dal 1539 al 1542 Rabelais vive a Torino al seguito del governatore francese del Piemonte e, alla sua morte, si trasferisce a Parigi dove ottiene, come parroco, i benefici di due parrocchie. Dal 1547 al 1549 François Rabelais trascorre un lungo soggiorno a Roma insieme all’arcivescovo di Parigi, il cardinale Du Bellay, che è suo amico e protettore. François Rabelais muore a Parigi il 9 aprile 1553.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate un’escursione nella geografia rabelaisiana visitando, in particolare, la bella cittadina medioevale di Chinon, sulle rive della Vienne, posta ai piedi di un’altura dalla quale domina il vastissimo castello, buon viaggio…  

     L’attività letteraria di Rabelais comprende la composizione del monumentale Gargantua e Pantagruel: un’opera di vasta portata che lo ha tenuto occupato per gran parte della sua vita [per più di un ventennio]. Non è stata un’impresa facile far pubblicare quest’opera perché, appena appare, viene immediatamente condannata dall’autorità ecclesiastica [siamo in tempo di Controriforma] ma viene biasimata anche dalle autorità accademiche, viene fortemente disapprovata dalle istituzioni universitarie [perché?].

     Gargantua e Pantagruel di François Rabelais è un’opera che prende forma e viene pubblicata a più riprese nel corso di un ventennio, dal 1532 al 1552. Gargantua e Pantagruel è un romanzo di vaste proporzioni dove, attraverso le fantastiche imprese dei personaggi principali [Gargantua, Pantagruel, Panurge, Frate Gianni], l’autore mette alla berlina molti aspetti della società del suo tempo, e i suoi bersagli preferiti sono la Chiesa e l’Università, due istituzioni, scrive Rabelais, accomunate da una concezione dogmatica del sapere, due apparati troppo tolleranti nei confronti della sopraffazione attuata dal potere sui più deboli con la violenza. Ma la caratteristica principale dell’opera riguarda “lo stile ad ampio spettro” della scrittura di Rabelais: nel testo del romanzo trovano spazio le citazioni colte e le discussioni dotte ma, soprattutto, vengono presentati, con grande disinvoltura, gli aspetti più comuni della vita che non hanno mai goduto di un’ampia presenza in Letteratura perché considerati volgari e scurrili [nella Letteratura latina, per esempio, solo gli Epigrammi di Marziale sono degni di nota in questo senso].

     Come gran parte dei pensatori del suo tempo, Rabelais è interessato allo studio delle Leggi della Natura [è convinto, secondo il pensiero di Bernardino Telesio (ve lo ricordate?), che la Natura funzioni «iuxta propria principia, attraverso Leggi che le sono proprie»] e ritiene importante [da medico] osservare il mondo degli istinti e le varie manifestazioni della vita materiale [«La vita è ciò che è, non ciò che sembra», scrive Rabelais]: nel Gargantua e Pantagruel, infatti, viene data molta importanza alla soddisfazione dei bisogni primari, come mangiare, defecare e avere rapporti sessuali [“... e se l’essere umano vuole elevarsi deve fare i conti con la propria vita materiale - afferma Rabelais - e liberarsi dai tabù, dalle interdizioni sacrali”]. Con Rabelais - che prende spunto da due poemi nei quali ci sono due giganti come protagonisti: Morgante [che è anche il titolo dell’opera] di Luigi Pulci e Fracasso che è uno dei personaggi de Il Baldo di Teofilo Folengo -, la Letteratura tocca aspetti che sono stati definiti “carnevaleschi” e il Gargantua e Pantagruel è un susseguirsi di racconti incalzanti come se la scrittura procedesse al ritmo di una festa popolare, e tutti gli episodi e le figure, tutte le scene di battaglia, le risse, le botte, gli scherzi [sono troppi gli episodi per essere riassunti] sono trattati da Rabelais con lo spirito proprio dei festeggiamenti: questo perché c’è un motivo che l’autore vuole mettere in evidenza [un motivo che ne fa anche un trattato di Filosofia] per cui l’abbassamento e la distruzione [sempre presenti nella narrazione di Rabelais] sono due azioni strettamente legate alla risurrezione e al rinnovamento, in quanto, la morte di ciò che è vecchio è effettivamente legata alla nascita di ciò che è nuovo, e tutte le immagini che lo scrittore crea portano all’idea che il mondo muore e rinasce incessantemente; quindi, tutto il romanzo, dall’inizio alla fine, è pervaso da un’atmosfera che recupera la tradizione orfico-dionisiaca [che è stata soffocata - allude Rabelais - dall’avvento del cristianesimo che ha soffocato molte pulsioni gioiose] e questo atteggiamento procura all’opera la condanna delle autorità ecclesiastiche.

     Ma nonostante le numerose condanne da parte dell’Inquisizione, la fortuna di Gargantua e Pantagruel è stata immediata: il successo è dovuto al contenuto di carattere inconsueto e provocatorio e alla forma data da uno stile innovativo di scrittura costituito da un particolare impasto di espressioni gergali, di termini osceni, di parole dotte, di latinismi, di neologismi che danno vita a un linguaggio brioso di carattere sperimentale che ha riscosso l’attenzione degli intellettuali più capaci di riflettere [come Adrien Turnèbe] e ha trovato sempre imitatori nel corso dei secoli, e anche Montaigne trae ispirazione dalla lettura dell’opera di Rabelais, e lo scrive.

     Il romanzo Gargantua e Pantagruel è un’opera alla quale ci si deve avvicinare con circospezione: la si trova in biblioteca pubblicata in diverse edizioni [non è escluso che possa già essere nella vostra biblioteca domestica]. Ebbene, che fare, per prima cosa, quando si ha in mano il volume [o i volumi] che contengono il testo di quest’opera? Si possono sfogliare le pagine in modo da constatare che è un’opera formata da quattro Libri, e ogni Libro è sistematicamente diviso in capitoli [58 il primo, 34 il secondo, 52 il terzo e 67 il quarto], e ogni capitolo [in totale i capitoli sono 211] è, in media, composto da quattro pagine ed è provvisto di un titolo di carattere esplicativo [d’impronta didascalica, direbbe Bertolt Brecht].

     François Rabelais, per quanto riguarda la didattica della lettura e della scrittura, segue le indicazioni della facoltà delle Arti di Parigi, dettate dallo Statuto del 1247: «Se vuoi leggere molto [legere multa, in quantità] procedi con il metodo del “legere multum” [badando alla qualità], leggi quattro pagine al giorno [dieci minuti al giorno] perché per leggere molto bisogna leggere poco per volta ma costantemente e mantenendo la massima attenzione». Rabelais, dal punto di vista didattico, dà al suo romanzo la forma più adatta perché la persona possa esercitarsi nell’esercizio della lettura. Inoltre, per prepararsi alla lettura di Gargantua e Pantagruel, in modo da entrare in relazione con il linguaggio dell’autore e con la gran mole dei contenuti narrativi proposti [per sapere che cosa racconta Rabelais nel suo romanzo], si consiglia di leggere, a scopo propedeutico, i titoli dei duecentoundici capitoli che si trovano raggruppati nelle pagine [una decina] dell’indice, un indice che si presenta come se fosse un vero e proprio catalogo riassuntivo dell’opera.

     Adesso leggiamo una pagina del romanzo [Montaigne dice di essersi molto divertito e di essere stato sollecitato a riflettere] nella quale Rabelais riporta e descrive le azioni, piuttosto provocatorie [certe improbabili], che compie Gargantua da bambino.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Domani rileggete con calma questo brano, tratto dal capitolo XI del Libro I del Gargantua e Pantagruel, e scegliete due azioni di Gargantua, e scrivetele

     E ora leggiamo.

LEGERE MULTUM….

François Rabelais,  Gargantua e Pantagruel   Libro I , capitolo XI

Dai tre ai cinque anni Gargantua fu allevato ed educato secondo il volere del padre in ogni disciplina conveniente; e passò quel tempo come tutti i bambini del paese; bevendo mangiando e dormendo; mangiando dormendo e bevendo; dormendo bevendo e mangiando. Sempre s’avvoltolava nel fango, s’incarbonava il naso, s’imbrattava la faccia, scalcagnava le scarpe, sbadigliava spesso alle mosche e inseguiva volentieri i farfalloni soggetti alla giurisdizione dell’impero paterno. Si pisciava sulle scarpe, smerdava la camicia, si soffiava il naso nelle maniche, moccicava nella zuppa, sguazzava dappertutto, beveva nelle pantofole e si grattava di solito la pancia con un paniere. Aguzzava i denti con uno zoccolo, lavava le mani nella minestra, si pettinava con un bicchiere, sedeva tra due selle col culo a terra, si copriva con un sacco bagnato, beveva mangiando il brodetto, mangiava la focaccia senza pane, mordeva ridendo, rideva mordendo, sputava nel piatto, peteggiava grasso, pisciava contro il sole, si tuffava nell’acqua per ripararsi dalla pioggia, batteva il ferro quand’era freddo, fantasticava chimere, faceva lo smorfioso, faceva i gattini, diceva il pater noster della bertuccia, ritornava a bomba, faceva l’indiano, batteva il cane davanti al leone, metteva il carro davanti ai buoi, si grattava dove non gli prudeva, faceva cantare i merli, troppo abbracciava e nulla stringeva, mangiava il pan bianco per primo, metteva i ferri alle cicale, si faceva il solletico per scoppiar dal ridere, si slanciava con ardore in cucina, la faceva in barba agli dèi, faceva cantar magnificat a mattutino e gli andava a fagiolo. Mangiava cavoli e cacava tenero, discerneva le mosche nel latte, faceva perder le staffe alle mosche, raschiava la carta, scarabocchiava la pergamena, se la dava a gambe, tirava all’otre, faceva i conti senza l’oste, faceva il battitore senza prender gli uccelletti, prendeva le nuvole per padelle di bronzo e le lucciole per lanterne, pigliava due piccioni e una fava, faceva l’asino per aver crusca, del pugno faceva mazzuolo, voleva mettere il sale sulla coda alle gru per prenderle, sfondava porte aperte, a caval donato guardava sempre in bocca, saltava di palo in frasca, tra due verdi metteva una matura, colla terra faceva il fosso, faceva guardia alla luna contro i lupi, sperava, calando le nubi, prendere le allodole cascate dal cielo, faceva di necessità virtù, quale il pane, tale faceva la zuppa, faceva distinzione tra rasi e tonduti, ogni mattina vomitava l’anima. I cagnolini del padre mangiavano nella sua scodella, ed egli mangiava con loro. Egli mordeva loro le orecchie, essi gli graffiavano il naso; egli soffiava loro nel culo, essi gli leccavan le labbra. E volete sentirne una, ragazzi? Che il mal di botte v’inghiotta! Questo piccolo porcaccione palpeggiava sempre le sue governanti sopra e sotto davanti e di dietro e arri somari!

     L’umanista e filologo Adrien Turnèbe - nelle sue Lezioni parigine nel corso delle quali legge e commenta anche il testo di Gargantua e Pantagruel per i suoi allievi, tra i quali, come sappiamo, c’è Michel de Montaigne - dichiara che il contenuto di una pagina come questa che abbiamo letto [e se ne contano a decine nel romanzo di Rabelais di pagine ingegnose come questa] non va interpretato solo come un giocoso esperimento linguistico per dare spazio alla comicità e al divertimento che la lettura può procurare ma Rabelais, osserva Turnèbe, vuole sollecitare [e questo è il suo intento di letterato e di filosofo] un esercizio di carattere riflessivo per quanto riguarda il rapporto tra l’essere e l’esistere, e tra l’essere e l’apparire [tema a tutt’oggi di grande attualità].

     Nel capitolo VIII del Libro II del Gargantua e Pantagruel, che contiene la celebre Lettera sull’educazione che Gargantua scrive al figlio Pantagruel [e che abbiamo già citato la scorsa settimana occupandoci del tema de “la testa ben fatta”], Rabelais afferma che «la vita è ciò che è, non ciò che sembra ma proprio per questo bisogna saper distinguere tra la pelle e la camicia» e Gargantua, proprio perché, da bambino, cresce in un contesto prettamente materiale, quando è adulto, nel momento in cui scrive al figlio Pantagruel invitandolo a impegnarsi nello studio, ritiene necessario spronarlo perché impari a distinguere tra la pelle e la camicia [che significato ha questa metafora?]. Anche Michel de Montaigne - sollecitato dalla lettura di Gargantua e Pantagruel - nei Saggi riflette su questo argomento e dobbiamo seguire la sua riflessione.

     Come abbiamo ricordato poco fa, Montaigne è stato sindaco di Bordeaux, quindi, fino a un certo punto della sua vita, è stato una persona impegnata nella vita pubblica e, per questo motivo, ha sempre fatto molta attenzione al modo in cui doveva farsi coinvolgere, vale a dire, è sempre stato molto attento a quale fosse il rapporto tra la sua vita pubblica e la sua vita privata e, di conseguenza, Montaigne afferma di essersi sempre tenuto “sotto osservazione” [«Dobbiamo sempre fare attenzione - scrive Montaigne - e guardarsi agire come su una ribalta»].

     Nel Libro III dei Saggi, nel capitolo X intitolato Del governare la propria volontà, composto dopo la sua esperienza di sindaco di Bordeaux, Montaigne scrive: «La maggior parte delle nostre occupazioni sono una farsa, sono da commedia. Mundus universus exercet histrionam [“Tutto il mondo è teatro” (Il mondo intero recita la commedia), e questa citazione è un frammento tratto dal Satyricon di Petronio]. Tutti dobbiamo recitare il nostro ruolo, ma come se fosse la parte di un personaggio preso in prestito. Non dobbiamo trasformare la maschera e le apparenze in un’essenza reale, né quel che ci è estraneo in qualcosa che ci appartiene. Noi non sappiamo distinguere la pelle dalla camicia e, di conseguenza, dobbiamo imparare a farlo. Già ci incipriamo il volto, evitiamo almeno di incipriarci il cuore».

     Montaigne, usando la stessa espressione di Rabelais, riprende un tema esistenziale che risale al tempo della tragedia greca: quello dell’identità tra la vita e il teatro, per cui ogni persona è destinata a recitare su questo grande palcoscenico che è il mondo con più maschere e, sapendolo, dovrebbe essere in grado di non identificarsi con i personaggi che sta interpretando, perché la persona, afferma Montaigne, deve evitare di confondere le proprie azioni con il proprio essere, deve mantenere un margine di distanza fra la propria interiorità e le proprie occupazioni [Montaigne sta dicendo che non è importante essere coerenti?]. Montaigne puntualizza - nei confronti della lettrice e del lettore - di essere consapevole che la sua riflessione potrebbe essere tacciata di ipocrisia e, a questo proposito, ricorda anche che, quando era giovane, sognava che tutti i rapporti umani avrebbero dovuto essere basati sulla sincerità e sull’autenticità, pensava che sarebbe stato necessario vivere in un mondo in cui vi fosse una perfetta equivalenza e una assoluta trasparenza fra l’essere e l’apparire, pensava che “la nostra camicia avrebbe dovuto essere della stessa sostanza della nostra pelle” ma poi, con lo studio e l’esperienza, ha capito che la pelle e la camicia [due elementi utilizzati in senso allegorico] sono oggetti diversi per natura e ambedue indispensabili: quindi, perché omologarli quando sarebbe più utile avere una pelle moralmente ben curata e una camicia eticamente ben lavata e ben stirata?

     Se Montaigne lo avesse potuto conoscere [se Montaigne non fosse morto prima] avrebbe apprezzato quell’eroe shakespeariano che si chiama Amleto [lo abbiamo anche incontrato nel corso del viaggio delle scorso anno], il celebre principe di Danimarca che non ama i compromessi e le maniere della Corte, al quale nel dramma omonimo il drammaturgo fa esclamare, rivolto a sua madre, la Regina: «Io non conosco il sembra »[io sono coerente con quello che sono, il mio essere s’identifica con il mio apparire]. Ma Montaigne avrebbe apprezzato ancor di più il personaggio quando l’autore gli fa anche dire: «È meglio che i potenti non si prendano troppo sul serio, che non aderiscano interamente alla propria funzione, che sappiano conservare un certo senso dell’umorismo o dell’ironia». Il sovrano [pensa Shakespeare, ma prima di lui Montaigne, e prima di Montaigne Rabelais] non deve confondere la sua persona con la sua carica, ma non deve neanche dubitare più di tanto del proprio ruolo per non mettere a rischio la sua credibilità e la sua autorevolezza. Montaigne critica le persone che, dopo avere raggiunto il potere o il successo o la ricchezza, si montano la testa e, sempre nel Libro III dei Saggi, nel capitolo X intitolato “Del governare la propria volontà”, scrive: «Vedo persone che mutano la loro forma e la loro sostanza in tante nuove figure e tanti nuovi esseri quante sono le cariche di cui si trovano investiti, e che diventano prelateschi fin nel fegato e nelle viscere, e si portano appresso la loro dignità persino seduti nella latrina. Non sta a me insegnar loro a distinguere le scappellate che la gente rivolge alla loro persona da quelle che rivolge al loro titolo, al loro seguito o alla loro mula. Tantum se fortunae permittunt, edam ut naturam dediscant [“Si affidano a tal punto alla loro fortuna da dimenticare la propria natura”, e questa citazione è un frammento tratto dal De rebus gestis Alexandri Magni di Curzio Rufo]. Essi gonfiano e ingrossano la loro anima e il loro naturale modo di discorrere secondo l’altezza del loro scranno di magistrato. Il sindaco e Montaigne sono sempre state due persone distinte, nettamente separate». Montaigne dichiara che, da sindaco, non ha mai “giocato a fare la persona importante” [joué à l’Important] ma, tuttavia, ha esercitato con fermezza tutte le prerogative della sua carica e, nonostante lui dica di aver tenuto le distanze, si è sempre lasciato coinvolgere positivamente nel suo ruolo e, quindi, quando consiglia che è bene tener separati l’essere e l’apparire, le sue parole non vanno intese come un elogio dell’ipocrisia, bensì come un’esigenza di lucidità, di capacità di presa di coscienza riguardo all’inevitabile fatto che la persona è destinata, afferma Montaigne, a recitare la propria parte sul palcoscenico del mondo ma lo deve fare, possibilmente, con la pelle curata e con la camicia ben lavata e ben stirata [facendo il proprio dovere].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale occasione vi siete sentite e sentiti “una persona importante” perché avete fatto il vostro dovere?...   

Scrivete quattro righe in proposito...

     E ora torniamo da dove siamo partite e partiti nel percorrere l’itinerario di questa sera perché la riflessione di Montaigne sul tema della necessità di “imparare a distinguere tra la pelle e la camicia” lo porta a ragionare e a scrivere inevitabilmente su un argomento fondamentale su cui si continua a discutere: la questione della morale pubblica, dove il concetto di “fedeltà alla parola data” è fondamentale. Scorrendo la prima parte della sua biografia di giovane studente, abbiamo detto che Michel de Montaigne legge con grande interesse le opere di Cicerone ed è abbeverandosi a questa fonte che assume una determinata mentalità.

     Le riflessioni sul tema che riguarda la questione della morale pubblica sono influenzate, nel testo dei Saggi, dal pensiero contenuto nelle opere di Cicerone, in particolare dal De officiis [“I doveri”, un’opera che abbiamo incontrato più volte in questi anni]. Cicerone scrive il De officiis nel 44 a.C. [un anno critico, l’anno della morte violenta di Giulio Cesare e dell’inizio della fine delle istituzioni repubblicane] ed è il suo ultimo trattato filosofico perché Cicerone muore l’anno dopo, nel 43 a.C. a Formia, in circostanze drammatiche,  ucciso nel corso della guerra civile [e anche Montaigne, che legge e studia Cicerone, vive in anni di sanguinose guerre civili]. Il De officiis è un’opera esemplare e di attualità che Cicerone dedica al figlio Marco che studia ad Atene [e il giovane Montaigne legge quest’opera come se Cicerone parlasse a lui].

     Cicerone riflette partendo dalla considerazione che ogni domanda sul dovere riguarda il tema della realizzazione del bene comune, quindi, Cicerone, con la sua mentalità eclettica, discute di ciò che è morale e di ciò che è utile, e del perché la morale e l’utilità debbano sempre combaciare, e dichiara di attenersi in primo luogo al pensiero degli stoici, in particolare di Panezio di Rodi. A proposito del rapporto tra il dovere e l’utile, Cicerone scrive: «Caro Marco se tu vorrai dedicarti alla politica per difendere i tuoi interessi, in nome dell’utile tuo, a un certo punto tu penserai di non aver più alcun dovere da rispettare e crederai di poter violare ogni legge. Se così farai sarai complice della distruzione della politica e del buon governo dello Stato».

     Da questo trattato Montaigne impara che il dovere individuale [officium, la pelle] si deve sempre armonizzare, scrive Cicerone, con i doveri sociali [officia, la camicia]: facendo questo si realizza la vera “humanitas” [uno dei concetti-cardine della Storia del Pensiero Umano]. E i doveri che prescrive la nostra Costituzione sono già, in gran parte, elencati [Cicerone ne fa l’elenco e ne commenta la ricaduta positiva] in questo trattato, e Montaigne nei Saggi fa tesoro di questa tradizione.

     Poi Montaigne è favorevolmente influenzato dal trattato del 52 a.C. intitolato Le Leggi [De legibus] nel quale Cicerone afferma che la persona “compiuta” [ricca in humanitas, che è la capacità di scegliere idee belle buone e giuste per costruire una società solidale] è quella che ha capito ciò che giova alla città, e ciò che giova alla città è, insieme, l’utile e il bene, che per Cicerone sono una stessa cosa e scrive: «Nihil utile nisi quod honestum »[non c’è nulla di utile che non sia onesto]. La “honestas” ciceroniana è la proiezione politica del concetto di “humanitas”: non c’è umanità senza onestà, e Montaigne sviluppa nei Saggi questa idea.

     I due elementi che [secondo Cicerone, e secondo Montaigne] rendono le cittadine e i cittadini tutti uguali e sovrani sono l’onestà e la razionalità. Nel capitolo I del Libro III dei Saggi, intitolato Dell’utile e dell’onesto, dopo la logorante esperienza di sindaco di Bordeaux in tempi di guerra e di peste, Montaigne affronta la questione della morale pubblica, una questione che riguarda il fine e i mezzi della ragion di Stato. In Francia [con Caterina de’ Medici, figlia di Lorenzo II, vedova di Enrico II, madre degli ultimi tre sovrani della casa di Valois, e principale responsabile della strage di San Bartolomeo] in questo momento è in voga “il realismo politico” che ha interpretato nel peggiore dei modi le idee contenute ne Il Principe di Niccolò Machiavelli, pubblicato nel 1517. Il realismo  politico autorizza a mentire, a non tener fede alla parola data, a uccidere, e tutto questo in nome dell’interesse dello Stato, affinché sia garantita la sua stabilità, concepita come bene supremo.

     Montaigne [che si domanda come possano questi metodi criminali garantire allo Stato il bene supremo della stabilità] respinge questa ideologia, rifiuta sistematicamente l’inganno e l’ipocrisia e si presenta sempre così com’è, e dice quello che pensa, in barba alle convenienze. Alla “strada coperta” [all’agire sotto copertura, così la chiama Montaigne] preferisce “la strada aperta”, la franchezza, la lealtà. Per Montaigne il fine non giustifica i mezzi e non è mai disposto a sacrificare la morale individuale alla ragion di Stato, da sindaco si è sempre comportato così, in modo franco, e il suo comportamento è risultato efficace. Scrive Montaigne nel capitolo I del Libro III dei Saggi: «Ma come si fa a non capire che tanto più è onesta la condotta di una persona e tanto più è utile a se stessa e agli altri? Se una persona con un ruolo pubblico mente anche una sola volta, non gli viene dato più credito, ha scelto un espediente poco lungimirante e ha sbagliato i suoi calcoli. La sincerità, la fedeltà alla parola data sono i comportamenti più remunerativi. Se non si è inclini all’onestà per intima convinzione morale, bisognerebbe esservi indotti dalla ragion pratica» Oggi Montaigne dovrebbe amaramente constatare che il comportamento più remunerativo (in particolare sul piano elettorale) è quello di mentire al popolo credulone.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate l’inventario dei doveri che riporta e prescrive il testo della nostra Costituzione: è un argomento che bisogna ripassare ogni tanto...

     Concludiamo leggendo un frammento dal capitolo I del Libro III dei Saggi, intitolato Dell’utile e dell’onesto dove Montaigne non rinuncia a riflettere.

LEGERE MULTUM….

Michel de Montaigne, Saggi   LIBRO III

CAPITOLO I

Dell’utile e dell’onesto

Quando ho fatto da mediatore politico tra fazioni contrapposte ho sempre accuratamente evitato che i membri delle parti in causa si sbagliassero sul mio conto e che fossero tratti in inganno dalle mie parvenze esteriori, e preferivo venir meno allo scopo della mia missione anziché a me stesso. I mestieranti, quando trattano, rimangono quanto più possono coperti, si fingono e si presentano come le persone più moderate e concilianti che vi siano. Io, invece, mi espongo apertamente con le mie opinioni e mostro il contegno che più mi appartiene. Penso di avere modi aperti, che mi permettono di entrare facilmente in relazione e di ispirare fiducia sin dai primi contatti. La schiettezza e la pura verità saranno sempre, in qualsiasi epoca, apprezzate e considerate doti opportune.

     Tra quindici giorni con la consapevolezza che esiste [come ben sappiamo] una relazione tra il testo dei Saggi e la biografia dell’autore continueremo il nostro viaggio. Nel 1557 Michel de Montaigne [all’età di 24 anni, a seguito degli studi universitari] entra in magistratura e, dopo un breve tirocinio, viene assunto come consigliere al parlamento di Bordeaux dove fa un incontro importante: chi incontra?

     Per rispondere a questa e ad altre domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli che non dobbiamo mai perdere la volontà d’imparare: la Scuola è qui.

     Il viaggio è iniziato e tra quindici giorni [dopo aver onorato i Santi e commemorato i Defunti, come da calendario, e con il ritorno all’ora solare] il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 26, 2018