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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE C’È IL PIEDE DI PLOTINO ...

Lezione N.: 
30

Prof. Giuseppe Nibbi     Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele    27-28-29 maggio 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE

C’È IL PIEDE DI PLOTINO ...

     Come sappiamo, la figura del "nobile vecchio", raffigurata ne La Scuola di Atene, rappresenta il personaggio di Plotino che abbiamo incontrato, la scorsa settimana (siamo nella primavera del 233), ad Alessandria, alla Scuola di Ammonio. Anche il personaggio di Ammonio Sacca – il più significativo maestro alessandrino che la Storia della Cultura ricordi, di cui abbiamo studiato il pensiero la scorsa settimana – è rappresentato ne La Scuola di Atene e questa figura è ben riconoscibile alla sinistra di Plotino con il copricapo tipico dei portuali di Alessandria, con il mantello verde-oliva (il colore di Atena) dei maestri neoplatonici e con il bastone in mano, sempre pronto per partire alla volta di un nuovo itinerario. Plotino raccoglie l’eredità intellettuale della Scuola di Ammonio e codifica nelle sue opere, le Enneadi, messe in ordine da Porfirio, i concetti del Neoplatonismo. Plotino fa diventare universale il ragionamento di Ammonio: se l’essere umano si presenta come la sintesi di tre elementi fondamentali: l’Uno, l’Intelletto e l’Anima questo significa – pensa Plotino – che anche la realtà dell’Universo deve essere così. E allora andiamo a cercare quali parole-chiave e idee-cardine troviamo nel testo delle Enneadi di Plotino.

     Secondo Plotino il Tutto, tutta la realtà universale, deriva da un concetto supremo che possiamo definire: l’Uno: l’Uno, il concetto dell’Uno, è prima di tutto il frutto di una riflessione intellettuale, di un ragionamento logico. L’Uno è la sintesi della trascendenza perché, se risaliamo nella scala dei valori, arriviamo – secondo la logica, afferma Plotino – ad un concetto supremo, ineffabile, che trascende Tutto: la quantità, la qualità, l’anima, il pensiero, la volontà e anche Dio. Al di sopra di Tutto c’è l’Uno che è – come lo è il pensiero – un principio dinamico: l’Uno, difatti, ha la capacità di "emanare", di effondere.

     Questo concetto non è astruso e lo si capisce benissimo se pensiamo all’attività della nostra Mente la quale non fa altro che emanare pensieri e produrre elaborazioni intellettuali, e lo stesso procedimento avviene nella realtà universale. L’Uno – scrive Plotino –, per emanazione naturale e necessaria, produce l’Intelletto (il Noùs, il Logos, il mondo delle Idee). E poi l’Uno, attraverso l’Intelletto, continua a emanare, quella che Plotino chiama: l’Anima del Mondo. Ecco – scrive Plotino – come si presenta, come è pensabile, la realtà universale: formata da l’Uno, l’Intelletto e l’Anima.

     La realtà dell’Universo, quindi, è un "mondo intelligibile": conoscibile con l’esercizio della ragione. E la Materia, di cui sono fatte le cose, che cos’è? La Materia – il Non-essere – è il prodotto della lontananza dall’Uno. La Materia, senza un’anima intelligibile, è assolutamente inerte, e questo fatto le persone lo intuiscono perché spesso – scrive Plotino – sentono il bisogno di dire che: "sarebbe necessario dare un’anima alle cose".

     L’essere umano come si configura in questa realtà? La persona – scrive Plotino – possiede l’ultima propaggine dell’Uno imprigionata nella materia: l’Intelletto individuale, l’intelligenza. L’intelligenza della persona – afferma Plotino – fa sì che si manifesti in lei una grande inquietudine: perché avviene questo? Perché – spiega Plotino – la ragione fa nascere nella mente della persona un desiderio profondo di tornare al suo supremo principio: l’Uno. Quindi il senso della vita per la persona consiste in un processo di liberazione dalla materia, in un cammino intellettuale che conduce all’Uno. La persona – scrive Plotino – deve vivere la propria vita in funzione del suo "ritorno" all’Uno, cioè alla fonte che ha emanato l’Intelletto e l’Anima del mondo.

     Plotino descrive questo "ritorno" come un viaggio e lo chiama "epistrophé" proprio perché, in greco, questa parola significa il "ritorno alle origini". Questo concetto del "ritornare, (epistrèphò)" non ha per Plotino una natura di carattere mitico, misterico, sacrale, ma bensì ha una valenza intellettuale. L’epistrophé (il ritorno all’Uno) è un percorso che avviene sulla scia dell’investimento in intelligenza, ed ogni passo in avanti è dato dall’acquisizione di un nuovo apprendimento, di una ulteriore competenza culturale.

     Plotino persegue con coerenza i princìpi di una morale laica, e l’epistrophé (il percorso di apprendimento cognitivo che favorisce il ritorno all’Uno) non è un annuncio (o un programma) di carattere religioso ma è una concreta proposta scolastica: è un piano di studio. Leggiamo un frammento dal testo delle Enneadi:

LEGERE MULTUM….

Plotino, Enneadi

 L’epistrophé, il ritorno, è possibile e necessario e, perché tale, è condizione di salvezza. Ma non si tratta di un ritorno a un passato storico o psicologico, non è un andare indietro ma un andare avanti, non è un andare dentro ma nel profondo.

Se il ritorno all’Uno è il massimo trascendimento che sia possibile all’anima, esso è, di fronte a istituzioni religiose e a complessi dogmatici, il più netto dei superamenti: qualsiasi religione storica è inadeguata a rappresentare il mistero del Sacro e, in quanto tale, non è il termine dell’epistrophé.

L’anima più desiderosa (bramante) è la più saggia perché il ritorno implica una purificazione etica

che elimina l’accessorio, il contingente, l’effimero per tendere all’essenziale. È dunque un ritorno metafisico che ristabilisce l’ordine ontologico (dell’Essere) dei valori e l’epistrophé è il riconoscimento della superiorità della vita contemplativa rispetto a quella convulsa degli affari, l’epistrophé è un richiamo a non risolvere tutta l’esistenza nelle ansie e nei travagli del sistema.

     E allora come si porta a compimento il "viaggio di ritorno" all’Uno, come si sviluppa l’itinerario verso la fonte dell’Intelligenza: come si realizza nella vita quotidiana l’epistrophé? Plotino, nel testo delle Enneadi, costruisce un programma e delinea un percorso che ha le sue radici nella didattica della Scuola di Ammonio.

     Per prima cosa bisogna educare l’Anima a prendere le distanze dalla Materia coltivando le quattro virtù che Plotino chiama "virtù cardinali": la sapienza, la temperanza, la fortezza e la giustizia. Queste quattro virtù cardinali corrispondono a quattro azioni fondamentali della nostra vita: studiare (per acquisire la sapienza e far crescere le competenze intellettuali), lavorare (per acquisire la temperanza in modo da gustare le gioie di una vita frugale), meditare (per acquisire la fortezza, la volontà), e patteggiare (per garantire la realizzazione della giustizia).

     Poi – scrive Plotino – è necessario imparare a coltivare le tre vie: la musica (per dare armonia alla vita), l’amore solidale (per creare fratellanza nel mondo), e la filosofia cioè l’esercizio di trascendere la materia per imparare a contemplare l’essenza ideale delle cose in modo da valutarne la qualità (la capacità che le cose hanno di costruire il Bene). Il percorrere queste vie (l’armonia, la solidarietà, l’essenzialità), che conducono verso la fonte dell’Intelligenza, produce uno stato di felicità, di calma, di piacere intellettuale che Plotino chiama l’Estasi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Di fronte a quale situazione hai potuto dire: "mi sono sentita, sentito in estasi" o, per lo meno, mi sono sentita gratificata o gratificato?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Alla morte di Ammonio, Plotino, che ha 39 anni, lascia Alessandria e, al seguito dell’imperatore Gordiano III, partecipa ad una spedizione militare fino in India. Plotino naturalmente partecipa a questa impresa per interessi di natura intellettuale: vuole conoscere direttamente e approfondire la conoscenza della cultura orientale, in particolare i Libri dei Veda, i Libri della Sapienza indiana. Ci sono parti delle Enneadi di Plotino dove la somiglianza con le Upanishad – cioè con i testi in prosa di carattere filosofico della cultura sapienziale indiana – è forte. Questa spedizione si risolve in una brutta esperienza per Plotino perché Gordiano III viene sconfitto in Mesopotamia dai Persiani e Plotino si salva a stento, riesce a rifugiarsi ad Antiochia e poi a partire per Roma dove si stabilisce. A Roma, nel 247, apre la sua Scuola e mette in atto il suo programma.

     La Scuola di Plotino non vuole comunicare un messaggio rivelato, ma vuole educare – come abbiamo detto – ad una disciplina di vita che contrasti il degrado cognitivo, il deficit di apprendimento, e che stimoli l’investimento in intelligenza. L’Impero romano è in profonda crisi, è un’epoca di ansie, di insicurezze, di angosce e, anche per questo motivo, un numeroso pubblico frequenta la Scuola di Plotino a Roma e tra gli studenti c’è anche l’imperatore Galieno e sua moglie Saponina.

     Ma Plotino è assolutamente insoddisfatto dell’impegno dei suoi studenti i quali preferiscono le risposte prefabbricate, preferiscono trovare subito delle certezze e non sono disponibili a sforzarsi a riflettere, a ragionare, a produrre un proprio pensiero sugli interrogativi posti dell’esistenza: preferiscono possedere le cose piuttosto che cercare l’essenza delle cose. Plotino, di conseguenza, chiude provocatoriamente la sua Scuola e si trasferisce a Minturno, ai confini tra il Lazio e la Campania, dove cerca di fondare una città ideale, Platonopolis, sullo stile della Repubblica di Platone, ma questo progetto fallisce: nessuno lo segue.

     Plotino ha anche dei problemi di salute e difatti si ammala gravemente e viene ospitato da un amico il quale, a Minturno, mette a sua disposizione una casa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La Scuola consiglia di fare un viaggio (virtuale, in preparazione di quello reale) nei "luoghi plotiniani" utilizzando le guide del Lazio e della Campania infatti il cospicuo sito archeologico dell’antica Minturnae si trova lungo la via Appia proprio sul confine tra il Lazio e la Campania nei pressi del ponte sul fiume Garigliano che unisce le due regioni … Tra la nuova Minturno in provincia di Latina (in Lazio), che è una cittadina di aspetto medioevale che guarda il Tirreno da un colle ai piedi dei monti Aurunci, e Sessa Aurunca (l’antica Suessa fondata dagli Aurunci), in provincia di Caserta (in Campania), che si affaccia, con i suoi monumenti romani, medioevali e barocchi, sul versante meridionale dell’antico vulcano di Roccamonfina, potrebbe sorgere un "parco plotiniano" (c’è da meravigliarsi che ancora non ci sia): tu visitalo e dagli forma

Buon viaggio, buona epistrophé!…

     A Minturno, nella casa dove è stato ospitato, Plotino muore, in solitudine, nel 270. Non gli tocca la morte di Socrate in mezzo a tutti i suoi amici, né quella di Epicuro in mezzo a tutti i suoi discepoli, durante una cena, nella sua comunità. Plotino muore raggiunto all’ultimo momento dal suo allievo, il medico Eustochio e le sue ultime parole sono: «Ti ho aspettato, Eustochio, per dirti: se vuoi essere felice, spogliati di ogni cosa». E queste sono anche le ultime parole delle Enneadi: "Beate le persone che sanno (che hanno imparato) spogliarsi di ogni cosa".

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

"Spogliarsi di ogni cosa" non è facile ma cominciare a "spogliarsi di qualcosa che appesantisce la nostra vita" è possibile: di che cosa – secondo te – bisogna cominciare a spogliarsi?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Plotino si è avvicinato alla Scuola di Ammonio perché casualmente – come ci racconta Porfirio ne La vita di Plotino – ha incontrato Origene: ebbene, Origene che fine ha fatto dopo la morte di Ammonio e lo scioglimento della sua Scuola? Origene di Alessandria è un cristiano e, oltre alla Scuola di Ammonio, frequenta la Scuola Catechetica Alessandrina, il Didascalion, fondata, prima del 216, da Flavio Clemente di Atene, detto Clemente Alessandrino. Clemente Alessandrino ha scritto tre opere importanti: il Protretticon che significa Esortazione, il Pedagogo sulla figura di chi si dedica all’insegnamento (sembra un ritratto di Ammonio) e Stròmata che significa Tappeti e raccoglie una serie di pensieri – tanto provenienti dalla sapienza greca quanto provenienti dalla sapienza cristiana – tessuti insieme come quando si lavora al telaio, con fili diversi, per fabbricare un tappeto. Dai testi di queste opere si capisce quale sia il programma del Didascalion di Clemente: una Scuola che vuole avvicinare la sapienza del pensiero greco alla rivelazione cristiana basata sulla "buona notizia (eu-anghelon, vangelo)" della risurrezione di Gesù di Nazareth.

     Dopo la morte di Ammonio, anche Origene lascia Alessandria e si trasferisce a Cesarea dove fonda una sua Scuola che ha avuto una grande rinomanza. Origene ha scritto molte opere, ma quella più importante è il Peri Archon, in latino De Principiis, in italiano Sui Princìpi: in quest’opera Origene sviluppa le sue tesi rifacendosi soprattutto al Timeo, il dialogo che (non casualmente) Platone tiene in mano ne La Scuola di Atene. Il pensiero di Origene è molto importante nella storia del Pensiero cristiano – e del Pensiero umano in generale – perché elabora la prima grande sintesi, la prima contaminazione culturale decisiva, tra il pensiero greco e la rivelazione cristiana: con Origene il sistema filosofico del Neoplatonismo e la dottrina del Cristianesimo si "impastano" in maniera decisiva. Che cosa sarebbe – sembrano dire (sebbene sottovoce) i membri del gruppo di studio che preparano il contenuto de La Scuola di Atene – la cultura "rinascimentale" senza questi personaggi? Ci sarebbe – ci domandiamo – un oggetto come questo affresco intitolato La Scuola di Atene senza i presupposti intellettuali creati dai personaggi che abbiamo incontrato e che stiamo incontrando in questo viaggio che volge al termine? Il concetto Trinitario del Dio cristiano prende corpo nel grembo laico del Neoplatonismo di Ammonio e di Plotino, e Origene ne porta avanti la gestazione.

     Secondo Origene l’Uno – descritto dalle Enneadi di Plotino – è il Dio-Padre, che è auto-Theòs (un Dio che si è pensato da solo) e sussiste di per sé, ab aeterno (dall’eternità). Il Logos-l’Intelletto – che, secondo Plotino, è il prodotto dell’emanazione dell’Uno – è il Dio-Figlio, il quale è "generato" dal Padre ed è "omooùsios", della "stessa sostanza del Padre", ma, in quanto "generato", ha un titolo e una qualità inferiore al Padre, è quindi – spiega Origene – un deuteros-Theòs, un dio-secondo, di seconda categoria. Ma che importanza ha? L’importante – afferma Origene – è che la sua sostanza, la sua natura sia quella del Vero Maestro: è più importante che Gesù Cristo sia il Vero Maestro che insegna all’Umanità la via della salvezza piuttosto che un essere divino con caratteristiche mitiche come quelle delle antiche divinità del passato.

     Questa affermazione (figlia della Scuola di Ammonio e dell’influenza del Timeo di Platone) di coerente razionalità, che sottovaluta la divinità (la figura mitica) di Gesù Cristo, costa ad Origene la condanna di eresia quando, in un clima di grande ambiguità, si va formando la struttura ideologica del Cristianesimo. Le tesi di Origene – che nel frattempo sono state elaborate da qualcun altro e lo vedremo, seppur brevemente, fra un momento – vengono dichiarate eretiche e condannate nel corso del primo Concilio ecumenico tenuto a Nicea nel 325 (per volontà dell’imperatore Costantino che impone il suo potere autoritario): Origene però è già morto, eroicamente, da settant’anni, ma poi la condanna nei suoi confronti viene rinnovata dal Concilio di Efeso nel 431 e da quello di Calcedonia nel 451.

     Eppure l’impronta di Origene di Alessandria nella dottrina del Cristianesimo sussiste in modo ben visibile perché il Figlio, anche se concepito come un Dio di seconda categoria – secondo la formula di Origene – è rimasto "omooùsios" della "stessa sostanza del Padre" e questa è la formula contenuta nel Credo (nel Simbolo niceno) che la Chiesa di Roma recita nella sua quotidiana liturgia. Forse, ma noi non abbiamo nessuna competenza per dirlo, sarebbe opportuno che cessasse ufficialmente l’emarginazione di Origene il quale conclude il suo ragionamento affermando che tra l’auto-Theòs, il Dio-Padre, e il deuteros-Theòs, il Dio-Figlio, anche se non sono sullo stesso piano, s’instaura un rapporto basato sul reciproco amore nel corso del quale il Dio-Padre emana lo Spirito – che corrisponde, nel pensiero del Neoplatonismo all’Anima del Mondo emanata dall’Uno – che vivifica tutto il Creato. Si completa così la struttura portante di quella che diventerà – per passaggi successivi – la Santissima Trinità.

     Origene, durante la persecuzione dell’imperatore Decio, viene incarcerato e nel 254 muore in carcere, a Tiro, per le torture ricevute e i maltrattamenti subiti.

     Dobbiamo dire che le tesi di Origene, dopo la sua morte, vengono sviluppate da un vescovo di Alessandria di nome Ario (256-336) che fonda molte comunità. Secondo Ario, il "Padre" è il Dio a pieno titolo mentre il "Figlio" è la prima delle sue creature, e può essere equiparata ad un "angelo", al "primo angelo" e quindi – secondo Ario – il Figlio non può essere della "stessa sostanza del Padre". La tesi di Ario, quindi, non corrisponde a quella di Origene, ma Origene viene ingiustamente assimilato all’Arianesimo.

     A Roma nel IV secolo si sviluppa un serrato dibattito sulla natura del Dio cristiano e sul ruolo teologico che deve avere Gesù Cristo: a Roma si pensa ad un modello di Dio più compatto, più coeso, più forte, meno frammentato. E si assiste nella Storia del Pensiero Umano – noi ora possiamo soltanto fare un accenno su questo complesso argomento – ad uno scontro epocale di straordinaria importanza, uno scontro terribile che implica anche la forza militare e la violenza di cui è portatore l’imperatore Costantino, il quale ha fatto professione di Cristianesimo con l’Editto di Milano del 313 per ragion di Stato e pretende che la dottrina del Cristianesimo si strutturi in formule precise, dogmatiche, che lui possa usare per discriminare tra chi sta con lui e chi è contro di lui.

     Costantino convoca il primo Concilio ecumenico a Nicea nel 325 proprio per porre fine alla disputa, allo scontro drammatico sulla natura di Gesù Cristo. A Nicea si fronteggiano tre tesi.

     Ci sono i Vescovi che considerano Gesù come un "uomo", come un Rabbi ebraico adottato da Dio per rinnovare la Berit, l’alleanza con il genere umano.

     Ci sono i Vescovi che considerano Gesù come un "angelo": sono i Vescovi seguaci di Ario che ha rielaborato il pensiero di Origene.

     Ci sono i Vescovi che considerano Gesù come "vero Dio e vero uomo", secondo la formula tratta dalle Lettere di Paolo di Tarso commentate, nel I secolo, da papa Clemente Romano.

     A Nicea si impone questa terza tesi, che è la tesi della Chiesa di Roma di papa Silvestro, sostenuta anche (militarmente) da Costantino. A Nicea viene scritto il Credo, il simbolo Niceno, che stabilisce la linea della Chiesa d’Occidente: il Figlio, il Logos, viene riconosciuto come: "generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, omooùsios" secondo la formula dell’eretico Origene. A Nicea s’impone l’ideologia della Chiesa (cosiddetta) "accomodante (Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo)" e succede un fatto straordinario: al centro del Credo cristiano viene a trovarsi un concetto non biblico, ma il concetto di "sostanza", in greco "oùsia". E la "sostanza" – come ben sappiamo – è la prima categoria di Aristotele. Il concetto teoretico del Dio-cristiano trova, quindi, la sua forza nel pensiero di Platone, di Aristotele, di Ammonio, di Plotino, di Origene: Dio è Uno, una Sostanza-oùsia, in tre Persone (tre "ipostasi", idee che si personificano) uguali e distinte.

     Questa formidabile contaminazione culturale operata dal Neoplatonismo, contiene anche il concetto dell’Essere di Parmenide e contemporaneamente anche il concetto del Divenire di Eraclito, perché le tre Persone, mentre Sono quello che Sono, "procedono" l’una dall’altra. Su questa grande operazione multiculturale si radica il pensiero della Patristica (dei Padri apostolici e apologisti) ma questa è un’altra storia avvincente che si trova su un altro territorio nel quale viaggeremo in futuro.

     Tra gli allievi di Ammonio, insieme a Plotino e ad Origene, abbiamo citato e dobbiamo ricordare anche Cassio Longino, che ha fatto una brillante carriera da filologo e da retore: di lui ci rimangono molti frammenti su un Trattato di Retorica. Longino, per la sua erudizione, è stato soprannominato "biblioteca vivente" e "museo ambulante". A lui è stato erroneamente attribuito il famoso trattato intitolato Del Sublime, di cui non si conosce il nome dell’autore, perché in quest’opera ci sono delle idee che Cassio Longino ha elaborato. Del Sublime è una delle più importanti opere di critica estetica dell’antichità in cui si afferma che l’opera d’arte non è solo frutto dell’imitazione ma è soprattutto il prodotto della fantasia e del sentimento: quest’opera (e ne abbiamo già parlato) anticipa i temi del Romanticismo.

     Ma Cassio Longino entra nel vortice della storia quando viene chiamato, come consigliere, da Zenobia, la regina di Palmira: la straordinaria città della Siria che è stata recentemente portata alla luce in tutto il suo splendore. Longino diventa il primo ministro di Palmira e sostiene con grande determinazione la resistenza di Zenobia contro i Romani che stanno occupando militarmente questa zona del mondo. Palmira resiste con tutte le sue forze contro l’imperialismo romano, ma alla fine deve arrendersi e Zenobia e Longino, resistenti per l’indipendenza, vengono sconfitti dall’imperatore Aureliano e messi a morte nel 273.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 Fai un visita a Palmira utilizzando una guida della Siria o la rete, buon viaggio

     I discepoli di Ammonio prendono strade diverse ma l’impegno e la coerenza è la stessa: Plotino si sacrifica per fondare Platonopoli, Origene per la dottrina del Cristianesimo e Longino per l’indipendenza di Palmira. Ammonio li avrebbe lodati e sarebbe orgoglioso di loro visto che l’obiettivo del suo insegnamento è quello di istruire delle persone che sappiano dedicare la loro vita ad una giusta causa.

     E ora torniamo ad osservare La Scuola di Atene. Alla sinistra di Plotino, ci sono tre personaggi: abbiamo già detto che il vecchio col bastone in mano e il copricapo da scaricatore di porto è Ammonio ò Saccoforòs e, vicino a lui, ci sono due personaggi i quali non possono che essere Origene e Cassio Longino. Si è detto per molto tempo che Plotino, con il dito indice della mano destra, stia indicando il globo stellato sollevato da Zoroastro come se volesse indicare il cielo, l’Universo, il Sole che sta al centro. Da qualche tempo le studiose e gli studiosi della corrente di Fedra preferiscono pensare che Plotino stia indicando il suo piede.

     Il dito di Platone che indica il cielo, la mano di Aristotele che plana verso la terra sono senz’altro segnali significativi ma, forse, l’elemento più importante con il quale si entra a pieno titolo in questo oggetto culturale è proprio: il piede di Plotino! E pensare che Plotino s’indignerebbe terribilmente nel vedersi ritratto: perché?

     Per capire dobbiamo leggere un frammento tratto dal primo capitolo della Vita di Plotino di Porfirio: è una pagina veramente curiosa letta oggi in una società dove le persone tendono ad apparire perché, se non appaiono, sembrano dubitare della loro esistenza.

LEGERE MULTUM….

Porfirio, La vita di Plotino (301 circa.)

 Plotino, il filosofo della nostra epoca, sembrava si vergognasse di essere in un corpo. Con questo sentimento egli non volle raccontar mai nulla né della sua origine né dei suoi parenti né della sua patria. E neppure volle accanto a sé pittore o scultore, sicché ad Amelio che gli domandava il permesso di fargli fare il ritratto disse: "Non è abbastanza portare quest’immagine che la natura ci ha messo intorno, e bisognerà anche permettere che di questa immagine rimanga un’altra immagine più duratura, come se essa fosse degna di uno sguardo?". E così rifiutò e non volle posare. Ma Amelio aveva un amico, Carterio, il migliore dei pittori di allora, e lo fece entrare e assistere alle Lezioni di Plotino: poiché era permesso, a chi voleva, di frequentarle. Carterio, fissandolo a lungo da vicino, si abituò a rappresentarselo con sempre maggiore chiarezza. In seguito dipinse il ritratto conforme all’immagine che conservava nella memoria, mentre Amelio correggeva via via lo schizzo per renderlo più somigliante; e così il talento di Carterio ci diede un ritratto assai fedele, senza che Plotino lo sapesse.

     Sono rimaste poche le figure che dobbiamo ancora osservare ne La Scuola di Atene.

     Sulla destra di Plotino, al di sopra del gruppo dei geometri, possiamo osservare due bellissime figure disposte in modo molto originale. La prima figura è seduta e scrive su un quaderno che sta appoggiato sulle gambe accavallate. La seconda figura ha posato il gomito sulla sporgenza della colonna e punta lo sguardo sul quaderno, le gambe sono in una posizione armonica. Queste due figure stanno dentro ad una ben calibrata linea curva: chi sono e che cosa rappresentano? Rappresentano un maestro e un discepolo che svolgono la loro attività senza nessuna comodità, devono cercare l’equilibrio, l’armonia: ma in qualunque condizione la Scuola, l’attività di studio, la lettura e la scrittura sono possibili. Si tratta di un esempio di quello che – secondo la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – è l’insegnamento "dia-logico", del "cercare insieme", del mettersi insieme in equilibrio, in armonia.

     Qui, in questa immagine, c’è anche una scelta avanzata dal punto di vista didattico, e si capisce che è iniziata l’Età moderna. Nel mondo classico, prima viene l’oralità, viene l’apprendimento nella dimensione dell’oralità e lo studio della scrittura è incluso nell’ambito dell’oralità dialettica, ma Platone aveva già cambiato mentalità e i suoi Dialoghi – molti dei quali costituiscono la trama del contenuto de La Scuola di Atene – ne sono uno straordinario esempio. In questa immagine, e in tutto l’affresco, i membri del gruppo di studio che predispone il contenuto de La Scuola di Atene attribuiscono una centralità alla "scrittura", proprio in senso dialogico: come poter dialogare (prima di tutto con se stesse e con se stessi) se non scrivendo, se non dedicandosi, dieci minuti al giorno, alla scrittura?

     Nella nicchia di destra troviamo la bianca figura di Febo Apollo (di cui abbiamo parlato) mentre nella nicchia di sinistra viene raffigurata la statua di Atena. Atena è figlia di Zeus e nasce dal suo capo tutta armata, come la vediamo raffigurata qui. Atena nasce dal capo di Zeus subito dopo che Zeus (che ha istinti cannibalici) ha inghiottito la sua prima moglie Metide.

     Della figura mitica di Metide se ne parla sempre poco. Chi è Metide? Intanto dobbiamo dire che il suo nome contiene la radice del termine greco "metis metis" che significa "prudenza", e Metide, nella Teogonia greca, è la personificazione della prudenza. Metide è la figlia di Oceano e di Teti, entrambi di stirpe titanica, due figure mitiche che stanno un po’ più in basso degli dèi. Metide è una fanciulla prudente e molto accorta, e quando Crono, il signore del mondo, decide di divorare i suoi figli (Vesta, Demetra, Era, Ades, Poseidone e Zeus) perché nessuno di loro gli portasse via il posto, Metide, che amoreggiava con Zeus, offre a Crono una tisana per la digestione: lui accetta, ma è una tisana emetica e così non li digerisce ma li vomita. Zeus, che è il più aggressivo, mette fuori combattimento Crono, e prende il potere e fa "ministri" i suoi fratelli e le sue sorelle. Naturalmente – soprattutto per riconoscenza – sposa anche Metide la quale rimane incinta e Zeus, che era proprio un "figlio di Crono", prima che lei partorisca la divora ma, dopo qualche giorno, dal capo del dìo, nasce Atena, sbucando da un orecchio già vestita con l’armatura.

     Le caratteristiche di Atena (che assomiglia tutta a sua madre) sono la prudenza e la forza: è la dea della guerra e dell’intelligenza, è la protettrice delle città, è la dea delle arti e delle scienze. Atena ammaestra gli esseri umani a domare i tori, inventa l’aratro e l’arte dell’utilizzazione del fuoco, insegna a filare, a tessere, a tingere. La sua città è Atene dove c’è la sua statua più famosa e venerata: è sull’Acropoli ed è stata scolpita da Fidia. Sul capo porta un elmo con un occhio e sul petto un’egida – in greco "egis egis" significa "protezione", "difesa" – quindi uno scudo. L’egida – secondo il racconto mitico – è uno scudo costruito con la pelle invulnerabile della capra Amaltea. Nell’orlo dello scudo ci sono i serpenti e al centro la testa di Medusa, una figura coi serpenti per capelli e con uno sguardo che fa restare di sasso chi la guarda. Medusa è stata ridotta così dalla dèa Afrodite perché è una fanciulla bellissima e vuole contendere ad Afrodite il primato della bellezza. Sappiamo – dai racconti mitici della sapienza poetica orfica – quanto siano vendicative queste dee olimpiche! A Medusa viene tagliata la testa da Perseo, che la usa come arma per far impietrire i suoi nemici (Benvenuto Cellini ha ben rappresentato questa scena). Atena è armata di lancia e gli animali a lei sacri sono la civetta e il gallo.

     Qui, nella nicchia, con parte di questo armamentario, nello splendore del "chiaroscuro", Atena viene presentata come protettrice delle scienze e della ricerca scientifica. Per i Neoplatonici, poi, Atena è la dea della filosofia per eccellenza. La statua di Atena – lo sappiamo – diventa il simbolo dell’Accademia di Platone e poi della Scuola di Atene, che ne è la continuazione. Plotino cita spesso Atena nelle Enneadi come simbolo della filosofia. Secondo la Tradizione neoplatonica, Proclo di Costantinopoli ha fatto un sogno: ha sognato una bellissima signora, la dèa che presiede alla filosofia, la quale non solo lo incita a studiare ma lo esorta ad andare ad Atene a mettere in salvo la sua statua che i Cristiani – ormai al potere – vogliono distruggere, Proclo va e la mette al riparo portandola in casa sua.

     Questo – che abbiamo rievocato molte volte, e che ancora rievocheremo – è l’atto simbolico della fine della civiltà greca, della filosofia greca. Nel 529 l’imperatore Giustiniano chiude la Scuola di Atene: i Neoplatonici si disperdono per il mondo, Atena diventa il simbolo della resistenza della cultura filosofica greca che si fonda sulla sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele. Mille anni dopo la statua di Atena ritorna ad occupare il suo posto nel nuovo Olimpo, in camera di un papa: sagace accentratore di potere intellettuale che è stato capace di riaprire per sempre La Scuola di Atene.

     Sull’affresco, in basso a sinistra, all’estremo margine della lunetta, appaiono due ritratti: il primo è quello di Raffaello e il pittore ha trovato un modo molto elegante per firmarsi. Raffaello ci tiene molto a ritrarsi tra questi grandi personaggi: lo fa con umiltà mettendosi in margine, all’ultimo posto, in fondo a sinistra. Raffaello in verità ha già firmato l’opera in forma cifrata, come se fosse una ricamatrice. Anche con le proporzioni della nostra copia dell’affresco non è facile vedere queste cifre che appaiono sul colletto della tunica di Euclide raffigurato con i tratti di Bramante. Bisogna proprio avvicinarsi per vedere la firma che è formata da quattro lettere in oro: R.V.S.M. e, ricordando che la V è l’antica grafìa della U, noi quindi leggiamo: Raphael Urbinas Sua Manu.

     Accanto a sé Raffaello ritrae il pittore che lo ha aiutato materialmente – al quale si deve la maggior parte del lavoro manuale di quest’opera – e che è diventato buon amico di Raffaello: Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma. Giovanni Antonio Bazzi è nato a Vercelli nel 1477 ed è morto a Siena nel 1549, ed è stato un ammiratore e un allievo di Leonardo dal quale ha imparato quello sfumato particolare fatto di ombre grigio azzurre, e le figure che dipinge sono languide, nostalgiche, velate di malinconia, come quelle di Leonardo. Giovanni Antonio Bazzi è stato anche – come Raffaello – allievo del Vannucci, detto il Perugino quando ha lavorato a Siena. Il Sodoma – così ormai viene comunemente chiamato – è un artista (considerato di secondo piano rispetto ai grossi calibri di cui è circondato) che non deve essere sottovalutato: intanto ci rappresenta (anche lui) degnamente al museo del Louvre a Parigi con un quadro importante intitolato Amore e castità, poi ha affrescato le Storie di San Benedetto nell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore ad Asciano, in provincia di Siena. Inoltre alla Farnesina – la villa di Agostino Chigi che oggi è la sede del ministero degli esteri – il Sodoma ha affrescato la camera da letto con Storie di Alessandro (Alessandro Magno) e Rossana (la sua moglie persiana). Poi in San Domenico a Siena il Sodoma ha affrescato le Storie di Santa Caterina.

     Il contributo del Sodoma (dal 1508 al 1511) all’affresco che porta la firma di Raffaello è notevole e lui lo fa volentieri – anche se il suo è un lavoro di "manovalanza" (per giunta non sappiamo se il Sodoma abbia fatto parte attiva del gruppo di studio che prepara il contenuto de La Scuola di Atene) –: il Sodoma fa volentieri questo lavoro da "operaio" tanto perché si guadagna la giornata e poi perché è consapevole che ha molto da imparare e difatti, nell’opera che ha compiuto alla Farnesina (nel 1512-1513), si vede che ha sviluppato uno stile raffinato, eclettico, elegante, d’impronta raffaelliana, pur mantenendo caratteristiche proprie. Sulle pareti della Farnesina, dicono le esperte e gli esperti, ci sono i capolavori di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

È probabile che in biblioteca, su un fascicolo di Storia dell’Arte, o sulla rete tu possa trovare le opere di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma e tu le possa osservare, buona ricerca

     Anche queste due figure, i ritratti di Raffaello e del Sodoma, come la figura di Eraclito, non le troviamo sui cartoni preparatori e sono state aggiunte alla fine e probabilmente Raffaello ha voluto fare una sorpresa al suo compagno di lavoro.

     Il problema di fondo che dobbiamo porci è se Raffaello voglia comparire nell’affresco solo per firmarsi, come pittore, oppure intenda presentarsi anche come "filosofo", come pensatore, come esponente del pensiero neoplatonico? Raffaello – e insieme a lui gli altri membri del gruppo di studio: Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante (e forse anche il Sodoma) – potrebbe qui rappresentare il pensiero del Neoplatonismo rinascimentale sulla bellezza e sull’Arte, perché, a questo proposito, si pone un delicato problema.

     Platone, che sta al centro dell’affresco, e Plotino, che rappresenta il Neoplatonismo originario ("In Plotino rivive Platone", scrive Marsilio Ficino) come la pensano sul tema dell’Arte? Socrate, Platone, Aristotele, Plotino e tutti coloro che compaiono nell’affresco avrebbero voluto essere ritratti? Abbiamo già constatato come Plotino non voglia assolutamente "apparire".

     Platone pensa che l’unica vera arte sia l’applicazione dell’Eros, cioè della spinta verso la conoscenza dell’idea del Bene. Plotino pensa che l’unica vera arte sia l’applicazione dell’epistrophé, la spinta intellettuale verso il ritorno all’Uno, al riappropriarsi del proprio Intelletto. Nella concezione di Platone – ne abbiamo parlato altre volte nei nostri Percorsi – l’Arte, o meglio le Arti (poesia, pittura, scultura, musica…) sono un fenomeno svantaggioso che non può trovare posto nello Stato ideale che Platone teorizza. L’attività artistica che immancabilmente – scrive Platone – cade nelle grinfie del mercato, corrompe, distrae le persone dalla costruzione dello Stato ideale. E allora: quando Platone, nel testo della Repubblica, enumera i fondamenti dell’educazione di cittadine e cittadini che, prima di accedere alla filosofia, devono dedicarsi alla ginnastica, alla matematica, alla geometria, all’astronomia, e anche al disegno, alla musica e al canto corale, si contraddice? Bisogna riflettere. E Plotino che, per educare all’epistrophé, prescrive la solidarietà, la filosofia e la musica, si contraddice? Bisogna ragionare…

     L’immagine di Raffaello e del Sodoma, in margine, a rappresentare la figura del "pittore" è un chiaro invito a riflettere sul tema dell’Arte e, in particolare, sul tema dell’autonomia dell’Arte e sull’autonomia che l’Arte ha ormai conquistato all’inizio del XVI secolo nel territorio della cultura. L’età "moderna" è caratterizzata da una parola-chiave che accompagnerà il nostro cammino didattico nei futuri Percorsi nel territorio dell’Età moderna (quando ci torneremo), questa parola-chiave, la parola-chiave dell’età moderna è: "autonomia". Le studiose e gli studiosi della corrente di Fedra mettono ben in evidenza che il Neoplatonismo rinascimentale vuole conciliare il pensiero di Platone con lo sviluppo dell’Arte. E il Neoplatonismo rinascimentale non vuole condurre questa operazione in modo strumentale, ma la vuole portare a compimento attraverso una profonda riflessione sulle opere di Platone.

     Adesso noi – nel momento in cui ci avviciniamo alla fine di questo viaggio – puntiamo l’attenzione solo su alcuni aspetti di questa riflessione inerenti al cammino che abbiamo fatto.

     È un po’ paradossale che Platone, il più artista fra tutti i pensatori (uno dei più grandi "poeti" della storia del Pensiero Umano), sia anche colui che ha più decisamente bandito l’Arte dalla vita dello Stato. Platone è sarcastico quando dice, ma noi, probabilmente, lo capiamo: "Volentieri noi, dopo aver sparso profumi e averli coronati, gli artisti, li allontaneremo in direzione di un’altra città" (come dire: "che vadano a far danni altrove").

     Ebbene il paradosso si attenua se noi teniamo conto che, nel mondo greco le Arti (la poesia per esempio) non appartenevano, come per noi moderni, a una sfera autonoma dell’attività intellettuale, culturale, e dello spirito. L’opera d’arte, per le artiste e per gli artisti rinascimentali, è invece il prodotto e l’oggetto della facoltà estetica, della fantasia, il cui valore specifico non è né il bene né il vero, ma è esclusivamente il bello, inteso come il gusto dei significati. La dottrina dell’autonomia dell’arte – sulla quale anche oggi si discute – non è stata mai concepita nell’antichità greca, nella cultura orfica e difatti Omero, Esiodo, Eschilo non sono mai per i Greci soltanto dei poeti: sono ritenuti veri educatori, portatori di messaggi validi anche sul piano religioso, morale e civico. Una citazione di Omero è argomento probante persino nei dibattiti in tribunale. Per la società greca il patrimonio poetico – la sapienza poetica orfica – tramandato dagli antichi è quel che, per i Cristiani, è l’Antico Testamento.

     Platone analizza la situazione istituzionale della "democrazia di Pericle": la democrazia ateniese governata da Pericle è sinonimo di grande splendore e rende un vero culto agli artisti, ai poeti in particolare ai quali si elargiscono guadagni spropositati, si favoriscono scene di isterismo collettivo, e il traffico degli amuleti. Ebbene questa caratteristica "alienante" è quello che Platone contesta all’arte: se l’Arte non insegna ma aliena, non può che contribuire al trionfo dell’incompetenza di massa, dell’ignoranza, della volgarità, dell’inconsistenza, della corruzione.

     Scrive Platone: "La popolarità di cui godono la poesia epica e quella tragica si spiega col fatto che l’immagine che esse offrono della vita degli uomini e degli dèi è del tutto rispondente alla vita del popolo, dominata, non dalla ragione e dal sentimento ma dalle peggiori passioni, e una volta che la città abbia messo al centro di se stessa l’ideale della giustizia, intesa come un riflesso dell’idea del Bene, allora nella città, non c’è più posto per il culto degli artisti".

     Platone sostiene la sua dottrina – che l’Arte è fatta più per alienare che per rivelare –con due argomentazioni del tutto coerenti con il suo sistema di pensiero: la prima è basata sulla definizione dell’arte "come imitazione della realtà", in greco "imitazione" si traduce "mimesis", quindi questa viene chiamata: l’argomentazione mimetica. Poniamo – scrive Platone – che un pittore dipinga una sedia, ebbene, egli imita un oggetto fabbricato da un artigiano, ma l’artigiano, a sua volta, non ha fatto che imitare l’idea di sedia, che è un’idea eterna, immutabile, unica per tutte le sedie. "Il pittore – scrive Platone – imita l’imitazione della verità, e quindi, la sua è una fatica inutile: l’arte è imitazione dell’imitazione e allontana dalla realtà". Il ragionamento di Platone è aporetico, è un paradosso, e ci pensa poi il suo discepolo Aristotele a puntualizzare che l’Arte è un aiuto, è uno strumento per ricercare i valori, le idee che stanno nelle cose, e, in questo caso l’Arte avvicina alla realtà. Per questo – scrive Aristotele, che condivide il pensiero di Platone sulla natura alienante che l’arte può avere – "l’Arte va purgata dai culti, dai guadagni, dall’isterismo collettivo. L’arte non purgata è inferiore alla realtà sensibile, lontana dalle Idee più di quanto non lo siano le cose".

     La seconda argomentazione di Platone si adatta soprattutto ai poeti i quali creano delle mostruose parodie dell’idea del Bene, della santità dell’idea del Bene. Gli dèi descritti dai poeti non solo hanno gli stessi vizi degli umani, amplificati sulla loro misura, ma si servono della loro potenza per guidare a proprio arbitrio la vita degli umani, e quindi, giusto o ingiusto che sia, l’essere umano è alla mercé del capriccio degli dèi, e così viene svuotato della capacità di costruire da sé la propria vita. "Se il cielo è abitato dall’arbìtrio – scrive Platone – come si potrà costruire una città fondata sulla ragione?".

     Non si può non riconoscere l’attualità dell’esigenza etica e politica di Platone quando vuole mettere in evidenza il principio teologico dell’identità tra divinità e santità morale (se dio c’è deve essere buono e giusto), e quando vuole mettere in evidenza il principio antropologico della responsabilità che ha la persona nel dare alla propria vita l’impronta della bontà e della giustizia. Possiamo quindi dire – e le intellettuali e gli intellettuali rinascimentali sono giunti a questa conclusione – che la polemica di Platone non è contro il concetto di Arte, contro l’Arte in assoluto: se, infatti, ricordiamo il mito della caverna, nel Libro VII della Repubblica, capiamo bene che Platone è contro l’Arte prodotta dentro la caverna, e cioè dentro la prigionìa delle passioni, dei culti, dei guadagni, degli isterismi, dell’ignoranza, della volgarità.

     Platone auspica un’Arte nuova, che sia il riflesso della bontà, dell’intelligenza, della ragione, del sentimento, della fantasia. "Il vero artista – scrive Platone – è come posseduto da un dio, dall’Eros, cioè si lascia prendere dall’interesse, dalla curiosità, dallo stupore: usa l’Arte per conoscere". Queste parole Platone le scrive nel Fedro, il dialogo sul concetto della bellezza e per Platone il problema è politico: l’Arte ha senso in funzione della conoscenza, e la conoscenza ha senso in funzione del Bene della polis. E Platone, nel Fedro, afferma in modo chiaro il suo pensiero: "Il Ben-essere della polis si sviluppa se il cittadino è un artista che vive non di politica ma per la politica".

     E alla fine, dopo il lungo viaggio che abbiamo percorso, che cosa resta da osservare nello spazio dell’affresco intitolato La Scuola di Atene? Restano ancora quattro figure da osservare: quattro personaggi sconosciuti che, di spalle, stanno salendo le scale e – così sembra – stanno uscendo di scena. Chi sono questi personaggi e dove vanno? Se escono da questa straordinaria basilica, vengono a trovarsi nel mondo sotto questo cielo dipinto. Fuori di qui, sotto a questo cielo azzurrino velato di nuvole bianche: che tipo di vita c’è e soprattutto quali oggetti culturali ci sono? Sotto questo cielo c’è il XVI secolo, il 1500, che è appena iniziato, c’è l’età moderna ai suoi albori. Quindi fuori dalla basilica, sotto questo cielo azzurrino velato di nuvole bianche, sta per cominciare un quinquennio, sta per iniziare una sequenza cronologica in cui si mette in moto la storia culturale dell’età moderna.

     Abbiamo detto che la parola "autonomia" è la parola-chiave che caratterizza l’età moderna e, questa parola significativa, traspare, come in filigrana, tra le velature di questo cielo azzurrino che rappresenta l’ultimo quadro dell’affresco che ci rimane da interpretare. L’età moderna ha inizio con un quinquennio durante il quale assistiamo alla pubblicazione di una serie di importantissime opere che noi – fedeli alla natura del nostro Percorso di didattica della lettura e della scrittura – vogliamo, in conclusione, citare perché queste opere sono subito fuori dalla basilica, sotto questo cielo. Le opere e i pensatori che citiamo questa sera li studieremo in modo più preciso, in futuro, quando entreremo più propriamente nel territorio dell’età moderna, ora dobbiamo rimanere nell’ambito de La Scuola di Atene, ce ne allontaniamo solo in modo virtuale.

     Il quinquennio durante il quale la cultura moderna comincia il suo cammino si apre nel 1513 con la pubblicazione del Principe di Niccolò Machiavelli, che, per comune riconoscimento, contiene le idee che inaugurano la concezione dello Stato moderno e l’idea dell’autonomia della politica.

     Nel 1515 Erasmo da Rotterdam pubblica gli Adagia, e in quest’opera mette in evidenza quello che, secondo lui, è il vizio di fondo della cristianità: secondo Erasmo il Kerigma, il messaggio evangelico, e la Letteratura dei Vangeli è subordinata al Diritto romano, la morale cristiana si è conformata alla tradizione della legislazione romana e quindi ha perso lo slancio propulsivo e, di conseguenza, per Erasmo, è necessario costruire una autonomia del messaggio evangelico.

     Nel 1516 Tommaso Moro pubblica Utopia, un’opera in cui immagina un mondo non più funestato dagli scontri teologici e dalle sanguinose guerre di religione. In quest’opera Moro manifesta l’idea di una città ideale nella quale non c’è odio perché le Istituzioni garantiscono i diritti inviolabili della persona. Per Moro è necessario insegnare alla persona ad acquisire la propria autonomia morale e intellettuale.

     Nel 1517 Martin Lutero affigge le sue Tesi contro la Chiesa di Roma sulla porta della cattedrale di Wittenberg. Il filo conduttore delle Tesi di Lutero è il concetto dell’autonomia della coscienza di ogni singolo individuo.

     In questa sequenza cronologica c’è rimasto un vuoto: quello dell’anno 1514. Ebbene nel 1514 c’è stato un avvenimento, molto importante, un evento che è passato quasi inosservato come tutti i veri grandi eventi. Non è passato, però, inosservato agli uomini di potere dell’epoca. Questo avvenimento è passato più facilmente inosservato anche perché è successo fuori dall’Europa: è successo nel così detto Nuovo Mondo, l’America, per la precisione in quella che verrà chiamata l’America Latina perché diventa una colonia delle superpotenze europee, un vasto e ricco territorio di rapina da parte delle potenze del vecchio continente. Il territorio centro americano, tra il golfo del Messico e il Mar dei Caraibi – di cui stiamo parlando – era stato denominato il territorio delle Indie settentrionali, e diventa, nel 1514, il luogo di nascita della "teologia della liberazione". La "teologia della liberazione" è una disciplina che ha preso forma più ampia solo alla fine del secolo scorso e che ha avuto una vasta eco con il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). È importante ragionare sul fatto che il concetto di "teologia della liberazione" precede gli Adagia di Erasmo da Rotterdam, l’Utopia di Tommaso Moro e la Riforma luterana.

     Quello che è accaduto il giorno di Pasqua del 1514 è quindi un evento proiettato verso il futuro: che cosa è successo il giorno di Pasqua del 1514 sull’isola di Hispaniola? L’isola di Hispaniola oggi si chiama Haiti, e si trova nel Mar dei Caraibi. Chi comanda ad Hispaniola nel 1514? Ad Hispaniola comanda, in nome del re di Spagna, un encomendero – alla lettera: un affidatario – cioè un amministratore di una proprietà della corona spagnola, costituita da terre da far coltivare e da schiavi indigeni da sfruttare. Questo encomendero è anche un religioso (un "padre-prete") e appartiene all’ordine domenicano, e voi sapete che il villaggio più importante di Hispaniola è stato chiamato Santo Domingo, e tuttora continua a chiamarsi così (evocando cose esotiche). L’encomendero di Hispaniola ha un potere simile a quello di un vescovo e si chiama Bartolomé de Las Casas.

     Bartolomé de Las Casas è nato a Siviglia nel 1474, ha quarant’anni, è un bell’uomo, intelligente e caparbio che ha fatto carriera e vuole continuare a salire nella scala gerarchica del potere. Nel 1502 sbarca, come cappellano militare – o meglio come "padre-prete" (questo è il titolo dato ai religiosi inquadrati nell’esercito spagnolo) – con l’esercito dei "conquistadores". Bartolomé de Las Casas ne vede di cose orribili: assiste e partecipa ai massacri, agli eccidi, alle violenze brutali compiute contro le popolazioni indigene, inermi e mansuete. Pochi anni dopo i primi viaggi di Colombo la penetrazione spagnola, in queste terre dell’America centrale, ha assunto le forme di una brutale colonizzazione con il genocidio delle popolazioni locali.

     I frati domenicani sono arrivati subito, con Cristoforo Colombo, il quale aveva una mentalità cosmopolita, pensava che questi "indiani" fossero cittadini del mondo, Uomini a pieno titolo, sebbene da civilizzare. Anche la prima generazione di frati domenicani ha questa mentalità e questi "missionari" vogliono convertire al Cristianesimo (le campagne di conversione sono sempre negative) ma almeno questi primi frati si disperdono sul territorio e cercano di integrarsi con le popolazioni che vi abitano. Pensano che questi "indiani" siano figli di Dio al pari degli europei, e pensano che abbiano un’anima anche loro.

     Per questo motivo gli atti di violenza contro le popolazioni locali dell’America centrale e meridionale suscitano (in nome del Vangelo) le denunce e le proteste di questa prima generazione di domenicani "filo-indigeni" e naturalmente, ad un certo momento, la corona spagnola non li riconosce e non li finanzia più ma li etichetta come "falsi missionari" e come "traditori". Di conseguenza vengono inviati altri religiosi, i "veri-missionari", chiamati "padri-preti", che sono integrati e hanno un grado nell’esercito spagnolo e accumulano, da subito, per la loro crudeltà, una pessima fama.

     Si legge in un libro Maya della metà del 1500: «Che tristezza! Quando essi sono arrivati! Questo Dio vero, che viene dal cielo, parla solo di peccato e solo peccato sarà il suo insegnamento. Inumani saranno i suoi soldati, crudeli i suoi mastini feroci. Così è stato l’inizio dell’opera degli spagnoli e dei padri-preti, l’inizio dei tiranni! Ma arriverà il giorno in cui saliranno fino a Dio le lacrime del popolo e scenderà la giustizia di Dio, di colpo!».

     Il dio dei "padri-preti" è una costruzione ideologica della cristianità europea per giustificare il nuovo slancio di espansione, per legittimare la conquista imperialista del nuovo continente. "Un dio che ha in una mano la verità e nell’altra la spada non può essere né creatore né provvidente": così la pensano Savonarola, Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro, i domenicani filo-indigeni, ma la Chiesa di Roma non li ascolta e si fa complice della conquista e del genocidio.

     Bartolomé de Las Casas da mesi è inquieto e la mattina di Pasqua del 1514, quando si accinge a celebrare la messa all’aperto – l’altare è posto su di un palco davanti ad una vasta spianata in riva al mare – qualcosa lo turba nel suo intimo. Da più di un’ora, a gruppi, stanno arrivando centinaia di persone: è il popolo di Hispaniola formato da qualche decina di ricchi coloni spagnoli proprietari di terre e da centinaia di indigeni ridotti in schiavitù.

     Bartolomé de Las Casas, in quanto encomendero, sovrintende a tutta l’attività di sfruttamento economico dell’isola ed è anche il comandante della guarnigione dei soldati spagnoli, dell’esercito di occupazione, trecento soldati ben armati ai suoi ordini. Bartolomé de Las Casas osserva dal palco, dove è sistemato l’altare, questa processione ed è profondamente turbato: lì, in quel posto meraviglioso che assomiglia al giardino dell’Eden, ha cominciato a rileggere i Libri dell’Antico Testamento e ha scoperto molte cose alle quali non aveva mai fatto caso, soprattutto leggendo i Libri sapienziali e poetici.

     Ma non è solo questo elemento intellettuale a farlo riflettere, un’altra cosa lo turba profondamente: sa che ci sono altri Domenicani sull’isola, che sono sbarcati più di dieci anni prima, e che si fanno chiamare "liberi-frati". Vivono nell’entroterra dove, per i conquistatori, è difficile inoltrarsi e dove si sono rifugiati gli indigeni che sono riusciti a sfuggire alla cattura e alla schiavitù. Bartolomé de Las Casas lo sa, e da buon diplomatico, cerca di mettersi in contatto con loro e, approfittando del clima di tranquillità che lui è riuscito a creare ad Hispaniola, tesse dei rapporti con uno di loro, con il loro superiore.

     Bartolomé de Las Casas conosce molto bene la persona che guida i "liberi-frati" sul territorio di Hispaniola, lo conosce di fama e di fatto, perché quest’uomo è stato uno dei suoi professori all’Università: quello che ha sempre ammirato di più. Quest’uomo è il padre domenicano Antonio Montesinos che è stato un famoso magister nelle Università iberiche di Coimbra, di Salamanca, di Avila e di Toledo. Nel 1498, quando arriva a Madrid, da Firenze, la notizia del rogo di Savonarola e dei suoi compagni domenicani, padre Montesinos capisce che l’Europa non è più il posto per lui. "Dio è altrove, tra gente più semplice e degna", così scrive in un biglietto per il suo superiore e poi, clandestinamente, s’imbarca per il nuovo mondo con un gruppetto di "liberi-frati".

     Quando Bartolomé de Las Casas lo incontra segretamente per la prima volta rimane colpito: padre Montesinos è ormai un uomo anziano, ma ancora molto valido, che ha un aspetto del tutto nuovo perché si è integrato nella vita degli Indios, parla la loro lingua, rispetta profondamente i loro usi e costumi, e soprattutto non ha imposto il Cristianesimo ma ha proposto il Vangelo come strumento per migliorare le condizioni di vita di queste popolazioni. Il Vangelo – dice padre Montesinos a Bartolomé de Las Casas – non prevede assolutamente il "requerimiento", cioè l’esproprio con la violenza della terra e della libertà personale delle popolazioni indigene. "Come si può concepire – afferma padre Montesinos – che il Battesimo possa essere imposto a queste persone per poterle schiavizzare: questo è inaudito!". "Il Battesimo – afferma padre Montesinos – io lo somministro dentro i riti di purificazione che rappresentano la tradizione culturale di queste popolazioni e il Battesimo serve per renderli più liberi perché Dio ha creato tutti gli Uomini liberi, e non ci possono essere schiavi per natura: noi invasori stiamo commettendo un crimine contro l’Umanità e contro Dio".

     Bartolomé de Las Casas – dopo alcuni colloqui segreti con padre Montesinos – comincia a riflettere e capisce di aver sbagliato qualcosa e di aver molto da imparare. Allora cerca la via della riconciliazione con i "liberi-frati" e chiede a padre Montesinos se, per l’inizio della Quaresima, vuole celebrare la messa e tenere l’omelia davanti ai coloni, ai soldati e agli schiavi. Padre Montesinos accetta e, il mercoledì delle Ceneri del 1514, si presenta vestendo il suo vecchio abito da magister domenicano e, con un modo di fare molto rassicurante, comincia a celebrare la messa ma all’omelia cambia tono: il testo di questa predica è divento famoso perché Bartolomé de Las Casas lo riporta nelle sue opere scritte.

     Padre Montesinos, inizialmente, si rivolge ai ricchi coloni spagnoli in modo molto accorato parlando delle impossibili condizioni di vita degli indigeni nelle isole caraibiche, accusandoli di essere responsabili delle ingiustizie che subiscono, e minacciandoli di eterna perdizione.

     I coloni, da prima, rimangono sbigottiti, poi assumono un atteggiamento ostile e minaccioso ma padre Montesinos, per niente intimorito, alza la voce: «Questa voce vi dice che siete tutti in peccato mortale (e dà un’occhiata significativa anche a Bartolomé de Las Casas che appare preoccupatissimo e pentito di aver invitato il suo ex magister), questa voce vi dice – continua padre Montesinos – che in peccato mortale vivete e che in esso morirete per la crudeltà e la tirannia che usate contro queste genti innocenti. Dite, con quale diritto e con quale giustizia tenete in sì crudele e orribile servitù questi Indiani? Con quale autorità avete condotto sì detestabili guerre contro queste genti che vivevano mansuete e pacifiche nelle loro terre, in queste terre dove in numero infinito li avete annientati con morti e scempi di cui mai s’era udito prima? Come potete tenerli così oppressi e fiaccati, senza nutrirli né curarli nelle loro malattie, sì che per eccessiva fatica vi muoiono tra le mani, o per meglio dire li uccidete, onde cavarne oro da accumulare un giorno dopo l’altro? Tenete per certo che, a cagione del modo in cui vivete, non potrete salvarvi più di quanto lo possano fare quelli che rifiutano la fede di Gesù Cristo». A questo punto i coloni cominciano a urlare e, sicuri del loro diritto di possedere quelle terre e quegli schiavi, si fanno minacciosi.

     Il capitano dei soldati guarda Bartolomé de Las Casas e aspetta gli ordini. Bartolomé de Las Casas si è alzato e fa segno a tutti di stare calmi: è un momento molto difficile ma padre Montesinos non si ferma e, nella lingua degli Indios, si rivolge agli schiavi con parole di conforto e di benedizione, e loro si alzano e rispondono ad alta voce alzando ritmicamente le braccia. La tensione è altissima Bartolomé de Las Casas si avvicina a padre Montesinos e lo invita a tacere e lo sollecita a scappare dicendogli: «Ma che cosa vi è venuto in mente di dire queste cose?». E padre Montesinos risponde sicuro: «Mi chiedi che cosa mi sia venuto in mente? Lo sai che tutte le parole che ho pronunciato sono scritte nella Bibbia, fanno parte della Sacra Scrittura, sono parola di Dio? Ma l’hai studiata la Bibbia, figliuolo? Mi viene il dubbio che tu non l’abbia mai letta sebbene tu sia stato un alunno assai diligente!". Detto questo salta giù dal palco – padre Montesinos, nonostante l’età, è ancora agile – e sparisce nella selva da dove era venuto. Bartolomé de Las Casas prende in mano la situazione, riporta la calma con la sua autorità, e continua la celebrazione del rito quaresimale, ma naturalmente questo avvenimento lo ha turbato profondamente: non è più la stessa persona che era prima.

     E, quindi, il giorno di Pasqua del 1514, Bartolomé de Las Casas, mentre aspetta che il suo popolo si sistemi davanti al palco, cerca di concentrarsi sull’omelia, sulla predica che avrebbe dovuto fare. Sul leggìo accanto all’altare c’è un volume della Bibbia e lui lo sfoglia per cercare un’ispirazione, e i suoi occhi capitano sul libro del Siracide: l’Ecclesiastico nella traduzione latina di Gerolamo. Bartolomé de Las Casas non aveva mai più letto il Siracide dal tempo in cui era uno studente nel grande monastero domenicano di Siviglia e non si ricordava neppure di che cosa parlasse questo libro, e poi gli ultimi due decenni della sua vita li aveva passati non certo a leggere e a studiare la Bibbia ma a farsi strada nella politica e nella diplomazia. Bartolomé de Las Casas fissa l’attenzione su un brano del Siracide, sulla parte finale del capitolo 34 dove si legge: "Sacrificare il frutto dell’ingiustizia è un’offerta da burla. L’Altissimo non gradisce le offerte degli empi. È come se sacrificasse un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri". Queste parole così esplicite bastano perché si completi in lui l’opera di cambiamento e durante la predica di quella messa di Pasqua del 1514 Bartolomé de Las Casas legge questi passi del Siracide e poi, prima di dare le dimissioni da encomendero, libera gli schiavi e li invita a seguirlo nella sierra dove darà vita allo Stato degli Indios.

     Prima che la notizia arrivi in Spagna, e si scateni la reazione, Bartolomé de Las Casas si trasferisce a Cuba e poi nel continente dell’America centrale dove organizza e guida, anche militarmente, la lotta per l’indipendenza degli Indios. Bartolomé de Las Casas viene dichiarato fuori legge, ricercato e combattuto, ma lui riesce a resistere, a sfuggire e a mimetizzarsi man mano che passano gli anni.

     Naturalmente comincia a scrivere un’opera significativa, terminata nel 1542, intitolata Brevissima relazione della distruzione delle Indie (facilmente reperibile in biblioteca), che è un terribile memoriale d’accusa contro il colonialismo europeo dove descrive, nei minimi particolari, l’allucinante barbarie della macchina coloniale che distrugge intere popolazioni e rapina le loro ricchezze. Questo memoriale è ancora di grande attualità come inquietante testimonianza degli orrori del colonialismo e, nel contempo, è una vibrata protesta perché l’evangelizzazione non diventi un processo di conversione forzata che favorisce lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: l’evangelizzazione è, prima di tutto, un cammino di conversione personale.

     Nel 1544 a settant’anni, sotto mentite spoglie, Bartolomé de Las Casas ritorna in Spagna, entra in contatto con i domenicani legati ai "liberi-frati" e cura la pubblicazione della sua opera, poi torna nelle Indie a continuare la lotta per l’autonomia dei popoli in nome del Vangelo. La vita attiva fa bene a questi frati e a novant’anni Bartolomé de Las Casas vuole dire la sua ultima parola nel cuore del potere: nel 1566 – dopo aver compiuto novantadue anni – parte ancora come clandestino per la Spagna. Madrid si presenta nel grande Monastero di Santo Domingo de la Calzada, nel cuore del potere domenicano. Quando si rendono conto di chi hanno di fronte si crea una situazione di grande disagio, ma Bartolomé de Las Casas sente di avere la coscienza a posto e si presenta al generale dell’ordine dicendo: «Caro fratello, o meglio, caro nipotino, ho vissuto da frate domenicano in nome del Signore, e questo è il mio posto». Il superiore impaurito gli dice: «Ma padre, lei ci mette nei guai, è stato condannato, è ancora ricercato, lo sa che non può vivere qui». E lui risponde ridendo: «Figliuolo, non sono venuto a vivere qui, sono venuto a morire qui e a dirvi che il mio lavoro è finito ma va continuato». È il 2 luglio 1566, il 17 luglio muore.

     Bartolomé de Las Casas è una di quelle persone che riassume in sé tutte le istanze intellettuali e morali che i personaggi rappresentati ne La Scuola di Atene mettono in evidenza e che noi abbiamo studiato.

     E alla fine – ci siamo già chieste e chiesti – che cosa resta da osservare nello spazio dell’affresco intitolato La Scuola di Atene? Restano ancora quattro figure da osservare: quattro personaggi sconosciuti che, di spalle, stanno salendo le scale e – come sembra – stanno uscendo di scena. Chi sono questi personaggi e dove vanno? Queste figure sono anche un accorgimento pittorico, sono un espediente formale che serve per dare movimento a questo straordinario affresco. Ma probabilmente – per quanto riguarda il contenuto – queste figure significano qualcosa di più: queste figure è come se rappresentassero tutte noi e tutti noi che abbiamo partecipato a questo lungo viaggio e che abbiamo attraversato lo spazio rinascimentale dell’affresco e il territorio antico dell’Ellade.

     Queste figure rappresentano tutte noi e tutti noi che ora stiamo per uscire sotto questo cielo estivo e siamo chiamati a trasmettere nella nostra vita quotidiana tutte le istanze intellettuali e morali che abbiamo raccolto strada facendo su questo Percorso di studio in funzione della didattica della lettura e della scrittura .

     Camminando sulla "via del rispetto della Legge" sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele: dove siamo arrivati? Siamo arrivati, e facciamo vacanza, ai confini di un vasto e affascinante territorio: il territorio dell’Ellenismo nel quale entreremo in autunno e cominceremo ad attraversarlo. Siamo ad Atene e rimaniamo ad Atene ospiti in un Giardino – in greco "paràdeisos" – e questo Giardino si trova a metà strada tra l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele: chi è il proprietario di questo modesto, ma ospitale, Giardino?

     La risposta – anche se non l’avremo subito nei primi itinerari – si trova in un altro Percorso, nel prossimo, che, nel corso della seconda settimana di ottobre, parte dalla

Scuola "Redi-Granacci" di Bagno a Ripoli: mercoledì 7 ottobre 2009 alle ore 21

La Scuola "Levi" di Tavarnuzze-Impruneta: giovedì 8 ottobre 2009 alle ore 21

La Scuola "Don Milani" di Firenze: venerdì 9 ottobre 2009 alle ore 17

     Vi ricordo che ci sarà – durante il tradizionale incontro convivile e di fine anno – ancora una micro-lezione di pochi minuti: un punto di arrivo e contemporaneamente un punto di partenza perché nel sistema dell’ Educazione Permanente la struttura didattica portante non è il "corso" ma è il "percorso" .

     Buona vacanza di studio a tutte e a tutti voi.

     La Scuola sarà ancora qui sul percorso dell’apprendimento permanente…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 29, 2009