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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È, NEL TESTO DELLA PRIMA LETTERA AI CORINTI, LA PAROLA METAMORPHOSIS ...

Lezione N.: 
5

Prof. Giuseppe Nibbi     Lo sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale]     3-4-5 novembre 2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È, NEL TESTO DELLA PRIMA LETTERA AI CORINTI, LA PAROLA METAMORPHOSIS ...

     Nell’itinerario della scorsa settimana – durante il nostro viaggio sulla scia della "sapienza poetica ellenistica" di stampo evangelico – abbiamo riflettuto su tre delle quattro parole fondamentali che spiccano nel testo della Prima Lettera ai Corinti. Ci stiamo rendendo conto che il testo della Prima Lettera ai Corinti è un paesaggio intellettuale molto ricco di vedute: questa Lettera è un’opera che contiene (come abbiamo potuto constatare) un catalogo di idee significative che hanno condizionato e condizionano la nostra cultura e la nostra vita quotidiana.

     Nell’itinerario scorso abbiamo riflettuto su tre delle quattro parole fondamentali che spiccano nel testo della Prima Lettera ai Corinti: la parola "kerigma (il nòcciolo del messaggio di salvezza)", la parola "exousia (la manifestazione della Potenza e della Sapienza di Dio)" e la parola "eucaristia (il rendimento di grazie veramente gratuito)"; questa sera, strada facendo, incontreremo anche la quarta parola significativa che risalta nel testo di questa Lettera.

     Queste parole-chiave che abbiamo messo in evidenza – "kerigma", "exousia", "eucaristia" – hanno sempre avuto un grande peso nella storia della cultura e, inoltre, soprattutto nei testi dei "romanzi" di età moderna e contemporanea, come abbiamo sempre detto in queste settimane, si assiste anche alla laicizzazione dei concetti contenuti in queste parole-chiave tanto da suscitare l’indignazione dell’autorità ecclesiastica e l’intervento censorio dell’autorità giudiziaria: che significato ha questo discorso? Ci troviamo di fronte ad un tema assai delicato che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo affrontare su questo sentiero e di fronte a questo significativo paesaggio intellettuale all’interno del quale stiamo osservando il testo della Prima Lettera ai Corinti.

     Le scrittrici e gli scrittori – soprattutto dalla seconda metà dell’800 – utilizzano le parole-chiave della Letteratura dei Vangeli (abbiamo fatto una certa esperienza in proposito insieme a Tolstòj, a Dostoevskij e ad altri scrittori) per smascherare il bigottismo e l’ipocrisia che, spesso, le gerarchie ecclesiastiche, invece di combattere, fomentano riducendo il Cristianesimo, con tutto il suo patrimonio di valori culturali antagonisti, ad un "cumulo di luoghi comuni e di comportamenti meschini a vantaggio di regimi autoritari" come ha scritto Anatole France con il quale abbiamo iniziato questo viaggio all’inizio di ottobre.

     Naturalmente le scrittrici e gli scrittori che adoperano le parole-chiave e i concetti-cardine di stampo evangelico lo fanno in modo provocatorio – anche perché di per sé, questi concetti, hanno questa valenza – e questo fa sì che queste scrittrici e questi scrittori siano facilmente accusati di blasfemia e le loro opere vengano portate in tribunale e sottoposte a censura.

     C’è, in proposito, un caso emblematico e riguarda una signora che si chiama Emma e, della quale, molte e molti di voi hanno certamente letto la storia (una storia che periodicamente va riletta) contenuta in un celebre romanzo intitolato La signora [Madame] Bovary. Costumi di provincia, questo romanzo è stato scritto nel 1856 da Gustave Flaubert (1821-1880).

     Che cosa dire di questo testo sul quale, per commentarlo, sono stati utilizzati fiumi d’incontro? Noi – come sappiamo – questa sera incontriamo questo testo per fare un interessante esercizio filologico.

     Gustave Flaubert ha preso spunto per scrivere Madame Bovary da un fatto di cronaca ma poi, naturalmente, ci ha messo del suo nel raccontare questa storia tragica, una storia tipica nella quale emerge tutta l’ipocrisia dell’ambiente provinciale francese. Il testo di Madame Bovary ha scandalizzato i "benpensanti", sono fioccate le denunce, ed è stato sottoposto, con il suo autore, ad un celebre processo, e Gustave Flaubert ha sempre insistito nel dire: «La signora Bovary sono io …» e d’altra parte Emma la condanna se l’era già inflitta da sola. Parafrasando il nome di questo personaggio è stato anche coniato un termine, il "bovarismo", che definisce un sentimento di insoddisfazione che si manifesta nella sfera affettiva.

     Emma Rouault è figlia di contadini, è una bella ragazza ed è stata allevata in convento quindi ha anche acquisito una certa finezza e una certa cultura: sposa un ufficiale sanitario, Charles Bovary, un brav’uomo che l’adora ma che la delude profondamente per la sua sconfortante mediocrità. La coppia vive a Yonville, e la signora Bovary, che ha un suo fascino, viene corteggiata – lei ama essere corteggiata – ed ha una prima relazione con il giovane assistente di un notaio, Léon Dupuis, questo incontro è (potremmo dire con un luogo comune) puramente platonico, ma poi la passione esplode in Emma fino a consumare l’adulterio con un ricco proprietario del vicinato, Rodolphe Boulanger.

     Le pagine che ora leggiamo hanno come protagonisti Emma e Rodolphe e, con questo esercizio, non vogliamo solo leggere un frammento interessante di letteratura amorosa ma vogliamo prendere contatto con uno dei punti che sono stati inquisiti durante il processo e sono stati censurati: difatti questa censura, che oggi non esiste più, continua a sussistere ancora e non solo nelle vecchie edizioni del romanzo. Che cosa è stato censurato – per via giudiziaria – nel testo di Flaubert? Sono state censurate trentanove citazioni provenienti dalla Letteratura dei Vangeli ed utilizzate dallo scrittore in modo provocatorio per rafforzare il racconto e per dare più senso al testo e anche per richiamare allo spirito del Vangelo che invita a coltivare la misericordia: ma la società non è misericordiosa con Emma.

     Nelle pagine che leggiamo ci sono tre provvedimenti di censura (ed è per questo che le leggiamo) che riguardano tre concetti, legati alle tre parole-chiave fondamentali che abbiamo studiato osservando il testo della Prima Lettera ai Corinti: "kerigma", "exousia", "eucaristia". E ora leggiamo queste pagine: non sarà difficile riconoscere i punti che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – c’interessano.

LEGERE MULTUM ….

Gustave Flaubert, La signora Bovary. Costumi di provincia (1856)

Erano i primi giorni d’ottobre. C’era nebbia sulla campagna. Vapori s’allungavano all’orizzonte, contro il contorno delle colline, e altri, lacerandosi, salivano, si disperdevano. Qualche volta, in uno squarcio della bruma, sotto un raggio di sole, si scorgevano di lontano i tetti di Yonville, con i giardini in riva all’acqua, i cortili, i muri e il campanile della chiesa. Emma socchiudeva le palpebre per riconoscere la sua casa, e mai quel povero villaggio dove viveva le era parso così piccolo. Dalle alture dov’erano, l’intera valle sembrava un immenso lago pallido, svaporante nell’aria. Le macchie degli alberi qua e là spiccavano come rocce nere, e le alte linee dei pioppi, che oltrepassavano la nebbia, sembravano spiagge agitate dal vento.

Accanto, sul prato, fra i pini, una scura luce fluiva nell’atmosfera tiepida. La terra, rossastra come tabacco trinciato, smorzava il rumore dei passi, e con i loro ferri i cavalli, camminando, spingevano davanti a sé le pigne cadute.

Rodolphe e Emma seguirono così il ciglio del bosco. Lei di quando in quando si voltava, per evitare lo sguardo di lui e allora non vedeva che i tronchi dei pini allineati, provando a quella sfilata uniforme un lieve senso di stordimento. I cavalli ansavano. Il cuoio delle selle scricchiolava.

Mentre stavano per entrare nel bosco, apparve il sole.

- Dio ci protegge! - disse Rodolphe.

- Credete? - disse lei.

- Andiamo, andiamo! - lui riprese.

Schioccò la lingua. Le due bestie correvano.

Lunghe felci, sul ciglio del sentiero, s’impigliavano nella staffa di Emma. Rodolphe, sempre avanzando, si chinava e via via le districava. Altre volte, per scostare i rami le passava accanto, e Emma sentiva il ginocchio di lui sfiorarle la gamba. Il cielo era diventato azzurro. Le foglie non si muovevano. C’erano grandi spiazzi pieni di eriche in fiore, e strati viola s’alternavano al groviglio degli alberi, di color grigio, o fulvo, o dorato, a seconda della varietà dei fogliami. Spesso si udiva, sotto ai cespugli, frusciare un lieve battito d’ali, o il grido rauco e soave dei corvi, che volavano nel folto delle querce.

Smontarono. Rodolphe attaccò i cavalli. Essa andava avanti, sul muschio, tra i solchi.

Ma la veste troppo lunga le impacciava il passo, benché ne tenesse rialzato lo strascico, e Rodolphe, camminando dietro a lei, contemplava tra quel panno nero e lo stivaletto nero, la delicatezza della calza bianca, che gli sembrava qualcosa della nudità di lei.

Essa si fermò.

- Sono stanca, - disse.

- Su, ancora un poco! - lui ribatté. - Coraggio!

Cento passi più oltre, si fermò di nuovo, e attraverso il velo, che dal cappello da uomo le scendeva obliquo sui fianchi, si scorgeva il suo viso in una trasparenza bluastra come se nuotasse nell’azzurro delle onde.

- Ma dove andiamo?

Lui non rispose nulla. Lei respirava d’un respiro irregolare. Rodolphe gettava gli occhi intorno a sé e si mordeva i baffi.

Arrivarono in un punto più spazioso, dov’erano stati abbattuti dei quercioli. Sedettero su un tronco riverso, e Rodolphe prese a parlarle del suo amore.

Sul principio, non la impaurì con parole galanti. Fu calmo, serio, malinconico.

Emma lo ascoltava a testa bassa, smuovendo dei trucioli con la punta del piede.

Ma, a questa frase: - Non sono forse uniti ora i nostri destini?

- Eh no! - rispose. - Lo sapete bene. È impossibile.

S’alzò per andar via. Egli le afferrò il polso. Lei si fermò. Poi, avendolo osservato per qualche istante con occhio amoroso e umido, rapidamente disse: - Ah, sentite, non ne parliamo più Dove sono i cavalli? Ritorniamo.

Egli ebbe un gesto di collera e di noia. Lei ripeté: - Dove sono i cavalli ? Dove sono i cavalli?

Allora, sorridendo di un sorriso strano, con la pupilla fissa, i denti stretti, lui si fece avanti a braccia tese. Lei tremante, indietreggiò. Balbettava: - Oh! mi fate paura! Mi fate male! Andiamo via.

- Visto che è necessario, - lui riprese mutando volto. E subito ridivenne rispettoso, carezzevole, timido. Lei gli diede il braccio. S’avviarono per tornare.

Lui diceva: - Ma che avete? Perché? Io non ho capito. Certo avete frainteso? Siete nella mia anima come una madonna su un piedistallo, in una sfera alta, salda e immacolata. Ma ho bisogno di voi per vivere! Ho bisogno dei vostri occhi, della vostra voce, del vostro pensiero. Siatemi amica, siatemi sorella, siate il mio angelo!

E allungava il braccio e le cingeva la vita. Lei, mollemente, cercava di liberarsi. Lui la sorreggeva così, camminando.

Ma udirono i due cavalli che brucavano il fogliame.

- Oh! ancora, - disse Rodolphe. - Non andiamo via! Rimanete!

La trascinò più lontano, presso un piccolo stagno, dove lenticchie d’acqua velavano di verde le onde. Ninfee appassite galleggiavano immobili fra i giunchi. Al rumore dei loro passi nell’erba, le ranocchie saltarono a nascondersi.

- Sbaglio, sbaglio, - diceva lei. - Sono pazza a starvi a sentire.

- Perché? Emma!

- Oh! Rodolphe! - fece lentamente la giovane donna chinandosi sulla spalla di lui.

Il panno della sua veste s’incollava al velluto della giacca di lui, essa rovesciò indietro il candido collo che si gonfiava d’un sospiro, e languente, tutta in lagrime, con un lungo fremito e nascondendo il viso, s’abbandonò.

Scendevano le ombre della sera, il sole orizzontale, filtrando fra i rami, le abbagliava gli occhi. Qua e là, tutt’intorno a lei, nelle foglie e a terra, palpitavano chiazze luminose, come se dei colibrì, nel volo, avessero sparso le piume. Il silenzio era ovunque, dagli alberi pareva sprigionarsi una sorta di dolcezza, essa sentiva il proprio cuore, che aveva ripreso i battiti, e il sangue fluirle nella carne come un fiume di latte. Allora, udì molto lontano, al di là del bosco, sulle altre colline, un grido confuso e prolungato, una voce vagabonda, e la ascoltava in silenzio mischiarsi come musica alle ultime vibrazioni dei suoi nervi in tumulto. Rodolphe, col sigaro fra i denti, raggiustava col temperino una briglia rotta.

Tornarono a Yonville, per la stessa strada. Rividero sul fango le orme dei loro cavalli, affiancate, e le medesime siepi, i medesimi ciottoli nell’erba. Nulla intorno a loro era cambiato, e tuttavia per lei, qualcosa era avvenuto di più grande che se si fossero spostate le montagne. Rodolphe, di quando in quando, si chinava e le prendeva la mano per baciarla. Essa era incantevole, a cavallo! Diritta, con la sua persona sottile, il ginocchio ripiegato sulla criniera della bestia e il viso leggermente colorito dall’aria libera, nella luce rossa della sera. Entrando a Yonville, caracollò sul selciato. La guardavano dalle finestre. Suo marito, a cena, le trovò una buona cera, ma lei sembrò non sentire quando s’informò della passeggiata, e stava con il gomito accanto al piatto, fra le due candele accese.

- Emma! - disse lui.

- Cosa?

- Bene, sono passato questo pomeriggio dal signor Alexandre, ha una vecchia cavallina ancora bella, soltanto un po’ spelacchiata ai ginocchi, e che si potrebbe avere, ne son sicuro, per un centinaio di scudi

Aggiunse: - Pensando di farti piacere, ho dato la caparra l’ho comprata Ho fatto bene? Dimmelo. Lei mosse il capo in segno d’assenso, poi, un quarto d’ora dopo:

- Esci stasera ? - domandò.

- Sì. Perché?

- Oh, niente, niente, caro. E non appena si fu liberata di Charles, salì a chiudersi nella sua stanza. Provò dapprima un senso di stordimento, vedeva gli alberi, i sentieri, i fossati, Rodolphe, e sentiva ancora la stretta delle braccia di lui, nel fremito delle foglie e nel sibilo dei giunchi come se questa sensazione fosse l’annuncio [kerigma] di una nuova salvezza. Ma, guardandosi allo specchio, si meravigliò del proprio viso. Mai aveva avuto gli occhi tanto grandi, tanto neri, né così profondi. Un’essenza sottile diffusa sulla sua persona la trasfigurava come se si manifestasse in lei la Potenza e la Sapienza divina [exousia].

Si ripeteva: «Ho un amante! un amante!» godendo a quest’idea, quasi a quella d’una nuova pubertà a cui fosse giunta. Avrebbe dunque avuto finalmente quelle gioie dell’amore, quella febbre della felicità che disperava di provare. Penetrava in una zona meravigliosa dove tutto sarebbe stato passione, estasi, delirio; una immensità azzurrina la circondava, le vette dei sentimenti scintillavano sotto il suo pensiero, l’esistenza consueta non appariva che in lontananza, giù in basso, nell’ombra, tra gli intervalli di quelle altitudini.

Allora ricordò le eroine dei libri che aveva letto, e le legioni liriche di quelle adultere presero a cantare nella sua memoria con voci di sorelle, colmandola d’incanto, e stringeva un nuovo patto con quelle donne straordinarie che erano state capaci di rendere grazie [eucaristia] per il piacere ricevuto proprio nell’atto di tradire. Entrava in comunione con quelle grandi figure e diveniva lei stessa come una parte vera di quelle immaginazioni, e attuava il lungo sogno della sua giovinezza, contemplandosi in quel tipo di donna appassionata che aveva tanto invidiato. D’altronde, Emma sentiva un piacere di vendetta. Non aveva forse abbastanza sofferto? Ma adesso trionfava, e l’amore, così a lungo trattenuto, era la metamorfosi di tutto, e sgorgava spumeggiando gioiosamente. Lei lo assaporava senza rimorsi, senza inquietudine, senza turbamento.

     Non è difficile individuare gli intrecci filologici su cui abbiamo puntato l’attenzione: questo esercizio è facile, però, solo se (sul sentiero dell’alfabetizzazione) si conoscono i termini del processo censorio intentato a Flaubert e a Madame Bovary, e solo se si ha un po’ di dimestichezza con il testo della Prima Lettera ai Corinti, altrimenti, senza comprendere, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, le parole-chiave della Storia del Pensiero e l’uso creativo che le scrittrici e gli scrittori ne hanno fatto, rimaniamo "a giocherellare con le trame che sono – scrive Roland Barthessolo una delle componenti che contribuiscono a formare quello che si chiama il piacere del testo che è dato soprattutto dal riconoscimento delle componenti filologiche e dal disgelarsi dei loro significati".

     Sapete che nelle pagine che abbiamo letto ora da Madame Bovary c’è anche la quarta parola-chiave significativa, la quarta parola-chiave che spicca nel testo della Prima Lettera ai Corinti, sulla quale ora dobbiamo puntare l’attenzione? Non lo potete sapere perché questo argomento non lo abbiamo ancora studiato. Il bello è che questa parola – che è, forse, la più pericolosa (se così si può dire) di tutte – non è stata censurata: l’inquisitore ecclesiastico ha ritenuto questa parola di patrimonio esclusivo della cultura orfico-dionisiaca ma si sbagliava perché anche in questo caso c’è lo zampino di Paolo di Tarso. Ma procediamo con ordine.

     Il quarto elemento importante che risalta nel testo della Prima Lettera ai Corinti corrisponde alla parola-chiave "metamorphosis" e questo termine, come sapete, significa: "trasformazione". Questa parola, per noi che viaggiamo nell’ottica della didattica della lettura e della scrittura, rimanda ad un’opera straordinaria che s’intitola Le Metamorfosi, un’opera che tutte e tutti noi conosciamo così come conosciamo il suo autore che si chiama Publio Ovidio Nasone: uno dei più grandi poeti della "sapienza poetica ellenistica" in lingua latina. Questo contatto ci permette di fare un’incursione in quella parte del territorio dell’Ellenismo che raccoglie la così detta "sapienza poetica di stampo imperiale".

     L’opera Le Metamorfosi di Ovidio, nell’anno 2003, ha compiuto duemila anni – un evento rilevante nella storia della cultura – e la nostra Scuola (molte e molti di voi c’erano e se lo ricordano ma vogliamo anche far partecipi le persone che non erano ancora in cammino in questo Percorso) ha commemorato questo evento con una piccola manifestazione per musica e parole: peccato che siamo stati tra i pochi a commemorarlo questo evento e ne siamo fieri! Chi frequenta la Scuola da qualche anno conosce bene Pubblio Ovidio Nasone perché lo abbiamo incontrato tante volte e, per una cosa o per l’altra, finiamo praticamente per incontrarlo in tutti i nostri Percorsi.

     Ovidio è sempre stato, nel corso dei secoli, considerato un importante genere letterario e Le Metamorfosi sono una delle opere più significative della Storia del Pensiero Umano, un’opera che viene ritenuta il più importante "romanzo" dell’antichità. Le Metamorfosi di Ovidio è una delle opere più autorevoli della "sapienza poetica ellenistica" e il testo di quest’opera contiene una summa delle cultura greca (della cultura orfico-dionisiaca); ha un titolo in greco, ma è scritta in latino da un poeta latino in un momento storico – duemila anni fa – in cui il latino è diventato la lingua ufficiale dell’ecumene, la lingua internazionale per eccellenza, e quest’opera, tuttavia, mette in risalto che della cultura greca – anche se la Grecia è stata sconfitta militarmente e politicamente dai Romani – non se ne può proprio fare a meno.

     Chi è Publio Ovidio Nasone? Forse non tutte e non tutti voi conoscete questo personaggio e anche chi lo conosce, forse, ha bisogno di rinfrescarsi la memoria.

     Publio Ovidio Nasone è nato a Sulmona, in Abruzzo, in provincia de L’Aquila, nel 43 a.C. in una ricca famiglia della classe equestre e, anche per questo motivo, ha studiato ed è vissuto a Roma. Ovidio ha avuto, in vita, uno straordinario successo come scrittore e i suoi poemi in versi sono diventati subito famosi nel mondo della cultura ellenista di stampo imperiale, in particolare ha avuto un grande successo di pubblico un’opera intitolata Ars amatoria [Arte di amare]. Ma, come sapete, di punto in bianco la vita di Ovidio è cambiata drammaticamente: infatti nell’8 d.C. viene esiliato da Augusto – e, il motivo preciso di questo odio dell’imperatore verso di lui non lo conosciamo, si fanno delle ipotesi. Ma noi conosciamo Cesare Ottaviano Augusto, il primo imperatore romano, che è stato uno dei più ambiziosi e famigerati uomini di potere che siano mai esistiti, uno che, con grande abilità, è stato capace di strumentalizzare la figlia (Giulia maggiore) e la nipote (Giulia minore) per consolidare il suo potere, mandandole anche – essendosi loro ribellate – a morire in esilio una a Ventotene e l’altra in Calabria.

     Ovidio – o per gelosia (Augusto non tollera che qualcuno oscuri la sua fama divina) o perché stava partecipando a un complotto contro l’Imperatore – viene spedito in esilio a Tomi: nei pressi dell’odierna città di Costanza in Romania, sul mar Nero, vicino alla sponda orientale del Danubio che faceva da confine tra l’Impero romano e gli sconfinati territori a nord ovest, abitati, in quella zona, dalle tribù dei Geti o Daci.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 

Ma andate a osservare sull’atlante questa zona della Romania [la Dobrugia] delimitata a est dal mar Nero, a ovest dal Danubio, e a nord dal grande delta del Danubio

     Tomi, allora, era il posto più sperduto e più inospitale del mondo e Ovidio non ritornerà mai più a Roma: neppure il successore di Augusto, Tiberio, gli concederà la grazia, e Ovidio morirà lì, intorno al 17 d.C., e non sappiamo nulla di preciso della sua fine.

     Ma, Ovidio, a Tomi, entra in contatto con una cultura per lui sconosciuta, una cultura ricca di valori nuovi, per lui, cittadino romano che considerava l’egoismo, l’affermazione di se stessi, come una virtù dei forti, da perseguire. Ovidio, a Tomi, scopre la cultura delle tribù dei Daci o Geti: una cultura legata alla predicazione del pensiero di Zamolxis, o Zaratustra. Qual è il nòcciolo di questo pensiero? Il pensiero di Zamolxis, o Zaratustra, prescrive che se una persona vuole realizzarsi come essere umano deve schierarsi sempre dalla parte del Bene, dalla parte del debole, del sofferente, del perdente, del bisognoso, e deve sforzarsi, con la volontà, di far del bene al suo prossimo. Ovidio, che aveva sempre considerato e aveva scritto sull’amore come "gioco erotico" – ma non ne era granché soddisfatto, per la verità –, scopre il valore dell’amore solidale, il valore affettivo dell’amore, considerato non come un elemento di debolezza ma come un fattore di maturità umana, di pienezza psicologica, di arricchimento della personalità. È "fare il bene del prossimo" che rende la persona più forte e qualitativamente superiore rispetto a chi si vuole imporre con la violenza e la sopraffazione (non sono forse le idee di Paolo di Tarso?).

     Molte e molti di voi sanno (ma forse non tutti e, quindi, è bene ripetere) che un antichista, uno studioso di storia antica, lo scrittore rumeno Vintila Horia ha ricostruito – basandosi sulle opere scritte in esilio – il "diario di Ovidio a Tomi" in un bellissimo romanzo che s’intitola Dio è nato in esilio, che molte e molti di voi hanno letto e che potete trovare in biblioteca. Vintila Horia dà vita nel suo romanzo – in cui incontriamo molti personaggi – ad una bellissima figura di donna dacia, Dokia, il cui nome è simbolico: in latino Dokia è "colei che insegna", in greco Dokia è "colei che accoglie" e tra l’azione dell’insegnare e quella dell’accogliere c’è un filo conduttore.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale occasione vi siete sentite accolte, vi siete sentiti accolti: scrivete quattro righe in proposito

     Ovidio – nel romanzo – s’innamora di Dokia, che gli fa da colf: s’innamora soprattutto della sua persona, della sua cultura solidale, della sua visione del mondo e della sua percezione del destino: sono queste qualità che rendono Dokia una donna bellissima agli occhi di Ovidio. Ma lui non può neppure dichiararsi perché si accorge, lui che ha scritto L’arte di amare – un’opera con la quale, abbiamo detto, era già diventato famoso nel mondo –, di essere sì abile a "mettere in versi l’erotismo", ma di non essere capace a "parlare d’amore" ad una donna che lo rispetta, non perché è famoso, ma perché è un uomo qualunque, in esilio, e che cerca, con intelligenza, di dare un senso, riflettendo, a quello che gli accade. E poi Dokia è già impegnata sentimentalmente: è la compagna (hanno anche già una figlia piccola) di un ufficiale della guarnigione romana, e allora, leggendo questo romanzo, ci accorgiamo che lì, in quella zona del mondo, sta succedendo qualcosa d’inconsueto e di straordinario.

     Ci viene raccontata da Vintila Horia, per bocca di Ovidio, una situazione storica e antropologica, che noi in Italia, a scuola, non abbiamo mai approfondito in termini precisi, studiando la "storia romana": che cosa sta succedendo nella terra dei Daci? In questa terra, ai confini dell’Impero, molti ufficiali e soldati romani cominciano a disertare, a emigrare fuori dai confini dell’Impero – ha inizio una crisi irreversibile – sono stufi della guerra, dell’imperialismo, vogliono cambiare vita e si dileguano, spariscono al di là del Danubio, si fidanzano con le donne dei Daci ed entrano a far parte di quelle tribù, tornano a vivere di agricoltura, di pastorizia, di raccolta selezionata, come i loro antichi antenati, come i Latini, i Sabini, i Falischi, che abitavano nella valle del Tevere seicento anni prima: ebbene, qui, in Dacia, da questa mescolanza multietnica, prenderà corpo una nuova nazione, quella che oggi chiamiamo, la Romania.

     Nel romanzo di Vintila Horia c’è poi, soprattutto, una significativa riflessione filosofica sul concetto del "destino", e sul fatto che nessuno – per quanto famoso o potente possa essere – è padrone del proprio destino, e questo fatto è positivo, è giusto, perché la forza del Destino ci riserva delle sorprese che danno una dimensione sempre nuova alla nostra vita.

     Ma leggiamo un frammento dal bel romanzo Dio è nato in esilio di cui la Scuola consiglia la lettura e la periodica rilettura.

LEGERE MULTUM ….

 Vintila Horia, Dio è nato in esilio (1959)

Chi lo avrebbe mai pensato? Chi lo avrebbe mai immaginato? Ma molte cose sono possibili, e ora lo capivo, proprio perché noi non siamo i padroni del nostro destino Neppure il sommo Augusto ne è padrone, egli pensa di poter dominare il destino con l’uso del suo immenso potere ma, anche lui, farà la fine di quel lupo, la cui carcassa abbiamo trovato, questa mattina, in mezzo alla strada del villaggio

… continua la lettura …

     Non abbiamo scelto di leggere questo frammento a caso: lo abbiamo scelto perché, come avete certamente capito, quando Vintila Horia fa dire a Dokia: "…e sforzati, con la volontà, di accogliere il tuo prossimo; non credere che questo sia un elemento di debolezza" ci viene da pensare al versetto della Prima Lettera ai Corinti dove Paolo scrive: "Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini".

     Ma siamo partiti parlando de Le Metamorfosi di Ovidio in riferimento al fatto che la quarta importante parola-chiave che troviamo nel testo della Prima Lettera ai Corinti è proprio il termine "metamorphosis" e, quindi, torniamo a Le Metamorfosi.

     È da un quarto di secolo che la Scuola fa l’esegesi di quest’opera di poesia latina formata da XV libri, e scritta con lo stile del romanzo in versi. Ovidio, dal punto di vista formale, come costruttore del testo in versi, e dal punto di vista psicologico, per la capacità di descrivere i sentimenti dei personaggi, è considerato uno straordinario poeta. Ovidio, ne Le Metamorfosi, ci presenta – in versi latini – duecentoquarantasei favole tratte dal vastissimo repertorio della letteratura greca: molte di queste favole, sono (come dire?) nell’aria, e noi le conosciamo anche senza aver letto il testo de Le Metamorfosi.

     Dal Medioevo il testo di quest’opera risulta uno dei più letti in tutta Europa, quindi è un’opera che ha avuto uno straordinario successo, e la sua diffusione nel bacino del Mediterraneo è stata enorme: possediamo migliaia di codici con citazioni da quest’opera. Nel corso dei secoli sono moltissime le scrittrici e gli scrittori e le artiste e gli artisti che hanno preso spunto in modo esplicito da quest’opera, e si continua a prendere spunto da quest’opera. Molte sono state, nel corso dei secoli, le interpretazioni date al testo de Le Metamorfosi. Oggi la critica letteraria considera Ovidio un grande scrittore soprattutto perché è stato capace di tradurre il dolore e la disperazione delle donne, che – quando non si sottomettono – sono vittime immolate della violenza degli dèi e degli uomini. Nel testo de Le Metamorfosi troviamo un lungo catalogo di "dolenti figure femminili" che rivendicano un ruolo nella società, e che vorrebbero essere considerate non uno strumento, un oggetto, ma un soggetto ricco di pensieri e di sentimenti.

     Le Metamorfosi è anche il poema della pietà umana in cui Ovidio vuole capire e far capire l’animo femminile nella sua interiorità, come fa Euripide nella tragedia. Le Metamorfosi è anche il poema della superficialità maschile, soprattutto quando i maschi si considerano degli dèi: questo fatto provoca sempre una qualche catastrofe. E, in questa superficialità, anche Ovidio stesso si riconosce: non ci si "trasforma" cambiando maschera ma gettando la maschera (questo è un tema di grande attualità). Ovidio scrive con un’ironia e una leggerezza straordinaria ma non è facile leggere il testo de Le Metamorfosi perché il racconto è come una rete di continui riferimenti culturali: ma è proprio questo l’elemento più interessante quest’opera. È proprio per questo motivo, per la ricchezza di riferimenti culturali presenti ne Le Metamorfosi, che, questa sera, abbiamo dato (ancora una volta) appuntamento a Ovidio.

     Ma torniamo a Paolo di Tarso. Ci dobbiamo domandare, insieme alle studiose e agli studiosi di filologia ellenistica, se Paolo di Tarso conosca il testo de Le Metamorfosi di Ovidio. Noi non lo sappiamo con certezza ma sono state fatte delle ipotesi che avvalorano questa ipotesi perché Ovidio è nato nel 43 a.C. quindi circa quarant’anni prima di Paolo di Tarso e Le Metamorfosi (come abbiamo detto), nel I secolo, è un’opera che sta avendo uno straordinario successo e la sua diffusione nel bacino del Mediterraneo è stata enorme e, difatti, possediamo migliaia di codici con citazioni tratte da quest’opera e, quindi, è possibile che Paolo di Tarso – che possiede una spiccata curiosità culturale – abbia letto Ovidio.

     Ma che senso ha citare Paolo di Tarso in relazione con Le Metamorfosi di Ovidio? E allora torniamo a riflettere sul testo della Prima Lettera ai Corinti dove compare la parola-chiave "metamorphosis" con la quale Paolo definisce il suo pensiero sul concetto della "trasformazione".

     Sappiamo che Paolo ha un problema che lo angoscia e questo problema corrisponde ad un tema su cui lui continua a riflettere e sul quale anche noi abbiamo riflettuto anche perché è il primo significativo tema che s’incontra studiando l’Epistolario di Paolo di Tarso. Questo argomento noi lo abbiamo incontrato e studiato già nella primavera scorsa – nel Percorso dello scorso anno – quando ci siamo soffermate e soffermati su quello che viene considerato il primo testo della storia del Cristianesimo: la Prima Lettera ai Tessalonicesi (ricordate?). L’argomento in questione si può sintetizzare in una domanda che i Tessalonicesi si ponevano, e che qualcuno poneva a Paolo insistentemente e con molta preoccupazione: «Ma quando torna, quando arriva il Signore risorto e glorioso?». Il tema della "venuta gloriosa del Signore" che, come sappiamo, in greco corrisponde alla parola-chiave "parusìa", diventa, nell’anno 51, un argomento assillante per i Tessalonicesi i quali ribattono a Paolo: «Se il Signore risorto e glorioso non si decide a tornare siamo fritti perché ci tocca morire e, una volta morti, chi ce lo garantisce che, poi, risorgeremo davvero?». Qualche anno dopo – dopo l’anno 54 – le stesse preoccupazioni ce l’hanno i Corinti, e anche Paolo è sempre più preoccupato. Ma se il Signore non viene, non torna, se ritarda – pensa Paolo – avrà i suoi buoni motivi, e perciò il Signore vuole che noi riflettiamo e affrontiamo la situazione. E Paolo di Tarso decide di affrontare questa situazione innescando una significativa riflessione, di carattere esistenziale, sul tema della "morte": questa riflessione (questa discussione) è durata nei secoli e, naturalmente, dura ancora con intensità. Come si articola la riflessione di Paolo di Tarso?

     Paolo di Tarso spiega che Gesù, il Signore, ha dovuto affrontare la morte per essere degno di risorgere. Paolo dà degli sciocchi ai Tessalonicesi e ai Corinti perché pensano di poter diventare immortali senza morire, perché pensano di poter risorgere senza affrontare la morte. «Non facciamoci illusioni – afferma Paolo – ma prepariamoci, entriamo nell’ordine di idee che per poter risorgere dobbiamo morire!». Questa riflessione assume anche i toni aspri della campagna di persuasione e questa campagna a cui Paolo dà inizio è certamente la più impopolare che abbia mai condotto difatti non è facile proporre l’accettazione della morte come strumento, come via, per raggiungere la salvezza.

     Da quello che leggiamo nelle Lettere, la Prima Lettera ai Tessalonicesi e la Prima Lettera ai Corinti, si capisce che Paolo non pensa che i credenti ancora in vita alla venuta del Signore sarebbero ascesi in cielo, in volo con lui, con i loro corpi naturali, e neppure crede che i loro spiriti avrebbero lasciato i corpi e sarebbero saliti in cielo. Il fatto è che, molti, nella vivace comunità (nella ekklesìa) di Corinto si rifiutano di credere alla risurrezione futura.

     Leggiamo questo frammento significativo dal capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinti.

LEGERE MULTUM ….

Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinti 15, 12-27

 Noi dunque predichiamo che Cristo è risuscitato dai morti. Allora come mai alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti? Ma se non c’è risurrezione dei morti, neppure Cristo è risuscitato! E se Cristo non è risuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore. Anzi finiamo per essere falsi testimoni di Dio, perché, contro Dio, abbiamo affermato che egli ha risuscitato Cristo. Ma se è vero che i morti non risuscitano, Dio non lo ha risuscitato affatto. Infatti, se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato. E se Cristo non è risuscitato, la vostra fede è un’illusione, e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche i credenti in Cristo, che sono morti, sono perduti. Ma se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici fra tutti gli esser umani.

Ma Cristo è veramente risuscitato dai morti, primizia di risurrezione per quelli che sono morti. Infatti, per mezzo di un uomo è venuta la morte, e per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione. Come tutti gli umani muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti risusciteranno per la loro unione a Cristo. Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono. Poi Cristo distruggerà ogni dominio, autorità e potenza e consegnerà il regno a Dio Padre, e allora sarà la fine. Perché Cristo deve regnare, finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte. Infatti nei Salmi si afferma: Dio gli ha sottomesso ogni cosa.

     Come si può notare, Paolo interviene in perfetto stile da oratore ellenista per contrastare una posizione che molti condividono nella ekklesìa di Corinto: è la posizione di una corrente a cui abbiamo già fatto cenno strada facendo. Molti credenti ritengono di aver già ricevuto dei "doni spirituali" in questa vita, che è diventata "qualitativamente nuova" e, quindi, concepiscono un cristianesimo strettamente "legato alla vita terrena": questa è la concezione della corrente "ebionita" di cui abbiamo studiato i caratteri incontrando la figura di Apollo di Alessandria secondo cui Gesù di Nazareth è morto per cambiare le regole sociali della vita terrena.

     Paolo condivide solo in parte questa posizione difatti scrive: "Ma se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici fra tutti gli esseri umani" e quindi ritiene di dover sottolineare l’importanza di quanto sarebbe avvenuto dopo la morte. Come abbiamo detto, in lui emerge l’ideologia "farisea" e i Farisei – come abbiamo studiato nella primavera scorsa – credono alla "risurrezione dei corpi". Ma Paolo vuole perfezionare l’idea dell’anastasia, della risurrezione, e nella Prima Lettera ai Corinti nel capitolo 15 dal versetto 35 al 56 costruisce un pezzo di letteratura in stile ellenistico veramente notevole, soprattutto dal punto di vista poetico.

LEGERE MULTUM ….

Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinti 15, 35-56

Qualcuno forse chiederà: "Ma come risuscitano i morti? Quale aspetto avranno?" Sciocco che sei! Nessun seme vive se prima non muore. E il seme che metti in terra, quello di grano o di qualche altra pianta, è soltanto un seme nudo, non la pianta che nascerà. Dio gli darà poi la forma che vuole, e a ogni seme corrisponderà una pianta. Gli esseri viventi non sono tutti uguali. L’aspetto delle persone è di un certo tipo, quello degli animali di un altro. Diversa ancora è la forma degli uccelli e quella dei pesci. Inoltre vi sono anche corpi celesti e corpi terrestri, e il loro splendore è diverso. Lo splendore del sole è di un certo tipo, quello della luna e delle stelle è di un altro genere: ogni stella poi brilla in modo diverso. Lo stesso avviene per la risurrezione dei morti. Si è sepolti mortali, si risorge immortali. Si è sepolti miseri, si risorge gloriosi. Si è sepolti deboli, si risorge pieni di forza. Si seppellisce un corpo materiale, ma risusciterà un corpo animato dallo Spirito. Così dice la Genesi: il primo uomo Adamo, è stato fatto creatura vivente, ma l’ultimo Adamo, Cristo, è stato fatto Spirito che dà vita. Ma non vien prima ciò che è spirituale, prima viene ciò che è materiale. Quel che è spirituale viene dopo. Il primo uomo, Adamo, è stato tratto dalla polvere della terra, il secondo, Cristo, viene dal cielo. Finché siamo su questa terra siamo simili ad Adamo, fatto con la terra. Quando invece apparterremo al cielo, saremo simili a Cristo, che viene dal cielo. Come siamo simili all’uomo tratto dalla terra, così allora saremo simili a colui che è venuto dal cielo. Ecco, fratelli e sorelle, quel che voglio dire: il nostro corpo fatto di carne e di sangue non può far parte del regno di Dio, e quel che muore non può partecipare all’immortalità.

Ecco, io vi dico un segreto. Non tutti moriremo, ma tutti avremo una trasformazione [metamorphosis] in un istante, in un batter d’occhio, quando si sentirà l’ultimo suono di tromba. Perché ci sarà come un suono di tromba, e i morti risusciteranno per non morire più e noi saremo trasformati. Quest’uomo che va in corruzione, deve infatti rivestirsi di una vita che non si corrompe, e quest’uomo che muore, deve rivestirsi di una vita che non muore. E quando quest’uomo che va in corruzione si sarà rivestito di una vita che non si corrompe, e quest’uomo che muore si sarà rivestito di una vita che non muore, allora si compirà quel che dicono Isaia (Isaia 25, 8) e Osea (Osea 13, 14):

La morte è distrutta! La vittoria è completa!

O morte dov'è la tua vittoria?

O morte dov'è la tua forza che uccide?

La morte prende il suo potere dal peccato, e il peccato prende la sua forza dalla legge.

     Su quest’ultima frase torneremo a riflettere nel prossimo itinerario.

     L’idea della risurrezione contiene, quindi, il concetto della "trasformazione", della "metamorfosi" e i versetti 51 e 52 del capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinti (che abbiamo letto or ora) sono assai significativi: «Ecco, io vi dico un segreto. Non tutti moriremo, ma tutti avremo una trasformazione [metamorphosis] in un istante, in un batter d’occhio, quando si sentirà l’ultimo suono di tromba. Perché ci sarà come un suono di tromba, e i morti risusciteranno per non morire più e noi saremo trasformati». Qui emerge tutta la cultura di integrazione che Paolo ha maturato: in questi versetti si fondono insieme le istanze poetiche dell’ellenismo greco e latino ("Le Metamorfosi" di Ovidio) con quelle dell’ideologia dei profeti dell’Antico Testamento (in particolare con il testo del Libro di Daniele).

     La "trasformazione", la "metamorfosi" renderà le persone simili al "Signore risorto". Ma come potrà accadere tutto questo? Paolo incontra, comprensibilmente, delle difficoltà a spiegare in dettaglio in che cosa consista il "corpo trasformato". Il corpo trasformato non è né una salma che ha ripreso a respirare, e neppure un fantasma. Paolo, inoltre, non pensa a un’anima interna che fugge dal suo involucro mortale e fluttua libera. Il "corpo risorto" è – scrive Paolo – un "corpo spirituale" e ricorre per spiegare questa idea al paragone del seme di una pianta che quando viene piantato ha una forma (è in potenza), ma quando si è sviluppato (in atto) ne assume un’altra e questo discorso ci fa pensare anche ad Aristotele. Paolo non ha saputo definire in maniera chiara l’idea di un "corpo materiale che è contemporaneamente spirituale", ma per questa aporia (per questa contraddizione intellettuale) non lo possiamo certamente criticare, anzi, va lodato per la caparbietà che ci ha messo nel costruire un concetto così arduo e così utopico: il corpo materiale quando è risorto assume una valenza spirituale.

     Paolo – per dare significato alla risurrezione, all’anastasia – non poteva neppure contare su tutto l’immaginario fantastico di cui ha potuto usufruire Ovidio e, se Paolo ha letto Le Metamorfosi, avrà invidiato un po’ Ovidio per il vasto catalogo di miti che ha a disposizione.

     Ma neppure Ovidio, sebbene sia stato un così grande poeta che ha raccontato così bene le "trasformazioni" degli dèi e degli umani, è stato, però, in grado di dirci che cos’è la "metamorfosi", e in che cosa consiste la "trasformazione". Anche Ovidio – così come Paolo di Tarso – è costretto a percorrere la strada della "speranza" e dell’illusione alludendo al fatto che sarebbe bello, invece di morire, invece di decomporsi, potersi "trasformare": ma come? Questo rimane un mistero.

     Non resta che il "racconto" e l’unica risposta che, per ora, possiamo dare è questa: la trasformazione è racconto, la metamorfosi si realizza nel racconto. E così nel bellissimo ultimo brano che, poco fa, abbiamo letto dalla Prima Lettera ai Corinti (capitolo 15, 35-56) Paolo ce la mette tutta per tentare di definire la "persona risorta" e, alla fine però, è la poesia che prevale, ed emergono le caratteristiche di un grande scrivano che onora la "sapienza poetica ellenistica".

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 

Quale situazione vorreste trasformare in questo momento?…

Scrivete quattro righe in proposito

     Paolo di Tarso per descrivere le caratteristiche della "persona risorta" compie una significativa riflessione sulla "morte". Non fate gesti scaramantici perché questo è un tema sul quale gli esseri umani s’interrogano dagli albori dell’Umanità ed è proprio la riflessione su questo tema (collaterale alle parole: paura, bisogno, rito, cerimonia, racconto) che fa muovere i primi passi alla Storia del Pensiero Umano. L’homo sapiens-sapiens, nel momento in cui si è reso conto della ineluttabilità della morte, si è reso anche conto di "esistere" e di "esserci": nel momento in cui ci si rende conto che la morte è ineluttabile ecco che si prende coscienza del fatto che si è vivi e si comincia a riflettere sulla propria condizione esistenziale. Di conseguenza, quando ci s’interroga sul tema della "morte", lo si fa sempre per riflettere del tema della "vita".

     Anche Paolo di Tarso quando s’interroga sul tema della "morte" parla soprattutto del tema della "vita". Secondo le studiose e gli studiosi di filologia (sono stati scritti una serie di saggi su questo tema, nessuno dei quali tradotto in italiano), le allusioni che Paolo di Tarso, soprattutto nel testo della Prima Lettera ai Corinti, fa sul tema del "prepararsi a morire" fanno pensare ad un’opera importante e fanno pensare che lui l’abbia letta quest’opera o che ne conosca il significato del testo attraverso la mediazione di qualche Scuola con cui è venuto a contatto nei suoi viaggi da una città all’altra sul territorio dell’Ellenismo.

     L’opera di cui stiamo parlando è il dialogo di Platone intitolato Fedone. Ve lo ricordate questo dialogo? Molti dialoghi di Platone – quasi tutti, per la verità – ci hanno tenuto compagnia in questi ultimi anni! Ma i dialoghi di Platone vanno letti e vanno puntualmente riletti: non si finisce mai di fare delle scoperte entrando in contatto con questi testi anche se non sono di facile lettura. Paolo di Tarso ci fornisce l’occasione per rileggere o per leggere (se non lo abbiamo ancora letto) il testo del Fedone secondo l’ottica della "sapienza poetica ellenistica", per cui tutta una serie di considerazioni, che Platone nel IV secolo a.C. fa fare a Socrate in questo dialogo, assumono nel I secolo d.C. un significato particolare. Platone fa fare a Socrate, che come sapete è il protagonista del Fedone, un’affermazione significativa: «Bisogna filosofare – indagare, ricercare, meditare, studiare – per prepararsi a morire». Che significato ha questa affermazione che, a prima vista, può sembrare un po’ funerea? Di fronte a questa domanda dobbiamo, quindi, fare una riflessione – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – sul rapporto tra il testo del Fedone e i testi che compongono l’Epistolario di Paolo di Tarso.

     Il Fedone, composto intorno al 380 a.C., è il dialogo che tratta il tema dell’anima, in particolare sviluppa il tema de "l’immortalità dell’anima" e questo tema risulta marginale nel pensiero e nella scrittura di Paolo di Tarso. Molte studiose e molti studiosi di filologia considerano il Fedone il capolavoro di Platone dal punto di vista letterario.

     Nel Fedone troviamo poi un tema che ricorre in tutta l’Età assiale: il ragionamento sulla differenza tra la "religione" e la "fede", che sono due concetti diversi da non confondersi l’uno con l’altro e, nell’ottica di Platone (del cosiddetto "Platone politico"), questi due concetti risultano essere ben separati – la "religione" lega, la "fede" libera – e su questo argomento Paolo di Tarso condivide pienamente le tesi di Platone. Scrive Platone: «I portatori di ferule [di paramenti sacri] sono molti, ma i Diònisi sono pochi. E costoro, io penso, sono coloro che praticano rettamente la Filosofia [la ricerca dell’idea del Bene]».

     Qual è il significato di questo frammento molto significativo? Platone vuole affermare che sono molti quelli che nelle cerimonie orfiche portano i paramenti sacri per mettersi in bella mostra, ma sono pochi coloro che sanno interiormente avvicinarsi a Dioniso, che sanno entrare in sintonia con la divinità. Platone vuole dire che sono pochi, in definitiva, quelli che sanno concretamente aderire all’idea del Bene, che sanno incarnarsi nell’idea del Bene (che hanno "fede"). Paolo di Tarso, in perenne contrasto con gli apparati religiosi delle sinagoghe e con quelli che nascono nelle ekklesìe, ripete spesso: «Molti portano i paramenti sacri ma i veri sacerdoti sono pochi», e questo modo di dire è stato poi mutuato dal Vangelo secondo Matteo al capitolo 20 versetto 16 dove si legge: «Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti».

     Poi nel dialogo il Fedone si trova uno dei brani più famosi e di più alto spessore letterario della produzione platonica: è il celebre "Inno ad Apollo" che s’intitola Il canto dei cigni. Il canto dei cigni è un discorso in cui Socrate paragona le sue ultime parole sul tema dell’immortalità al canto dei cigni. I cigni – secondo la tradizione – sono uccelli bellissimi proprio perché sacri ad Apollo e, quando sentono che stanno per morire, i cigni si esibiscono nel loro canto più gioioso e più bello. «Io non sono – dice Socrate – molto da meno dei cigni i quali, quando sentono che devono morire, pur cantando anche prima, in quel momento cantano tuttavia i loro canti più lunghi e più belli, pieni di gioia, perché stanno per andarsene presso quel dio del quale sono ministri Invece gli esseri umani, per la paura che hanno della morte, dicono menzogne persino sui cigni, e sostengono che essi, cantando il loro canto di morte, cantano per dolore Io credo che i cigni, poiché sono cari ad Apollo, sono indovini, e, avendo la visione dei beni dell’Ade, nel giorno della loro morte cantano e si rallegrano, più che nel tempo passato Ora anch’io mi ritengo compagno dei cigni nel loro servizio, e ritengo di aver avuto dal dio lo stesso dono di poter dare un insegnamento, di trasmettere una rivelazione, di parlare una lingua mai sentita e quindi perché devo andarmene da questa vita più tristemente di loro?».

     Se leggiamo alcuni versetti del capitolo 14 della Prima Lettera ai Corinti si può cogliere un intreccio filologico molto interessante; scrive Paolo: «Quindi, fratelli e sorelle, perché siete così tristi pensando alla morte e perché non gioite? Che cosa dobbiamo concludere: di essere da meno dei pagani? Quando vi riunite ognuno dovrebbe cantare un Inno di gioia [allude a "Il canto dei cigni", all’Inno ad Apollo del Fedone?], o dare un insegnamento, o trasmettere una rivelazione, o parlare in una lingua sconosciuta [qui Paolo usa le stesse parole che Platone fa dire a Socrate ne "Il canto dei cigni"!] e interpretare quella lingua. Ebbene tutto questo abbia lo scopo di far crescere la comunità».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 

In funzione della didattica della lettura e della scrittura si può cominciare a leggere il testo del Fedone anche per frammenti e la Scuola vi invita a sfogliare le pagine di questo dialogo che potete richiedere facilmente in biblioteca e, dopo aver trovato “Il canto dei cigni” [ogni paragrafo ha un titolo], potete provare a leggerlo per intero questo Inno ad Apollo …

Il pensiero della morte fa riflettere anche sul “rimpianto”  e questa situazione fa scaturire un senso di rammarico, di nostalgia, di rincrescimento, di pentimento

Voi coltivate un rimpianto?Che cosa rimpiangete di non aver fatto?

Scrivete quattro righe in proposito

     Il dialogo di Platone "sull’anima" intitolato Fedone si svolge nel carcere di Atene il giorno stesso della morte di Socrate e uno dei protagonisti di quest’opera è la figura di Critone. La figura di Critone rappresenta un personaggio che nel Fedone non comprende il messaggio socratico fino in fondo (questo personaggio ricorda Pietro e gli Apostoli che fino alla fine – come ci racconta la Letteratura dei Vangeli – non comprendono il messaggio universale di Gesù] e, per questo motivo, Critone viene bonariamente rimproverato da Socrate. Critone non capisce che Socrate vuole mettere in evidenza tre elementi che secondo lui hanno maggior valore del corpo materiale: Socrate considera l’anima, guarda all’intelletto e ritiene la coscienza – anima, intelletto e coscienza – come componenti della vera realtà dell’Essere umano. Socrate afferma spesso – secondo il pensiero orfico – che quando l’anima esce dal corpo, del corpo non resta più nulla. Critone non ha capito bene questo concetto, non ha compreso che l’anima, l’intelletto e la coscienza sono le uniche realtà che valgono per Socrate.

     A Platone (ed ecco l’importanza delle opere di Platone) va il merito di aver sintetizzato e messo a punto questi tre concetti – anima, intelletto e coscienza – fondamentali nella Storia del Pensiero Umano ed elaborati nel corso dell’Età assiale.

     E Socrate ironizza quando Critone chiede: «Allora come ti dobbiamo seppellire se del tuo corpo non resta più nulla?». Se ora leggiamo alcuni versetti dal capitolo 14 della Prima Lettera ai Corinti ci troviamo ancora di fronte ad un altro interessante intreccio filologico che unisce il testo del Fedone e l’Epistolario di Paolo di Tarso. Scrive Paolo: «Cercate dunque di vivere nell’amore [charitas], ma desiderate intensamente anche i doni dello Spirito [Pneuma], soprattutto quello di essere profeta [portavoce di Dio]. Infatti, chi parla in lingue sconosciute [in modo misterioso, in termini religiosi], non parla alle persone, ma a Dio, e nessuno lo capisce [in greco suona: e chi lo capisce è bravo]. Apparentemente mosso dallo Spirito dice cose oscure. Il profeta invece fa crescere spiritualmente la comunità, la esorta ragionevolmente e la consola coscienziosamente. Chi parla in lingue sconosciute [chi non insegna parlando] fa solo l’interesse di se stesso, il profeta, invece, fa crescere tutta la comunità in Spirito, intelletto e coscienza».

     Possiamo notare come i tre termini – anima (Spirito), intelletto e coscienza – che Platone attribuisce a Socrate (profeta orfico-dionisiaco) per mettere in secondo piano la materia, Paolo li attribuisce al profeta ebraico-cristiano con un intento diverso: per Platone il corpo (la materia) è la prigione dell’anima e deve decomporsi mentre per Paolo di Tarso la materia (secondo la mentalità dell’Ebraismo) ha una dignità e, dopo la notizia della risurrezione di Gesù, la materia acquisisce una qualità nuova e il corpo entra, non in alternativa, ma in sinergia con l’anima, con lo Spirito, con l’intelletto e con la coscienza.

     In funzione della didattica della lettura e della scrittura, a questo punto, non si può fare a meno di proporre – ancora una volta – un classico. L’argomento che abbiamo trattato nell’itinerario di questa sera c’invita a prendere contatto (in biblioteca) con un grande classico della Storia del Pensiero Umano: i Saggi di Michel de Montaigne [1533-1592] e, più volte, in questi anni, abbiamo incontrato e studiato quest’opera nei suoi vari aspetti.

     Il capitolo XX, formato da una ventina di pagine, del primo Libro dei Saggi [1580-1588] di Montaigne s’intitola "Filosofare è imparare a morire" e naturalmente lo scrittore – commentando i classici greci e latini (le opere della "sapienza poetica ellenistica") per i quali "filosofare" è dedicarsi allo studio e alla contemplazione – riflette sugli stessi argomenti che questa sera abbiamo preso in considerazione. La Scuola c’invita ad andare alla ricerca di questo brano ricordando, come abbiamo fatto altre volte, che l’esercizio della lettura – anche di una sola pagina ogni tanto – dei "Saggi" di Montaigne ("fare un assaggio" e, difatti, questo è il significato del termine "saggio" e del titolo di quest’opera) contribuisce ad allargare la vita della lettrice e del lettore, secondo la testimonianza dell’autore stesso che scrive: «La mia vita si è ampliata dal momento in cui ho intrapreso la redazione del mio libro con il quale mi identifico, io sono il mio libro».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 

E noi stessi – parafrasando Montaigne – siamo anche le nostre quattro righe al giorno di scrittura autobiografica quindi eseguite con diligenza gli esercizi che la Scuola propone …  

     E ora – per concludere – leggiamo un frammento dal capitolo XX del primo Libro dei Saggi di Montagne:

LEGERE MULTUM ….

Michel de Montaigne, Saggi Libro I Capitolo XX (1580-1588)

Filosofare è imparare a morire

Cicerone, parafrasando le parole che Platone fa dire a Socrate nel Fedone, dice che filosofare non è altro che prepararsi alla morte. Questo avviene perché lo studio e la contemplazione traggono in certa misura la nostra anima fuori di noi, e la occupano separatamente dal corpo, e questo è come un saggio e una sembianza di morte; oppure, perché tutta la saggezza e i ragionamenti del mondo si riducono infine a questo, di insegnarci a non temere di morire. Per la verità, o la ragione si fa beffe di noi, o non deve mirare che alla nostra soddisfazione, e tutto il suo sforzo deve tendere in conclusione a farci vivere nel modo migliore perseguendo il nostro ben-essere, come dice Paolo di Tarso nel suo Epistolario. Tutte le opinioni del mondo concordano in questo, che il piacere è il nostro scopo, anche se esse scelgono mezzi diversi; altrimenti le si caccerebbero sul nascere, giacché chi ascolterebbe colui che si ponesse per fine la nostra pena e la nostra angustia? Non moriamo perché siamo malati, ma perché siamo vivi.

     Nel dialogo Fedone Socrate afferma: «Ho detto moltissime volte, che dopo che avrò bevuto il veleno, non rimarrò più con voi, ma me ne andrò di qui in certi luoghi felici e beati, mi pare che per Critone sia stato inutile, come se io parlando avessi voluto consolare un po’ me e un po’ voi». È un Socrate tipicamente "orfico" questo che parla dell’immortalità dell’anima e che rimbrotta ancora una volta Critone al quale è tuttavia molto affezionato e lo sceglie come suo esecutore testamentario: si capisce con facilità che le parole di Platone ricordano la Letteratura dei Vangeli e noi non abbiamo ancora finito di andare alla ricerca di intrecci filologici tra il testo del Fedone di Platone e i testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso, in particolare, quello della Prima Lettera ai Corinti.

     Nel prossimo itinerario continueremo la nostra ricerca, quindi, non mancate perché la Scuola è qui. Ed è qui per ricordarci che l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona e, quindi, il nostro viaggio sul territorio dell’Ellenismo di stampo evangelico continua perché possiamo imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 5, 2010